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31.1.22

Vino vegano: solo una moda o fa davvero bene al pianeta?

 mah  se  fin ora   la produzione  vinicola  ed  il suo indotto   sono rimasti  in equilibrio  con gli animali   secondo me  si tratta  di  una  moda   anche  se completamente   benefica .
Ora   anche se  come  ho  scritto  più volte    sia  a  contatto   con la  campagna  ( facciamo ancora  l'orto  )  per  il lavoro  che faccio    , ed  ho conosciuto la  civiltà contadina  e   dello stazzo    anche se  nella  sua  fase  terminale  ed  il definitivo  passaggio   ad  un  agricoltura  industriale   non ho solide  basi scientifiche     e  biologiche  rispetto a mio padre  e mio fratello laureati in Agraria  ,   lascio  la  parola   agli esperti  intervistati in  quest  articolo  sotto  riportato  . 

Ma  prima   sempre  da  repubblica  chiariamo   con  questo breve  video di Di Lara Loreti  e  di Martina Tartaglino cos'è  il vino vegano   e  come  riconoscerlo  . 

Negli ultimi anni è cresciuta la domanda di vini vegani. Il trend, forte nell'Europa del Nord, si sta diffondendo anche in Italia, soprattutto tra quella parte della popolazione che adotta un’alimentazione e uno stile di vita veg friendly. Ma che cosa sono i vini vegani e in cosa si differenziano da quelli tradizionali? È una questione di additivi: nel processo di vinificazione è possibile impiegare sostanze di origine animale per rendere il vino limpido e pulito. Ma questi coadiuvanti possono essere sostituiti da sostanze di origine vegetale in modo da rispettare la dieta vegana.





ecco  l'articolo   


 da  https://www.repubblica.it/il-gusto/     del  31\1\2022 

Nel giro di una decina di anni, la richiesta in Italia è aumentata parallelamente al diffondersi dello stile alimentare e della sensibilità green. Tra tendenze, marketing, rispetto dell'ambiente e difesa del pianeta, la parola ai produttori e agli esperti


Farina di piselli al posto dell’albumina; polvere di patate invece della colla di pesce; via la caseina, dentro le proteine dei lieviti; caolino e argilla a volontà. E il vino che c’entra? Non tutti sanno che nel processo di vinificazione si possono utilizzare delle sostanze che servono per la chiarifica, dopo la fermentazione, e per la stabilizzazione del prodotto: si tratta di additivi e coadiuvanti come l’albumina d’uovo, la caseina, la colla d’osso, la colla di pesce e la gelatina, elementi che sono di origine animale. Oggi quasi un italiano su dieci (l'8,2% come emerge dal Rapporto Italia di Eurispes 2021) per motivi etici o di salute, sceglie una dieta vegana: niente carne, pesce, latte e in generale alimenti di derivazione animale, sì ai cibi di origine vegetali. Il vino non fa eccezione. Ed ecco che negli ultimi anni si è diffuso – e la tendenza è in crescita – il cosiddetto vino vegano, all’interno del quale vengono bandite le sostanze di origine animale sia in cantina sia in etichetta (si pensi all'uso di colle animali) sia in vigna. Infatti, i protocolli veg vietano anche l’utilizzo di letame, pollina, stallatico e altri concimi/fertilizzanti ottenuti da allevamenti o sottoprodotti industriali di origine animale (per esempio, farine di sangue, carne, corna, pesce, ecc.), inclusi eventuali prodotti fitosanitari di origine animale. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale nazionale o europea, ma varie società private hanno colmato il gap, buttando giù dei protocolli con regole da rispettare e rilasciando (a pagamento), previ scrupolosi controlli durante l’arco dell’anno, la certificazione da poter esibire sulla bottiglia. Un via libera per i bevitori vegani che così hanno la possibilità di restare in linea con la propria scelta, anche nel calice.


