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4.3.25

Diario di bordo n 107 anno Ⅲ. Con la Bulldog Rugby la palla ovale diventa un veicolo di inclusivita ., il romanzo area tempestas di giulio neri fermato da una diffida di una persona che si sarebbe visto troppo simile al protagonista .,

 oggi  martedi  i carnevale  causa   rafreddore  ,  guarderò la  sfilata  da  casa  ,  tanto  partono  vicino quasi sotto casa mia . Con  un po'  d'amarezza   a  non poter   dare  una  mano    alla classe   in una  giornata  campale    della  settimana  \  sei giorni   del carnevale .  Quindi  mi consolo buttando l'occhio   ai carri che  passano , seguendo   sul  web ,  il  processo ed  il  rogo  a  re  giorgio  , e  leggendo  e riportando qui    due  storie   trovate  fra  un carro e  l'altro  alcune storie trovate  in rete  .  La  prima      da  la nuova  del  4\3\2005



La seconda        da quella del 2\3\2025




28.2.25

diario di bordo n 106 anno III - Vince una gara di 166 km… e viene squalificato per le scarpe ! ., Cronaca Naviga In dialisi da 50 anni, il caso a Prato L'ospedale: 'Esempio di tenacia e modello di assistenza., Lea uccisa a 10 anni da un Suv guidato da un ubriaco, i suoi organi salvano 5 bambini. Il guidatore indagato per omicidio stradale

  tra  una  pausa   e  l'altra      fra   le  attivitù  del  comitato   classe76   per  la  festa     cittadina  i  sant  isidoro che   si  tiene  a  settembre    e  la  sei  giorni  di carnevale (  foto a  destra   la  locandina del nostro  evento   per  questo  carnevale )   ecco  a  voi     questo numero   de diario  di  bordo. Le stotrie     sono tratte  dal il  portale msn.it  

Atletica Live

Vince una gara di 166 km… e viene squalificato per le scarpe!

Immaginate di correre per quasi 12 ore, spingendo il vostro corpo oltre ogni limite, e di tagliare il traguardo per primi in una gara massacrante come le 100 miglia degli Stati Uniti, una corsa di 166 chilometri disputata a Henderson, Nevada, il 14 febbraio 2025.
È quello che ha fatto Rajpaul Pannu, (  foto  sotto al  centro  )  ultracorridore californiano sponsorizzato da Hoka, fermando il cronometro a 11 ore, 52 minuti e 46 secondi. Ma la sua vittoria è

durata meno di un giorno: Pannu è stato infatti squalificato per aver indossato scarpe non conformi al regolamento, le Hoka Skyward X, dando il via a una controversia che ha diviso il mondo del running.
Pannu, 33 anni, insegnante di matematica a Denver e non professionista a tempo pieno, ha dominato la gara organizzata da Aravaipa Running e dalla USATF (la federazione statunitense di atletica leggera), finendo con oltre un’ora e mezza di vantaggio sul secondo classificato, Cody Poskin. Il suo tempo non solo ha rappresentato il record personale, ma lo ha collocato come la seconda miglior prestazione statunitense di sempre sulla distanza delle 100 miglia, a poco più di 33 minuti dal primato di Zach Bitter (11:19:13).
Tuttavia, il giorno successivo, un’email della USATF lo ha informato della squalifica: le sue Hoka Skyward X, con un’altezza della suola di 48 millimetri al tallone e 43 millimetri nell’avampiede, superavano il limite massimo fissato a 40 millimetri imposto da World Athletics nel 2020 per le gare su strada.
La vittoria è stata così assegnata a Poskin, che ha chiuso in 13:26:03, mentre il risultato di Pannu è stato “declassato” nella categoria “open race”, privandolo del titolo nazionale e del premio di 1.200 dollari. Gli organizzatori hanno giustificato la decisione su Instagram: “Riconosciamo la prestazione incredibile di Rajpaul, ma come Campionato Nazionale siamo tenuti a rispettare le regole per garantire equità a tutti i partecipanti.”
Pannu non ha cercato scuse, ma ha voluto spiegare l’accaduto. Sul suo profilo Instagram, ha dichiarato: “Non avevo intenzione di infrangere le regole. Pensavo che le Skyward X fossero scarpe da allenamento, troppo pesanti per essere considerate ‘superscarpe’ da gara.” L’atleta aveva testato le scarpe solo il giorno prima della corsa, durante una breve run di 1,5 miglia documentata su Strava, dopo aver sviluppato vesciche e intorpidimento alle dita usando le sue abituali Hoka Rocket X2 (conformi al regolamento) in un allenamento di 50 km a fine gennaio. “Ho scelto il comfort rispetto alla velocità,” ha detto a Runner’s World, notando anche un recupero fisico più rapido post-gara grazie all’ammortizzazione extra.
Curiosamente, nessuno sul posto – né i giudici né i concorrenti – ha sollevato obiezioni durante la gara. La protesta è arrivata da uno spettatore che seguiva la diretta streaming, un dettaglio che ha alimentato il dibattito sulla crescente influenza della tecnologia e del pubblico virtuale nel controllo delle competizioni. Secondo Pannu, l’unico riferimento alle sue scarpe durante la corsa è stato quando un ufficiale USATF ha chiesto al suo team se fossero in commercio (un altro requisito delle regole), ricevendo risposta affermativa.
Le Hoka Skyward X, descritte da GearJunkie come “scarpe da allenamento con un’imponente suola da 48 millimetri che cattura l’attenzione degli amanti delle calzature ammortizzate,” non sono progettate per la pura velocità come le “super shoes” da gara. Pesano 320 grammi contro i 236 delle Rocket X2, e Hoka le promuove come ideali per “chilometri facili” e comfort quotidiano. Pannu ha sostenuto che non offrano un vantaggio prestazionale significativo, ma che l’ammortizzazione extra abbia ridotto la fatica percepita, un aspetto cruciale in una gara di endurance.
Le norme di World Athletics, introdotte per bilanciare tecnologia e talento, hanno però un limite chiaro: 40 millimetri. E le Skyward X, con i loro 8 millimetri di troppo al tallone, sono finite nel mirino. Esperti come Theo Kahler di Runner’s World sottolineano che anche piccole differenze nell’altezza della suola possono influire sull’assorbimento degli impatti e sulla propulsione, offrendo un vantaggio teorico su distanze così lunghe.
La squalifica ha suscitato ovviamente reazioni contrastanti. Alcuni, come riportato da Canadian Running Magazine, apprezzano la rigidità delle regole per garantire parità; altri, tra i fan sui social, la considerano eccessiva per un errore non intenzionale. Pannu, che si allena da solo senza un allenatore, ha scelto di non fare appello, pur avendone avuto l’opportunità. “Non seguo da vicino gli sviluppi tecnologici delle scarpe,” ha ammesso, suggerendo che un controllo pre-gara, come avviene nelle migliori maratone o nelle competizioni universitarie, potrebbe evitare simili situazioni.

