Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere di Viola Giannoli
Si conclude il raduno a Rimini dei 430 gruppi per i 50 anni dell'associazione. Dal 1972 in Italia aiutano a smettere chi dipende dall’alcol. “Era considerato un vizio, ma è una malattia” .
«Bevevo da 12 anni e bevevo male. Sulle Pagine gialle, quand’erano ancora cartacee e ti arrivavano a casa, ho trovato un trafiletto che parlava degli Alcolisti anonimi. C’era un indirizzo, l’ho ritagliato e messo via in un cassetto del comodino. L’ho guardato per anni, poi un giorno sono andata. C’erano una quarantina di persone assiepate in una stanzina piena di fumo, ho attraversato la nebbia, mi sono seduta e ho detto: “Ciao, sono Chiara, e ho un problema"». Erano gli anni Ottanta, Alcolisti anonimi era sbarcata da poco in Italia.
430 gruppi in Italia
Adesso, che la rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto compie cinquant’anni e si è ritrovata per un bilancio di questo primo mezzo secolo a Rimini, oggi è l’ultimo giorno di incontri, sono 430 i gruppi sparsi in tutta Italia e più di seimila le presenze fisse. Ci s’incontra nei locali messi a disposizione dalle parrocchie o dai Comuni, si paga l’affitto con i contributi volontari dei partecipanti. Tutti alcolisti, non «ex alcolisti», né «persone con l’alcolismo», perché la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno. «L’unico requisito per entrare in un gruppo di Alcolisti anonimi è il desiderio di smettere di bere, ma il difficile non è quello, è continuare a non bere», sottolinea Eugenio, l’ultimo bicchiere venticinque anni fa.
Gli artisti salvati dal gruppo
Ai partecipanti non si chiedono nomi, cognomi, documenti. Chi racconta di far parte di un gruppo lo fa per libera scelta, come Tiziano Ferro che tra i «per fortuna» della sua vita ha messo l’incontro con gli Alcolisti anonimi. O Asia Argento che a giugno ha festeggiato un anno di sobrietà. Degli altri si sa la biografia che durante gli incontri decidono di narrare. E non c’è nemmeno un registro per sapere poi come a ognuno sia andata. I coordinatori gestiscono gli interventi, ma non si è obbligati a raccontarsi, qui si viene e si resta perché si vuol restare. Non ci sono professionisti, non è un approccio sanitario bensì spirituale che passa anche attraverso la meditazione e la preghiera a un dio qualunque.
I 12 passi
E si basa su 12 passi, una sorta di progressione attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Si parte dall’accettazione di essere alcolisti, impotenti davanti alla bottiglia. Un giorno alla volta, un passo per volta, tenendosi lontano dal primo bicchiere per 24 ore. E poi per altre 24. E ancora e ancora. Fino a rompere l’isolamento, a ricostruire le relazioni sociali, a tornare attivi perché, spiegano, «sarebbe assurdo togliere l’alcol e non mettere altro dentro alla propria vita». In questo cerchio di sconosciuti ci si riconosce, si parla la stessa lingua, fatta di solitudini e di fragilità. «Prima di arrivare qui chiunque di noi ha parlato con un’amica, un familiare, un prete: bevi un po’ meno, ti dicono. Ma uno non vuole smettere per tenere a bada le transaminasi, ma perché ha toccato il fondo», dice ancora Chiara. Ci si apre «perché scatta un’identificazione che altrove non c’è, perché nessuno giudica, perché qualcuno sta meglio e se ce l’ha fatta lui, che è come me, allora magari ce la faccio anche io».
L'alcolismo femminile
In origine di donne ce n’erano pochissime, «arrivavano quando erano alla frutta, portate di peso dai loro compagni. Poi anche loro sono uscite di casa, hanno capito che potevano chiedere aiuto e abbiamo scoperto la reale dimensione dell’alcolismo femminile», spiega Chiara. C’erano pure pochi giovani. «Io mi definisco un’alcolista col pedigree – continua lei – È l’alcol il mio grande amore. I ragazzi invece sono pluridipendenti. Entrano nei gruppi, fanno una pulizia veloce, escono. Ma poi ritornano».
In pandemia i gruppi virtuali
La pandemia non ha aiutato. «Ci siamo ritrovati su Zoom, sono nati gruppi solo virtuali, i più anziani ancora continuano a vedersi dallo schermo, altri hanno smesso e si riuniscono in presenza», dice Eugenio mostrando il logo, un triangolo con tre parole: unità, servizio, recupero. «È come uno sgabello a tre gambe, non sta in piedi con due: con il recupero e l’unità raggiungiamo insieme la sobrietà, con il servizio cerchiamo di aiutare gli altri, di trasmettere il nostro messaggio a chi soffre ancora».
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Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"
Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"
"Abbiamo subito due furti e il primo motivo per cui abbiamo deciso di diventare cashless è stata la sicurezza, dell'attività ma soprattutto di chi ci lavora". Vittorio Borgia è il titolare della catena Baunilla, che a Milano ha fatto molto parlare di sé per la scelta di non accettare più i contanti come metodo di pagamento. La sua idea ha diviso il pubblico dei social con commenti talvolta positivi e talvolta offensivi.
"C'è un diffuso senso di complottismo - racconta -, sono haters e terrappiattisti. Siamo passati dai no-vax ai no-pos". Si schierano invece con Borgia i clienti abituali della pasticceria, situata a pochi passi da piazza Gae Aulenti, in una delle parti più moderne della città. "Maggiore velocità nei pagamenti, approviamo", dicono due ragazzi che lavorano in un ufficio nei paraggi. Matteo Salvini, in un post, ha criticato la scelta. "Nell'era digitale - replica Borgia - non mi aspetto dichiarazioni simili". "Vado avanti con determinazione", conclude
di Andrea Lattanzi
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Il formaggio che costa 300 euro al chilo: dalla Valtellina un "pezzo della storia della montagna"
L’hanno chiamato Storico Ribelle, questo formaggio d'alpeggio che segue alla lettera gli antichi disciplinari e che si è ribellato al consorzio del Bitto, il celebre formaggio della Valtellina, oggi prodotto con il solo latte vaccino. "Il nostro è invece il bitto come si faceva una volta, con l’80% di latte vaccino e il 20% caprino, prende vita in alta montagna a latte crudo, è una produzione di nicchia che ha costi molto alti", raccontano i ragazzi del Presidio Storico Ribelle della Valtellina. Che al mercato di Terra Madre Salone del Gusto 2022, insieme alla loro storia, hanno portato anche qualcosa di molto prezioso, una forma del 2007, con 15 anni di invecchiamento, tantissimi per un formaggio, e un prezzo da record: 300 euro al chilo.
