Luigi Minchillo è morto il guerriero della boxe italiana che seppe resistere a Hearns e Duranveva 68 anni, fu campione d’Italia e d’Europa. Celebri le trasferte americane per sfidare, e resistere in piedi, a due leggende del ring
di Luigi Panella
Per spiegare quanto abbia rappresentato per la boxe italiana Luigi Minchillo, morto improvvisamente per un malore all’età di 68 anni, bisogna paradossalmente partire da due sconfitte contro autentiche leggende del pugilato come Roberto Duran e Thomas Hearns. Con Duran, in un match senza titolo in palio al Caesars Palace di Las Vegas. Manos de Piedra, che veniva dalle due memorabili sfide contro Sugar Ray Leonard (la prima vinta, la seconda persa con il famosissimo rifiuto di continuare, il ‘no mas’) non sceglieva certo avversari banali. E Minchillo banale non lo era. Il suo alias, il ‘guerriero del ring’, non era un omaggio alla scena ma la perfetta spiegazione di quale pugile fosse. Non eccezionale dal punto di vista tecnico, mai disposto però a fare un passo indietro, pronto sempre ad affrontare qualsiasi sfida. Duran vinse ai punti, ma Minchillo fece un figurone al cospetto di un pugile che qualche tempo dopo sarebbe andato vicinissimo a chiudere il regno di un certo Marvin Hagler. Ma il quadro del coraggio di Minchillo fu dipinto nel febbraio del 1984, stavolta con il titolo mondiale dei superwelter in palio: andò a Detroit, nella tana di Thomas Hearns per una impresa impossibile. Hearns, pugile di tecnica, personalità, devastante potenza e con il solo limite della mascella fragile, fece di tutto per vincere prima del limite. Michillo però seppe resistere stoicamente per dodici round, finendo con il volto tumefatto ma con la fierezza di chi aveva fatto più del possibile. Due sfide che nessuno gli aveva regalato. Originario di San Paolo Civitate, in provincia di Foggia, ma pesarese di adozione (50 anni nella città marchigiana, dove aveva fondato una palestra), Minchillo aveva costruito la sua carriera per gradi in una epoca in cui la boxe, soprattutto in Italia, era assai più selettiva di quella attuale. Selezionato da dilettante per l’Olimpiade di Montreal del 1976. Da professionista campione d’Italia, da ricordare due sfide molto accese contro Vincenzo Ungaro. Quindi campione d’Europa: conquistò il titolo contro il forte francese Louis Acaries, lo difese contro il croato Benes ma soprattutto contro alla Wembley Arena contro Maurice Hope, il fortissimo inglese che era stato capace di battere Vito Antuofermo e in due circostanze Rocky Mattioli. Ha dato tutto, in alcune circostanze forse troppo: arrivò al mondiale che era nelle sue corde, a Milano contro Mike McCallum, ancora con le scorie del match con Hearns e dovette arrendersi al tredicesimo round. Lascia la moglie Cristina e i suoi tre figli Stefania, Paolo e Sabina.
