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30.3.24

la via crucis non è solo festività pasquale ma alcuni neglio alcune la subiscono tutti i giorni il caso di patrizia cadau che ha denunciato il suo carnefice ed ora si tova a processo per averlo diffamato

da  
21 h 

Io ci credevo tanto nella Giustizia e nello Stato.
Lo Stato.
Quest'imponente costrutto fatto di norme, di diritto, di valori fondanti la vita di tutti.
Lo Stato contrapposto alla barbarie per garantire ordine, rispetto, protezione dei più deboli dalla prepotenza.
Sono stata tirata su così, con una fiducia tonta e smisurata nei confronti dello stato. E della Giustizia.
Quella che consente ad un violento incallito di esercitare violenza.
Quella che permette ad un padre violento di continuare ad essere maltrattante, lasciandolo impunito, benché condannato.

Quella che criminalizza le donne che, sopravvissute alla violenza, raccolgono dignità e coraggio e vanno a denunciarla, per poi essere intimidite.
Quella che consente al violento di circondarsi di un branco di gente colpevole come lui per amplificare l'abuso.
Quella che se chiedi aiuto, non solo ti lascerà sola ma ti esporrà ad altre minacce.
Quella che trova normale fare crescere i bambini nelle aule dei tribunali, rivittimizzarli, e continuare anche dopo aver compiuto la maggior età, finché la loro madre non sia sopraffatta.
Quella che invece di sanzionare gli abusi sanziona i toni coloriti di chi li racconta.
Quella che discrimina le vittime per giustificare gli orchi, i mostri domestici.
Quella che organizza le passerelle in commemorazione delle vittime, ma solo se sono morte, altrimenti si trova un sistema per zittirle del tutto.
Quella che invita le donne a parlare, per poi denunciarle dopo.
Quella che autorizza il violento ad usarti violenza economica spolpandoti di ogni bene, e mettendoti nelle condizioni di subire processi che aggraveranno ancora di più la situazione.
Quella che di fatto è collusa con la violenza, e corrotta fino nel midollo.
Mi fidavo, e invece.
Non è bastato l'orco, brutale, feroce, non sono bastati i suoi complici prezzolati, le sue comari bavose e parassite, i suoi compari pavidi e profittatori.
A loro si è aggiunto lo Stato.
Capace di perdersi denunce, fascicoli e testimonianze e di rinviare a giudizio i testimoni di giustizia come me per avere parlato. E di manifestarsi assente.
Se me l'avessero detto non ci avrei creduto.
Ma come fanno alcuni a vivere consapevoli delle croci che hanno caricato su altri, davvero è un mistero.


spesso dietro delle tragedie, c'è solo un colpevole... ma alcune volte, la legge non tutela agendo in prevenzione. Questo non significa che esistono altri colpevoli ma se fosse possibile prevenire anzichè curare, alcune situazioni potrebbero avere un altra via di risoluzione...

Ci hanno fregato proprio per il senso civico e il rispetto delle istituzioni che abbiamo. Ci hanno fregato perché siamo persone perbene e le persone perbene in questo paese sono destinate a soccombere. Hanno più garbo con i mafiosi ed i corrotti che con noi.

5.7.22

I VERI EROI SONO QUELLI CHE VENGONO RIEMPITI DI MERDA E CON CUI QIUASI MAI SAPUTA LA VERITA' NON CI SI SCUSA O LO SI FA IPOCRITAMENTE IL CASO Eugeni Giannini COMANDATE DELL'ANDREA DORIA IL TITANIC ITALIANO

   "Il mare è dolce e meraviglioso, ma può essere crudele".
                                       Ernest Hemingway



DA     Altre Storie | La Newsletter di Mario Calabresi

«Ho deciso di interrompere la mia carriera di marinaio quando, tornando a casa dopo un lungo periodo per mare, mia figlia Luisa, vedendomi entrare in cortile, corse da mia moglie urlando: “Mamma c’è uno in giardino”. Ecco, in quel momento ho capito che dovevo smettere». E così, nel 1963 Eugenio Giannini è sbarcato per l’ultima volta da un transatlantico ma la sua vita è rimasta legata al mare e alla notte più terribile della sua vita, quella dell’affondamento dell’Andrea Doria, il 25 luglio 1956, quando era sul ponte di comando, come terzo ufficiale della più grande e prestigiosa nave della storia italiana.
 