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Ansa


Da 50 anni è in trattamento emodialitico sostitutivo, nel Centro dialisi dell'ospedale di Prato.L'uomo, oggi 66 anni, pensionato, originario di Firenze e residente a Prato, "ha iniziato questo difficile percorso terapeutico, perché affetto da una malattia renale che lo ha condotto alla terapia sostitutiva dialitica in pochi anni", spiega la Asl Toscana centro rendendo noto il suo caso.
Un esempio di tenacia e un modello di assistenza di cui siamo orgogliosi. 50 anni di emodialisi: un traguardo straordinario di cura e determinazione", afferma Gesualdo Campolo, direttore della struttura di nefrologia e dialisi dell'ospedale pratese: il paziente ha dimostrato "una forza straordinaria e una grande
capacità di adattamento".
In questi giorni i sanitari e 'gli Amici della Dialisi' hanno festeggiato il "notevole traguardo" raggiunto dal 66enne con grande affetto e con una targa con la frase, voluta dal paziente stesso: 'La vita è stata dura con me...ma Io lo sono stato di più con Lei'.
"Il paziente - spiega Campolo -, dopo due tentativi di trapianto renale, non andati a buon fine diversi anni fa, ha scelto di continuare a sottoporsi alla dialisi, affrontando con determinazione tre sedute settimanali per quattro ore ciascuna.
Un percorso che evidenzia non solo la sua eccezionale resilienza, ma anche l'elevato livello di assistenza e cura multidisciplinare garantito dal nostro team di nefrologi, infermieri, operatori sanitari e altri professionisti". Un risultato, evidenzia poi la Asl, che "sottolinea l'importanza di un approccio globale alla cura del paziente cronico, con risposte efficaci ai bisogni di salute, sia renali che extra-renali".
Il Centro di dialisi di Prato gestisce circa 180 pazienti sottoposti a trattamento emodialitico sostitutivo, con due turni giornalieri (mattino e pomeriggio) dal lunedì al sabato.
A tutt'oggi venti pazienti sono sottoposti a trattamento dialitico peritoneale domiciliare, seguiti da un team medico-infermieristico dedicato.
In fase di attivazione poi un progetto di 'dialisi peritoneale assistita': prevede l'impiego a domicilio di personale infermieristico per la gestione/trattamento di questi pazienti a casa.
Il progetto è già esecutivo e partirà tra qualche settimana, con l'addestramento alla dialisi peritoneale degli infermieri di famiglia presso il Centro dialisi pratese.Un'attività dialitica domiciliare, si spiega ancora, che "permetterà un incremento del numero di pazienti che si sottoporranno a tale terapia sostitutiva, rafforzando ancor più la nostra mission della 'domiciliarità delle cure'.


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Corriere Adriatico

Lea uccisa a 10 anni da un Suv guidato da un ubriaco, i suoi organi salvano 5 bambini. Il guidatore indagato per omicidio stradale

Il suo sorriso è stato spento a soli 10 anni, ma Lea Stevanovic continuerà a vivere attraverso i cinque bambini ai quali i suoi organi hanno permesso di continuare a sperare per un domani migliore. La decisione è stata presa dai genitori della piccola travolta e uccisa in un parcheggio da un Suv guidato da un uomo risultato ubriaco domenica 16 febbraio a Creazzo (Vicenza). Il funerale della piccola Lea si terrà sabato 1 marzo in Serbia, paese d'origine della famiglia che viveva ad Altavilla Vicentina. Per quel giorno però nel comune di residenza sarà lutto cittadino.
Omicidio stradale
Lea Stevanovic, che frequentava la quarta elementare, dopo l'incidente è rimasta ricoverata per tre giorni nel reparto di terapia intensiva pediatrica dell'ospedale San Bortolo di Vicenza. Poi il decesso a seguito dei traumi riportati. La tragedia ha scosso l'intera comunità, tanto che per giorni si sono susseguite veglie e preghiere per mostrare la vicinanza alla famiglia. Nel frattempo la Procura di Vicenza ha iscritto sul registro degli indagati per omicidio stradale aggravato l'automobilista 50enne vicentino che ha provocato l'incidente, risultato positivo all'alcoltest con un tasso alcolemico superiore a 1.5.

23.2.25

L'ex campione di motocross Toccaceli: «Paralizzato dal collo in giù a 23 anni: uso il joystick col fiato. E faccio il coach per Valentino Rossi»

dopo il  post    su L'Heysel  ed  il  ricordo   di  chi c'era   sia  come  giocatore  sia  come  tifoso   , ecco  un altra  storia     che  unisce  sport  e    disabilità. La storia  dell'ex campione di motocross Bryan Toccaceli  ora paralizzato   dal  collo  in  giù .Ma  che ha  mantenuto intatta la  passione  e efa  il coache  per  Valentino 


L'ex campione di motocross Toccaceli

Cosa sta ascoltando?

«Cremonini, il nuovo cd. Mi piace molto, sto facendo un ripasso generale delle ultime canzoni perché a giugno andrò al concerto. Non ero mai riuscito a trovare il biglietto, per noi persone con disabilità ce ne sono sempre pochi».