-----
Giovanni Lodetti, il ricordo dei ragazzi che giocavano a calcio con ‘Ceramica’: “Quel patto tacito per rispettare la sua riservatezza” I funerali del campione milanista a Caselle Lurani e il ricordo di Stefano Zuffi, uno dei ragazzi che condividevano con lui "il puro piacere per il gioco" a parco Trenno
di Lucia Landoni
Domani, martedì 26 settembre, alle 14.30 a Caselle Lurani (il comune del Lodigiano dov’era nato) si terranno i funerali di Giovanni Lodetti, l’ex centrocampista del Milan e della Nazionale scomparso nei giorni scorsi a 81 anni.Nel corso della sua carriera aveva collezionato vari soprannomi – da “Basleta”, dovuto al suo mento pronunciato, a “terzo polmone di Rivera” per
il suo ruolo in campo, fedele scudiero del Golden Boy rossonero – ma a Milano per qualcuno resterà sempre “Ceramica”. Lo chiamavano così infatti i ragazzi con cui Lodetti amava giocare il sabato mattina al parco di Trenno, dopo essersi ritirato dai campi di serie A.Amava raccontare lui stesso quell’aneddoto, a cui era evidentemente molto legato: “Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni. Una mattina al parco di Trenno vedo dei ragazzi che giocano. Mi fermo a guardare: la squadra che perde ha un giocatore in meno. Non resisto e vado dietro al loro portiere: 'Scusa, mi fate entrare?' – spiegava – Quello si volta e non ha tanti riguardi, i ragazzi di oggi sono così: 'Ma dai, qui siamo tutti giovani'. Insisto: 'Gioco anche in porta'. Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un po' mi dice: 'Sai che sei buono? No, sul serio'. Troppo giovani per ricordarsi di Lodetti e allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali”.In quel momento è nato Ceramica: “Mi chiedevano: ‘Sì, ma come ti chiami?’. Avevo un giubbotto con scritto Ceramica: 'Mi chiamo Ceramica'. Mi hanno guardato strano però mi hanno accettato e da allora ogni sabato mattina Ceramica se n'è andato al parco Trenno a giocare, a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica – ricordava Lodetti – Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato”.Tra quei ragazzi che quarant’anni fa condividevano un campo improvvisato con Giovanni Lodetti c’era anche Stefano Zuffi, 62enne storico dell’arte milanese: “Non eravamo una squadra, ma solo un gruppo di amici che si ritrovavano per divertirsi. Quand’eravamo fortunati trovavamo libero un campo con delle vere porte, altrimenti ci arrangiavamo mettendo in terra i borsoni per fare da pali – racconta – Una volta, credo fosse il 1981, ci si è avvicinato un 40enne stempiato, smilzo, poco mobile, con maglietta striminzita e brachette stinte”.All’epoca Lodetti aveva smesso di giocare da professionista da appena cinque o sei anni e ne aveva una quarantina, “ma ai nostri occhi di ventenni sembrava avesse già una certa età – prosegue Zuffi – Ci ha chiesto garbatamente di poter giocare, perché aveva notato che eravamo dispari. Era gentilissimo, quasi timoroso. Abbiamo accettato ed è sceso in campo con noi”. Il resto, come si suol dire, è storia: “Era una persona dotata di un garbo eccezionale, tant’è vero che conoscendolo persino a me, interista da sempre, era quasi venuta voglia di diventare milanista – scherza – Poi non è successo ovviamente, ma rende bene l’idea di che tipo di uomo fosse. Eravamo tutti studenti universitari, quindi già troppo vecchi per poter essere considerati delle potenziali promesse. Lodetti non era lì per fare il talent scout, ma solo per il puro piacere del gioco, come dovrebbe essere”.Anni dopo, “durante un evento alla Galleria Previtali”, Zuffi e Lodetti si sono reincontrati per caso: “Mi sono avvicinato per salutarlo e gli ho parlato di quel bel periodo – continua lo storico dell’arte – Si ricordava perfettamente ogni dettaglio, compreso il colore delle nostre maglie, arancione”. Solo su una cosa i ricordi dei due non combaciavano: “L’avevamo riconosciuto eccome, bastava vedere come toccava la palla – conclude Stefano Zuffi – Ma lui era molto riservato e noi rispettavamo il suo desiderio di non essere smascherato. Era una sorta di tacito patto”
------
Non solo Zinasco: viaggio tra i rifugi della Lombardia dove inizia la seconda vita degli animali sottratti all’industria alimentareTra gli ospiti ci sono alpaca, piccioni, ratti e degu: "Qui l'essere um ano non è la specie dominante, ma parte di un ecosistema"
di Lucia Landoni