"Ma non bisogna fermarsi alle apparenze, bisogna guardare il lavoro e il valore che ci sono dietro - continuano - È costoso, è vero, ma la politica del prezzo è l'unico modo che abbiamo per portare avanti una produzione che si basa su numeri piccolissimi. È come se fosse il Barolo dei formaggi. Selezionatissimo: una sola forma sulle mille che produciamo all'anno ha le caratteristiche per arrivare a stagionature del genere. Chi lo assaggia sa di avare in mano un pezzo di storia della montagna, così come le rocce o i boschi".
Servizio di Giulia Destefanis
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L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella
dalla nostra inviata Brunella Giovara
A Nardò gli alberi vengono verniciati di bianco e trasformati. Il progetto di Ulderico Tramacere: “Li preserviamo per la memoria, pur sapendo che moriranno”
NARDO' (Lecce) In principio, l’hanno preso per matto. E chi era quell’uomo che saliva su una scala traballante e verniciava gli ulivi di bianco? Un artista, si è saputo dopo un po’. Poi uno ha fermato l’Ape al bordo del campo e si è fatto avanti. La volta dopo ci si è messo anche lui, a pittare gli alberi, e poi un altro si è offerto di portare l’acqua, mille litri per volta, e gratis. Uno di Copertino ha cominciato a potare, che è un mestiere difficile, arrampicandosi a piedi nudi sui tronchi, come si è sempre fatto da queste parti.
Il Campo dei Giganti
Land Art, ma a partecipazione popolare, e se anche i contadini del Salento non sanno esattamente che cos’è, di sicuro hanno un altissimo concetto del bello, essendo nati e cresciuti in cotanta bellezza, purtroppo morta o moritura a causa della Xylella. Un vero dolore, passare attraverso gli scheletri di migliaia e migliaia di alberi uccisi dal batterio, persino il turista più svagato non può non accorgersi di come il panorama del Salento sia cambiato per sempre, tragicamente. Poi Ulderico Tramacere, fotografo e artista di 47 anni, ha comprato il primo sacco di calce ed è andato da solo nel campo che oggi si chiama il Campo dei Giganti, il fondo di un amico, Simone Tarantino, agricoltore e tassidermista per musei, anche lui desolato di fronte all’uliveto semimorto, 50 piante ultracentenarie, seccate ma ancora in piedi, pochi i polloni ancora vivi. Altri defunti, eppure monumentali, censiti dalla Regione Puglia nel 2007, quando “ce li vendevamo alle ville del Nord e della Sardegna”, spiega Tramacere, perciò i tecnici li fotografarono e numerarono, guai a cercare di esportarli, “ma è arrivata la malattia, ed eccoci qui”.
Nel vento della sera, nella luce che cade veloce, ecco la parata emozionante dei giganti imbiancati, alcuni così grandi che non si riesce ad abbracciarli neanche in due, o in tre. “Questa è la campagna che ci ha dato vita e ombra, e amori”, tutti i vecchi del posto lo sanno. Prima del grande boom del turismo – “Salentu, sule mare e ientu”, c’era solo l’olio su cui campare, “e ognuno di questi alberi dava un camion di olive”. Oggi sono un peso, anche psicologico, e un problema. Cosa farne? Abbatterli, e non pensarci più. Qualcuno non va più nel podere, perché è troppo triste vedere che quella bellezza è finita, e li lascia lì in agonia. C’è chi gli dà fuoco, come in un grandioso rito primitivo, finale. O chi li pota, testardo, sperando in una cura che non arriva mai. E chi se li vende (a poco o niente) ai boscaioli, che giusto in questi giorni lavorano a segare e trasportare grandi carichi, la legna di ulivo si compra a 10-12 euro al quintale, tanta ce n’è.
Un grande cimitero monumentale
“E’ un grande cimitero monumentale”, dice Tramacere tra i Giganti, persi in una campagna dalle parti di Boncore, nella zona che si chiama Terra d’Arneo, terra rossa, e ribelle. “Il luogo esatto non lo abbiamo ancora reso noto perché vogliamo aprire il posto alle visite solo sarà finito il primo lotto di 50 alberi” (e già qualcuno interessato di arte e ambiente, con il passaparola, vaga tra le masserie, cercando il biancore lucente). Per ora, piccoli eventi e passeggiate su invito, chi c’è stato è rimasto meravigliato da questa nuova bellezza, “però non è solo una memoria funebre”, perché il progetto artistico prevede una cura - la calce che disinfetta, e prima, la potatura del secco – “ed è come stare con un anziano, che morirà, ma tu te ne prendi cura perché quella sua vita ha un grande valore”. E’ anche un’operazione di imbalsamatura, “li preserviamo per la memoria, pur sapendo che moriranno. Qualcuno getta nuovi polloni, ma noi sappiamo che questo non li salverà”.
Ci crede Tramacere, e la sua compagna Chiara Agagiù, e gli altri soci dell’impresa, che sono il potatore acrobatico e artistico Donato Nestola (uno che riconosce gli innesti), Loredana e Lillino, e Biagio, “l’uomo della calce, che sa usare il compressore ma sa che il pennello va meglio, dura di più”. E Cosimino Rolli, scultore del legno e agricoltore alle Fattizze, e “il signor Carlo, che 50 anni fa si è innamorato della sua futura moglie proprio in questo uliveto. Un grande oratore, ci aiuta nello sconforto con fichi, fichi d’India e birrette”. Ci crede anche la galleria Artscapy di Londra, che segue Tramacere nei suoi lavori, e altri che hanno comprato le mappe a tiratura limitata dell’opera, si “adotta” un albero e si contribuisce alla sua trasformazione artistica, come si capisce dalle pagine Facebook e Instagram “Il Campo dei Giganti”. Poi, si cercano altri finanziatori/benefattori, facendo bene attenzione a scansare operazioni di greenwashing. A ogni gigante sarà affiancata una pianta nuova, scelta tra le essenze locali. Più avanti, ogni albero sarà fotografato (bianco/nero), e nel frattempo Tramacere progetta di allargare l’opera ad altri cento alberi di un podere vicino, alla fine saranno 150 piante, “ricostruirò il Campo in maniera digitale, e chiunque potrà essere il tutore di un ulivo, garantendo che non vada perduto questo suo passato così ricco”. O prendere un pennello in mano, e giù calce, in questo gran vento.