Bryan Toccaceli abbassa il volume per farsi sentire meglio. Lo fa senza alzarsi e senza muovere un braccio o un dito. Non può, il suo corpo è completamente paralizzato dal collo in giù, è così da quando aveva 23 anni: «Ne sono passati già sette dall’incidente, mi sembra ieri. Era l’1 maggio, il giorno prima del mio compleanno».

Campione di motocross, poi cosa è successo?

«Ero passato all’enduro, la domenica avrei avuto la prima gara del campionato italiano. Quel giorno era festa e la mattina andai ad allenarmi insieme ai miei amici. Succede che la moto si spegne. La spingiamo fuori dal bosco, la porto a casa, la smonto e cambio tutto quello che potevo cambiare. Era saltato un fusibile, lo sostituisco».

E poi?

«Faccio qualche giro di prova intorno a casa, la moto andava bene. Vado al crossodromo di Baldasserona per capire se avrebbe risposto bene ai salti e alle vibrazioni. Arrivo alla pista, faccio un paio di giri. Sembra tutto a posto. "cavolo, stamani non mi sono allenato. Già che ci sono faccio qualche manche", mi dico. Rientro, faccio il primo giro. Ma a metà del secondo, durante un salto, la moto si spegne di nuovo. Improvvisamente».

Da lì cosa ricorda?

«Una volta a terra non riuscivo più a respirare. Mi sono agitato molto, un amico si avvicinò prendendomi la mano. "Stringila, stanno arrivando i soccorsi”. Ci provavo, ma non riuscivo. Da lì il buio».

Quando riapre gli occhi?

«Cinque giorni dopo, al Bufalini di Cesena. Mi avevano sedato, avevo avuto degli arresti cardiaci. Poi due operazioni e i problemi di respirazione. Per i dottori sarei dovuto restare per sempre attaccato all'ossigeno, ma mi imposi. "Non lo voglio più". E oggi è solo un ricordo». 

Quando ha realizzato che non si sarebbe più mosso?

«All’inizio pensavo si trattasse di una frattura che si sarebbe risistemata. In fin dei conti avevo diversi amici sulla sedia a rotelle. "Loro le braccia le muovono, guidano le macchine, fanno tante altre cose”, pensavo. Spronavo i dottori ad aumentare le ore di palestra illudendomi che sarebbe servito a qualcosa. Loro hanno cercato di farmelo capire giorno dopo giorno: "Bryan, hai una lesione completa del midollo”. Muovo solo un po’ le spalle, ogni tanto mi chiedo. "Perché a me? Perché così tanto?"».

Tanti piloti le sono stati vicino, compreso Valentino Rossi.

«In molti sono venuti a trovarmi e anche lui si era informato per farlo in modo segreto, così da evitare la calca. Ma decideva un orario e dopo mezz’ora lo sapeva già tutto l’ospedale. Quindi organizzò un grande pranzo a casa sua».

Oggi lavora per lui.

«Nel 2021 mi chiamò. "Ti andrebbe di diventare il coach della VR46 Academy?". Lo andavo a vedere spesso quando coi suoi allievi girava al Ranch di Tavullia. Sono tutti appassionati di motocross e il mio compito consiste nell’aiutarli nell’impostazione di guida e non solo. Ma ne hanno poco bisogno, si vede che sono dei professionisti. Hanno una maniacalità nel setup della moto fuori dal normale. Anche alla PlayStation».

Alla PlayStation?

«Col primo joystick usavo il mento, poi ne ho ordinato uno più avanzato dall'America e con la bocca cambio le marce. Poi invece dei tasti uso il fiato: soffio per una cosa, doppio soffio per un'altra e così via. Sfido Valentino, Pasini e Mauro Sanchini ad IRacing, un simulatore di guida. Girano forte, è tosta. Ogni tanto faccio da tappo, ma non mi faccio passare». 

Cosa le manca della vita di prima?

«Le moto erano diventate una pugnalata, oggi le guardo con più leggerezza. Mi sentivo osservato, ma ci ho fatto l’abitudine. Il dipendere da altri mi fa arrabbiare. “Mi puoi grattare il naso?”, all’inizio lo chiedevo solo ai miei genitori. Se avevo bisogno di bere un sorso d’acqua ed ero solo coi miei amici, piuttosto restavo a secco».

Ha ereditato la passione per i motori da suo padre. Si è mai sentito in colpa per quello che è successo?

«Il fatto che abbia reagito bene fin da subito lo ha aiutato. E poi chi sceglie di correre sa sempre che quando scende in pista potrebbe essere l’ultima volta».

E lei si sente mai in colpa nei confronti dei suoi genitori?

«Ho stravolto la loro vita. Potevano fare viaggi, andare in vacanza. Invece devono restare a casa per me e io a questa cosa ci penso, non c’è niente da fare. Mia mamma faceva la cuoca nelle scuole, poi è stata quattro anni con me grazie alle ferie solidali di colleghi e amici. Ora è tornata a lavorare, mentre papà – gommista – è andato in pensione».

Il 2 maggio farà 30 anni.

«Ogni 1 maggio mi incupisco, guardo le lancette dell’orologio e con la testa torno al momento dell’incidente. Ma i miei amici bussano, entrano in casa e mi portano via di peso. "Tanto non puoi opporre resistenza", scherzano. Da poco siamo stati a un addio al celibato a Barcellona, è stato il mio primo viaggio sulla sedia a rotelle».

E l’amore?

«Ci credo ancora ma non ne sento la mancanza. Una volta pensavo di dover avere tutto per essere felice, oggi anche una chiacchierata a casa mi fa stare bene».

È vero che ama i bambini?

«Sogno di aprire una scuola per giovani piloti, mi sono anche informato per prendere il patentino da istruttore. Prima dell’incidente avevo già avuto un’esperienza simile, quando li vedevo agitati prima delle gare mi piaceva tranquillizzarli. Purtroppo il mio incidente ha spaventato un po’ tutti, in molti hanno venduto le loro moto».

E suo figlio lo metterebbe su una moto?

