Luigi Minchillo è morto il guerriero della boxe italiana che seppe resistere a Hearns e Duranveva 68 anni, fu campione d’Italia e d’Europa. Celebri le trasferte americane per sfidare, e resistere in piedi, a due leggende del ring
di Luigi Panella
Per spiegare quanto abbia rappresentato per la boxe italiana Luigi Minchillo, morto improvvisamente per un malore all’età di 68 anni, bisogna paradossalmente partire da due sconfitte contro autentiche leggende del pugilato come Roberto Duran e Thomas Hearns. Con Duran, in un match senza titolo in palio al Caesars Palace di Las Vegas. Manos de Piedra, che veniva dalle due memorabili sfide contro Sugar Ray Leonard (la prima vinta, la seconda persa con il famosissimo rifiuto di continuare, il ‘no mas’) non sceglieva certo avversari banali. E Minchillo banale non lo era. Il suo alias, il ‘guerriero del ring’, non era un omaggio alla scena ma la perfetta spiegazione di quale pugile fosse. Non eccezionale dal punto di vista tecnico, mai disposto però a fare un passo indietro, pronto sempre ad affrontare qualsiasi sfida. Duran vinse ai punti, ma Minchillo fece un figurone al cospetto di un pugile che qualche tempo dopo sarebbe andato vicinissimo a chiudere il regno di un certo Marvin Hagler. Ma il quadro del coraggio di Minchillo fu dipinto nel febbraio del 1984, stavolta con il titolo mondiale dei superwelter in palio: andò a Detroit, nella tana di Thomas Hearns per una impresa impossibile. Hearns, pugile di tecnica, personalità, devastante potenza e con il solo limite della mascella fragile, fece di tutto per vincere prima del limite. Michillo però seppe resistere stoicamente per dodici round, finendo con il volto tumefatto ma con la fierezza di chi aveva fatto più del possibile. Due sfide che nessuno gli aveva regalato. Originario di San Paolo Civitate, in provincia di Foggia, ma pesarese di adozione (50 anni nella città marchigiana, dove aveva fondato una palestra), Minchillo aveva costruito la sua carriera per gradi in una epoca in cui la boxe, soprattutto in Italia, era assai più selettiva di quella attuale. Selezionato da dilettante per l’Olimpiade di Montreal del 1976. Da professionista campione d’Italia, da ricordare due sfide molto accese contro Vincenzo Ungaro. Quindi campione d’Europa: conquistò il titolo contro il forte francese Louis Acaries, lo difese contro il croato Benes ma soprattutto contro alla Wembley Arena contro Maurice Hope, il fortissimo inglese che era stato capace di battere Vito Antuofermo e in due circostanze Rocky Mattioli. Ha dato tutto, in alcune circostanze forse troppo: arrivò al mondiale che era nelle sue corde, a Milano contro Mike McCallum, ancora con le scorie del match con Hearns e dovette arrendersi al tredicesimo round. Lascia la moglie Cristina e i suoi tre figli Stefania, Paolo e Sabina.
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Giovanni Lodetti, il ricordo dei ragazzi che giocavano a calcio con ‘Ceramica’: “Quel patto tacito per rispettare la sua riservatezza” I funerali del campione milanista a Caselle Lurani e il ricordo di Stefano Zuffi, uno dei ragazzi che condividevano con lui "il puro piacere per il gioco" a parco Trenno
di Lucia Landoni
Domani, martedì 26 settembre, alle 14.30 a Caselle Lurani (il comune del Lodigiano dov’era nato) si terranno i funerali di Giovanni Lodetti, l’ex centrocampista del Milan e della Nazionale scomparso nei giorni scorsi a 81 anni.Nel corso della sua carriera aveva collezionato vari soprannomi – da “Basleta”, dovuto al suo mento pronunciato, a “terzo polmone di Rivera” per