E nella gelateria che si ispira agli anni '60 si paga in lire
di Giulia Mancini
Tornano le vecchie lire per un solo giorno, basterà portarle in cassa a Lamezia Terme e si avrà in cambio un gelato. È la trovata di Valentino Pileggi, ideatore di Coneria Italiana: “Il 21 aprile saremo la prima attività commerciale in Italia a permettere l’utilizzo delle vecchie lire”. Un’idea per riportare fra le mani e nel borsellino la vecchia moneta italiana, un gioco in realtà che vuole rendere omaggio alla memoria degli anni in cui il boom economico metteva il sorriso sui volti degli italiani e tutto sembrava possibile. “Dato che il nostro format è ispirato agli anni ’60, dagli arredi con la radio d’epoca, la musica, le gonne a ruota delle ragazze e le fasce a pois per i capelli, ci è sembrato simpatico festeggiare così il primo anno dall’apertura”. Non volendo semplicemente regalare il prodotto, “vogliamo far tornare i nostri clienti agli anni in cui i loro genitori e nonni con le lire andavano a comperare il gelato”. Una caccia al tesoro fra le tasche di vecchi cappotti o in fondo ai cassetti, alla ricerca delle vecchie monete o delle banconote che per decenni hanno circolato in Italia e che ancora oggi sono indicate sul prezziario della gelateria: “In realtà è un modo diverso, e simpatico, per regalarlo. Basterà mostrare in cassa le lire”.
Un progetto che trae ispirazione dai ricordi in modo non effimero, ma con la concretezza del sapore della memoria: “Coneria Italiana nasce quasi per caso - racconta Pileggi, imprenditore lametino insieme al maestro gelatiere Gianfranco Buccafurni, noto per il gelato di Jacurso, e al socio di capitali Fabio Borrello - Parlando con mia madre Angela mi raccontava del cannoncino mantovano. Lei in Calabria è venuta per amore di mio padre, ma ricorda bene quel sapore dell’antica ricetta di Mantova che spopolava negli anni ’60”. Cialda come quella del cono riempita con budino e sormontata da panna montata, servita in orizzontale come una cornucopia, non freddo come il gelato e comodo visto che non sciogliendosi evita di sgocciolare. Una tradizione che ingolosisce ancora oggi i mantovani, “come in quegli anni il budino è solo di due gusti, vaniglia e cioccolato, mentre per il gelato i gusti spaziano”. Storicità e un pizzico di innovazione retrò, che non si trova solo negli arredi: “Sembra una novità vista con gli occhi di un calabrese, di un meridionale, ma il cannoncino da Mantova in giù non si conosce. Lo abbiamo rivisitato con la cialda fatta al momento e la panna montata in planetaria, senza estrusori”.
Proprio da questa particolare lavorazione artigianale ed estemporanea della cialda prende il nome Coneria Italiana, per sottolineare già nel nome l’intenzione di porre l’accento sul pregio di un prodotto che raccoglie nella sua croccante friabilità: la cialda che sa di biscotto, realizzata in maniera artigianale ed esattamente con gli stessi ingredienti del tempo: “Per i coni usiamo farina biologica di tipo 1, burro, latte fresco e solo uova fresche di galline allevate all’aperto”. Anche per i budini gli ingredienti ripercorrono quelli della memoria, come quando si facevano in casa con latte, panna, zucchero, vaniglia o cacao e amido di mais; stessa filosofia per i gelati che portano la firma di Buccafurni e il sapore della sua abilità, riconosciuta così tanto da aver fatto assurgere il piccolo paese calabrese di Jacurso alla notorietà. “Nel laboratorio a vista lavoriamo anche frutta locale per i sorbetti e i cremolati, composti da polpa di frutta e pochissimo zucchero aggiunto. Il tasso zuccherino è tarato in base all’acidità naturale della frutta e al grado di maturazione, per esempio in estate con pesca e malvasia non ne usiamo, mentre arriviamo al 15% in peso per il sorbetto di agrumi”. Un solo anno dall’apertura e già il riconoscimento, recentemente ricevuto al Sigep di Rimini, con il primo posto per il gusto al cioccolato di Francesco Buccafurni, figlio d’arte: un solo anno ma anni di lavoro al fianco del padre che ha saputo trasmettere passione e competenze, e da un tale maestro c’è tanto da imparare.
Già nell’impostazione del progetto, nonché dalla sua apertura, “Coneria Italiana nasce con l’intenzione di avere impatto zero sull’ambiente. Carta riciclata e fibra vegetale per tovaglioli e palette, barattolo per il gelato da asporto in carta e di forma cilindrica come quello che andava in quegli anni, coppette gelato senza pla (acido poli lattico) quindi biodegradabili”. Un solo contenitore della spazzatura per rifiuti compostabili a disposizione dei clienti, “nella consumazione non produciamo rifiuti che non siano compostabili. Li abbiamo in produzione ma sono i packaging che derivano dai nostri fornitori”. Un’attenzione all’ambiente che si riflette anche, e soprattutto, nella scelta di spronare i clienti al riutilizzo delle vaschette da asporto, quelle in simil polistirolo per intendersi ma accuratamente scelto da fonti rinnovabili. “Alcuni mesi fa Dina Calagiuri, presidentessa di ‘Lamezia Zero Rifiuti’, mi propose di essere la prima gelateria a permettere l’asporto del gelato in contenitori portati da casa, vetro o plastica - prosegue Pileggi - Oppure si può comperare una nostra vaschetta e, terminato il consumo casalingo, lavarla e portarla per la volta successiva”.
Seguendo uno scrupoloso criterio sulle linee guida in materia igienico-sanitaria, i contenitori vengono posizionati su una tovaglietta lavabile per evitare il contatto con la superficie di lavoro, “dentro vi facciamo cadere il gelato a cascata, con una paletta preleviamo il gelato dalla carapina e con una seconda lo spatoliamo in modo che cada, facendo in modo che non entrino in contatto con il contenitore stesso. Una volta riempito di tutti i gusto scelti, con una terza paletta sistemiamo il gelato e quest’ultima - unica in contatto con il contenitore riutilizzato - viene subito messa in lavastoviglie.” Questo incoraggiamento al consumo consapevole del packaging viene spronato, non solo a parole, ma anche nei fatti: ai clienti che portano il recipiente da casa, o ne riutilizzano uno, viene riservato uno sconto sul prezzo del gelato. “Lo sconto equivale a quello che paghiamo noi per la vaschetta, essere vicini all’ambiente non ha un costo per l’attività, ma è una forma mentale".
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Spente 58 candeline. Il "Nutellificio" di Alba produce ogni giorno oltre 300 tonnellate di dolcezza, pari a 550mila vasetti, a cui si aggiungono undici stabilimenti Ferrero in tutto il globo: un totale di 770 milioni di barattoli venduti ogni anno e consumati da più di 110 milioni di famiglie
Buon compleanno Nutella. Era una piovosa mattina del 20 aprile 1964, quando dalla fabbrica Ferrero di Alba usciva il primo vasetto di quella che sarebbe diventata la crema da spalmare più famosa nel mondo. Oggi, dopo 58 anni, più che una crema di nocciole e cacao, la Nutella è una categoria dello spirito. Più che un dolce spuntino, è una passione travolgente. Più che un alimento, è un simbolo transgenerazionale. Non per nulla è entrata nell’immaginario collettivo come metafora del piacere e del desiderio, stregando artisti, scrittori e personaggi di successo, oltre a milioni e milioni di semplici consumatori. È così che la Nutella si è fatta strada non solo nelle dispense delle nostre case, ma anche nella letteratura, nella musica, su internet, nell’arte e al cinema.