Il più (tristemente) famoso è il Progetto Cuori Liberi di Sairano di Zinasco (nel Pavese), dove nei giorni scorsi i veterinari dell’Ats hanno eseguito l’ordinanza di abbattimento di nove maiali a causa della diffusione nella zona del virus della peste suina. Ma sono decine i centri lombardi in cui trovano rifugio e accoglienza animali generalmente considerati “da reddito” e non “d’affezione”, quindi non cani e gatti, ma asini e mucche, cavalli e maiali, capre, pecore, galline e anatre, ma anche ratti e nutrie.Alcuni di questi sono riuniti nella Rete dei Santuari di Animali Liberi in Italia: le strutture aderenti hanno sottoscritto una “carta dei valori” comune, secondo la quale a ogni creatura ospitata “deve essere garantita la migliore qualità di vita fino alla sua fine naturale” e ciascun santuario deve aprire le porte al pubblico per delle visite, in modo che “ogni animale salvato diventi ambasciatore della propria specie, portavoce dei suoi fratelli e sorelle meno fortunati”.L’aspetto divulgativo è fondamentale perché “in questi luoghi vogliamo raccontare la nostra visione del mondo, diversa da quella attuale – spiega Sara d’Angelo, attivista di Vitadacani odv e coordinatrice della Rete dei Santuari – Qui ci basiamo sulla gentilezza e non sulla prevaricazione e gli animali cambiano status, trasformandosi in creature ‘a debito’ anziché ‘da reddito’, il che significa che loro si riposano e sono gli umani a lavorare per loro, garantendone il benessere”.Nei santuari viene applicata la logica anti specista, quindi “l’essere umano non è visto come specie dominante, ma come parte di un ecosistema”.Fino a qualche mese fa queste strutture erano equiparate agli allevamenti secondo la legge, ma dallo scorso marzo (in virtù di un decreto ministeriale poi pubblicato in Gazzetta ufficiale il 16 maggio) sono stati ufficialmente riconosciuti come santuari: “Per noi è stata una svolta epocale, perché i nostri ospiti sono stati definitivamente sottratti al comparto zootecnico – continua d’Angelo – Abbiamo quindi bisogno di protocolli dedicati anche dal punto di vista sanitario e il caso drammatico del Progetto Cuori Liberi ha dimostrato che sotto questo aspetto c’è ancora molta strada da fare”.Tra le diverse realtà appartenenti alla rete c’è appunto quella di Sairano di Zinasco, dove sono ospitati circa 200 animali fra mucche, asini, cavalli, capre, pecore, tacchini, galline, anatre, oche, tartarughe da terra e d’acqua, nutrie e, fino alla scorsa settimana, anche maiali.Un altro santuario, fondato e coordinato proprio da Sara d’Angelo, è PorciKomodi di Magnago (nell’hinterland milanese), in cui vivono allo stato semibrado oltre 200 animali fra mucche e buoi, maiali, cinghiali, asini, pony, pecore, capre, piccioni, galli e galline. Solo i maiali, che non a caso danno il nome alla struttura, sono ben 140.“Tutte le creature accolte nel nostro e negli altri santuari sono state salvate dallo sfruttamento dell’industria della carne (ma anche del divertimento o della sperimentazione animale) – sottolinea d’Angelo – Gli animali che arrivano qui sono scarti di produzione, nel senso che non sono più utili agli allevatori per vari motivi, oppure provengono da situazioni di maltrattamento per cui vengono sequestrati dalle autorità, che poi ce li affidano”.Oltre a PorciKomodi, fa parte della galassia di Vitadacani anche il Piccolo rifugio La Boschina di Gallarate (nel Varesotto), nato dalla passione per gli animali della veterinaria Elisabetta Curotti: attualmente accoglie quattro cinghiali, cinque maiali, Tino il tacchino, Cecilia la gallina, un degu (roditore originario del Cile) e otto gatti.Tornando in provincia di Milano, la Fattoria Capre e Cavoli di Mesero ha sede in una storica cascina che apre spesso le porte ai visitatori (a cominciare dai più piccoli) per farli interagire con i 50 animali presenti, fra cavalli, asini, vitelli, maiali, pecore, capre, cani, gatti, conigli, anatre, oche e galline.“Abbiamo un’enorme aia con anatre, oche, galli e galline, liberi di razzolare e fare bagnetti (chi di terra, chi d’acqua) oltre ai conigli, i mici, e Zem e Lja, due cagnetti bosniaci che compongono il nostro comitato d’accoglienza – spiegano i gestori – I campi circostanti, che si estendono per cinque ettari, sono la casa tra gli altri dei cavalli Flora e Caramella, degli asini Stella e Carlotto, delle pecore Bianca e Vida e del maiale Pumba”.
Perché nei santuari gli animali smettono di essere numeri per diventare individui, ciascuno con un proprio nome e una storia.A Cantù (nel Comasco) si trova il rifugio NelloPorcello, che prende appunto il nome da Antonello, il primo cucciolo di suino arrivato nella struttura nel 2017: in questo “piccolo angolo di mondo dove individui di diversa specie convivono e lottano fianco a fianco contro ogni forma di discriminazione”, come lo definiscono i gestori, vivono una trentina di animali fra maiali, capre, pecore, conigli, cani e gatti.