il suo ruolo in campo, fedele scudiero del Golden Boy rossonero – ma a Milano per qualcuno resterà sempre “Ceramica”. Lo chiamavano così infatti i ragazzi con cui Lodetti amava giocare il sabato mattina al parco di Trenno, dopo essersi ritirato dai campi di serie A.Amava raccontare lui stesso quell’aneddoto, a cui era evidentemente molto legato: “Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni. Una mattina al parco di Trenno vedo dei ragazzi che giocano. Mi fermo a guardare: la squadra che perde ha un giocatore in meno. Non resisto e vado dietro al loro portiere: 'Scusa, mi fate entrare?' – spiegava – Quello si volta e non ha tanti riguardi, i ragazzi di oggi sono così: 'Ma dai, qui siamo tutti giovani'. Insisto: 'Gioco anche in porta'. Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un po' mi dice: 'Sai che sei buono? No, sul serio'. Troppo giovani per ricordarsi di Lodetti e allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali”.In quel momento è nato Ceramica: “Mi chiedevano: ‘Sì, ma come ti chiami?’. Avevo un giubbotto con scritto Ceramica: 'Mi chiamo Ceramica'. Mi hanno guardato strano però mi hanno accettato e da allora ogni sabato mattina Ceramica se n'è andato al parco Trenno a giocare, a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica – ricordava Lodetti – Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato”.Tra quei ragazzi che quarant’anni fa condividevano un campo improvvisato con Giovanni Lodetti c’era anche Stefano Zuffi, 62enne storico dell’arte milanese: “Non eravamo una squadra, ma solo un gruppo di amici che si ritrovavano per divertirsi. Quand’eravamo fortunati trovavamo libero un campo con delle vere porte, altrimenti ci arrangiavamo mettendo in terra i borsoni per fare da pali – racconta – Una volta, credo fosse il 1981, ci si è avvicinato un 40enne stempiato, smilzo, poco mobile, con maglietta striminzita e brachette stinte”.All’epoca Lodetti aveva smesso di giocare da professionista da appena cinque o sei anni e ne aveva una quarantina, “ma ai nostri occhi di ventenni sembrava avesse già una certa età – prosegue Zuffi – Ci ha chiesto garbatamente di poter giocare, perché aveva notato che eravamo dispari. Era gentilissimo, quasi timoroso. Abbiamo accettato ed è sceso in campo con noi”. Il resto, come si suol dire, è storia: “Era una persona dotata di un garbo eccezionale, tant’è vero che conoscendolo persino a me, interista da sempre, era quasi venuta voglia di diventare milanista – scherza – Poi non è successo ovviamente, ma rende bene l’idea di che tipo di uomo fosse. Eravamo tutti studenti universitari, quindi già troppo vecchi per poter essere considerati delle potenziali promesse. Lodetti non era lì per fare il talent scout, ma solo per il puro piacere del gioco, come dovrebbe essere”.Anni dopo, “durante un evento alla Galleria Previtali”, Zuffi e Lodetti si sono reincontrati per caso: “Mi sono avvicinato per salutarlo e gli ho parlato di quel bel periodo – continua lo storico dell’arte – Si ricordava perfettamente ogni dettaglio, compreso il colore delle nostre maglie, arancione”. Solo su una cosa i ricordi dei due non combaciavano: “L’avevamo riconosciuto eccome, bastava vedere come toccava la palla – conclude Stefano Zuffi – Ma lui era molto riservato e noi rispettavamo il suo desiderio di non essere smascherato. Era una sorta di tacito patto”
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Non solo Zinasco: viaggio tra i rifugi della Lombardia dove inizia la seconda vita degli animali sottratti all’industria alimentareTra gli ospiti ci sono alpaca, piccioni, ratti e degu: "Qui l'essere um ano non è la specie dominante, ma parte di un ecosistema"
di Lucia Landoni
Il più (tristemente) famoso è il Progetto Cuori Liberi di Sairano di Zinasco (nel Pavese), dove nei giorni scorsi i veterinari dell’Ats hanno eseguito l’ordinanza di abbattimento di nove maiali a causa della diffusione nella zona del virus della peste suina. Ma sono decine i centri lombardi in cui trovano rifugio e accoglienza animali generalmente considerati “da reddito” e non “d’affezione”, quindi non cani e gatti, ma asini e mucche, cavalli e maiali, capre, pecore, galline e anatre, ma anche ratti e nutrie.Alcuni di questi sono riuniti nella Rete dei Santuari di Animali Liberi in Italia: le strutture aderenti hanno sottoscritto una “carta dei valori” comune, secondo la quale a ogni creatura ospitata “deve essere garantita la migliore qualità di vita fino alla sua fine naturale” e ciascun santuario deve aprire le porte al pubblico per delle visite, in modo