Il primo vasetto in etichetta aveva una grande fetta di pane, due nocciole e un nome morbido, intrigante, positivo. A ideare il prodotto fu Michele Ferrero, che a 39 anni riuscì a migliorare gli antesignani Giandujot e Supercrema, creati da suo padre nel dopoguerra, e tirò fuori dal cilindro quel marchio in grado di aprire la strada alle vendite internazionali, fino a farla diventare un vero e proprio fenomeno capace di accomunare i «baby boomers» ai sessantottini, gli «yuppies» degli anni Ottanta ai «Millennials» fino a raggiungere con immutato appeal le nuove generazioni. Infantile e innocente quanto affascinante e ossessionante, la Nutella è un prodotto per le famiglie con un retrogusto quasi peccaminoso, è un marchio socializzante in grado di mettere d’accordo tutti, una crema che vanta più imitazioni della Settimana Enigmistica ma resta inimitabile, grazie a una ricetta segretissima conservata ad Alba esattamente come avviene per la Coca-Cola ad Atlanta. Un esempio azzeccato di globalizzazione golosa, come certificato dai ricercatori dell’Ocse già un decennio fa.
Insomma, citando un fortunato slogan: che mondo sarebbe senza Nutella? Il grande «Nutellificio» di Alba produce ogni giorno oltre 300 tonnellate di crema, pari a 550mila vasetti. Un dolce fiume impressionante, ma che ovviamente non basta a soddisfare la richiesta internazionale. La Nutella, infatti, è prodotta in undici stabilimenti Ferrero in tutto il mondo, con maestranze di 97 nazioni. Ed è commercializzata in circa 160 paesi dei cinque continenti, raggiungendo un totale di oltre 400.000 tonnellate, pari a 770 milioni di barattoli venduti ogni anno e consumati da più di 110 milioni di famiglie. Tanto per dare l’idea, se si mettessero in fila i vasetti di Nutella prodotti in 12 mesi si arriverebbe a una lunghezza pari ad 1,7 volte la circonferenza terrestre e a un peso pari all’Empire State Building. Senza scordare i prodotti Ferrero nati sulla scia della crema da spalmare, dai B-ready ai Nutella Biscuits, diventati i biscotti più amati in Italia. Dunque, potremmo dire che da sempre c’è un po’ di Nutella nella nostra vita e un po’ della nostra vita in Nutella. Lo sa bene Nanni Moretti, che nel film «Bianca» affoga l’ansia in un enorme barattolo alto un metro. E lo sanno bene anche gli strateghi del marketing, che nel 2013 hanno convinto la Ferrero a dare a ognuno la possibilità di sostituire il famoso logo sul vasetto con il proprio nome di battesimo, facendolo diventare un oggetto cult da consumare, da esibire o da conservare come una preziosa opera d’arte pop e personalizzata. Oggi è sulla rete e sui social network che si può cogliere tutta la forza aggregatrice di Nutella: ogni giorno decine di migliaia di persone in tutto il mondo le rivolgono un pensiero appassionato, pubblicando una foto su Instagram o uno status update su Twitter. È una passione globale, che unisce persone comuni e celebrità: la pagina di Facebook dedicata a Nutella in Italia conta circa 6 milioni di fan, quella mondiale supera i 35 milioni di follower. Cifre da capogiro, ma che hanno radici ben lontane, con l’esordio pubblicitario sul palcoscenico di Carosello nel 1967. Chi ricorda, all’inizio degli anni Settanta, le avventure di Jo Condor, l’intramontabile pennuto che fa dispetti agli abitanti della Valle Felice, salvati dal Gigante Amico, depositario della bontà del prodotto?
mah se fin ora la produzione vinicola ed il suo indotto sono rimasti in equilibrio con gli animali secondo me si tratta di una moda anche se completamente benefica . Ora anche se come ho scritto più volte sia a contatto con la campagna ( facciamo ancora l'orto ) per il lavoro che faccio , ed ho conosciuto la civiltà contadina e dello stazzo anche se nella sua fase terminale ed il definitivo passaggio ad un agricoltura industriale non ho solide basi scientifiche e biologiche rispetto a mio padre e mio fratello laureati in Agraria , lascio la parola agli esperti intervistati in quest articolo sotto riportato .
Ma prima sempre da repubblica chiariamo con questo breve video di Di Lara Loreti e di Martina Tartaglino cos'è il vino vegano e come riconoscerlo .
Negli ultimi anni è cresciuta la domanda di vini vegani. Il trend, forte nell'Europa del Nord, si sta diffondendo anche in Italia, soprattutto tra quella parte della popolazione che adotta un’alimentazione e uno stile di vita veg friendly. Ma che cosa sono i vini vegani e in cosa si differenziano da quelli tradizionali? È una questione di additivi: nel processo di vinificazione è possibile impiegare sostanze di origine animale per rendere il vino limpido e pulito. Ma questi coadiuvanti possono essere sostituiti da sostanze di origine vegetale in modo da rispettare la dieta vegana.
Nel giro di una decina di anni, la richiesta in Italia è aumentata parallelamente al diffondersi dello stile alimentare e della sensibilità green. Tra tendenze, marketing, rispetto dell'ambiente e difesa del pianeta, la parola ai produttori e agli esperti
Farina di piselli al posto dell’albumina; polvere di patate invece della colla di pesce; via la caseina, dentro le proteine dei lieviti; caolino e argilla a volontà. E il vino che c’entra? Non tutti sanno che nel processo di vinificazione si possono utilizzare delle sostanze che servono per la chiarifica, dopo la fermentazione, e per la stabilizzazione del prodotto: si tratta di additivi e coadiuvanti come l’albumina d’uovo, la caseina, la colla d’osso, la colla di pesce e la gelatina, elementi che sono di origine animale. Oggi quasi un italiano su dieci (l'8,2% come emerge dal Rapporto Italia di Eurispes 2021) per motivi etici o di salute, sceglie una dieta vegana: niente carne, pesce, latte e in generale alimenti di derivazione animale, sì ai cibi di origine vegetali. Il vino non fa eccezione. Ed ecco che negli ultimi anni si è diffuso – e la tendenza è in crescita – il cosiddetto vino vegano, all’interno del quale vengono bandite le sostanze di origine animale sia in cantina sia in etichetta (si pensi all'uso di colle animali) sia in vigna. Infatti, i protocolli veg vietano anche l’utilizzo di letame, pollina, stallatico e altri concimi/fertilizzanti ottenuti da allevamenti o sottoprodotti industriali di origine animale (per esempio, farine di sangue, carne, corna, pesce, ecc.), inclusi eventuali prodotti fitosanitari di origine animale. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale nazionale o europea, ma varie società private hanno colmato il gap, buttando giù dei protocolli con regole da rispettare e rilasciando (a pagamento), previ scrupolosi controlli durante l’arco dell’anno, la certificazione da poter esibire sulla bottiglia. Un via libera per i bevitori vegani che così hanno la possibilità di restare in linea con la propria scelta, anche nel calice.