L'Andrea Doria mentre si inabissa al largo dell'Isola di Nantucket

Ci aspetta nel suo appartamento di Padova, dove vive con la moglie. Una coppia di splendidi novantenni, affettuosi e gentili, visitati frequentemente dalla figlia Luisa. Eugenio Giannini si è diplomato aspirante Capitano di lungo corso nel lontano 1948, tempi durissimi - l’anno delle prime elezioni politiche della storia repubblicana (e della prima vittoria democristiana), dell’attentato a Togliatti, di scioperi e tumulti – in cui la Marina Mercantile italiana era ancora malconcia, quasi inesistente dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale. «Trovare un imbarco, per me, giovane diplomato senza tradizioni famigliari marinaresche, non era facile, così ho accettato la prima chiamata, come mozzo, sul Salento, uno scava-fango della Grande Guerra di provenienza austriaca, che faceva rotta tra Genova e Famagosta, sull’isola di Cipro. Ci ho vomitato sopra per tutta la prima notte di navigazione, poi basta, da allora non ho più sofferto il mal di mare». La gavetta, Giannini, se l’è fatta tutta. Dopo il Salento è stata la volta delle petroliere di Ernesto Fassio, un nome che oggi ai più non dice molto, ma che, insieme ad Angelo Costa e Achille Lauro, componeva la triade dei grandi armatori italiani del dopoguerra. «Scendere nel locale pompe di quelle navi, a tentoni, senza vedere né scalini né il fondo, era un’impresa ardua. Una temperatura infernale e un vapore soffocante. Tutto questo in Golfo Persico, senza aria condizionata e spesso con i frigoriferi guasti!». 
 

La prua dell'Andrea Doria

Su quelle petroliere ottenne per la prima volta il grado di terzo ufficiale, lo stesso grado con cui, dopo diversi anni e numerosi altri imbarchi su navi differenti, il 10 aprile 1956 fu chiamato, con telegramma, sull’Andrea Doria. «Quando arrivai al pontile e la vidi, in tutta la sua maestosa bellezza, mi venne il groppo in gola. Era il coronamento dei miei sogni, mi stavo per imbarcare sull’ammiraglia della Marina Mercantile italiana». 
Non una nave qualsiasi. L’Andrea Doria era un transatlantico di una bellezza straordinaria, un gioiello di design, dalle linee incredibilmente armoniose: «Al confronto – sbotta Giannini - le colossali navi da crociera di adesso a me sembrano dei ferri da stiro!». Una nave che doveva simboleggiare la rinascita italiana dopo la catastrofe del conflitto mondiale «perché il mondo doveva sapere che in noi era rimasto un po’ di orgoglio che ci spronava a risorgere».

Destinata alla rotta più prestigiosa, quella che collegava Genova a New York, soprannominata la “Rotta del sole”, l’Andrea Doria fu davvero un eccezionale biglietto da visita per l’Italia e per la sua industria manifatturiera, un “lembo di patria semovente”, come la descrivevano firme prestigiose sui quotidiani, che trasportava personalità politiche e del mondo dello spettacolo in prima classe, ma anche emigranti in quella terza classe che era stata rinominata “classe cabina” e che, come ricorda Giannini, «non aveva proprio nulla della terza classe di una volta: la maggior parte delle persone, quando ci avvicinavamo al porto di New York, non voleva scendere. Sapevano che una vita così agiata non l’avrebbero più vissuta».  
Solo tre mesi dopo il suo primo imbarco, Eugenio Giannini assisterà alla fine dell’Andrea Doria. La notte del 25 luglio 1956, al largo di Nantucket, l’isola da cui Melville faceva partire il Pequod alla caccia di Moby Dick, la motonave svedese Stockholm speronò in modo irreparabile il transatlantico italiano, condannandolo a una lenta agonia prima dell’affondamento, avvenuto alle 10:10 del 26 luglio, con ancora il motore di emergenza acceso. «Il rumore, quando l’acqua la ricoprì completamente, sembrò quello di un rantolo. E forse lo era».
 