Le prime certificazioni nel 2014, ma c’è chi è veg da 15 anni


Ed ecco che il vino vegano oggi comincia a farsi notare nelle cantine e sugli scaffali di enoteche e supermercati, oltre che nel commercio on line. Le prime etichette si sono affacciate sul mercato italiano meno di dieci anni fa. Tra le prime (se non la prima in assoluta ad essere certificata) c’è la trentina Cantina Aldeno che, a inizio 2014, lancia il suo Pinot Nero 2013 vegan friendly: è un boom. A metà anno ha già venduto tutte le 15mila bottiglie prodotte, addirittura con prenotazioni fino al 2016. Altre cantine seguiranno quell’esempio.

 La prima etichetta certificata vegana nel 2014 dell'azienda trentina Cantina Aldeno 

Ma se fino a qualche anno fa produrre bottiglie veg veniva visto dai più come una scelta originale, a tratti bizzarra, oggi la richiesta di etichette prive di sostanze animali è in crescita, soprattutto all’estero: in Italia si parla ancora di mercato di nicchia, ma il trend è in forte espansione in centro e Nord Europa e negli Usa. In questa fase, per certi versi ancora di esplorazione, i produttori oscillano tra il desiderio di inserirsi concretamente nel solco di chi attua comportamenti che possono giovare alla salute dell’ambiente, e il marketing nudo e crudo di quelle aziende che vogliono cavalcare l’onda verde che ha invaso il globo, facendo leva sull’ecologismo di facciata (o greenwashing).

Raffaele Boscaini, direttore marketing e settima generazione di Masi, Valpolicella 

Al contrario, per molti viticoltori, vegani della prima ora, non si tratta solo una moda, ma un modo di essere, di pensare, di agire. E di tirare fuori dalla cantina un vino più pulito, più integro, più rispettoso dell’ambiente. Una vera rivoluzione che ha a che fare con benessere e salute del pianeta. Qualche esempio? Raffaele Boscaini, settima generazione della famiglia e direttore marketing della cantina della Valpolicella, Masi, spiega come nella sua azienda si producano vini vegani ormai da oltre 15 anni. Esempio di come, in questo ambito - lo sostiene l’enologo e studioso di vino Gianpiero Gerbi - sia nata prima l’offerta e poi la domanda. 

“Masi ha attivato la produzione di vini veg in modo inconsapevole – racconta il manager - senza porsi il problema del veganismo, ma con l’obiettivo di realizzare prodotti più naturali possibili, che non avessero contatti con additivi che potevano alterarne l’integrità come colla di pesce, caseina e albumina, rilasciando delle particelle: il vino è tale se lo lasci più vicino possibile all’uva. E così oggi nella chiarifica e nella stabilizzazione noi usiamo sostanze naturali, derivate da vegetali, rocce e fossili, che hanno stessa capacità di far depositare nel fondo delle cisterne le impurità e le particelle in sospensione, prima e durante la filtrazione del vino. Non c’è nulla di male ad usare componenti animali, ma quando, negli ultimi anni, si è sempre più diffusa la tendenza a evitarli per questioni etiche, noi eravamo già equipaggiati. Per questo nella primavera 2020 ci siamo certificati e, a mano a mano, stiamo cambiando tutte le etichette”. Una volta per Masi era sufficiente rispondere al telefono alle richieste di quei pochi consumatori vegani che si informavano sul rispetto dei principi veg, oggi vista l’impennata della domanda avere la certificazione è diventata una esigenza. “Non ho dati ufficiali, ma posso dire che se dieci anni fa ricevevamo dieci mail o richieste, ora sono minimo un centinaio”, dice il manager. E il gusto? “Al palato non si sentono grosse differenze”, spiega.

