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15.11.23

Diario di bordo n°21 anno I .matrimonio choc Si sposano da soli nella chiesa deserta, senza amici e parenti ., Neonato abbandonato in un sacchetto dalla mamma, dopo tre anni strappato ai genitori affidatari: «Deve tornare da chi l'ha partorito»


Una coppia si è sposata nella Chiesa di San Salvatore in Lauro, nel cuore di Roma, senza nessun invitato. Solo loro due

di Fabrizio Grimaldi per Chronist


È stato un matrimonio semplice, senza amici o parenti, quello celebrato nella Chiesa di San Salvatore in Lauro, nel cuore di Roma. I due sposi erano soli in una chiesa deserta a dirsi il fatidico sì, davanti l’altare. Davanti a loro il prete che ha svolto la funzione e accanto due testimoni. Niente invitati festanti. Nessun parente commosso. Ad immortalare l’intima cerimonia è stata Loredana Pronio, collaboratrice parlamentare del Movimento 5 Stelle ed ex delegata al Benessere animale della sindaca Virginia Raggi. Non appena pubblicata sul suo profilo Facebook, la foto è diventata immediatamente virale.“Credevo di aver visto, non dico tutto, ma abbastanza.” Scrive la Pronio. “E invece questa mattina sono passata nella mia parrocchia. È il mio rito quotidiano. Entro e noto due giovani all’altare. Guardo bene e vedo due sposi! Questi due ragazzi si stavano sposando in una chiesa completamente vuota! Nessun parente, nessun amico. Solo due pseudo fotografi che forse gli avranno fatto anche da testimoni. Mi sono avvicinata all’altare e noto che lei è in dolce attesa. E allora ho pensato che quella coppia di sposi non era sola. I due ragazzi erano in buona compagnia. La migliore in assoluta. Buona vita a tutti tre”.Innumerevoli sono stati i commenti di approvazione da parte della comunità di Facebook. “Bellissima scelta. Lo sfarzo e il lusso non servono a niente”. Scrive un utente. Molti altri commentano con esclamazioni quali “Che meravigli o “Che emozione”. Mentre un altro utente dice chiaramente: La migliore scelta possibile. Sfarzo e lusso non servono”. La stessa collaboratrice parlamentare poi scrive: “Forse questo è un matrimonio vero? Senza clamore. Senza bocche da sfamare al banchetto nuziale, senza regali obbligatori e senza fiori strappati solo per ornare la navata… senza “RISO” all’uscita. Ma , sicuramente, qualcosa che gli strapperà un “sorRISO “ nei prossimi anni!”.

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www.leggo.it 3 ora/e
Neonato abbandonato in un sacchetto dalla mamma, dopo tre anni strappato ai genitori affidatari: «Deve tornare da chi l'ha partorito»

                                             Ilaria Del Prete 

Neonato abbandonato in un sacchetto dalla mamma, dopo tre anni strappato ai genitori affidatari: «Deve tornare da chi l'ha partorito»
                                     © Ansa

Abbandonato alla nascita dai genitori, chiuso in un sacchetto di plastica con il cordone ombelicale ancora attaccato, arrivato in ospedale in grave ipotermia e ipoglicemia ma sopravvissuto dopo aver lottato strenuamente. La storia del piccolo Miele, questo il soprannome che gli hanno dato i genitori affidatari che lo crescono con amore da quando aveva solo 16 giorni, sembrava aver trovato il più felice dei finali. E invece no: il bambino oggi rischia di essere strappato dalle braccia di mamma e papà ed essere riconsegnato alla donna che lo ha partorito e che è ancora sotto processo penale per concorso in abbandono di minore, il tutto a causa di un errore giudiziario. Un provvedimento del Tribunale di Catania, dopo un intervento della Corte di Cassazione, dispone il ritorno del piccolo dalla madre biologica entro il prossimo 28 dicembre. Ma gli unici genitori che il bimbo abbia mai conosciuto, che avevano fatto richiesta di adozione, non ci stanno, e hanno lanciato una petizione affinché Miele resti a casa sua e al momento sono oltre 22mila le firme raccolte dalla petizione online sul portale Change.org "Lasciate Miele con la sua mamma e il suo papà". 