Le prime certificazioni nel 2014, ma c’è chi è veg da 15 anni
Ed ecco che il vino vegano oggi comincia a farsi notare nelle cantine e sugli scaffali di enoteche e supermercati, oltre che nel commercio on line. Le prime etichette si sono affacciate sul mercato italiano meno di dieci anni fa. Tra le prime (se non la prima in assoluta ad essere certificata) c’è la trentina Cantina Aldeno che, a inizio 2014, lancia il suo Pinot Nero 2013 vegan friendly: è un boom. A metà anno ha già venduto tutte le 15mila bottiglie prodotte, addirittura con prenotazioni fino al 2016. Altre cantine seguiranno quell’esempio.
Ma se fino a qualche anno fa produrre bottiglie veg veniva visto dai più come una scelta originale, a tratti bizzarra, oggi la richiesta di etichette prive di sostanze animali è in crescita, soprattutto all’estero: in Italia si parla ancora di mercato di nicchia, ma il trend è in forte espansione in centro e Nord Europa e negli Usa. In questa fase, per certi versi ancora di esplorazione, i produttori oscillano tra il desiderio di inserirsi concretamente nel solco di chi attua comportamenti che possono giovare alla salute dell’ambiente, e il marketing nudo e crudo di quelle aziende che vogliono cavalcare l’onda verde che ha invaso il globo, facendo leva sull’ecologismo di facciata (o greenwashing).
Al contrario, per molti viticoltori, vegani della prima ora, non si tratta solo una moda, ma un modo di essere, di pensare, di agire. E di tirare fuori dalla cantina un vino più pulito, più integro, più rispettoso dell’ambiente. Una vera rivoluzione che ha a che fare con benessere e salute del pianeta. Qualche esempio? Raffaele Boscaini, settima generazione della famiglia e direttore marketing della cantina della Valpolicella, Masi, spiega come nella sua azienda si producano vini vegani ormai da oltre 15 anni. Esempio di come, in questo ambito - lo sostiene l’enologo e studioso di vino Gianpiero Gerbi - sia nata prima l’offerta e poi la domanda.
“Masi ha attivato la produzione di vini veg in modo inconsapevole – racconta il manager - senza porsi il problema del veganismo, ma con l’obiettivo di realizzare prodotti piùnaturali possibili, che non avessero contatti con additivi che potevano alterarne l’integrità come colla di pesce, caseina e albumina, rilasciando delle particelle: il vino è tale se lo lasci più vicino possibile all’uva. E così oggi nella chiarifica e nella stabilizzazione noi usiamo sostanze naturali, derivate da vegetali, rocce e fossili, che hanno stessa capacità di far depositare nel fondo delle cisterne le impurità e le particelle in sospensione, prima e durante la filtrazione del vino. Non c’è nulla di male ad usare componenti animali, ma quando, negli ultimi anni, si è sempre più diffusa la tendenza a evitarli per questioni etiche, noi eravamo già equipaggiati. Per questo nella primavera 2020 ci siamo certificati e, a mano a mano, stiamo cambiando tutte le etichette”. Una volta per Masi era sufficiente rispondere al telefono alle richieste di quei pochi consumatori vegani che si informavano sul rispetto dei principi veg, oggi vista l’impennata della domanda avere la certificazione è diventata una esigenza. “Non ho dati ufficiali, ma posso dire che se dieci anni fa ricevevamo dieci mail o richieste, ora sono minimo un centinaio”, dice il manager. E il gusto? “Al palato non si sentono grosse differenze”, spiega.
Per Boscaini questa scelta oggi diventa anche sociale, ma non giudica chi non la sposa: “Avere un vino vegano è un’operazione che ha a che fare con inclusività. Noi l’abbiamo fatto in nome di una maggiore qualità e non ci si schiera. Ma se, in questo modo, andiamo incontro a anche chi ha fatto una scelta etica, ben venga. Non è necessario essere integralisti se si soddisfa chi integralista lo è: io produco vino vegano e questo non mi limita nel promuoverlo, se adatto, all’abbinamento con la carne. Sta a chi lo beve fare le sue scelte, in libertà”.
Tra i vegani ante litteram c’è anche Gabriele Baldi, contitolare dell’azienda di famiglia a Costigliole (Asti) che porta il nome del padre, Pierfranco Baldi (di Burio). Nel 2014 Gabriele ha lavorato alla stesura di un protocollo per vino vegano. “Collaborando con un conoscente delloStudio Borio Longo di Igiene e tecnologie alimentari ci siamo accorti che non c’erano delle regole sul vino vegano: e allora perché non farla noi? E così ci siamo rivolti allaSociété Générale de Surveillance(SGS), noto gruppo svizzero specializzato in certificazioni, e la nostra è stata un’azienda pilota. Avevamo iniziato poi anche per un motivo pratico: in primis evitare l’uso di chiarificanti di origine animale che sono anche allergeni, cercavamo quindi di evitare prodotti disturbanti per qualcuno, a prescindere dalla dieta vegana. La prima prova l’abbiamo fatta nel 2013 usando i derivati di piselli e patate, e poi allungando l’invecchiamento del vino cosicché potesse raggiungere da solo la stabilità”. Esperimenti che hanno portato a risultati molto interessanti: la qualità del vino non ne risentiva, anzi: “C’è stata differenza peggiorativa solo sulle fecce: questa operazione produce un deposito che può essere filtrato ma stiamo parlando dello scarto, che vale 50-70 cent al litro”, dice il vignaiolo. Il problema è stato più di carattere commerciale. “Abbiamo realizzato 4 etichette certificate vegane nelle vendemmie 2014-15 -16. Ma non abbiamo trovato terreno fertile: a suo tempo, non c’era un gran mercato – racconta Baldi - Oggi il vino lo facciamo allo stesso modo: 60mila bottiglie tutte vegane, abbiamo però abbandonato la certificazione perché è onerosa. Ma i nostri clienti sanno che non usiamo sostanze di origini animali, tra loro c’è anche un ristorante veg torinese, “Idem con patate”, e privati. Chi è interessato al prodotto vegano sulla certificazione è disposto a soprassedere”. Farina di piselli al posto dell’albumina; polvere di patate invece della colla di pesce; via la caseina, dentro le proteine dei lieviti; caolino e argilla a volontà. E il vino che c’entra? Non tutti sanno che nel processo di vinificazione si possono utilizzare delle sostanze che servono per la chiarifica, dopo la fermentazione, e per la stabilizzazione del prodotto: si tratta di additivi e coadiuvanti come l’albumina d’uovo, la caseina, la colla d’osso, la colla di pesce e la gelatina, elementi che sono di origine animale. Oggi quasi un italiano su dieci (l'8,2% come emerge dal Rapporto Italia di Eurispes 2021) per motivi etici o di salute, sceglie una dieta vegana: niente carne, pesce, latte e in generale alimenti di derivazione animale, sì ai cibi di origine vegetali. Il vino non fa eccezione. Ed ecco che negli ultimi anni si è diffuso – e la tendenza è in crescita – il cosiddetto vino vegano, all’interno del quale vengono bandite le sostanze di origine animale sia in cantina sia in etichetta (si pensi all'uso di colle animali) sia in vigna. Infatti, i protocolli veg vietano anche l’utilizzo di letame, pollina, stallatico e altri concimi/fertilizzanti ottenuti da allevamenti o sottoprodotti industriali di origine animale (per esempio, farine di sangue, carne, corna, pesce, ecc.), inclusi eventuali prodotti fitosanitari di origine animale. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale nazionale o europea, ma varie società private hanno colmato il gap, buttando giù dei protocolli con regole da rispettare e rilasciando (a pagamento), previ scrupolosi controlli durante l’arco dell’anno, la certificazione da poter esibire sulla bottiglia. Un via libera per i bevitori vegani che così hanno la possibilità di restare in linea con la propria scelta, anche nel calice.