che “ogni animale salvato diventi ambasciatore della propria specie, portavoce dei suoi fratelli e sorelle meno fortunati”.L’aspetto divulgativo è fondamentale perché “in questi luoghi vogliamo raccontare la nostra visione del mondo, diversa da quella attuale – spiega Sara d’Angelo, attivista di Vitadacani odv e coordinatrice della Rete dei Santuari – Qui ci basiamo sulla gentilezza e non sulla prevaricazione e gli animali cambiano status, trasformandosi in creature ‘a debito’ anziché ‘da reddito’, il che significa che loro si riposano e sono gli umani a lavorare per loro, garantendone il benessere”.Nei santuari viene applicata la logica anti specista, quindi “l’essere umano non è visto come specie dominante, ma come parte di un ecosistema”.Fino a qualche mese fa queste strutture erano equiparate agli allevamenti secondo la legge, ma dallo scorso marzo (in virtù di un decreto ministeriale poi pubblicato in Gazzetta ufficiale il 16 maggio) sono stati ufficialmente riconosciuti come santuari: “Per noi è stata una svolta epocale, perché i nostri ospiti sono stati definitivamente sottratti al comparto zootecnico – continua d’Angelo – Abbiamo quindi bisogno di protocolli dedicati anche dal punto di vista sanitario e il caso drammatico del Progetto Cuori Liberi ha dimostrato che sotto questo aspetto c’è ancora molta strada da fare”.Tra le diverse realtà appartenenti alla rete c’è appunto quella di Sairano di Zinasco, dove sono ospitati circa 200 animali fra mucche, asini, cavalli, capre, pecore, tacchini, galline, anatre, oche, tartarughe da terra e d’acqua, nutrie e, fino alla scorsa settimana, anche maiali.Un altro santuario, fondato e coordinato proprio da Sara d’Angelo, è PorciKomodi di Magnago (nell’hinterland milanese), in cui vivono allo stato semibrado oltre 200 animali fra mucche e buoi, maiali, cinghiali, asini, pony, pecore, capre, piccioni, galli e galline. Solo i maiali, che non a caso danno il nome alla struttura, sono ben 140.“Tutte le creature accolte nel nostro e negli altri santuari sono state salvate dallo sfruttamento dell’industria della carne (ma anche del divertimento o della sperimentazione animale) – sottolinea d’Angelo – Gli animali che arrivano qui sono scarti di produzione, nel senso che non sono più utili agli allevatori per vari motivi, oppure provengono da situazioni di maltrattamento per cui vengono sequestrati dalle autorità, che poi ce li affidano”.Oltre a PorciKomodi, fa parte della galassia di Vitadacani anche il Piccolo rifugio La Boschina di Gallarate (nel Varesotto), nato dalla passione per gli animali della veterinaria Elisabetta Curotti: attualmente accoglie quattro cinghiali, cinque maiali, Tino il tacchino, Cecilia la gallina, un degu (roditore originario del Cile) e otto gatti.Tornando in provincia di Milano, la Fattoria Capre e Cavoli di Mesero ha sede in una storica cascina che apre spesso le porte ai visitatori (a cominciare dai più piccoli) per farli interagire con i 50 animali presenti, fra cavalli, asini, vitelli, maiali, pecore, capre, cani, gatti, conigli, anatre, oche e galline.“Abbiamo un’enorme aia con anatre, oche, galli e galline, liberi di razzolare e fare bagnetti (chi di terra, chi d’acqua) oltre ai conigli, i mici, e Zem e Lja, due cagnetti bosniaci che compongono il nostro comitato d’accoglienza – spiegano i gestori – I campi circostanti, che si estendono per cinque ettari, sono la casa tra gli altri dei cavalli Flora e Caramella, degli asini Stella e Carlotto, delle pecore Bianca e Vida e del maiale Pumba”.
Perché nei santuari gli animali smettono di essere numeri per diventare individui, ciascuno con un proprio nome e una storia.A Cantù (nel Comasco) si trova il rifugio NelloPorcello, che prende appunto il nome da Antonello, il primo cucciolo di suino arrivato nella struttura nel 2017: in questo “piccolo angolo di mondo dove individui di diversa specie convivono e lottano fianco a fianco contro ogni forma di discriminazione”, come lo definiscono i gestori, vivono una trentina di animali fra maiali, capre, pecore, conigli, cani e gatti.