La storia di Miele

Il neonato fu abbandonato a Ragusa nel novembre del 2020. A trovarlo fu il padre naturale, che finse di essersi casualmente ritrovato il piccolo davanti il suo esercizio commerciale. Il bambino era nato da una relazione extraconiugale con una donna che aveva già altri due figli, compresa una ragazzina di cui è lui il padre. L'uomo, col rito abbreviato, è stato condannato a due anni reclusione per abbandono di minorenni. Con la stessa accusa è a processo, con udienza a febbraio del 2024, davanti al Tribunale di Ragusa, la madre che adesso chiede di potere riavere suo figlio. La donna ha sostenuto di non aver mai avuto intenziona di abbandonare il piccolo, ma di averlo affidato al padre naturale per portarlo in un ospedale.

 

L'affido

Nella petizione lanciata dai genitori affidatari di Miele si legge: «Dopo 16 giorni dalla sua nascita, il Tribunale per i minorenni di Catania lo ha affidato a noi, da tempo in lista d'attesa per l'Adozione, dichiarandone - in assenza di segnali di interesse e riconoscimento da parte di nessuno - prima l'adottabilità e poi dopo due mesi l'affidamento pre adottivo, che tutela e avvia la nascita di un nuovo nucleo familiare. Se è in atto l'affido pre adottivo, infatti, non può più avvenire un riconoscimento tardivo da parte della famiglia biologica (articolo 11 L. 184/83), e non si può nemmeno chiedere la revoca dello stato di adottabilità del bambino (articolo 21 L. 184/83). Pensiamo quindi di poter dare a Miele un nuovo futuro, ma invece, per una catena di assurdi errori giudiziari, la corte d'appello di Catania revoca lo stato di adottabilità».

6.5.23

la storia di una coppia omosessuale ha scelto l'affido e non ha ricorso alla maternità surrogata

Enrico e Samuele: l'affido è anche per noi  

DA https://www.vita.it/it/     del   3  maggio  

                                           di Sara De Carli

 Stanno insieme da 19 anni e l'utero in affitto non fa per loro. Non immaginavano che anche una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all'affido e anche al termine del percorso formativo sotto sotto pensavano che i servizi avrebbero sempre preferito una coppia eterosessuale. Invece da quattro anni Enrico e Samuele hanno in affido due fratelli, che oggi hanno 9 e 14 anni. «Non è facile, ma le loro risate ci ripagano di tutto. Il cuore ti batte in modo diverso»

 
Quel giorno di autunno, quando suonò il cellulare, Enrico e Samuele non credevano che stesse succedendo davvero. Avevano fatto tutto il percorso formativo con il Centro affidi di Pistoia, ma quei mesi di attesa li stavano vivendo con i piedi di piombo, senza permettere che i sogni si prendessero troppo spazio. «Il nostro mood era quello di restare con i piedi per terra. “Ok abbimo fatto il percorso ma forse ci hanno detto che andavamo bene come coppia affidataria solo per essere politically correct”: ci dicevamo questo l’uno l’altro. Sotto sotto pensavamo che quando gli operatori avrebbero dovuto scegliere davvero tra noi e una coppia eterosessuale, avrebbero comunque scelto gli altri. Invece non è andata così», racconta Samuele.
Enrico ha 46 anni, Samuele 38. Vivono in provincia di Pistoia e stanno insieme da diciannove anni: «Mai subito un attacco o una discriminazione per la nostra omosessualità o per la nostra relazione», dicono. Si sono sposati nel giugno 2018 e dall’autunno successivo hanno in affido due fratelli, un maschio e una femmina, che oggi hanno 9 e 14 anni. Prima di essere affidati a loro, i due bambini stavano insieme alla mamma in una casa-famiglia.