Vino vegano: che cosa è e come riconoscerlo
Le prime certificazioni nel 2014, ma c’è chi è veg da 15 anni Ed ecco che il vino vegano oggi comincia a farsi notare nelle cantine e sugli scaffali di enoteche e supermercati, oltre che nel commercio on line. Le prime etichette si sono affacciate sul mercato italiano meno di dieci anni fa. Tra le prime (se non la prima in assoluta ad essere certificata) c’è la trentina Cantina Aldeno che, a inizio 2014, lancia il suo Pinot Nero 2013 vegan friendly: è un boom. A metà anno ha già venduto tutte le 15mila bottiglie prodotte, addirittura con prenotazioni fino al 2016. Altre cantine seguiranno quell’esempio.
Ma se fino a qualche anno fa produrre bottiglie veg veniva visto dai più come una scelta originale, a tratti bizzarra, oggi la richiesta di etichette prive di sostanze animali è in crescita, soprattutto all’estero: in Italia si parla ancora di mercato di nicchia, ma il trend è in forte espansione in centro e Nord Europa e negli Usa. In questa fase, per certi versi ancora di esplorazione, i produttori oscillano tra il desiderio di inserirsi concretamente nel solco di chi attua comportamenti che possono giovare alla salute dell’ambiente, e il marketing nudo e crudo di quelle aziende che vogliono cavalcare l’onda verde che ha invaso il globo, facendo leva sull’ecologismo di facciata (o greenwashing).
Al contrario, per molti viticoltori, vegani della prima ora, non si tratta solo una moda, ma un modo di essere, di pensare, di agire. E di tirare fuori dalla cantina un vino più pulito, più integro, più rispettoso dell’ambiente. Una vera rivoluzione che ha a che fare con benessere e salute del pianeta. Qualche esempio? Raffaele Boscaini, settima generazione della famiglia e direttore marketing della cantina della Valpolicella, Masi, spiega come nella sua azienda si producano vini vegani ormai da oltre 15 anni. Esempio di come, in questo ambito - lo sostiene l’enologo e studioso di vino Gianpiero Gerbi - sia nata prima l’offerta e poi la domanda.
“Masi ha attivato la produzione di vini veg in modo inconsapevole – racconta il manager - senza porsi il problema del veganismo, ma con l’obiettivo di realizzare prodotti piùnaturali possibili, che non avessero contatti con additivi che potevano alterarne l’integrità come colla di pesce, caseina e albumina, rilasciando delle particelle: il vino è tale se lo lasci più vicino possibile all’uva. E così oggi nella chiarifica e nella stabilizzazione noi usiamo sostanze naturali, derivate da vegetali, rocce e fossili, che hanno stessa capacità di far depositare nel fondo delle cisterne le impurità e le particelle in sospensione, prima e durante la filtrazione del vino. Non c’è nulla di male ad usare componenti animali, ma quando, negli ultimi anni, si è sempre più diffusa la tendenza a evitarli per questioni etiche, noi eravamo già equipaggiati. Per questo nella primavera 2020 ci siamo certificati e, a mano a mano, stiamo cambiando tutte le etichette”. Una volta per Masi era sufficiente rispondere al telefono alle richieste di quei pochi consumatori vegani che si informavano sul rispetto dei principi veg, oggi vista l’impennata della domanda avere la certificazione è diventata una esigenza. “Non ho dati ufficiali, ma posso dire che se dieci anni fa ricevevamo dieci mail o richieste, ora sono minimo un centinaio”, dice il manager. E il gusto? “Al palato non si sentono grosse differenze”, spiega.
Per Boscaini questa scelta oggi diventa anche sociale, ma non giudica chi non la sposa: “Avere un vino vegano è un’operazione che ha a che fare con inclusività. Noi l’abbiamo fatto in nome di una maggiore qualità e non ci si schiera. Ma se, in questo modo, andiamo incontro a anche chi ha fatto una scelta etica, ben venga. Non è necessario essere integralisti se si soddisfa chi integralista lo è: io produco vino vegano e questo non mi limita nel promuoverlo, se adatto, all’abbinamento con la carne. Sta a chi lo beve fare le sue scelte, in libertà”.
Tra i vegani ante litteram c’è anche Gabriele Baldi, contitolare dell’azienda di famiglia a Costigliole (Asti) che porta il nome del padre, Pierfranco Baldi (di Burio). Nel 2014 Gabriele ha lavorato alla stesura di un protocollo per vino vegano. “Collaborando con un conoscente delloStudio Borio Longo di Igiene e tecnologie alimentari ci siamo accorti che non c’erano delle regole sul vino vegano: e allora perché non farla noi? E così ci siamo rivolti alla Société Générale de Surveillance (SGS), noto gruppo svizzero specializzato in certificazioni, e la nostra è stata un’azienda pilota. Avevamo iniziato poi anche per un motivo pratico: in primis evitare l’uso di chiarificanti di origine animale che sono anche allergeni, cercavamo quindi di evitare prodotti disturbanti per qualcuno, a prescindere dalla dieta vegana. La prima prova l’abbiamo fatta nel 2013 usando i derivati di piselli e patate, e poi allungando l’invecchiamento del vino cosicché potesse raggiungere da solo la stabilità”. Esperimenti che hanno portato a risultati molto interessanti: la qualità del vino non ne risentiva, anzi: “C’è stata differenza peggiorativa solo sulle fecce: questa operazione produce un deposito che può essere filtrato ma stiamo parlando dello scarto, che vale 50-70 cent al litro”, dice il vignaiolo. Il problema è stato più di carattere commerciale. “Abbiamo realizzato 4 etichette certificate vegane nelle vendemmie 2014-15 -16. Ma non abbiamo trovato terreno fertile: a suo tempo, non c’era un gran mercato – racconta Baldi - Oggi il vino lo facciamo allo stesso modo: 60mila bottiglie tutte vegane, abbiamo però abbandonato la certificazione perché è onerosa. Ma i nostri clienti sanno che non usiamo sostanze di origini animali, tra loro c’è anche un ristorante veg torinese, “Idem con patate”, e privati. Chi è interessato al prodotto vegano sulla certificazione è disposto a soprassedere”.