Sono invece circa 40 gli ospiti di Oasi Fortuna, rifugio di Chiari (nel Bresciano) che accoglie una mucca, un bue, maiali vietnamiti, capre, pecore, asini, tacchini e oche e si definisce “un luogo di liberazione dalla produttività a cui la società in cui viviamo costringe e incatena gli animali non umani di ogni specie”.
Ci sono poi strutture lombarde che non fanno parte della Rete dei Santuari di Animali Liberi, ma ne condividono la mission: per esempio Ca’ Romoletto di Galbiate (nel Lecchese), così chiamata in onore del primo ospite, l’asino Romoletto. Arrivato nel 2013 in gravi condizioni di salute quando aveva già 35 anni, l’asino si è poi ripreso grazie alle cure ricevute ed è vissuto per altri sette anni.Oggi il rifugio ospita una quarantina di animali fra asini, mucche, capre, pecore, maiali, galline, anatre, tacchini, cani e gatti.Spostandosi nel Comasco, a Castelmarte si trova Il Vecchio Faggio onlus: nata come pensione per animali, si è poi trasformata in rifugio che attualmente accoglie una quindicina fra cavalli, alpaca, maiali, capre, pecore, cani e gatti. “Tutti salvati da situazioni orribili, dalla morte e dal dolore” sottolineano i gestori.
Provengono invece dai laboratori gli ospiti de La Collina dei Conigli odv, centro di recupero con sede a Monza (ma anche a Torino e a Genova) che si occupa di regalare una nuova vita a conigli, cavie, ratti, topi e piccoli roditori: “Molti di questi animali vengono impiegati in sperimentazioni da cui possono uscire – spiegano dalla onlus – Noi li ospitiamo nelle nostre strutture e cerchiamo per ciascuno di loro una nuova casa”.
dopo le storie e il confronto tra campioni della vecchia generazione ( riva ) e della nuova (Buffon ) e l'emarginazione di un vincitore dei mondiali (Claudio Gentile ) che trovate gli url sopra in alto ecco un altra storia calcistica
di Matteo Tonelli repubblica 11 AGOSTO 2023
IL 18 agosto è il compleanno dell’ex bandiera del Milan che debuttò in serie A a 16 anni, vinse il pallone d’oro e incantò il mondo. E che di se stesso dice: “Mai stato un calciatore, ho solo giocato a pallone”. Divinamente
Tra le tante scene che hanno reso famoso Gianni Rivera - che il 18 agosto compie 80 anni - una resta impressa nella memoria. E non è una delle sue tante giocate che faceva con una naturalezza da far sembrare “normali”. La scena che resta impressa nella memoria risale a tanti anni fa. Era il 6 maggio del 1979. Il Milan si apprestava a vincere il suo sospiratissimo decimo scudetto, quella stella che, in una
delle giornate più buie per il tifo rossonero, gli era sfuggita a Verona nel 1973. A San Siro in quel giorno di inizio maggio c'erano 80 mila persone. Un mare rossonero che riempiva gli spalti. E stava anche dove non avrebbe dovuto essere. Perché il secondo anello era stato dichiarato inagibile perché pericolante. Quel giorno invece ogni prudenza era svanita. Impossibile giocare in quelle condizioni. Gli appelli a sgombrare il settore erano caduti nel vuoto. Fu allora che Rivera si piazzò in mezzo al campo con un microfono e, come un pifferaio magico, chiese ai tifosi di spostarsi. Fu così che il golden boy rossonero, l'uomo che al fischio finale avrebbe lasciato il calcio giocato, segnò il suo ultimo gol. Se questa è la fine, l'inizio risale a molti anni prima. Rivera nasce ad Alessandria nel 1943. Fin dai primi calci al pallone si capisce che non è uno qualunque. Al punto che con la maglia della squadra della sua città esordisce in seria A contro l'Inter (il primo derby della sua storia...) il 2 giugno del 1959. Quel ragazzino magro non ha ancora 16 anni ma una grande carriera davanti. Approda in maglia rossonera portandosi dietro lo scetticismo dell'allora presidente Angelo Rizzoli: «Ho speso un sacco di soldi per un ragazzino di cui non conosco nemmeno il nome». Col senno di poi mai dubbi furono meno giustificati. Nel 1960/1961, Gianni veste la sua prima casacca rossonera: non se la leverà più per diciannove stagioni. Nel 1962, a 18 anni, lo chiamano in azzurro nell'amichevole Belgio-Italia. Lo stesso anno vince il suo primo scudetto col Milan. Ormai è una stella, un golden boy come lo chiamava Gianni Brera dopo averlo definito abatino proprio in virtù del fisico gracilino. Quel giocatore così gracilino, garbato nei modi e nel gioco, che i muscoli non li ha nella gambe ma “in testa” , è lo stesso che nel 1969, vince il Pallone d'oro e in maglia rossonera inanellerà 658 presenze e segna 164 gol, vincendo nell'ordine: tre scudetti (1962, 1968, 1979), due Coppe dei campioni (1963, 1969), due Coppe delle coppe (1968, 1973), una Coppa intercontinentale (1969).