«La prima volta che la parola “affido” è entrata nella nostra coppia è stato durante una chiacchierata con un’amica, che ha detto: “ma perché non prendete un bimbo in affido?”. Noi non sapevamo nemmeno che una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all’affidamento familiare», dice Enrico. «Ci si era interrogati sulla paternità e sull’ipotesi dell’utero in affitto, ma non rientra nel nostro modo di vedere le cose e la vita, nei nostri valori. L’affido invece… ci ha subito intrigati. Ne abbiamo iniziato a parlare tanto fra noi, ci siamo informati, abbiamo contattato il Centro affidi della nostra provincia e abbiamo fatto un anno e mezzo di formazione e di colloqui. Alla fine quello che ti si scolpisce in testa è che lo scopo dell’affido è il rientro dei bimbi nella loro famiglia di origine. Se invece guardi all’affido come “ultima spiaggia” per avere un figlio… sei fuori strada».
Qui entra in gioco un altro elemento casuale, «che poi forse tanto casuale non è», sottolinea Samuele. «Amici e parenti ci dicevano “ma poi, quando arriverà il giorno in cui ve li toglieranno perché i bambini torneranno dai loro genitori, che succede?”. È una domanda che ci facevamo anche noi: è una prospettiva che un po’ spaventa. Però io avevo conosciuto da vicino una storia di affido: l’ex fidanzata di mio fratello da piccola era stata in affido. Ho “toccato” il legame che lei, anche da grande, aveva con la famiglia affidataria, il bene che quella famiglia le ha fatto, la relazione che hanno mantenuto e questo mi ha fatto dire “sì”, mi ha convinto. Alla fine non ci ha mosso tanto il desiderio di avere un figlio nostro ma il desiderio di aiutare un bambino», racconta Samuele.
Torniamo quindi alla telefonata del Centro affidi. È l’autunno 2018, Enrico e Samuele sono insieme in auto quando squilla il cellulare. La proposta del Centro affidi riguarda un bambino di 5 anni. Samuele ed Enrico incontrano gli operetori del Centro affidi e accolgono l'abbinamento. Per la sorella del piccolo i servizi avevano individuato un’altra famiglia. «Poi un giorno ci richiamano e ci dicono che se noi eravamo d’accordo, i bambini possono stare insieme. Noi abbiamo entrambi fratelli, sappiamo cosa significa questo legame… abbiamo dato immediatamente disponibilità per entrambi, non potevamo certo essere noi a separarli». A questo punto Samuele ed Enrico iniziano il percorso di avvicinamento ai due bambini, in casa famiglia: per due mesi vanno in comunità due volte a settimana, presentandosi come “amici”. Stanno con tutti i bambini, giocano, li mettono a letto. I servizi e gli educatori della casa famiglia intanto fanno un lavoro enorme con le fiabe per far comprendere ai bambini cosa significhi amare un altro uomo. Si parla con i bambini, si scoprono le carte del progetto di affido. Qualche uscita, qualche serata, poi qualche weekend. A inizio gennaio 2019 i due fratelli entrano stabilmente in casa di Enrico e Samuele. «Né i bambini nè i loro genitori hanno mai mosso un’obiezione al fatto che l’affido fosse ad una coppia dello stesso sesso. Temevamo che i due papà avrebbero potuto magari avere dei dubbi, invece no. I ragazzi non sono mai tornati a casa raccontandoci episodi negativi in questo senso: anche a scuola gli insegnanti sono stati molto bravi, sia alle elementari che in prima media siamo andati a aprare in classe delle famiglie come la nostra», racconta Enrico.
«Ancora oggi a volte noi pensiamo di non essere in grado. L’affido è proprio un’esperienza in cui le persone che accogli ti insegnano tantissimo. I ragazzi ma anche i loro genitori. Con la mamma dei bambini abbiamo un buon rapporto, la prima volta che l’abbiamo incontrata le abbiamo proprio detto “noi non siamo qui per portarti via i bambini, ma per darti un supporto con loro», afferma Samuele. I primi tempi non sono stati facilissimi, «anzi direi che è stato un trauma sia per noi che per loro, non è tutto rose e fiori, è come se avessimo partorito due figli già grandi», dice Enrico. «Eravamo abituati ai nostri spazi e ritmi e ci siamo trovati a dormire in quattro in un lettone, a fare cose che non eravamo preparati a fare o che non sapevamo come fare. Da un giorno all’altro ti cambia il modo di pensare, di cucinare, di dormire. Io ero uno che se mi spostavi in giardino mentre dormivo, non me ne rendevo conto: adesso mi sveglio appena i ragazzi respirano in modo diverso», aggiunge Samuele. «Sorridevamo quando ci dicevano che quello di genitori è il mestiere più difficile del mondo, ora invece capiamo. La sera quando i ragazzi dormono tantissime volte ci chiediamo se abbiamo fatto bene o male a dire o a fare quella determinata cosa… Facile non è, ma ci mettiamo tutto l’amore possibile. Si sbaglia e ci si arrabbia, siamo abbastanza rigidi, ma quando i ragazzi ridono ci ripagano di tutto».
I due ragazzini, oggi, chiamano “babbo” Enrico e Samuele. «La prima volta, non sai quando abbiamo pianto», confidano. Perché farlo? Enrico non ha dubbi: «Perché il cuore ti batte in maniera diversa».