L’Andrea Doria durante il naufragio

Giannini rimase fino all’ultimo sul ponte di comando assieme al comandante Piero Calamai e ricorda tutte le fasi di quella notte: l’angoscia per la disperata consapevolezza di quello che stava per accadere a molte persone che stavano serenamente dormendo nelle loro cabine o festeggiando nei grandi saloni della nave; il sangue freddo del comandante Calamai, che riuscì a gestire la peggiore delle situazioni di emergenza – la nave si era subito sbandata oltre i 20 gradi, impedendo l’utilizzo di metà delle scialuppe di salvataggio –, coordinando le attività di soccorso e di evacuazione del transatlantico; la sua idea di utilizzare le reti di copertura delle piscine come improvvisate scale di emergenza e mille altre situazioni di disperazione o di coraggio. Alla fine di quella drammatica notte, tutti i passeggeri rimasti in vita dopo la collisione, e tutto l’equipaggio, furono salvati. I morti furono 46.

La sua memoria è lucidissima, pari alla sua rabbia, per come andarono le cose nei giorni e nei mesi successivi all’affondamento: «Perché noi avevamo ragione, ma l’Italia non si fece valere e alla fine ci restò attaccata una colpa che non avevamo». Giannini non ha mai dimenticato le ingiurie e le menzogne che furono rovesciate, strumentalmente, in ambienti svedesi e americani, contro l’equipaggio e gli ufficiali italiani: «Eravamo incolpevoli nella collisione, avevamo salvato tutti quelli rimasti in vita dopo lo speronamento, portando a termine il più grande salvataggio della storia della marineria di tutti i tempi, ma ci lasciarono insultare».
 

Il comandante Eugenio Giannini

La campagna denigratoria, organizzata principalmente dagli armatori svedesi per tentare di diluire le responsabilità dei suoi ufficiali – che navigavano fuori rotta e avevano sbagliato la taratura del radar –, ma ben vista anche dagli armatori americani – le cui navi spesso partivano semivuote per l’Europa poiché i passeggeri preferivano i nuovi transatlantici italiani (all’Andrea Doria si era aggiunta la gemella Cristoforo Colombo) – non fu minimamente contrastata dalla compagnia armatrice italiana, la Società di Navigazione Italia, appartenente al gruppo IRI. 
Probabilmente per l’elefantiaca e burocratica struttura di questa impresa statale, ma forse anche perché nei cantieri di Sestri, sempre di proprietà IRI, si stava completando la costruzione della nuova ammiraglia svedese, una commessa molto ingente che si sarebbe rischiato di perdere.

Alla fine, insomma, in Italia sembrò prevalere l’idea che fosse meglio “lasciare cadere” la cosa. Si preferì giungere a un accordo extragiudiziale tra armatori svedesi e italiani che non stabilì con chiarezza le cause e le responsabilità della collisione.

Un accordo che lasciò l’amaro in bocca a Eugenio Giannini e a tutti gli ufficiali e gli uomini dell’equipaggio dell’Andrea Doria. Da allora, fino a oggi, il comandante Giannini non ha mai perso occasione per ricordare la verità sull’Andrea Doria e ricordare il valore del suo comandante di allora Piero Calamai, scomparso nel 1972, senza avere mai più ricevuto un incarico: «Una cosa vergognosa, lui era il migliore comandante che si potesse desiderare, fece tutto il possibile e non aveva colpe. Non meritava di essere trattato così».
 