Masi, vigneto Monte Piazzo in Valpolicella 

Per Boscaini questa scelta oggi diventa anche sociale, ma non giudica chi non la sposa: “Avere un vino vegano è un’operazione che ha a che fare con inclusività. Noi l’abbiamo fatto in nome di una maggiore qualità e non ci si schiera. Ma se, in questo modo, andiamo incontro a anche chi ha fatto una scelta etica, ben venga. Non è necessario essere integralisti se si soddisfa chi integralista lo è: io produco vino vegano e questo non mi limita nel promuoverlo, se adatto, all’abbinamento con la carne. Sta a chi lo beve fare le sue scelte, in libertà”.
Tra i vegani ante litteram c’è anche Gabriele Baldi, contitolare dell’azienda di famiglia a Costigliole (Asti) che porta il nome del padre, Pierfranco Baldi (di Burio). Nel 2014 Gabriele ha lavorato alla stesura di un protocollo per vino vegano. “Collaborando con un conoscente dello Studio Borio Longo di Igiene e tecnologie alimentari ci siamo accorti che non c’erano delle regole sul vino vegano: e allora perché non farla noi? E così ci siamo rivolti alla Société Générale de Surveillance (SGS), noto gruppo svizzero specializzato in certificazioni, e la nostra è stata un’azienda pilota. Avevamo iniziato poi anche per un motivo pratico: in primis evitare l’uso di chiarificanti di origine animale che sono anche allergeni, cercavamo quindi di evitare prodotti disturbanti per qualcuno, a prescindere dalla dieta vegana. La prima prova l’abbiamo fatta nel 2013 usando i derivati di piselli e patate, e poi allungando l’invecchiamento del vino cosicché potesse raggiungere da solo la stabilità”. Esperimenti che hanno portato a risultati molto interessanti: la qualità del vino non ne risentiva, anzi: “C’è stata differenza peggiorativa solo sulle fecce: questa operazione produce un deposito che può essere filtrato ma stiamo parlando dello scarto, che vale 50-70 cent al litro”, dice il vignaiolo. Il problema è stato più di carattere commerciale. “Abbiamo realizzato 4 etichette certificate vegane nelle vendemmie 2014-15 -16. Ma non abbiamo trovato terreno fertile: a suo tempo, non c’era un gran mercato – racconta Baldi - Oggi il vino lo facciamo allo stesso modo: 60mila bottiglie tutte vegane, abbiamo però abbandonato la certificazione perché è onerosa. Ma i nostri clienti sanno che non usiamo sostanze di origini animali, tra loro c’è anche un ristorante veg torinese, “Idem con patate”, e privati. Chi è interessato al prodotto vegano sulla certificazione è disposto a soprassedere”.  Farina di piselli al posto dell’albumina; polvere di patate invece della colla di pesce; via la caseina, dentro le proteine dei lieviti; caolino e argilla a volontà. E il vino che c’entra? Non tutti sanno che nel processo di vinificazione si possono utilizzare delle sostanze che servono per la chiarifica, dopo la fermentazione, e per la stabilizzazione del prodotto: si tratta di additivi e coadiuvanti come l’albumina d’uovo, la caseina, la colla d’osso, la colla di pesce e la gelatina, elementi che sono di origine animale. Oggi quasi un italiano su dieci (l'8,2% come emerge dal Rapporto Italia di Eurispes 2021) per motivi etici o di salute, sceglie una dieta vegana: niente carne, pesce, latte e in generale alimenti di derivazione animale, sì ai cibi di origine vegetali. Il vino non fa eccezione. Ed ecco che negli ultimi anni si è diffuso – e la tendenza è in crescita – il cosiddetto vino vegano, all’interno del quale vengono bandite le sostanze di origine animale sia in cantina sia in etichetta (si pensi all'uso di colle animali) sia in vigna. Infatti, i protocolli veg vietano anche l’utilizzo di letame, pollina, stallatico e altri concimi/fertilizzanti ottenuti da allevamenti o sottoprodotti industriali di origine animale (per esempio, farine di sangue, carne, corna, pesce, ecc.), inclusi eventuali prodotti fitosanitari di origine animale. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale nazionale o europea, ma varie società private hanno colmato il gap, buttando giù dei protocolli con regole da rispettare e rilasciando (a pagamento), previ scrupolosi controlli durante l’arco dell’anno, la certificazione da poter esibire sulla bottiglia. Un via libera per i bevitori vegani che così hanno la possibilità di restare in linea con la propria scelta, anche nel calice.