10.7.22

La bambina che ci ha cambiato la vita - di Silvia Nucini



Il perimetro di ciò che è #famiglia è fatto da una linea invisibile che smargina dalle Leggi e smentisce i teoremi delle convenzioni sociali; la geometria euclidea non può dimostrare perché la retta che parte dal piccolo braccio teso di Antonella e arriva fino a Paolo, fa di Paolo un padre. Ma è così.Infatti purtroppo , anche se sempre di meno ma forti dal punto di vista di pressione poolitica , visto che le coppie omogenitoriali o agiscoo sul filo della legalità o sfruttando le maglie che i garbugli legislativi e burocrastici offrono , oppure vanno all'estero . Ed è questa la bellezza ed la particolarita della storia emozoioante di Paolo Pedemonte, Marco Valota e Antonella, raccontata da Silvia Nucini (  autrice nel 2010  del  libro “È la vita che sceglie”, edito da Mondadori  ) per #AltreStorie ovvero La Newsletter di Mario Calabresi


[...] Ma è così, e la spiegazione va cercata altrove. «Quando siamo entrati nella stanza, lei era seduta per terra a giocare, ha studiato me e Marco per un po’, e poi ha fatto quel gesto: voleva solo darmi il suo pennarello. Dentro di me, quello, è stato l’inizio di tutto».Paolo Pedemonte, Marco Valota e Antonella