La Ballata dell’Andrea Doria”, il podcast di Chora Media per Archivio Luce raccontato da Luca Bizzarri

La voce del comandante Giannini, ancora appassionata e vivace, è una delle protagoniste della serie podcast realizzata da Chora Media per Archivio Luce e narrata da Luca Bizzarri, in cui si ricostruisce la storia di quell’eccellenza italiana e si racconta, in modo approfondito, ogni aspetto di quella tragica notte.
Un cinegiornale dell’Archivio Luce, commentando la fine dell’Andrea Doria, affermava: “l’oceano è cattivo, quando ha sete beve tutto”. Forse la cattiva memoria è ancora peggiore. Grazie al comandante Eugenio Giannini, la verità sull’Andrea Doria è stata ristabilita.

*Davide Savelli, autore e regista di documentari, programmi e serie, ha scritto la serie podcast “La Ballata dell’Andrea Doria”. Il suo ultimo libro è: “Venezia 1902, i delitti della Fenice”

5.5.22

ma è possibile che ogni volta che succede un femminicidio sui media debba esserci un elogio biografico del carnefice e non della vittima \ vittime ?

 

Di cosa  stiamo  parlando

https://www.facebook.com/thePeriodoff/

A Monza Alessandro Maja, l’uomo di 57 anni è accusato di aver ucciso a martellate la notte di martedì e  mercoledì la figlia di 16 anni Giulia e la moglie di 56 anni Stefania Pivetta. .....   qui le  ultime  news  e  in  questo nostro articolo    il  resto  della  vicenda  ed  al lato uno dei  punti della  guida del  giornale  facebook  the  period  .per  raccontare  i femminicidi  che purtroppo pochissimi  sia  sui media  che sui  social  rispettano quando  parlano  di tali argomenti 



Cari Editori   e cari Giornalisti  


 Sappiate   che è inutile  che  fate  degli articoli  speciali  ogni   25   novembre  o   delle pagine   speciali   sul femminicidio  sul sito delle vostre testate online  se poi con i  vostri  articoli    suscitate  simili   e  condivisibili reazioni  come     queste  tra le  più significative 

Che cazzo ci frega di sapere chi era questo assassino che ha deciso di sterminare tutta la famiglia tranne se stesso?
Ha ucciso a martellate la figlia, l'altro figlio sta lottando per sopravvivere, e la moglie.
E questo giornale immondezza, immondo mi vuole far sapere chi era l'omicida.
Anzi, cerca pure di elevarlo.
Dimenticando completamente le vittime.
Io invece avrei voluto sapere chi era la moglie, cosa faceva.
Quali erano i sogni dei figli, che lui ha distrutto.
A me questo giornalismo fa vomitare.
Fa schifo, se non c'è un etica del giornalismo questo Paese è davvero nella merda.
Sono nera

Comunque anche oggi un femminicidio è stato raccontato dalla parte dell’assassino, mettendone in luce le qualità professionali, come se avesse senso (a meno che l’intento non fosse quello di attutire la gravità di aver ucciso moglie e figlia a martellate) e invitando il lettore a scoprire chi fosse questa persona (come se si trattasse del personaggio simpatico di una bella favoletta, il che giustificherebbe anche la scelta di una bizzarra foto che lo ritrae sorridente e con un pappagallo sulla spalla).
E continuando ad alimentare l’insostenibile tesi per cui un fenomeno sistematico (culturale, sociale, politico) nascerebbe da un’infinita serie di casi isolati, imprevedibili e incomprensibili.
Ormai mi sembrano incomprensibili solo per i giornalisti che li affrontano così. E, purtroppo, anche per chi li legge pensando di potersi fidare.
Il nome delle due donne uccise è Stefania Pivetta e Giulia Maja.
In questo titolo, fra l’altro, notiamo anche nome e cognome nonché qualifica professionale dell’uomo, mentre le due donne assassinate sono nominate solo in relazione (in funzione) a lui quindi come moglie e figlia. Qui c’è veramente tutto di una lettura del mondo e delle cose che non riesce a scollarsi da un punto di vista solo.