«Sì, perché mi ha fatto vivere emozioni bellissime». 

16.11.24

Meloni e company facessero leggi più serie anzichè Vietare le parole «handicappato» e «diversamente abile» nei documenti ufficiali. un linguaggio più inclusivo non si fa per via legislativa

  se invece  di  fare  una legge  per una   cosa di poco conto   visto che  la  sostanza  non cambia 

 facessero leggi più  serie   o  almeno modificasero quelle esistenti , dato che    da quanto dice  il fondatore Nico Acampora,  il fondatore  di  PizzAut, il fondatore Nico Acampora: "Alcune aziende preferiscono pagare multe piuttosto che assumere una persona disabile": "Alcune aziende preferiscono pagare multe piuttosto che assumere una persona disabile"
Ora  secondo  la legge  proposta  dal governo Meloni  tutte le amministrazioni pubbliche dovranno adottare una nuova terminologia per le persone con disabilità: ecco quali parole devono cambiare e come mai.
Addio quindi  ai termini «handicappato» o «diversamente abile». È tempo di adottare un linguaggio rispettoso e inclusivo quando si parla e si scrive di persone con disabilità, affinché vengano evitate espressioni considerate obsolete o stigmatizzanti, a favore di altre che rispecchino il valore della dignità e della diversità umana. È l’invito contenuto ,  da quanto riporta  quest articolo  <<  Vietate le parole «handicappato» e «diversamente abile» nei documenti ufficiali: perché il governo Meloni sceglie un linguaggio inclusivo per la disabilità>> di  open , in una recente nota dell’ufficio di gabinetto del ministero per le Disabilità, che sollecita ad aggiornare e uniformare la terminologia ufficiale delle amministrazioni pubbliche. Si tratta di un aggiornamento che fa capo all’articolo 4 del Decreto legislativo n. 62 del 2024 (entrato in vigore il 30 giugno) e interessa sia la comunicazione istituzionale (comunicati stampa, siti web, documentazione informativa) sia l’attività amministrativa vera e propria, come decreti, provvedimenti o modulistica.
I termini da cambiare
Nella nota vengono indicate le seguenti modifiche:

«Handicap» viene sostituito da «condizione di disabilità» in tutti i documenti ufficiali.
Termini come «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile» vengono unificati in «persona con disabilità».
Le espressioni «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità» sono sostituite da «con necessità di sostegno elevato o molto elevato».
Infine, «disabile grave» diventa «persona con necessità di sostegno intensivo».
Perché usare «persona con disabilità» invece di «disabile»

Perché usare l’espressione «persona con disabilità» invece di «disabile» o «handicappato»? La differenza principale sta nel fatto che, nel primo caso, si mette al centro la persona, mentre negli altri due si rischia di ridurre l’individuo alla sua disabilità. L’obiettivo di queste modifiche linguistiche è quindi di spostare l’attenzione sulla persona, piuttosto che sulla sua condizione, per evitare che venga etichettata unicamente in base alla disabilità. Si tratta di un approccio che promuove un linguaggio che rispetta e valorizza la dignità e la complessità di ogni individuo. Sebbene la modifica del linguaggio possa sembrare un cambiamento puramente formale, in realtà riflette una visione più moderna e inclusiva della società, che ora sta trovando spazio anche negli ambienti istituzionali. 
Un cambio di rotta del governo?
Si tratta di una mossa apparentemente dissonante nella linea adottata finora dalla maggioranza di governo, che alle sollecitazioni sulla necessità di utilizzare un linguaggio più inclusivo, ha più volte risposto in modo respingente. La premier stessa ha scelto di farsi chiamare «Il presidente», rifiutando l’utilizzo di «la presidente». La scorsa estate, il senatore della Lega Manfredi Potenti ha presentato un disegno di legge per vietare l’uso di termini femminili come «sindaca», «questora», «avvocatessa» e «rettrice» negli atti pubblici, sostenendo che il maschile universale dovesse prevalere in tutti i contesti ufficiali, pena sanzioni. E, solo pochi giorni fa, Meloni ha dichiarato: «Alcune femministe credono che la parità di genere si realizzi declinando titoli al femminile». Eppure, quando si parla di disabilità, il governo sceglie una strada diversa, più soft e meno controversa.
Forse un cambio di rotta o, più probabilmente, una mossa dettata dal fatto che il tema della disabilità è percepito come meno divisivo e, ad esempio, meno polarizzante rispetto alla questione di genere. In altre parole, parlare di linguaggio inclusivo per le persone con disabilità non solleva le stesse tensioni politiche e culturali che, invece, si accendono quando si discute della parità di genere. La disabilità continua ad essere erroneamente vista come una questione semplicemente di rispetto, mentre il tema della parità di genere sfida direttamente gli equilibri di potere esistenti. Sorge dunque spontaneo chiedersi se questo intervento faccia parte di un reale cambiamento di paradigma, o se si tratti semplicemente di un tentativo di presentarsi come inclusivi su un tema che, al momento, non scotta come altri. 

Anche    se  come ho spiegato dal titolo   lo reputo assurdo che ci voglia  una legge dello stato  per tale cambiamenti  , fare un  circolare   era meglio . Ciò non toglie, che la revisione della terminologia sui temi della disabilità rappresenti un passo avanti e un segno di civiltà   anche se  formale  

1.9.24

uno degli inventori dello sport e dei giochi paraolimpici era il reduce della II guerra mondiale Giovanni pische

Giovanni Pische al centro in carrozzina, Gianni Minà è il primo a sinistra


Oggi voglio  raccontare    tra le  storie olimpiche  ( ma  non solo  ) .  Purtroppo  in quanto l'articolo   della  nuova sardegna  odierna    in cui  si parla    di  lui ,    nella    online  è  a  pagamento  ,    e non  ho voglia  di € per un articolo   quando  se  ne  parla  in altri siti . Comunque  polemica  a    a  parte  è  grazie   al web   che   ho  scoperto  anzi  riscoperto     in quanto    ne  avevo sentito  parlare    da  bambino    in famiglia   ed   letto   qualcosa  quando  s'inzio   a parlare    di queli che ora  sono  , anche se  anncora   c'è molta  strada  da  fare     , dei giochi paraolimpici . 

  da    <<  Giovanni Pische maestro di vita >> di lacanas.it 


Egli    fu   un  maestro di vita. Con queste parole il noto giornalista Gianni Minà definiva Giovanni Pische. Manon solo Minà, tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo hanno potuto apprezzare le sue doti umane.