Sono invece circa 40 gli ospiti di Oasi Fortuna, rifugio di Chiari (nel Bresciano) che accoglie una mucca, un bue, maiali vietnamiti, capre, pecore, asini, tacchini e oche e si definisce “un luogo di liberazione dalla produttività a cui la società in cui viviamo costringe e incatena gli animali non umani di ogni specie”.
Ci sono poi strutture lombarde che non fanno parte della Rete dei Santuari di Animali Liberi, ma ne condividono la mission: per esempio Ca’ Romoletto di Galbiate (nel Lecchese), così chiamata in onore del primo ospite, l’asino Romoletto. Arrivato nel 2013 in gravi condizioni di salute quando aveva già 35 anni, l’asino si è poi ripreso grazie alle cure ricevute ed è vissuto per altri sette anni.Oggi il rifugio ospita una quarantina di animali fra asini, mucche, capre, pecore, maiali, galline, anatre, tacchini, cani e gatti.Spostandosi nel Comasco, a Castelmarte si trova Il Vecchio Faggio onlus: nata come pensione per animali, si è poi trasformata in rifugio che attualmente accoglie una quindicina fra cavalli, alpaca, maiali, capre, pecore, cani e gatti. “Tutti salvati da situazioni orribili, dalla morte e dal dolore” sottolineano i gestori.
Provengono invece dai laboratori gli ospiti de La Collina dei Conigli odv, centro di recupero con sede a Monza (ma anche a Torino e a Genova) che si occupa di regalare una nuova vita a conigli, cavie, ratti, topi e piccoli roditori: “Molti di questi animali vengono impiegati in sperimentazioni da cui possono uscire – spiegano dalla onlus – Noi li ospitiamo nelle nostre strutture e cerchiamo per ciascuno di loro una nuova casa”.
In attesa che la Storia del vino diventi obbligatoria a elementari e medie: in arrivo proposta di legge il cui Primo firmatario della proposta che è appena sbarcata in Senato e ha già cominciato a far discutere è Dario Stefàno, presidente della Giunta per le immunità e le elezioni: "Non vogliamo insegnare a bere ai nostri bambini, solo introdurre un ulteriore elemento di sapere nel bagaglio di formazione della scuola italiana. Perché il vino è uno degli elementi identitari del nostro Paese" riporto l'esperienza che aviene In una scuola di Locorotondo
in cui si studia vino, dal campo all'imbottigliamento, passando per le analisi gusto-olfattive, quelle in laboratorio e tanto altro. È uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia ed è una cosa seria.
Avolte per andare avanti bisogna tornare indietro, guardare al passato, ripescare vecchie idee. Come quella di ricavare fibre tessili dalle ginestre, trasformando una pianta spontanea in una risorsa per la moda, l’arredo e molto altro. Gli antichi romani lo facevano già, prima di loro i greci; resti di questo tipo di filato sono stati trovati durante gli scavi di Pompei. Oggi la palla è passata al Dipartimento di tecnologie chimiche dell’Università della Calabria, dove il professor Giuseppe Chidichimo e il suo team fanno ricerca in questo senso da almeno dieci anni.
«È iniziato tutto grazie a una collaborazione con il gruppo Fiat, che voleva usare stoffe alla ginestra per i sedili delle auto», racconta il docente. «A noi è stato chiesto di modernizzare l’antico processo di estrazione della fibra dall’arbusto e di renderlo industrializzabile». Più facile a dirsi che a farsi: mentre con il lino basta seccare i rametti e scuoterli per far staccare la parte fibrosa, la ginestra, dove la fibra è presente nelle cuticole delle vermene, cioè dei rami, è cespugliosa e più resistente, e richiede uno sforzo maggiore. «In passato la si metteva in ammollo nell’acqua per quindici giorni per provocare lo sfaldamento della parte interna, poi la si batteva con strumenti di legno: un metodo efficace, ma lento. Così come quello usato negli Anni 40 quando, in pieno regime fascista, smise di arrivare il cotone dall’America e si fece nuovamente ricorso all’arbusto locale, diffusissimo nelle regioni del Sud Italia: all’epoca si scoprì che per sciogliere le sostanze collanti che trattengono la fibra era utile immergere le piante in una soluzione sodata, la stessa dove si mettono le olive per renderle più dolci. Ma anche se la fase di macerazione si era evoluta, non così quella successiva, nella quale la fibra veniva strappata a mano dalle donne». Niente di replicabile su larga scala, insomma. «Con i nostri studi abbiamo fatto molti progressi, persino reso più ecologico il processo eliminando il bagno nel
la soluzione sodata, che abbiamo sostituito con un ciclo di disidratazione e reidratazione suggeritoci dai contadini. È ancora un work in progress, ma abbiamo già iniziato a coinvolgere le aziende».