Mentre   finivo di fare  cute paste  ....  ehm ....  copia   e incolla    ho  trovato  , miracolo  uno  dei rarissimi casi  in pratica uno  su mille , un articolo  ( sogno oppure   perchè  il sito   è  di una  rivista  femminile ? )   come si  deve    ed  onesti cioè senza  elevazione  biografiche    del carnefice    sul  fenomeno anzi   piaga   dei  femminicidi  





Il femminicidio in Italia: se mi lasci, ti uccido
Non chiamiamoli più padri, mariti, o figli, quelli che compiono queste stragi, ma chiamiamoli con il loro nome: mostri assassini

5 Maggio 2022

GIORNALISTA TELEVISIVA LINKEDIN FACEBOOK SITO PERSONALE



L’ultimo femminicidio in ordine di tempo è avvenuto il 5 maggio 2022, compiuto da Alessandro Maja di 57 anni. In realtà quello che è avvenuto tra le mura domestiche è una vera e propria strage familiare, probabilmente pianificata, perché a quanto pare, la coppia sarebbe stata in crisi da tempo .L’uomo ha disposto sul tavolo da cucina le armi con cui aveva deciso di sterminare la sua famiglia: un cacciavite, un martello, un trapano e un coltello. Quattro arnesi, quattro proprio come loro, la moglie Stefania Pivetta, la figlia Giulia di 16 anni, il figlio Nicolò di 23, e infine lui, l’autore della carneficina. I vicini di casa sono stati svegliati dalle urla ed hanno sentito pronunciare la frase: “Li ho uccisi tutti, bastardi”, urlata proprio dal Maja, che in pieno delirio di onnipotenza si vantava di “esserci riuscito”, ricoperto dal sangue dei suoi congiunti, e, solo in poca parte del suo, perché, a quanto sembra, alla fine della mattanza, avrebbe provato a suicidarsi, ferendosi solamente, che per un uomo che pianifica la morte della sua intera famiglia, sembra difficile da credere. Perché un uomo che lucidamente pianifica e porta a termine due omicidi ed un tentato omicidio nei confronti del sangue del suo sangue, improvvisamente, quando si tratta di togliersi la vita non ci riesce?
Tragedia di Samarate, una delle due vittime 
 Giulia