Giovanni Pische nasce a Santu Lussurgiu nel mese di febbraio del 1921. Da ragazzo impara a nuotare nel rio Sos Molinos (in su foiu de tiu Pane Dente), e gioca come portiere nella locale squadra di calcio. Un ragazzo pieno di vitalità e di amicizia per tutti, giovani e vecchi.
A diciott’anni si arruola nell’Aeronautica Militare e partecipa alla seconda guerra mondiale come marconista di bordo. Il 14 giugno del 1943 il suo aereo viene abbattuto in un conflitto con due caccia inglesi. Si ritrova così in mare, ferito, aggrappato all’ala del suo aereo. Per sei ore lotta tra le onde, in quell’acqua che era da sempre il suo elemento vitale, sino a quando alcuni pescatori di Carloforte lo traggono in salvo.

Giovanni Pische sopravvive ma le ferite riportate lo rendono paraplegico, costringendolo sulla sedia a rotelle per tutto il resto della sua vita. Inizia una lunga serie di cure e trasferimenti da un ospedale all’altro sino ad approdare alla clinica Santa Lucia di Roma. Qui inizia una seria terapia riabilitativa e riprende a nuotare.
Nel 1961 partecipa ai Giochi Internazionali di Stoke Mandeville dove conquista una medaglia d’oro. Tre anni più tardi conquista una medaglia di bronzo alle Olimpiadi per paraplegici di Tokyo in seguito alla quale viene insignito dell’onorificenza di Gran Cavaliere della Repubblica.
Ma nella vita di Giovanni Pische non c’è solo lo sport. Al primo posto mette sicuramente l’impegno a favore delle persone sfortunate come lui (fu il fondatrore dell’Associazione nazionale tutela handicappati e invalidi). Ludwig Guttmann, creatore del Centro per le malattie spinali di Stoke Mandeville (Inghilterra), lo vuole nel Consiglio mondiale dello sport per paraplegici. Grazie alle sue tante battaglie civili i disabili possono oggi guidare l’automobile. Con l’aiuto di altre persone e di  qualche politico Giovanni Pische è riuscito a portare lo sport per diversamente abili in Sardegna.


Altro interesse di Giovanni Pische era la poesia. Nella sua vita, terminata immaturamente a sessantasei

anni ha scritto numerose poesie, alcune delle quali raccolte e pubblicate da Gastaldi Editore in un volumetto dal titolo ”Gocce del mio sangue”.
Nel 1999 Santu Lussurgiu ha voluto perpetuare la memoria di Giovanni Pische intitolandogli la nuova palestra comunale. La cerimonia di inaugurazione ha visto tra gli altri la presenza di Gianni Minà, grande amico di Pische, e Carmelo Addaris atleta paraplegico di Cagliari plurimedagliato alle Olimpiadi per paraplegici di Toronto nel 1976, anche lui amico di Giovanni.
Nel 2000 l’Associazione Culturale Elighes Uttiosos di Santu Lussurgiu ha raccolto e pubblicato altre sue poesie nel libro ”Sul Sentiero delle Stelle”, titolo tratto da una delle sue più belle poesie: L’approdo.Anche se la maggior parte della sua vita è trascorsa lontano dalla Sardegna, non ha mai dimenticato la sua terra e tornava frequentemente a Santu Lussurgiu, alla casa dei suoi genitori in Sa Carrela ’e Nanti, dove amava assistere come faceva da bambino alle corse dei cavalli carnascialesche. Quest’uomo, Giovanni Pische, questo maestro di vita, questo poeta, questo sportivo, forse sconosciuto alla maggioranza dei sardi, merita un posto tra i sardi illustri, tra quelli che si sono distinti nella loro vita per l’impegno sociale a favore degli altri, dei più sfortunati, per il suo impegno nello sport come atleta, come dirigente e organizzatore, nella cultura con la sua poesia e con la sua prosa fatta di racconti autobiografici, per i suoi rapporti umani con tutti, dai più grandi ai più umili.Nel suo racconto L’aquilotto ferito scritto nel ’49, narra i tragici momenti del suo ferimento: ”Il fedele aereo, benché anche lui  ferito a morte, lottava nell’azzurro spazio, voleva a tutti i costi ritornare al suo nido, e riportare l’aquilotto nella sua patria per ridargli la vita. (…) Quando tutto sembrava perduto e lentamente s’inabissava nei flutti, urtò in qualcosa di duro, istintivamente si aggrappò e fu la sua salvezza. Il fedele aereo ancora una volta gli diede aiuto, gli porse la sua ala infranta, gli ridonò la vita.(…)  – Coraggio, aquilotto ferito, mio fedele amico non disperare, tutto non è ancora perduto se in te rimane la fede.-  (…) L’aereo lentamente si inabissò nei flutti solo l’ala galleggiò ancora per ridare alla vita, alla sua terra il giovane aviatore. (…)
Giovanni Pische è morto a Bordighera nel 1987 e riposa nel cimitero di Santu Lussurgiu, il suo paese natale.