Vino vegano: che cosa è e come riconoscerlo

Le prime certificazioni nel 2014, ma c’è chi è veg da 15 anni Ed ecco che il vino vegano oggi comincia a farsi notare nelle cantine e sugli scaffali di enoteche e supermercati, oltre che nel commercio on line. Le prime etichette si sono affacciate sul mercato italiano meno di dieci anni fa. Tra le prime (se non la prima in assoluta ad essere certificata) c’è la trentina Cantina Aldeno che, a inizio 2014, lancia il suo Pinot Nero 2013 vegan friendly: è un boom. A metà anno ha già venduto tutte le 15mila bottiglie prodotte, addirittura con prenotazioni fino al 2016. Altre cantine seguiranno quell’esempio.

 La prima etichetta certificata vegana nel 2014 dell'azienda trentina Cantina Aldeno 

Ma se fino a qualche anno fa produrre bottiglie veg veniva visto dai più come una scelta originale, a tratti bizzarra, oggi la richiesta di etichette prive di sostanze animali è in crescita, soprattutto all’estero: in Italia si parla ancora di mercato di nicchia, ma il trend è in forte espansione in centro e Nord Europa e negli Usa. In questa fase, per certi versi ancora di esplorazione, i produttori oscillano tra il desiderio di inserirsi concretamente nel solco di chi attua comportamenti che possono giovare alla salute dell’ambiente, e il marketing nudo e crudo di quelle aziende che vogliono cavalcare l’onda verde che ha invaso il globo, facendo leva sull’ecologismo di facciata (o greenwashing).

Raffaele Boscaini, direttore marketing e settima generazione di Masi, Valpolicella 

Al contrario, per molti viticoltori, vegani della prima ora, non si tratta solo una moda, ma un modo di essere, di pensare, di agire. E di tirare fuori dalla cantina un vino più pulito, più integro, più rispettoso dell’ambiente. Una vera rivoluzione che ha a che fare con benessere e salute del pianeta. Qualche esempio? Raffaele Boscaini, settima generazione della famiglia e direttore marketing della cantina della Valpolicella, Masi, spiega come nella sua azienda si producano vini vegani ormai da oltre 15 anni. Esempio di come, in questo ambito - lo sostiene l’enologo e studioso di vino Gianpiero Gerbi - sia nata prima l’offerta e poi la domanda.
“Masi ha attivato la produzione di vini veg in modo inconsapevole – racconta il manager - senza porsi il problema del veganismo, ma con l’obiettivo di realizzare prodotti più naturali possibili, che non avessero contatti con additivi che potevano alterarne l’integrità come colla di pesce, caseina e albumina, rilasciando delle particelle: il vino è tale se lo lasci più vicino possibile all’uva. E così oggi nella chiarifica e nella stabilizzazione noi usiamo sostanze naturali, derivate da vegetali, rocce e fossili, che hanno stessa capacità di far depositare nel fondo delle cisterne le impurità e le particelle in sospensione, prima e durante la filtrazione del vino. Non c’è nulla di male ad usare componenti animali, ma quando, negli ultimi anni, si è sempre più diffusa la tendenza a evitarli per questioni etiche, noi eravamo già equipaggiati. Per questo nella primavera 2020 ci siamo certificati e, a mano a mano, stiamo cambiando tutte le etichette”. Una volta per Masi era sufficiente rispondere al telefono alle richieste di quei pochi consumatori vegani che si informavano sul rispetto dei principi veg, oggi vista l’impennata della domanda avere la certificazione è diventata una esigenza. “Non ho dati ufficiali, ma posso dire che se dieci anni fa ricevevamo dieci mail o richieste, ora sono minimo un centinaio”, dice il manager. E il gusto? “Al palato non si sentono grosse differenze”, spiega.