La storia di Paolo Pedemonte, Marco Valota e Antonella è iniziata il 22 aprile, nemmeno tre mesi fa, quando – era un venerdì mattina, erano le nove – una delle assistenti sociali del Centro Affidi del Comune di Bergamo ha chiamato Marco per dirgli: «È arrivata, venite». Ma, come tutte le storie, era iniziata molto tempo prima, sotto forma di un desiderio.
«Stiamo insieme da sette anni e quasi subito ci siamo raccontati di un sogno che avevamo entrambi: diventare genitori», dice Marco. Continua Paolo: «Abbiamo preso in considerazione diverse ipotesi: la maternità surrogata (ndr, comunemente detta utero in affitto), senza giudicare chi la fa, non rientra nel nostro orizzonte etico. Andare all’estero per adottare era una possibilità. Ma poi ci siamo detti: siamo italiani, facciamo quello che ci permette la Legge italiana. Vediamo fino a dove possiamo arrivare. E così abbiamo cominciato a pensare all’affido. Veniamo entrambi dal mondo dell’associazionismo cattolico, l’idea di fare qualcosa di buono per gli altri è una parte importante delle nostre vite. L’affido ci è sembrato il modo giusto per mettere insieme la gratuità e il nostro egoismo».
Per molto tempo, però, Paolo e Marco non hanno fatto niente, indecisi sulla direzione giusta in cui muoversi, spaventati dalla possibilità di ricevere un no. «Un no che sarebbe stato un giudizio anche su chi siamo. Quindi, molto difficile da accettare». Poi, poco prima della pandemia Marco scrive una mail al Centro Affidi di Bergamo. Due ore dopo arriva la risposta: «Per noi va benissimo, basta che siate idonei, per noi non fa nessuna differenza. Magari sarà difficile, magari ci sarà un po’ di battaglia da fare, ma se voi ve la sentite, noi ci siamo per farla con voi».
Come sarebbe stata la strada, lì al centro non lo sapeva nessuno perché Paolo e Marco erano la prima coppia omogenitoriale della provincia di Bergamo a fare richiesta. Tanti altri come loro, scopriranno poi Paolo e Marco, avevano avuto paura di quel “no”. E invece una pandemia e una decina di colloqui con vari psicologi dopo, l’idoneità è arrivata. Nemmeno il tempo di festeggiarla, che una notizia ancora più bella l’ha superata: «Dieci giorni dopo essere diventati idonei al centro affidi ci hanno detto di prepararci che c’era bisogno di una famiglia affidataria per Antonella, una piccolina di dieci mesi».
L’incontro con la mamma di Antonella, una ragazza molto giovane, è stato uno snodo fondamentale del percorso e non solo perché lei ha dato il suo benestare. «È come se quella prima volta lei, con le sue parole, ci avesse detto: prendetela e abbiatene cura», ricorda Paolo. A quel primo incontro ne seguono e ne seguiranno molti altri: Antonella vede la mamma una volta la settimana. «È come se insieme ad Antonella avessimo in affidamento anche lei, è come se le stessimo dando un pochino più di tempo per attrezzarsi e diventare una brava mamma». Paolo chiama questi incontri tra Antonella e la madre i “bagni di realtà”: «I momenti in cui torno con i piedi per terra e mi ricordo che non è figlia mia. La prima volta che le ho viste insieme dopo sono stato molto scosso, sono crollato in preda ad emozioni che non sapevo nemmeno di avere dentro di me. Ma con il tempo mi sono reso conto che il legame viscerale c’è anche con la mamma di Antonella: mi sto abituando a questo amore condiviso».
La piccola Antonella