La  sua memoria  è  ancora  viva  .  in quanto   dalle memorie  dei nonni e  prozii   oltre   che  quelle  dei  miei   genitori    ne deduco    che  Giovanni Pische amava la vita anche se il destino gli aveva riservato un tiro mancino. Era un uomo di grande spirito, risoluto, con una straordinaria energia vitale.  Infatti leggo  su  

 l'unione  sarda 24 luglio 2024 alle 17:38

Il suo candido sorriso è un ricordo indelebile che affonda nei cuori dei Lussurgesi e di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Sebbene fosse costretto tutta la vita in carrozzina, per un incidente aereo durante la seconda guerra mondiale, Pische aveva sempre un sorriso da regalare a tutti, un sorriso pieno di speranza, che infondeva coraggio.Era un grande atleta, un ottimo nuotatore. Proprio grazie alla terapia riabilitativa alla clinica Santa Lucia a Roma affinò la sua abilità acquatica che gli fece vincere i Giochi Internazionali di Stoke Mandeville in Inghilterra nel 1961 e tre anni più tardi il bronzo alle Paralimpiadi di Tokyo (1964), per cui ottenne il titolo di Gran Cavaliere della Repubblica per meriti sportivi.La sofferenza gli è stata sempre accanto però mai ha intaccato il suo spirito volitivo, il suo sorriso e le sue opere in favore dei più deboli di questa società che non aspetta chi ha difficoltà. La sua è una storia fatta di impegno verso gli altri e orientata al recupero dei disabili attraverso lo sport ma non solo. La sua figura rimarrà per sempre impressa nella comunità lussurgese, che infatti lo ricorderà venerdì 26 luglio nel centro di Cultura Popolare alle 18.30, attraverso le pagine del bel libro “Giovanni Pische, eroe, atleta, maestro di vita”, scritto a quattro mani da due lussurgesi che sempre lo hanno serbato nel cuore: Bachisio Serra e Francesca Manca. È un'antologia di ricordi, articoli di giornale, racconti degli amici e delle toccanti testimonianze degli atleti che sono stati cresciuti da Pische nel centro di Santa Lucia a Roma: Giuseppe Trieste, Claudio Tombolini, MariaPia Vezzaro e Roberto Valori.Una vita al servizio degli altri, un impegno sociale di grande valore e poca pubblicità. Se i paraplegici oggi possono guidare l’automobile è merito suo. Pische fu il fondatore dell’Associazione nazionale tutela handicappati e invalidi. Ludwig Guttmann, creatore del Centro per le malattie spinali di Stoke Mandeville, lo volle fortemente nel Consiglio mondiale dello sport per paraplegici. Con l’aiuto di uomini e di alcuni politici illuminati Giovanni Pische riuscì a portare lo sport per diversamente abili anche in Sardegna. Gianni Minà, suo grande amico, ricordava di lui: «ci insegnò ad avere interessi per quella che non doveva essere una vita banale. Un maestro di vita, è stato un italiano importante, un vero italiano di cui andare orgogliosi». Non solo Minà, tutti quelli che lo hanno conosciuto hanno potuto apprezzare le sue incomparabili doti umane.I due autori hanno voluto perpetuare la sua memoria intitolandogli la nuova palestra comunale nel 1999 quando erano amministratori del Comune. La cerimonia di inaugurazione vide, tra gli altri, la partecipazione di Gianni Minà e di Carmelo Addaris, atleta paraplegico di Cagliari plurimedagliato alle Olimpiadi di Toronto nel 1976, grande amico di Pische.





31.8.24

paraolimpiadi 20024 : quale linguaggio usare . amore in gara e nella vita , rifugiati , politica , ed altre storie

vedendo sia indiretta che in differita le gare delle paraolimpiadi mi chiedo quali espressioni , in questo mondo ricco di umanità, usare o non usare o cancellare al mio vocabolario frasi come handicappato, invalido, disabile, diversamente abile, meglio persona con disabilità... .
Ma sopratutto come parlare Come parlare delle donne e dei transgender \ lgbtq alle Olimpiadi senza sembrare un viscido retrogrado.Credo  che  proverò  a seguire quanto    consigliato  da  questi  due   articoli     che     ho  trovato   cercando  una riuspostra   al mio  dubbio  in rete   : <<   Paralimpici, via ai Giochi: quali parole usare. >>  da  La Gazzetta dello Sport   sule  paraolimpiadi    di Rio   se   ho letto   bene  e   un altro articolo molto interessante << Disabili o diversamente abili : cosa usare per parlare di disabilità?>>  da  disablog.it    in sintesi se  ho ben  capito ecco  evitare le parole passive e vittimistiche. Usare un linguaggio che rispetti le persone disabili come individui attivi con controllo sulla propria vita. Ecco un elenco delle parole da evitare e la loro terminologia corretta:
  • Da evitare: Handicappato, disabile; da usare: persone disabili.
  • Da evitare: afflitto da, soffre di, vittima di; da usare: ha (seguito dal tipo di disabilità).
  • Da evitare: confinato su una sedia a rotelle, relegato su sedia a rotelle; da usare: utente su sedia a rotelle.
  • Da evitare: handicappato mentale, mentalmente carente, ritardato, subnormale; da usare: con difficoltà di apprendimento.
  • Da evitare: paralizzato, invalido; da usare: persona con disabilità o persona disabile.
  • Da evitare: spastico o spastica; da usare: persona con paralisi cerebrale.
  • Da evitare: malato di mente, pazzo; da usare: persona con una condizione di salute mentale.
  • Da evitare: sordo e muto, sordomuto; da usare: sordo, persona con problemi di udito.
  • Da evitare: cieco; da usare: persone con disabilità visive, persone cieche, persone non vedenti e ipovedenti.
  • Da evitare: un epilettico, un diabetico, un depresso e così via; da usare: persona con epilessia, diabete, depressione o qualcuno con epilessia, diabete, depressione.
  • Da evitare: nano; da usare: qualcuno con crescita limitata o bassa statura.