Masi, vigneto Monte Piazzo in Valpolicella 

Per Boscaini questa scelta oggi diventa anche sociale, ma non giudica chi non la sposa: “Avere un vino vegano è un’operazione che ha a che fare con inclusività. Noi l’abbiamo fatto in nome di una maggiore qualità e non ci si schiera. Ma se, in questo modo, andiamo incontro a anche chi ha fatto una scelta etica, ben venga. Non è necessario essere integralisti se si soddisfa chi integralista lo è: io produco vino vegano e questo non mi limita nel promuoverlo, se adatto, all’abbinamento con la carne. Sta a chi lo beve fare le sue scelte, in libertà”.
Tra i vegani ante litteram c’è anche Gabriele Baldi, contitolare dell’azienda di famiglia a Costigliole (Asti) che porta il nome del padre, Pierfranco Baldi (di Burio). Nel 2014 Gabriele ha lavorato alla stesura di un protocollo per vino vegano. “Collaborando con un conoscente dello Studio Borio Longo di Igiene e tecnologie alimentari ci siamo accorti che non c’erano delle regole sul vino vegano: e allora perché non farla noi? E così ci siamo rivolti alla Société Générale de Surveillance (SGS), noto gruppo svizzero specializzato in certificazioni, e la nostra è stata un’azienda pilota. Avevamo iniziato poi anche per un motivo pratico: in primis evitare l’uso di chiarificanti di origine animale che sono anche allergeni, cercavamo quindi di evitare prodotti disturbanti per qualcuno, a prescindere dalla dieta vegana. La prima prova l’abbiamo fatta nel 2013 usando i derivati di piselli e patate, e poi allungando l’invecchiamento del vino cosicché potesse raggiungere da solo la stabilità”. Esperimenti che hanno portato a risultati molto interessanti: la qualità del vino non ne risentiva, anzi: “C’è stata differenza peggiorativa solo sulle fecce: questa operazione produce un deposito che può essere filtrato ma stiamo parlando dello scarto, che vale 50-70 cent al litro”, dice il vignaiolo. Il problema è stato più di carattere commerciale. “Abbiamo realizzato 4 etichette certificate vegane nelle vendemmie 2014-15 -16. Ma non abbiamo trovato terreno fertile: a suo tempo, non c’era un gran mercato – racconta Baldi - Oggi il vino lo facciamo allo stesso modo: 60mila bottiglie tutte vegane, abbiamo però abbandonato la certificazione perché è onerosa. Ma i nostri clienti sanno che non usiamo sostanze di origini animali, tra loro c’è anche un ristorante veg torinese, “Idem con patate”, e privati. Chi è interessato al prodotto vegano sulla certificazione è disposto a soprassedere”. 
Tra vino vegano e vino biologico c’è una relazione?
Non per forza. Ci sono vini convenzionali certificati vegani, vini biologici e vini biologici vegani. “La certificazione bio e quella vegana sono due cose distinte – spiega Gerbi – la gente fa confusione perché la narrazione del veganismo è a tratti confusa. Ma stiamo parlando di due aspetti diversi: il biologico riguarda il tipo coltivazione, il non utilizzo di concimi chimici in vigna e il rispetto della natura, il veganismo invece riguarda l’uso delle sostanze di origini animale nel processo produttivo, che per lo più riguarda la fase della chiarifica”. Quanto al futuro del vino veg, l'esperto ha un'opinione chiara e netta: "Il vino vegano è una moda destinata a non durare".

L'enologo Gianpiero Gerbi 

Non tutti la pensano allo stesso modo e c’è chi porta il dibattito su un piano filosofico. Come Stefano Girelli, vignaiolo trentino titolare delle aziende agricole siciliane, entrambe bio: Cortese Santa Tresa (Vittoria, Ragusa), 230-240mila di bottiglie nei 70 ettari vitati totali. “Essere biologici ti apre una porta in un mondo nuovo: cominci a interpretare il vigneto e a vederlo come un partner non come una cosa da sfruttare. E oggi più che mai l’attenzione si sta spostando sul terreno: mentre una volta ci si concentrava sulla produzione (con rese doppie e triple rispetto a oggi) nel corso degli anni si guarda di più alla qualità. Al centro dell’attenzione c’è il vitigno e il lavoro che si fa in cantina è sempre inferiore perché non deve rovinare ciò che si fa in vigna”. Girelli concentra le sue energie sul nutrimento del terreno e per far questo sperimenta pratiche biodinamiche all’interno della coltivazione biologica.