L’amore condiviso è qualcosa che l’arrivo della bambina ha generato e propagato nelle famiglie, tra gli amici e nei concittadini di Carobbio degli Angeli, dove Paolo e Marco vivono. «Abbiamo passato le prime due settimane dopo l’arrivo della bambina a commuoverci per quello che vedevamo succederci intorno: amici che arrivavano con le macchine cariche di scatoloni con giocattoli e vestitini divisi per taglie e stagioni, associazioni e parrocchie che ci hanno scritto chiedendoci come potevano aiutarci, persone sconosciute che ci mandavano biglietti di auguri e piccoli regalini», dice Marco.
«Una mia amica del liceo, che non vedevo da anni, mi ha spedito un passeggino. Il parroco del nostro paese è venuto a casa a conoscere Antonella e ci ha dato una mano per trovare un posto in un asilo nido», continua Paolo. «Io e Marco non siamo sposati, ma ci sentiamo da sempre famiglia al cento per cento. Non credevamo che anche gli altri ci vedessero così. Abbiamo scoperto una società più aperta e bella di quello che immaginavamo».
Per Paolo che si occupa di pubbliche relazioni e Marco che guida l’azienda di abbigliamento di famiglia, l’arrivo di una bambina così piccola è stato una specie di terremoto. «Abbiamo cambiato tutta la casa, e anche la vita. Siccome al nido andrà a settembre in questi mesi ci stiamo organizzando tra smart working, giornate che passa al lavoro con me e mia madre e altre in cui di lei si occupano tutti i nonni», racconta Marco. Paolo, che è un super appassionato di food, la sera si dedica alla preparazione delle pappe per il giorno successivo.
Antonella non parla ancora, ma tra poco lo farà. Paolo e Marco si sono chiesti che parole userà per loro. «Chi siamo noi? Papà? Zii? Nonni? Le psicologhe ci hanno detto che guiderà lei la scelta. Noi non le stiamo insegnando a chiamarci in nessun modo particolare. Probabilmente ascolterà i nostri nomi e li ripeterà, saremo Paolo e Marco. Se è importante il nome? No, non lo è. È importante che quando i nostri occhi si incrociano i suoi diventano contenti».
Quando Antonella è arrivata le assistenti sociali hanno detto alla coppia che la bambina si addormenta solo in braccio. «Ma io non ero disposto ad andare incontro a questo vizio», racconta Marco «così abbiamo trovato insieme, io e lei, il nostro metodo. Ci sdraiamo nel lettone, lei si mette sulla mia pancia e, mentre si addormenta, mi scivola accanto e io riesco a spostarla nel suo lettino». Paolo li guarda in silenzio «perché sono troppo belli».
Chiedersi quanto durerà è la domanda sbagliata, ma molto umana, che sta dietro ogni affido. Il tempo massimo è due anni, ripetibili fino a tre volte. Se Paolo e Marco hanno capito che quella è la loro strada è stato grazie ai racconti di altre famiglie affidatarie le cui storie, tutte diverse, dicono una cosa soltanto: che l’amore ha mille forme, infiniti intrecci, e nessuna data di scadenza.
«Ci siamo convinti che l’affido fosse un’esperienza meravigliosa la sera che abbiamo conosciuto una coppia di favolosi settantenni: girano sulla loro Harley-Davidson, sono pieni di tatuaggi e in casa hanno sempre una stanza pronta, un letto fatto per il “pronto intervento”. Significa che gli assistenti sociali li possono chiamare all’ultimo momento e dire: sta arrivando un bambino. Hanno già fatto otto affidi e sono disponibili per altri. Una lezione di vita incredibile», dice Paolo che pur nella convinzione totale della strada scelta, conserva un rimasuglio di amarezza. «Io e Marco siamo stati giudicati idonei come genitori affidatari. Idonei a fare un servizio allo Stato. Però di fronte all’eventualità dell’adozione, improvvisamente per la Legge non andiamo più bene. È strano no? Eppure, siamo sempre noi due, Paolo e Marco, proprio noi».

17.1.16

Nessun pregiudizio ed fncl a chi dice che esiste solo una famiglia ovvero quella tradizionale ( uomo e donna ) e considera l'altra ( quella omosessuale ) degnere

credo  che      queste  due    slide    dico   più  di mille  parole  e  che sia  la  risposta  adeguata   ,  almeno si spera  a  chi  oltre ad essere  per la famiglia tradizionale   cioè quella  uomo   \  donna      finché  non s'insulta   o manca  di rispetto   niente  di male    sei bigotto \  tradizionalista  pazienza    me ne  faccio una  ragione e mi lascia  indifferente    ma  quando s'insulta e  si  cerca  imporlo a chi non è  d'accordo  o  si esalta  come unica  e superiore  la  propria  concezione di famiglia    allora  non ci sto



da Sì ai matrimoni gay.








da  OmofobiaStop




è vero io preferisco l'affido all 'adozione o in matrimonio civile ( almeno per il momento se poi gli amici quaccheri o anglicani mi forniranno materiali che smentiscono la mia convenzione sarò pronto a rimettermi in discussione ) per le coppie omosessuali . ma perchè devo discriminare e proibire sia nell'uno che nell'altra scelta tali coppie ^ Perchè non devono a vere i nostri stessi diritti ?
Ecco perchè reputo importante dar tutela ai genitori omosessuali. ecco perchè Ecco perché serve o l'adozione piena ( ipotesi difficilmente accettabile e digeribile dai cattolici n sia coerenti che per modo di dire presenti al governo ) o la stepchild adoption contenuta nel DDL Cirinnà. . Concordo con gli autori di queste    due  vignette  