Dopo    queste  precisazioni Eccoci  al il terzo giorno di Paralimpiadi .
Se vi era già venuta nostalgia delle nazionali italiane di pallavolo, soprattutto  quella  femminile,da ieri ne  abbiamo un'altra da seguire e  a  cui eventualmente appassionarci una  squadra molto detterminata  ed 
combattiva   visto  che ha  sconfitto  quella  Francese    per   tre set  a  0  . 
 In questi  giorni    si stanno svolgendo   anche le  gare  In questi giorni pieni di gare di atletica leggera forse qualcuno si sarà chiesto: perché “leggera”? Serve a distinguerla da altri tipi di atletica? C'è un'atletica pesante? In effetti sì, o almeno c'era: fino a qualche decennio fa infatti a livello internazionale gli sport di lotta e il sollevamento pesi erano gestiti da un'unica federazione di atletica pesante, che peraltro in Italia ha ancora una rappresentanza  rispetto a  gli altri paesi europei  . Infatti  Le Olimpiadi moderne si ispirarono ai Giochi dell'antica Grecia, in cui erano previste sia gare di lotta che di sollevamento pesi: tutte le gare che erano state ispirate a quel modello vennero comprese nella definizione di atletica, che poi si distinse in “leggera” e “pesante”: non è comunque così sorprendente che si usi la parola “atletica” anche per questi sport, visto che viene dal greco antico athlos, che significa proprio “lotta”, “combattimento”. Nel corso del Novecento le discipline dell'atletica pesante si organizzarono in federazioni distinte e quindi si smise di chiamarle con quell'unica definizione. Oggi la distinzione tra “leggera” e “pesante” di fatto non è più rilevante .



 dalla  newsletter  paris   de  ilpost.it




La partenza della finale dei 100 metri maschili T47 disputata ieri, tra le gare d'atletica (David Ramos/Getty Images)


Un po' troppo entusiasmo allo Stade de France

In diverse discipline per ciechi alle Paralimpiadi – ne avevamo già parlato – c'è bisogno che il pubblico faccia silenzio: tra queste c'è anche il salto in lungo, dove ogni saltatore o saltatrice ha una guida posizionata in prossimità della buca con la sabbia che dà un'indicazione sonora per far capire dove l'atleta deve indirizzare la corsa. Ciascuno ha un suo metodo: ci sono guide che battono solo le mani, altre che danno indicazioni con la voce e altre ancora che fanno entrambe le cose. La guida dell'italoalbanese Arjola Dedaj, per esempio, dice molte volte «vai!».
Più l'atleta si avvicina al punto in cui deve saltare, più la guida aumenta il ritmo del segnale acustico per farle aumentare anche il ritmo della corsa. La guida deve poi spostarsi in tempo dalla traiettoria di corsa per evitare che l'atleta le finisca addosso (alcune lo fanno molto all'ultimo momento).
Ieri durante la finale femminile della categoria T11 (che è appunto quella per saltatrici cieche) tutte queste operazioni sono state molto complicate: il pubblico dello Stade de France – dove si svolgono le gare – era molto esaltato per l'atletica, pure troppo, e faceva un gran rumore anche nei momenti in cui si chiedeva silenzio. Il personale sugli spalti non riusciva a zittire le persone, e alcune atlete hanno dovuto aspettare molto tempo prima di ogni salto. È stato forse il primo grande intoppo organizzativo di queste Paralimpiadi.
Arjola Dedaj è stata tra le atlete penalizzate da questa situazione e a tratti è sembrata piuttosto sconfortata. Alla fine è arrivata quarta con un salto di 4,75 metri, a un centimetro dal terzo posto: un ottimo risultato soprattutto se si considera che ha 42 anni e questa sarà con ogni probabilità la sua ultima Paralimpiade. Nelle sue gare Dedaj è spesso tra le più fotografate per via delle eccentriche mascherine che indossa sugli occhi: tutte le saltatrici cieche ne hanno una, ma nella gran parte dei casi sono oggetti del tutto anonimi. Ieri ne aveva una a forma di farfalla che è molto piaciuta (non è l'unica atleta fantasiosa, comunque).


La mascherina a forma di farfalla usata ieri da Dedaj (Julian Stratenschulte/dpa)




  Amore   e  amicizia 

Alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi Tony Estanguet, presidente del comitato organizzatore di Parigi 2024, aveva celebrato con una certa fierezza un record dell'edizione che si era appena conclusa: era stata, aveva detto, quella con più proposte di matrimonio di sempre, ben 6. Secondo Estanguet il record era da attribuire in qualche modo all'influenza di Parigi, che lui definiva la città dell'amore per eccellenza.
Lì per lì quella frase di Estanguet era sembrata semplicemente uno dei tanti espedienti retorici per celebrare i Giochi che lui stesso aveva organizzato, ma in effetti per qualche ragione difficilmente spiegabile a Parigi 2024 le storie d'amore e relazioni tra gli atleti sembrano molto più visibili del solito (i social c'entrano, certo), e la tendenza sta continuando anche a queste Paralimpiadi. C'è stata addirittura una storia che ha fatto da “ponte” tra i due eventi, molto raccontata: quella della recente campionessa olimpica di salto in lungo Tara Davis e del marito Hunter Woodhall, atleta paralimpico specializzato nelle gare di velocità. È probabile che il video di lui che segue molto emozionato la finale di lei, e che piange dopo la vittoria, vi sia già capitato sotto mano.
Dopo di loro è stata la volta dei nigeriani Christiana e Kayode Alabi, che sono sposati e sono entrambi nella nazionale di tennistavolo a queste Paralimpiadi: è una storia d'amore piuttosto normale, in realtà, ma anche questa è finita un po' ovunque.
(Alex Slitz/Getty Images)
 Poi sono cominciate le proposte di matrimonio anche alle Paralimpiadi: la prima l'ha fatta fuori dalla mensa del villaggio olimpico il triatleta spagnolo Lionel Morales Gonzalez; la seconda, in una location forse un po' migliore, è stata fatta sui campi da badminton ieri mattina dal brasiliano Rogerio de Oliveira, che dopo una partita si è inginocchiato con in mano un anello e un cartello che diceva «Edwarda vuoi sposarmi?». E siamo solo al secondo giorno.
 per  altre  storie   d'amore  ma  anche  d'amicizia  eccovi altri   url :

  come   nelle  olimpiadi non  paraolimpiche   anche   il quarto   posto  o   non arrivare  a medaglia   può  essere  prezioso     soprattutto  in queste  parolimpiadi  le  cose    storie   \  vicende    sono  più sofferte  di  noi    che  abbiamo  problemi non invalidanti  

   sempre  dalla  Nw   pari  de  ilpost.it 


Eliminata con stile


Se siete tra quelli che si erano appassionati all'inaspettata coolness di certi tiratori di pistola alle Olimpiadi, allora forse vorrete almeno sapere qualcosa di lei: Asia Pellizzari, 22enne tiratrice con l'arco trentina che stamattina è stata eliminata agli ottavi di finale della categoria W1. Anche se è molto giovane Pellizzari è già alla sua seconda Paralimpiade e ha diversi titoli nei tornei internazionali: non è difficile immaginare che la ritroveremo in altre edizioni dei Giochi. Nel frattempo potete cominciare ad appassionarvi alla sua posa molto fotogenica di quando fa scoccare la freccia dall'arco.