Il Nero d'Avola dell'azienda Cortese 

“A Santa Tresa, che gestisco da 21 anni, siamo bio da 15 anni: in vigna usiamo favino e non la chimica, poco zolfo e poco rame, e in cantina impieghiamo tecniche che mantengono alta la qualità: in questo arco di tempo ho visto cambiare la qualità dell’uva, la buccia è più spessa e le caratteristiche dell’uva più affini al territorio. Il Nero d’Avola di Cortese (cantina presa nel 2016 già bio) rispecchia le caratteristiche del terreno più calcareo: il vino è muscolare e corposo; a Santa Tresa, dove il suolo è ricco di sabbia rossa con strato calcareo, i vini sono più minerali ed eleganti.

 La terra rossa delle vigne dell'azienda Cortese 

Lo scopo è convivere con l’ambiente e preservarlo, anche perché da noi c’è un microclima pazzesco per la crescita di qualsiasi vegetale”. In questo contesto Girelli 4-5 anni fa cambia registro anche nella stabilizzazione dell’uva, all’interno del processo di vinificazione: via le sostanze animali usate storicamente, dentro proteine vegetali, dalla farina di patata e quella di piselli. “Così facendo abbiamo visto che avevamo stesso risultato con qualità superiore, senza cambiare il vino: il sapore è più autentico, meno raffinato, più vicino alla tipicità varietale, senza essere sfacciati. Ogni volta che filtri e metti additivi togli anche del buono e sottrai naturalezza”, dice Girelli. Ma non è tutto: “Essere vegano non è solo non mangiare carne, vuol dire anche ridurre l’impronta idrica, combattere la deforestazione e tutto ciò che sta intorno alla produzione di carne: fra 30 anni con la popolazione in aumento avremo poca acqua, pochi prati e poche foreste dove vivere. È chiaro che la crudeltà contro gli animali è importante, ma lo è anche il rispetto dell’ambiente. Da quest’anno abbiamo avviato anche la fitodepurazione delle acque in cantina. Cerchiamo di avere meno sprechi: nel corso degli anni ci siamo resi contro che la salinità dell’acqua dei pozzi aumentava. Ora usiamo l’acqua piovana”.

Marina e Stefano Girelli 

Aver eliminato le sostanze di origine animale comporta un aumento di costi intorno al 10%, ma il viticoltore ha eliminato la spesa relativa alla certificazione, pur inserendo l’informazione veg in etichetta: “Noi consideriamo il bollino una moda: al livello europeo non esiste, e così per noi non ha senso”.

Certificazione sì o no? Moda o necessità di informare il consumatore?

La questione della certificazione divide i produttori e c’è chi, pur considerandola una spesa in più, sostiene di poterne più fare a meno perché necessaria per i clienti all’estero. È il caso di Mimmo De Gregorio, direttore tecnico delle Cantine Settesoli/Mandrarossa a Menfi (Agrigento), cooperativa con 200 soci e 6mila ettari vitati (di cui 1,2 in regime biologico e gli altri con coltivazione convenzionale). “Siamo certificati vegani da 3-4 anni, anche se già da un anno avevamo eliminato le sostanze di derivazione animale. La spinta c’è arrivata dal mercato estero dove c’è più attenzione verso questo tipo di consumo, principalmente Inghilterra e Nord Europa, e ora anche Svizzera, Germania, Usa e Giappone”.