17.11.13

anche i gay e i single posso offrire amore ai bambini in afido o in adozione .la storia di Mario zidda ex sindaco di Nuoro che fu adottato da due single

 Cercando  ,    chi   qualcosa  di Piera serusi  , giornaliusta  che scrive  la  rubrica  storie  per  il  giornale   L'UNIONE SARDA.it   ho trovato (  è  un articolo  di  2  annifa   , ma    è ancora  attuale    )   La storia dell'ex sindaco di Nuoro Zidda 'Io, bimbo felice, adottato da due single'. Essa dimostra  , come    se  l'ambiente  di  chi   ha  il compito dell'affido o dell'adozione   è sereno  poco importa  se   esso sia un single  come in questo caso  o gay   come  sta  avendo in questi giorni con l'afido   di bambini \e  a coppie  gay     

La storia dell'ex sindaco di Nuoro Zidda 'Io, bimbo felice, adottato da due single'




La Corte di Cassazione ha invitato il Parlamento ad aprire, quando vi siano particolari condizioni, alle adozioni dei minori da parte dei single. L'ex sindaco di Nuoro interviene nel dibattito. 
di PIERA SERUSI

«Io sapevo che non ero figlio loro, però sentivo di far parte di una famiglia. Ne ho sempre avuto coscienza,
Mario Zidda
sempre. Ma oggi ancor più posso affermare di aver avuto tutto ciò di cui un bambino ha bisogno: la certezza di un rifugio sicuro, la consolazione di un abbraccio, il sostegno lungo l'impervio cammino che porta ogni piccino a diventare grande. Non ritengo la mia vita una lezione magistrale, ma è la mia storia, e se la racconto per la prima volta dopo sessant'anni è soltanto perché io posso testimoniare che, per un bimbo che sa cos'è l'abbandono, l'amore di una famiglia - anche imperfetta - è sempre meglio dell'abisso della solitudine».
FESTA DEL PAPÀ Non è stato semplice ottenere questa intervista. Chi conosce Mario Demuru Zidda, ex sindaco di Nuoro, sa bene che uno dei tratti del suo carattere è la riservatezza, una discrezione che l'ha sempre portato a distinguere nettamente il piano dell'impegno politico e amministrativo da quello privato. Ha contravvenuto a questa regola giusto due settimane fa, per dare un contributo al dibattito che si è aperto in Italia sull'adottabilità piena dei minori anche da parte dei single dopo la recente sentenza della Corte di Cassazione intervenuta sul caso che riguarda una signora di Genova.
Questa è una storia che va raccontata nei giorni della Festa del Papà, per ribadire che - qualunque sia la nostra idea a riguardo - la famiglia non è solo e soltanto il triangolo affettivo e naturale tra babbo, mamma e figli. Famiglia è la casa che salva un piccino dalla solitudine.
L'ORFANOTROFIO Ogni bambino abbandonato nasce più di una volta, quando è guardato dalle stelle. Mario Demuru, venuto al mondo nel dicembre 1945 a Brunella, Budoni, aveva un anno e otto mesi quando Pasqua e Caterina Zidda, due sorelle di Orune, classe 1906 e 1908, lo presero in casa come un figlio. «È stato abbandonato dalla mamma», disse loro padre Gavino Lai, il direttore dell'orfanotrofio femminile 'San Giuseppe' di Nuoro. «Le mie due nuove mamme mi accolsero così, senza aver ricevuto alcuna garanzia, sia per me che per loro, sul futuro dell'affidamento. È stato il loro atto di generosità senza condizioni a salvarmi la vita».