Le prime a dimostrare interesse sono state quelle della filiera tessile: la Sunfil di Castrovillari, in provincia di Cosenza, ha messo a punto un macchinario apposito per la cardatura (la ginestra ha fibre lunghe, diverse da quelle di lino e canapa), il Linificio Canapificio Nazionale del gruppo Marzotto si è occupato dei filati, il tessuto finito è stato realizzato dalla Tessitura Enrico Sironi di Gallarate, infine l’atelier Malia Lab della stilista calabrese Flavia Amato ha cucito i primi capi, un trench e una tuta palazzo. «Temevamo che il tessuto risultasse ruvido al tatto, irritante per la pelle», ammette il professor Amerigo Beneduci, che con Chidichimo è tra i responsabili dell progetto. «Al contrario, quello che abbiamo ottenuto è morbido, fresco, estremamente versatile. Ricorda il lino ed è perfetto per la bella stagione».
Ma la ginestra ha anche altri vantaggi. «È una pianta che cresce spontaneamente e in maniera molto rapida», riprende Chidichimo. «Non ha bisogno di molta acqua e attecchisce sui terreni collinari, anche aridi, inservibili o quasi per l’agricoltura. Non ruba quindi spazio ad altre coltivazioni, anzi è utile contro gli incendi e, con le sue lunghe radici di 3-4 metri, previene le frane. Ed è pure bella da vedere: quando è in fiore crea una distesa gialla molto gradevole. Inoltre, a differenza del cotone, non ha bisogno di pesticidi inquinanti perché non viene attaccata dai parassiti». Ma quanta ne serve per fare un abito? «Se ipotizziamo di usare circa due chili di tessuto per capo, avremo bisogno di due chili e mezzo di fibra, che si estraggono da 25 chili di ginestra verde. Sembra tanto, ma un ettaro di ginestreto produce 25 tonnellate di arbusti, quindi mille vestiti».
Unico neo, sul vegetale appena tagliato la resa in fibra è piuttosto bassa, del 10-12 per cento. Ma anche in questo caso il problema è presto risolto: gli scarti, cioè la parte legnosa inadatta al tessile, non vengono buttati, ma trovano impiego nei settori più disparati, dalla bioedilizia all’arredo: «Noi li abbiamo forniti alla Sirianni, un’azienda di mobili per le scuole, che ne ha fatto banchi, cattedre e armadi», racconta Beneduci. Ma è anche possibile macinarli e ridurli a polveri vegetali, per integrarli in composti plastici e ridurre l’uso di derivati dal petrolio. Meglio di così!
L’amore per la vita e per la terra. Partendo da queste due passioni è nata La campagna di Francesca, canale YouTube che se a giugno 2020 contava 1000 iscritti, a marzo 2021 è arrivato a quota 38.800. Un salto esponenziale per la 28enne Francesca Zambonini che dopo aver frequentato il Liceo Linguistico cambia vita: incontra l’amore e diventa una contadina.