Mimmo De Gregorio 

Una cosa sembra certa: presentarsi sul mercato con la certificazione vegana vuol dire darsi una chance in più di vendita. “A parità di categoria e prezzo, generalmente il consumatore preferisce l’etichetta vegana perché è recepita come valore aggiunto anche dai non vegani. Molti pensano: “male non mi fa” – riflette Raffaele Boscaini di Masi - In più, in questo modo abbiamo una finestra aperta sul mondo di chi vuole solo vegano. Sta accadendo un po’ la stessa dinamica che qualche anno fa avveniva col biologico: prima era relegato a una nicchia di consumatori molto attenti, ora s’è aperto a tanti altri consumatori. Del resto, oggi sempre più persone sono portate a dare un’occhiata alle etichette del vino come pure del cibo. Il problema arriva quando si diffondono delle false credenze sulla salute, basta citare l’esempio dell’olio di palma”.

Le vigne di Settesoli  a Menfi (Agrigento) 

E la certificazione è necessaria o è un trend? “Secondo me al momento è un po’ una moda, che non so se passerà o evolverà. Non ne vedo una effettiva esigenza: noi l’abbiamo presa perché ce l’hanno chiesta i distributori in giro per il mondo: in tutto il Nord Europa, soprattutto in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca, i wine lover sono più sensibili, e c’è una buona richiesta di vini veg anche da parte delle compagnie internazionali di volo. In Italia la richiesta riguarda ancora una nicchia. E in generale credo che la certificazione non sia una necessità: sono convinto che il consumatore trovi in una marca ciò che lo fa sentire appartenente e quindi si affida. Se una persona si trova bene con Armani non si chiede se sia sostenibile e/o vegano, gli interessa che gli stia bene, che il capo duri nel tempo e lo faccia sentire meglio. La gran parte dei consumatori si approccia così. A optare per i vini vegani sono soprattutto i giovani che mettono in discussione i paradigmi affermati dei genitori proponendone di nuovi, e che mettono al centro la naturalità”.

Costi un po' più alti 

La certificazione va fatta di anno in anno e ha un prezzo, che per alcune cantine pesa. “Per un’azienda come la nostra da 350mila ettolitri di prodotto all’anno (quindi medio grande) si parte da 3.500 euro annue – dice De Gregorio – Costo a cui si aggiunge l’aumento di circa il 20-30% delle spese legato all’uso di proteine vegetali come sostitute di quelle animali quali albumina, cornunghia e così via. La qualità è rimasta la stessa e così il vino è più intatto”. Nessuno svantaggio?  L’unico sforzo in più l’abbiamo fatto all’inizio – risponde l’esperto siciliano - per raggiungere lo stesso risultato abbiamo dovuto fare delle prove di laboratorio per vedere come il vino reagiva, e alla fine abbiamo constatato che il vantaggio maggiore tecnicamente è che usando sostanze vegetali il vino non viene deturpato. Noi siamo soddisfatti: i clienti apprezzano che il nostro vino sia vegan, le catene della grande distribuzione estere ormai chiedono solo o quasi prodotti vegan. In Italia c’è ancora pochissimo interesse, arriverà, ma molto lentamente. Ma un giovane che oggi mette su un’azienda vitivinicola non può ignorare questa tendenza: deve puntare su biologico e vegano”.

La famiglia Matta fra le vigne ai piedi del Castello di Vicchiomaggio 

Largo ai giovani: approccio a 360 gradi. Dall'Italia a Portorico

Due obiettivi, questi ultimi, che sono dei punti fermi per la giovane produttrice Vittoria Matta, in Chianti Classico, che con i suoi fratelli aiuta il padre John nella gestione dell’azienda di famiglia, nel castello di Vicchiomaggio, attiva dagli anni Settanta e dagli anni Ottanta arricchita anche un agriturismo e un ristorante, tutti gestiti con i principi biologici. In quest’ottica i viticoltori hanno inserito nella produzione un vino veg, il Chianti Classico Riserva Vicchiomaggio Vegan certificato con Bioagricert. Papaveri e fiori di campo nell’etichetta disegnata da una illustratrice. “È vegano dalla vigna al packaging – dice orgogliosa Vittoria Matta – e ne facciamo 6-7mila bottiglie: il costo è di circa 10-15% in più della riserva non vegana a causa dei costi di realizzazione e della certificazione. Tutta l’attività nel vigneto è realizzata usando prodotti bio e non di derivazione animale. Inoltre, nel marzo 2021 siamo entrati nel progetto Viva per le aziende vitivinicole sostenibili, che abbraccia tutte le attività aziendali, ristorante e agriturismo compresi”. Chianti Classico Riserva Vicchiomaggio Vegan è richiesto soprattutto all’estero, Norvegia e Olanda. “Tra i nostri clienti c’è anche Vegan wines, brand californiano che si sta espandendo anche in Portorico perché la proprietaria è portoricana – dice Matta – è un ex wine club che sta diventando una importante società visto il successo dei prodotti vegan”.