Erano gli anni del dopoguerra. Pasqua e Caterina Zidda, che a Nuoro erano arrivate negli anni Trenta a servizio dalle famiglie benestanti, avevano un piccolo negozio di generi alimentari e una casetta in piazza Santa Croce. «Era una casa sempre piena di gente. Pasqua e Caterina ospitavano due loro fratelli e più tardi pure una nipote. Accoglienza e amore: era questo, per loro, il senso della famiglia». La memoria corre ai giochi per strada, ai vicini di casa («come i fratelli Rondello, scalpellini e cacciatori di professione»), alla tavola dell'ora di pranzo apparecchiata anche per tre impiegati delle Poste e per il calzolaio, il signor Bastiano Dessena («per arrotondare, le mie due mamme cucinavano per i pendolari»); alle vacanze estive dalla nonna a Orune («lì, coi miei cuginetti, sentivo fortemente il senso della mia appartenenza a tutta la famiglia: ero stato riconosciuto come uno di loro»).
LE RADICI Aveva cinque anni quando Pasqua gli disse: «Vieni con me, andiamo a visitare padre Lai». Le due mamme, modernissime e intelligenti, avevano deciso che il bambino doveva sapere, doveva conoscere le sue origini. «Un bambino abbandonato più che sentire la propria condizione si chiede il perché, ha bisogno di risposte ma allo stesso tempo cerca di esorcizzare il problema. È lì che nasce la sofferenza, il disagio di una personcina non ancora formata che cresce in un istituto. L'istituzione, a prescindere dalla presenza di operatori caritatevoli e attenti, è sempre anaffettiva, assolutamente inadeguata a sostenere il bambino nella ricerca di un senso di sé e della propria vita. Per questo credo che una famiglia, purché sia, è sempre meglio della solitudine, della mancanza di punti di riferimento».
«Certo, finché è possibile l'ideale è una famiglia tradizionale, con padre e madre. Ma è riduttivo porre la questione dal punto di vista di chi può o non può adottare un bambino, perché l'unico bisogno di cui si deve tener conto è quello del minore. Va bene l'adozione da parte di un single, se risolve il problema di un bambino che non ha nessuno al mondo: è un modo per allargare le opportunità di salvezza di tanti piccoli abbandonati. Io sono cresciuto con due mamme single e nessun papà, ma è stata una famiglia a tutti gli effetti».
TRE COGNOMI Mario Demuru Zidda ricorda ancora il senso di desolazione provata quando, preso per mano da Pasqua, varcò il portone dell'orfanotrofio. «Ebbi l'impressione di esserci già stato e, per un attimo, sentii ancora il vuoto della solitudine. Padre Lai era un buon sacerdote dei suoi tempi. Era stato lui ad affidarmi alle sorelle Zidda, con l'intermediazione della signorina Campanelli che per anni si occupò di sciogliere i nodi della parte burocratica della mia affiliazione. Persino il cognome cambiava: nell'arco di poco tempo mutò tre volte: prima Demuru, poi Zidda, poi Demuru Zidda».

IL LEGAME DI SANGUE Non era un bambino che faceva domande. «Non ce n'era bisogno. Pasqua e Caterina mi hanno sempre raccontato tutto. Loro andavano alla ricerca dei tasselli sparsi delle mie origini, li ricucivano e me li narravano. Avevano capito il mio bisogno di tornare sui miei passi, di conoscere le mie radici. A cinque anni ho cominciato così a esplorare la via che mi ha portato a sapere di mia madre e, avevo 17 anni, a conoscerne i familiari. Ho poi conosciuto anche mio padre, certo. Avevo 25 anni, è stato un incontro voluto da lui che mi aveva sempre tenuto d'occhio, da lontano. Se ho provato sentimenti ostili? No, mai. La mancanza di un padre forse l'ho sentita durante l'adolescenza, solo perché confrontavo la mia realtà con quella degli altri ragazzi. Ma, onestamente, se penso al prima e al dopo, dico no: non c'è stato un vuoto d'affetto». Pasqua e Caterina non ci sono più. Una è morta nel 1979, l'altra nel 2003. «Sono state le mie due mamme. Dandomi una famiglia mi hanno ridonato la vita».

PIERA SERUSI

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...