I video disponibili sono semplici, diretti, spontanei. Magari è proprio per la sua naturalezza e il delizioso accento toscano che il numero di follower della "contadina sul web" è cresciuto in maniera così rilevante. Mentre lavora nei campi – circa un ettaro di terreno – è il marito a riprenderla, poi in serata se c’è il tempo Francesca li monta. Non c’è una regia esterna, né post produzione, è tutto home made: "Si fa tutto noi, ecco!". La curiosità dall’esterno aumenta e i video piacciono al punto che Francesca inizia a dare suggerimenti sulla creazione di un piccolo orto: "Mi sono detta che potevo fare dei veri e propri tutorial per spiegare, a mio modo, come avere in casa un giardino anche piccolo o giusto qualche vasetto in terrazzo. Ed è nato il canale La campagna di Francesca". La tenuta di Francesca e Francesco si trova verso Torre del Lago Puccini, a Viareggio, una zona di mare frequentata più da turisti che da coltivatori, tanto che anche per Francesca è stata una felice scoperta. "Io la vita da contadina non la conoscevo per niente. Mi sono innamorata di mio marito Francesco e poi della terra. Da queste parti di ortaggi non ce ne sono molti, non è un’area tipica per coltivarli eppure vengono così bene! Prima ero l’opposto e mi faceva anche un po’ impressione mettere le mani nella terra, invece adesso è il mio mondo. Ci sto proprio bene e sono contentissima di vivere qui". Il tempo di diplomarsi e Francesca inizia a lavorare con il marito. "I suoi nonni avevano un’azienda di famiglia, con un’impostazione un po' più 'vecchiotta'. Siccome io sono più giovane di lui (hanno 20 anni di differenza, ndr.), mi garbava ammodernare la gestione, stare un po' più al passo con i tempi". Trasformare non significa però stravolgere, ma raccontare. "Mi piace tanto girare video e allora mi sono detta: 'Ma perché non facciamo conoscere alla gente come coltivo?'. E ho iniziato a pubblicare riprese spontanee a livello locale su Facebook, dove mi seguivano in 2 mila. Era giusto per farmi conoscere e ampliare la vendita diretta. Pian pianino la gente si è incuriosita e ha cominciato a farmi domande specifiche, per esempio su come nascono gli ortaggi. Sono felicissima di questo interesse per le coltivazioni, mi dà soddisfazione far vedere quello che faccio".
Con un papà in pensione dopo aver lavorato in cartiera e una mamma impiegata in ospedale, come ha fatto Francesca a diventare una contadina? "Quando era vivo, era il nonno di Francesco a darmi consigli. In effetti è un lavoro che impari con l’esperienza, con la pratica. Noi stiamo 24 ore su 24 nei campi, anche il sabato e la domenica. Apri la porta di casa e hai davanti il terreno: o prendi l’aereo e vai dall’altra parte del mondo, oppure ogni giorno hai questo da fare. Impari per forza".
Dentro “La campagna di Francesca”, il video più apprezzato è quello in cui spiega come potare le zucchine, a quota 1,1 mln visualizzazioni ("ho fatto il boom"), ma piace anche la “sfemminellatura del pomodoro” (284.505 visualizzazioni), o la costruzione del “mega pollaio” con 52.385 visualizzazioni. Con maglietta gialla o felpa, mollette tra i capelli, sorriso accogliente e guanti d’ordinanza Francesca in video dà del tu a chi l’ascolta e descrive quello che sta per fare. Del successo che sta ottenendo, lei stessa non se ne capacita: "Ascolta, non so proprio da cosa dipenda, io li faccio con naturalezza, mostrando come lavoro nella piccola azienda. Coltiviamo nel rispetto della natura utilizzando metodi biologici, anche grazie all'aiuto di insetti utili. Non mi pongo assolutamente come maestra di quello che faccio, nei miei video mostro il mio lavoro quotidiano in mezzo alla natura. Di certo sono contenta. La gente mi dice che riesco a comunicare bene, penso sia per la mia genuinità: non è per essere presuntuosa ma non mi trucco, non sono in posa e non sono impostata. Sono proprio me stessa". Francesca e Francesco vivono a km zero ("zerissimo!") visto che il prodotto del lavoro nei campi diventa in parte il loro pasto e in parte viene destinato alla vendita diretta, che a volte risulta più faticosa del previsto: "La gente è impegnativa. Vendiamo solo la roba che raccogliamo la mattina; se manca qualcosa la recuperiamo sul momento, tanto che alla fine diventa un andirivieni stressante" Una scelta al naturale che l’ha condotta a seguire i ritmi della Terra. La vita viene scandita dal sorgere del sole: d’inverno marito e moglie sono nei campi verso le sette del mattino e dormono un po’ di più; d’estate si alzano alle quattro e vanno a letto dopo che cala il buio. "D’estate le giornate non finiscono mai, però sono felicissima, ci piace da morire. La fatica si sente nel fisico ma d’altra parte siamo contenti e abbiamo sempre nuovi progetti. Ora stiamo programmando di mettere le api, che si aggiungono al pollaio e ad altre bestie più grandi. L’obiettivo finale è di auto sostenerci. Speriamo di realizzarlo". Una vita sana, all’aperto e a contatto con la natura, al punto che il covid-19 non ha creato impedimenti alla rituale quotidianità familiare: "La casa è di fronte al campo, è tutto aperto. E i rumori del traffico della città non si sentono".