Un uomo che non aveva nessun precedente per maltrattamenti o abusi, un uomo che nella sua biografia si descriveva come “vulcanico progettista, fulcro e fondatore”, in poche parole un uomo, forse, con la mania del controllo, un narcisista, al quale, evidentemente, era sfuggito il potere sulla sua famiglia, il nucleo perfetto del quale, pare, si vantasse. Un matrimonio di lunga data, due figli, un maschio ed una femmina, una vita costellata di di successi, personali e professionali, con una macchia che poteva, ma solo nella sua testa, cancellare questa lunga scia di note positive: un divorzio. Già, perché sembra che, alla base di questa mattanza criminale, possa esserci la decisione della moglie di rivolgersi ad un avvocato per una consulenza sulla separazione. Viene da chiedersi come sia possibile che basti questo per decidere di sterminare la propria famiglia, ma, purtroppo, di casi come questo, sono piene le pagine dei vari quotidiani. Il fattore scatenante sembra essere sempre lo stesso, un copione già visto, e già scritto. Mi lasci? Ti uccido. E non solo. Se riesco elimino anche la tua progenie, perché in quel momento, non sono più “anche” i suoi figli, sono il proseguo della donna che ha dato loro la vita, se cancello anche loro, non rimarrà più nulla di lei su questa terra.
Si chiamano disturbi della personalità, che badate bene, non significa essere malati di mente, non significa nemmeno non essere capaci di intendere e di volere, ma significa avere una concezione distorta della realtà che ci circonda. Il narcisista per esempio prova un senso di grandiosità e di superiorità, manifesta assenza di empatia, un grande bisogno di ammirazione, e un’intolleranza alle critiche, che sfido chiunque di noi a non aver provato almeno una volta nella vita, ma certamente, non con le conseguenze di cui sopra. Eppure ogni volta all’indomani di una tragedia di queste proporzioni, rimango sempre colpita da quanto spesso i femminicidi e le stragi famigliari abbiamo tratti distintivi comuni, come se fossero legati da un fil rouge sottile e quasi invisibile, fino a qualche attimo prima che tutto accada, il senso del possesso e il rifiuto dell’abbandono. E ogni volta faccio sempre la stessa considerazione sulla frase “tenta il suicido, ma fallisce”. Ma davvero credete che un uomo capace di sterminare nel sonno una moglie che dorme ignara sul divano con un martello, di colpire con lo stesso, o con il cacciavite, sua figlia di 16 anni, ammazzandola come un animale, e suo figlio di 23, abbia difficoltà a togliersi la vita? Diciamo la verità una volta per tutte. Questi uomini non vogliono morire, questi uomini vogliono inscenare il loro pentimento, vogliono dimostrare di essere stati colti da un raptus, e poi, in un momento di lucidità, una volta compreso lo scempio, abbiano cercato di porre fine a quell’orrore pagando con la loro stessa vita, ma caso strano, non ci riescono quasi mai.
Perché un uomo che pianifica la morte dei suoi figli, apparecchiando il tavolo da cucina con le armi da utilizzare, immagino scegliendole con cura, dovrebbe poi fallire nel gesto estremo di togliersi la vita? Perché provare a ferirsi con una lama e poi provare a darsi fuoco, ma solo alle estremità? Perché non prendere dei sonniferi? O perché non spararsi? O perché non impiccarsi? La risposta è molto semplice. Perché non vogliono morire, perché vogliono mostrare al mondo anche il loro sangue, ma non tutto, solo una parte, perché loro vogliono sopravvivere, provando soddisfazione per il piano portato a termine, quello di sterminare i propri congiunti, perché solo uno deve rimanere in vita, lui, l’artefice della strage 
Ma questa volta al signor Maja è andata male, perché il figlio ventitreenne è riuscito a non soccombere sotto i colpi del martello da lui utilizzato per provare a cancellarlo da questa terra, è in terapia intensiva, con ferite molto gravi, ma stabile, mentre lui, “povero” non è riuscito nell’intento di uccidersi, una volta rimasto solo, e senza che nessuno provasse ad impedirlo, ha fallito nell’impresa di suicidarsi. Eh no lui non ha fallito, lui ha scelto di non morire, perché poteva farlo, mentre alla sua famiglia questa opportunità non è stata lasciata. E allora non chiamiamoli più padri, mariti, o figli, ma chiamiamoli con il loro nome, perché sì ne esiste solo uno per quegli uomini che uccidono il sangue del loro sangue, o le loro compagne, ed è quello di mostri assassini. E tu Nicolò fagli il dispetto più grande di tutti, sopravvivi e porta in alto il cognome che adesso potrai cambiare, scegliendo quello di tua madre, così che lei possa sopravvivere per sempre, nonostante la morte. Insieme a te.






9.5.21

ma basta mestolare sul caso grillo e company un po' di rispetto per le vittime

sfogliando https://news.google.com/foryou?hl=it&gl=IT&ceid=IT%3Ait sono capitato in questa anteprima
Mi    chiedo   ma  basta parlare di questi assatanati ( metaforicamente  parlando  )     che da come si sarebbero comportati  e  dalle   acuse  che li vengono rivolte      sembra che non abbiano ai visto .... e considerano il sesso come un diritto ed un obbligo . Quindi   per rispetto   soprattutto  delle due vittime  i come afferma Luca Marfé 