Il Chianti Classico Riserva vegano Vicchiomaggio: l'etichetta disegnata da un artista ritrae papaveri e altri fiori di campo 

L'importanza del cibo: le nuove frontiere della tavola

Punta sulle nuove frontiere della alimentazione, oltre che sulla tutela dell’ambiente, Massimo Sensi, produttore toscano che ha inserito nella produzione: il Chianti Superiore Docg Vegante: “Ho fatto una etichetta vegana perché pur non essendo vegano ritengo che l'approccio filosofico dei vegani sia rispettoso anche verso l'ambiente e – dice il produttore – A livello scientifico lo stimolo verso un veganismo anche non estremo aiuta ad esplorare nuovi modi per alimentare alcune fasce sociali che sono da millenni troppo radicate su un’alimentazione carnivora. Infatti, ci sono sempre più esperimenti in questo senso per avere a livello sensoriale un gusto più saporito con alimenti vegetariani, segno che la creatività ha anche applicazioni a livello organolettico e stimola ad esplorare nuove frontiere dell'alimentazione”.

Vegante, il Chianti superiore di Sensi 

Roberto Cipresso: "Non togliamo bellezza al vino"

Il vino vegano è una moda, e il rischio è che troppa disciplina e rigidità, spinte all’estremo, tolgano bellezza e creatività al vino”: è quanto fa notare Roberto Cipresso, nome autorevole del mondo del vino, enologo di fama mondiale e produttore vitivinicolo a Montalcino nel suo Poggio al Sole, che interviene nel dibattito mettendo al centro il vino. “Quando i mercati arrivano ad essere saturi e la domanda è più bassa dell'offerta, scatta la “strategia dell'oceano blu”: in sintesi per poter competere devi avere e saper proporre progetti e idee autorevoli ed emozionanti che ti portano all'unicità. Questa regola, portata nel mondo del vino, si chiama terroir – dice l’esperto - Abbracciare il mondo dei vini vegani, biologici, biodinamici e tutte quelle realtà in cui si cerca di avvicinare una nicchia, anche per smarcarsi dagli altri concorrenti, è una strategia debole che propone una falsa soluzione. È vero che coinvolgi una parte di pubblico, ma il rischio è che venga mortificata la genialità dell'uomo e l'emotività di un bicchiere di vino capace di raccontare le storie. Sei originale ma non autorevole". Sul futuro dei vini veg Cipresso la pensa come Gerbi: "Qui siamo di fronte a una moda che, come tale, è passeggera”.

Il wine maker entra nel merito della questione: “L'albumina è una sostanza naturale, è vero, è di origine animale, ma se vogliamo andare sul tecnico anche il lievito è una sostanza molto vicina al mondo animale. Se ci infiliamo in queste discussioni, smontiamo tutto, ci allontaniamo dalla poesia. La ricerca di prodotti originali toglie bellezza al mondo del vino, è un impoverimento. E così facendo ci addentriamo in aspetti così leggeri che poco hanno a che fare con la bontà e la salute. Il pericolo è che si crei confusione. La cosa che rende il vino unico è il terroir, e se per raccontare un prodotto devi ricorrere ad argomenti nuovi in modo da conquistare un pezzetto in più di mercato, questo rende fragile il tuo prodotto. Detto questo nel mondo e nel mercato, per fortuna, c’è spazio per tutti”.

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