In quanto
(Dal sito del Comitato paralimpico italiano)


Il tiro con l'arco è il primo sport paralimpico di sempre, e anche quello dov'è ormai comune che gli atleti con disabilità gareggino con quelli normodotati.

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  da   Open 30 Agosto 2024 - 16:42

Paralimpiadi di Parigi, atleta tunisino boicotta la sfida di bocce con un israeliano: «È per la causa palestinese»

                         di Ugo Milano

EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON I Alcuni portabandiera durante la cerimonia di chiusura di Parigi 2024, Francia, 11 August 2024.




Achraf Tayahi non si è presentato alla gara con lo sfidante Nadav Lev



Un atleta tunisino, Achraf Tayahi, ha deciso di boicottare la gara di bocce contro lo sfidante israeliano Nadav Lev per dare voce alla «causa palestinese». Una scelta, quella portata avanti dall’atleta, che in modo automatico lo esclude dalle competizioni alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Decisione che per il tunisino «rappresenta una vittoria per la causa». A riferirlo è stata una fonte della delegazione tunisina al sito di informazione Al-Araby Al-Jadeed. Lev approda quindi alla fase successiva dove incontrerà stasera il brasiliano Maciel Santos. Non è la prima volta che lo scontro tra Tel Aviv e Hamas approda a Parigi. Già durante lo svolgimento delle Olimpiadi era circolato un video della propaganda iraniana in cui si criticava la partecipazione di Israele ai Giochi.


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Parigi, 30 agosto 2024 – Le Paralimpiadi di Parigi 2024, già alla seconda giornata di finali, hanno fatto segnare un momento storico, con la prima medaglia vinta dal Team Rifugiati. È accaduto nel parataekwondo femminile (categoria 47 kg), con il bronzo ottenuto da Zakia Khodadadi, ragazza afghana, nata e vissuta fino al 2021 nella provincia di Herat, da dove venne evacuata tre anni fa dopo il ritorno al potere dei talebani. Infatti Zakia Khudadadi porta con sé molti titoli che potrebbero
appesantirla nella vita quotidiana: rifugiata, donna, persona con disabilità.Anche a causa della sua disabilità (è nata senza l’avambraccio sinistro), e non solo per questioni politiche ma culturali, fatte di discriminazioni, già da ragazzina Khodadadi – che oggi vive e si allena proprio a Parigi – aveva dovuto vivere una quotidianità molto difficile in Afghanistan, sino a pensare addirittura al suicidio ancora bambina. “Ho combattuto per anni per dimostrare che quella non fosse una limitazione”, ha detto in una recente intervista al sito ufficiale delle Paralimpiadi, e se in qualche modo era riuscita a uscire da quella situazione, nulla ha potuto contro le privazioni imposte dal regime talebano.



Ma questo, a Parigi 2024, le ha consentito di realizzare il sogno di una medaglia paralimpica, e di farlo entrando appunto nella storia avendo portato il primo alloro al Team Rifugiati. Lo scorso 9 agosto, anche alle Olimpiadi era arrivata la prima medaglia nella storia del Team Rifugiati: a ottenerla era stata ancora una volta una donna, la pugile Cindy Ngamba (bronzo nei pesi medi), camerunense fuggita dal proprio Paese, dove avrebbe rischiato l’arresto a causa della sua omosessualità. Oggi vive in InghilterraQuando le è stato chiesto quale sia il titolo più pesante da portare, l'atleta nata in Afghanistan che giovedì (29 agosto) ha vinto la prima medaglia in assoluto per la Squadra Paralimpica dei Rifugiati, non ha esitato a rispondere: donna.
“Per me, il bronzo, è come l'oro perché vengo in Francia. Prima ero in Afghanistan e in Afghanistan non era possibile (praticare) questo sport”, ha dichiarato Khudadadi a Olympics.com dopo aver festeggiato la sua medaglia nel Para taekwondo K44, classe -47 kg.
L'atleta 25enne è stata evacuata dall'Afghanistan dopo che i Talebani hanno preso il potere nel suo Paese nell'agosto 2021. All'epoca, Khudadadi si stava preparando a fare il suo debutto Paralimpico a Tokyo 2020, dove è diventata la seconda atleta donna a rappresentare l'Afghanistan ai Giochi Paralimpici e la prima donna Paralimpica del Paese da Atene 2004.
Come atleta donna, Khudadadi ha subito minacce di morte in Afghanistan ed è stata evacuata da Kabul dopo la presa del potere, una settimana prima dell'inizio di Tokyo 2020, insieme al velocista Hossain Rasouli. In seguito si è stabilita a Parigi, in Francia, e ha partecipato ai Giochi Paralimpici del 2024 come unica atleta donna della Squadra Paralimpica dei Rifugiati, composta da otto membri.
Simbolicamente, è stata un'allenatrice donna, la medaglia d'argento di Rio 2016 Haby Niare, a guidarla verso lo storico podio. Niare è stata anche la prima a correre a congratularsi con un'emozionata Khudadadi dopo il suo storico risultato.
“Sono così emozionata. Sono così felice perché questo è il mio sogno”, ha detto Khudadadi. “Oggi ho vinto una medaglia di bronzo e sono la prima donna Paralimpica rifugiata (medagliata) al mondo e ho vinto una medaglia di bronzo. Questo per me è un sogno. E ora sono in un sogno”.


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...