Con la nazionale, invece, il rapporto non è facile. Se è vero che il suo gol nella semifinale del 4 a 3 con la Germania ai Mondiali del Messico viene spesso usato come uno spot sul calcio, è anche vero che le polemiche che lo riguardarono non furono poche. A partire da quei sei minuti sei che il ct azzurro Valcareggi gli “concesse” in finale col Brasile. Anche con gli arbitri le cose non vanno sempre benissimo. Rivera era convinto che ci fosse una sorta di complotto per danneggiare il Milan. E non lo nascondeva: tanto che nel marzo del 1972 prese quattro mesi di squalifica per aver attaccato il selezionatore arbitrale Giulio Campanati. Un anno dopo toccò a Concetto Lo Bello uno dei fischietti italiani più noti. Anche in casa rossonera non tutto filava liscio. Nel 1975 a finire nel mirino è l'allora presidente Albino Buticchi che, dopo aver esonerato Nereo Rocco, di Gianni un vero e propri mentore, prova a venderlo al Torino. Apriti cielo. Rivera minaccia il ritiro. Finisce che Buticchi molla e Gianni resta a furor di popolo. Il golden boy gioca fino al 1979 quando il presidente Felice Colombo lo vuole come vice. L'arrivo dell'era Berlusconi, nel 1986, cambia tutto. Il Cavaliere ha altro in mente. E Gianni capisce che anche le bandiere, a volte, vengono ammainate. Molla il calcio e si dà alla politica. Approva in Parlamento portandosi dietro una carrettata di voti. Recentemente ha, diciamo, svirgolato qualche pallone, a partire dalla scivolata no vax in tempi di Covid («Il vaccino? Tutto un complotto delle multinazionali») e si è messo alla testa di una cordata di imprenditori per comprare una squadra (si parla del Bari) lasciando intendere di voler sedersi in panchina. Festeggia così i suoi 80 anni uno che di sé ha detto «Mai stato un calciatore. Ho semplicemente giocato a pallone». Divinamente, si potrebbe aggiungere
Domenica sera durante il riscaldamento prima della partita Juventus-Milan il portiere rossonero Mike Maignan è stato tempestato di irripetibili insulti razzisti da alcuni pseudo-tifosi juventini al grido di “neg**” e “scimmia”. come testimonia un video ormai diventato virale sui social.