Tra vino vegano e vino biologico c’è una relazione?
Non per forza. Ci sono vini convenzionali certificati vegani, vini biologici e vini biologici vegani. “La certificazione bio e quella vegana sono due cose distinte – spiega Gerbi – la gente fa confusione perché la narrazione del veganismo è a tratti confusa. Ma stiamo parlando di due aspetti diversi: il biologico riguarda il tipo coltivazione, il non utilizzo di concimi chimici in vigna e il rispetto della natura, il veganismo invece riguarda l’uso delle sostanze di origini animale nel processo produttivo, che per lo più riguarda la fase della chiarifica”. Quanto al futuro del vino veg, l'esperto ha un'opinione chiara e netta: "Il vino vegano è una moda destinata a non durare".
Non tutti la pensano allo stesso modo e c’è chi porta il dibattito su un piano filosofico. Come Stefano Girelli, vignaiolo trentino titolare delle aziende agricole siciliane, entrambe bio: Cortesee Santa Tresa (Vittoria, Ragusa), 230-240mila di bottiglie nei 70 ettari vitati totali. “Essere biologici ti apre una porta in un mondo nuovo: cominci a interpretare il vigneto e a vederlo come un partner non come una cosa da sfruttare. E oggi più che mai l’attenzione si sta spostando sul terreno: mentre una volta ci si concentrava sulla produzione (con rese doppie e triple rispetto a oggi) nel corso degli anni si guarda di più alla qualità. Al centro dell’attenzione c’è il vitigno e il lavoro che si fa in cantina è sempre inferiore perché non deve rovinare ciò che si fa in vigna”. Girelli concentra le sue energie sul nutrimento del terreno e per far questo sperimenta pratiche biodinamiche all’interno della coltivazione biologica.
“A Santa Tresa, che gestisco da 21 anni, siamo bio da 15 anni: in vigna usiamo favino e non la chimica, poco zolfo e poco rame, e in cantina impieghiamo tecniche che mantengono alta la qualità: in questo arco di tempo ho visto cambiare la qualità dell’uva, la buccia è più spessa e le caratteristiche dell’uva più affini al territorio. Il Nero d’Avola di Cortese (cantina presa nel 2016 già bio) rispecchia le caratteristiche del terreno più calcareo: il vino è muscolare e corposo; a Santa Tresa, dove il suolo è ricco di sabbia rossa con strato calcareo, i vini sono più minerali ed eleganti.
Lo scopo è convivere con l’ambiente e preservarlo, anche perché da noi c’è un microclima pazzesco per la crescita di qualsiasi vegetale”. In questo contesto Girelli 4-5 anni fa cambia registro anche nella stabilizzazione dell’uva, all’interno del processo di vinificazione: via le sostanze animali usate storicamente, dentro proteine vegetali, dalla farina di patata e quella di piselli. “Così facendo abbiamo visto che avevamo stesso risultato con qualità superiore, senza cambiare il vino: il sapore è più autentico, meno raffinato, più vicino alla tipicità varietale, senza essere sfacciati. Ogni volta che filtri e metti additivi togli anche del buono e sottrai naturalezza”, dice Girelli. Ma non è tutto: “Essere vegano non è solo non mangiare carne, vuol dire anche ridurre l’impronta idrica, combattere la deforestazione e tutto ciò che sta intorno alla produzione di carne: fra 30 anni con la popolazione in aumento avremo poca acqua, pochi prati e poche foreste dove vivere. È chiaro che la crudeltà contro gli animali è importante, ma lo è anche il rispetto dell’ambiente. Da quest’anno abbiamo avviato anche la fitodepurazione delle acque in cantina. Cerchiamo di avere meno sprechi: nel corso degli anni ci siamo resi contro che la salinità dell’acqua dei pozzi aumentava. Ora usiamo l’acqua piovana”.
Aver eliminato le sostanze di origine animale comporta un aumento di costi intorno al 10%, ma il viticoltore ha eliminato la spesa relativa alla certificazione, pur inserendo l’informazione veg in etichetta: “Noi consideriamo il bollino una moda: al livello europeo non esiste, e così per noi non ha senso”.
Certificazione sì o no? Moda o necessità di informare il consumatore?
La questione della certificazione divide i produttori e c’è chi, pur considerandola una spesa in più, sostiene di poterne più fare a meno perché necessaria per i clienti all’estero. È il caso di Mimmo De Gregorio, direttore tecnico delle Cantine Settesoli/Mandrarossa a Menfi (Agrigento), cooperativa con 200 soci e 6mila ettari vitati (di cui 1,2 in regime biologico e gli altri con coltivazione convenzionale). “Siamo certificati vegani da 3-4 anni, anche se già da un anno avevamo eliminato le sostanze di derivazione animale. La spinta c’è arrivata dal mercato estero dove c’è più attenzione verso questo tipo di consumo, principalmente Inghilterra e Nord Europa, e ora anche Svizzera, Germania, Usa e Giappone”.
Una cosa sembra certa: presentarsi sul mercato con la certificazione vegana vuol dire darsi una chance in più di vendita. “A parità di categoria e prezzo, generalmente il consumatore preferisce l’etichetta vegana perché è recepita come valore aggiunto anche dai non vegani. Molti pensano: “male non mi fa” – riflette Raffaele Boscaini di Masi - In più, in questo modo abbiamo una finestra aperta sul mondo di chi vuole solo vegano. Sta accadendo un po’ la stessa dinamica che qualche anno fa avveniva col biologico: prima era relegato a una nicchia di consumatori molto attenti, ora s’è aperto a tanti altri consumatori. Del resto, oggi sempre più persone sono portate a dare un’occhiata alle etichette del vino come pure del cibo. Il problema arriva quando si diffondono delle false credenze sulla salute, basta citare l’esempio dell’olio di palma”.