Ancora una volta frasi razziste nel calcio. Insulti razzisti @mmseize del @acmilan , durante il prepartita prima della sfida di ieri sera con la @juventusfc , valida per il 4 turno del campionato di @SerieA #JuventusMilan Il secondo video nei commenti #Juventus#Milan
IL numero uno ha deciso di rispondere attraverso la sua pagina Instagram con parole potenti e precise. Indirizzate non ai razzisti ma agli indifferenti, agli ipocriti, a chi non ha mai fatto nulla per risolvere il problema.“Cosa volete che dica? Che il razzismo è sbagliato e che quei tifosi sono stupidi? Non è questo, non sono il primo né sarò l'ultimo a cui succederà. Finché queste cose vengono trattate come “incidenti isolati” e non viene intrapresa alcuna azione globale, la storia è destinata a ripetersi.Cosa facciamo per combattere il razzismo negli stadi? Crediamo veramente che ciò che facciamo sia efficace? Nelle stanze che governano il calcio sanno cosa si prova a sentire insulti e urla che ci relegano al rango di animali? Sanno cosa fa alle nostre famiglie, ai nostri cari che lo vedono e non capiscono che possa succedere nel 2021?Non sono una "vittima" del razzismo, sono Mike, in piedi, nero e orgoglioso. Finché potremo usare la nostra voce per cambiare le cose, lo faremo".C’è solo da inchinarsi di fronte all’intelligenza e alla dignità di quest’uomo. Che qualcuno lo ascolti . Ora Non è ancora certo chi sia la persona che urla contro Maignan dalla curva della Juventus allo Stadium anche se si vocifera che qualcuno si sia dichiarato sui social, orgogliosamente. Se fosse confermato sarebbe incredibile, anche perché la Juventus ha reso noto che sta verificando i filmati delle telecamere di sorveglianza per poterlo individuare. Speriamo che da un semplice sdegno si passi ai fatti . ed sarebbe ora visto che Proprio di recente un altro giocatore del Milan, Bakayoko, era stato vittima di un episodio molto simile durante Milan-Lazio. Allora il calciatore pubblicò un post su Instagram per ribadire di essere fiero del colore della propria pelle:
I media sono tutti concentrati solo sulla morte di Morosini
( me ne sono già occupato precedentemente qui e qui )
mentre si parla poco o quasi niente della morte di un altro grand e del calcio morto per gli effetti collaterali delle porcherie che gli davano medici e allenatori ( salvo i giornali sportivi ovviamen te ) in breve e relegato nelle pagine più interne senza neppure un breve stralcio in prima forse perchè troppo scomodo e riapre vecchie ferite archiviate oltre a far perdere ulteriormente alla santa maria del pallone " ( parafrasi della canzone dei Modena city ramblres vedere url per video e testo ) dando cosi ulteriore ragione e conferma a quelli che i media definivano cassandre e utopisti per poi come le pecore ( salvo eccezioni come report di rai3 che ne parlarono in tempi non sospetti ) dire si sapeva , come Petrini e Zeman
fonte leggo.it di lunedi 16\4\2012O
LUCCA
Lutto nel mondo del calcio. È morto questa mattina nell'ospedale di Lucca Carlo Petrini, ex attaccante della Roma. Aveva 64 anni. Cresciuto nelle giovanili del Genoa, vestì anche la maglia del Milan nel 1968-1969, del Torino ('69 a '71), con cui vinse la Coppa Italia 1970-1971. Petrini arrivò nella Roma di Nils Liedholm nella stagione 1975-1976.
Petrini, affetto da un grave glaucoma che lo aveva reso quasi cieco, nel 2000 pubblicò la sua autobiografia, intitolata Nel fango del dio pallone, in cui denunciava la pratica del doping che negli anni '60 e '70 era dilagante. Lui stesso confessò di esservi ricorso più volte, con la complicità dei medici delle squadre in cui aveva giocato.
Gli stessi medici che lo hanno curato negli ultimi anni pensano che la sua malattia fosse stata causata proprio dai farmaci dopanti assunti. L'ex calciatore, oltre al doping, denunciò anche gli altri 'vizi' del calcio italiano, denuncia quanto mai attuale oggi, perché riguardava le partite decise in anticipo dalle società, i pagamenti in nero e altre 'bassezze'.
SCRISSE ANCHE UN LIBRO SU BERGAMINI Petrini, che nella sua carriera ha giocato anche nel Catanzaro dal 1972 al 1974, dopo avere smesso col calcio ha scritto anche «Il calciatore suicidato». Per scrivere il volume, Pertrini indagò in prima persona sulla morte del calciatore del Cosenza Donato Denis Bergamini, travolto da un camion il 18 novembre 1989 sulla statale 106 a Roseto Capo Spulico (Cosenza).
Petrini sostenne che la morte del calciatore era avvenuta per mano della criminalità locale, nonostante la magistratura avesse chiuso la pratica attribuendo la morte di Bergamini ad un suicidio. Una tesi quest'ultima, messa in dubbio dalla Procura di Castrovillari che su richiesta dei familiari di Bergamini ha riaperto l'inchiesta ipotizzando che il calciatore sia stato ucciso