E la certificazione è necessaria o è un trend? “Secondo me al momento è un po’ una moda, che non so se passerà o evolverà. Non ne vedo una effettiva esigenza: noi l’abbiamo presa perché ce l’hanno chiesta i distributori in giro per il mondo: in tutto il Nord Europa, soprattutto in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca, i wine lover sono più sensibili, e c’è una buona richiesta di vini veg anche da parte delle compagnie internazionali di volo. In Italia la richiesta riguarda ancora una nicchia. E in generale credo che la certificazione non sia una necessità: sono convinto che il consumatore trovi in una marca ciò che lo fa sentire appartenente e quindi si affida. Se una persona si trova bene con Armani non si chiede se sia sostenibile e/o vegano, gli interessa che gli stia bene, che il capo duri nel tempo e lo faccia sentire meglio. La gran parte dei consumatori si approccia così. A optare per i vini vegani sono soprattutto i giovani che mettono in discussione i paradigmi affermati dei genitori proponendone di nuovi, e che mettono al centro la naturalità”.
Costi un po' più alti
La certificazione va fatta di anno in anno e ha un prezzo, che per alcune cantine pesa. “Per un’azienda come la nostra da 350mila ettolitri di prodotto all’anno (quindi medio grande) si parte da 3.500 euro annue – dice De Gregorio – Costo a cui si aggiunge l’aumento di circa il 20-30% delle spese legato all’uso di proteine vegetali come sostitute di quelle animali quali albumina, cornunghia e così via. La qualità è rimasta la stessa e così il vino è più intatto”. Nessuno svantaggio? L’unico sforzo in più l’abbiamo fatto all’inizio – risponde l’esperto siciliano - per raggiungere lo stesso risultato abbiamo dovuto fare delle prove di laboratorio per vedere come il vino reagiva, e alla fine abbiamo constatato che il vantaggio maggiore tecnicamente è che usando sostanze vegetali il vino non viene deturpato. Noi siamo soddisfatti: i clienti apprezzano che il nostro vino sia vegan, le catene della grande distribuzione estere ormai chiedono solo o quasi prodotti vegan. In Italia c’è ancora pochissimo interesse, arriverà, ma molto lentamente. Ma un giovane che oggi mette su un’azienda vitivinicola non può ignorare questa tendenza: deve puntare su biologico e vegano”.
Largo ai giovani: approccio a 360 gradi. Dall'Italia a Portorico
Due obiettivi, questi ultimi, che sono dei punti fermi per la giovane produttrice Vittoria Matta, in Chianti Classico, che con i suoi fratelli aiuta il padre John nella gestione dell’azienda di famiglia, nel castello di Vicchiomaggio, attiva dagli anni Settanta e dagli anni Ottanta arricchita anche un agriturismo e un ristorante, tutti gestiti con i principi biologici. In quest’ottica i viticoltori hanno inserito nella produzione un vino veg, il Chianti Classico Riserva Vicchiomaggio Vegan certificato con Bioagricert. Papaveri e fiori di campo nell’etichetta disegnata da una illustratrice. “È vegano dalla vigna al packaging – dice orgogliosa Vittoria Matta – e ne facciamo 6-7mila bottiglie: il costo è di circa 10-15% in più della riserva non vegana a causa dei costi di realizzazione e della certificazione. Tutta l’attività nel vigneto è realizzata usando prodotti bio e non di derivazione animale. Inoltre, nel marzo 2021 siamo entrati nel progetto Viva per le aziende vitivinicole sostenibili, che abbraccia tutte le attività aziendali, ristorante e agriturismo compresi”. Chianti Classico Riserva Vicchiomaggio Vegan è richiesto soprattutto all’estero, Norvegia e Olanda. “Tra i nostri clienti c’è anche Vegan wines, brand californiano che si sta espandendo anche in Portorico perché la proprietaria è portoricana – dice Matta – è un ex wine club che sta diventando una importante società visto il successo dei prodotti vegan”.
L'importanza del cibo: le nuove frontiere della tavola
Punta sulle nuove frontiere della alimentazione, oltre che sulla tutela dell’ambiente, Massimo Sensi, produttore toscano che ha inserito nella produzione: il Chianti Superiore Docg Vegante: “Ho fatto una etichetta vegana perché pur non essendo vegano ritengo che l'approccio filosofico dei vegani sia rispettoso anche verso l'ambiente e – dice il produttore – A livello scientifico lo stimolo verso un veganismo anche non estremo aiuta ad esplorare nuovi modi per alimentare alcune fasce sociali che sono da millenni troppo radicate su un’alimentazione carnivora. Infatti, ci sono sempre più esperimenti in questo senso per avere a livello sensoriale un gusto più saporito con alimenti vegetariani, segno che la creatività ha anche applicazioni a livello organolettico e stimola ad esplorare nuove frontiere dell'alimentazione”.
Roberto Cipresso: "Non togliamo bellezza al vino"
“Il vino vegano è una moda, e il rischio è che troppa disciplina e rigidità, spinte all’estremo, tolgano bellezza e creatività al vino”: è quanto fa notare Roberto Cipresso, nome autorevole del mondo del vino, enologo di fama mondiale e produttore vitivinicolo a Montalcino nel suo Poggio al Sole, che interviene nel dibattito mettendo al centro il vino. “Quando i mercati arrivano ad essere saturi e la domanda è più bassa dell'offerta, scatta la “strategia dell'oceano blu”: in sintesi per poter competere devi avere e saper proporre progetti e idee autorevoli ed emozionanti che ti portano all'unicità. Questa regola, portata nel mondo del vino, si chiama terroir – dice l’esperto - Abbracciare il mondo dei vini vegani, biologici, biodinamici e tutte quelle realtà in cui si cerca di avvicinare una nicchia, anche per smarcarsi dagli altri concorrenti, è una strategia debole che propone una falsa soluzione. È vero che coinvolgi una parte di pubblico, ma il rischio è che venga mortificata la genialità dell'uomo e l'emotività di un bicchiere di vino capace di raccontare le storie. Sei originale ma non autorevole". Sul futuro dei vini veg Cipresso la pensa come Gerbi: "Qui siamo di fronte a una moda che, come tale, è passeggera”.
Il wine maker entra nel merito della questione: “L'albumina è una sostanza naturale, è vero, è di origine animale, ma se vogliamo andare sul tecnico anche il lievito è una sostanza molto vicina al mondo animale. Se ci infiliamo in queste discussioni, smontiamo tutto, ci allontaniamo dalla poesia. La ricerca di prodotti originali toglie bellezza al mondo del vino, è un impoverimento. E così facendo ci addentriamo in aspetti così leggeri che poco hanno a che fare con la bontà e la salute. Il pericolo è che si crei confusione. La cosa che rende il vino unico è il terroir, e se per raccontare un prodotto devi ricorrere ad argomenti nuovi in modo da conquistare un pezzetto in più di mercato, questo rende fragile il tuo prodotto. Detto questo nel mondo e nel mercato, per fortuna, c’è spazio per tutti”.