 << [...] 𝒶𝒹ℯ𝓈𝓈ℴ 𝓈ℯ 𝓂𝒶ℊ𝒶𝓇𝒾 𝓁𝒶𝓈𝒸𝒾𝒶𝓂ℴ 𝓁𝒶𝓋ℴ𝓇𝒶𝓇ℯ 𝒾 𝓂𝒶ℊ𝒾𝓈𝓉𝓇𝒶𝓉𝒾, ℯ 𝒶𝒹𝒹𝒾𝓇𝒾𝓉𝓉𝓊𝓇𝒶 𝓁𝒶 𝓈𝓂ℯ𝓉𝓉𝒾𝒶𝓂ℴ 𝒹𝒾 𝓂𝒶𝓈𝓉𝓊𝓇𝒷𝒶𝓇𝒸𝒾 𝒸ℴ𝓃 𝓆𝓊ℯ𝓈𝓉𝒶 𝓋𝒾𝒸ℯ𝓃𝒹𝒶, 𝒸𝒾 𝒻𝒶𝒸𝒸𝒾𝒶𝓂ℴ 𝓉𝓊𝓉𝓉𝒾 𝓆𝓊𝒶𝓃𝓉𝒾 𝓊𝓃𝒶 𝒶𝓈𝓈𝒶𝒾 𝓅𝒾𝓊̀ 𝒷ℯ𝓁𝓁𝒶 𝒻𝒾ℊ𝓊𝓇𝒶 .>>


Almeno fino  a processo   

16.6.20

Valentina Pitzalis, la surreale richiesta della famiglia di Manuel: vogliono riesumare il suo cadavere


Valentina Pitzalis: come una vittima di "tentato" femminicidio è stata  messa alla gognaValentina Pitzalis fu quasi uccisa dal suo ex Manuel Piredda [  foto a  destra  ] nove anni fa. Lui l’aveva attirata a casa con una scusa e le aveva gettato addosso della benzina, per poi darle fuoco con un accendino. Nel tentativo di dare fuoco a tutta la casa, lui morì di asfissia. Valentina è sopravvissuta, pur perdendo una mano e con ustioni gravissime che le hanno sfigurato parte del volto e del corpo. I genitori del ragazzo (Roberta Mamusa e Giuseppe Piredda) da 9 anni cercano di convincere l’opinione pubblica e il tribunale di Cagliari che fu Valentina a dare fuoco a Manuel. E lo fanno con metodi che possono essere elencati così: una pagina Facebook insultante in cui Valentina è additata come puttana e assassina dalla madre di Manuel e dai migliaia di adepti.Ne ho letto e sentito di storie di femminicidi e o di amori ( se cosi si può chiamare ) criminali \ malati ed anche di genitori ed amici\che può essere comprensibile che difenda il proprio amico \ congiunto e si cerchi di dimostrare che non è vero quello di cui lo accusa la  contro parte 





LA NOTTE IN CUI MANUEL PIREDDA DIEDE FUOCO A VALENTINA PITZALIS - Nera e  Dintorni
quando  erano ancora  una  coppia                                     
Se non ci fosse una tragedia al centro di questa storia iniziata nel 2011, forse verrebbe anche da sorridere nell’assistere ai suoi sviluppi, ormai tra il patetico e l’assurdo , infatti arrivare a tali livelli si è in malafede e che coloro che li seguono soprattutto andando oltre i fatti accertati archiviazione delle accuse a Valentina , condanne per diffamazione della madre della vittima è da gente malata e d idiota solo per andarci leggeri ed non scendere al loro livello. Io sono talmente schifato da non riuscire a a continuare ed lascio i compito all'articolo di https://www.tpi.it/cronaca/ ed ai link sotto per chi volesse approfondire la vicenda 

da https://www.tpi.it  del   16 Giu. 2020 alle 12:03



Seguono due processi, uno civile e uno penale ancora in corso per diffamazione. Nel civile la madre di Manuel viene condannata a pagare i danni a Valentina e a chiudere la pagina Facebook, si dichiara nullatenente, non paga nulla e riapre la pagina Facebook indisturbata. Nel frattempo per due volte il pm, a seguito di indagini, chiude la vicenda “per morte del reo” (ovvero per morte del colpevole Manuel Piredda). I legali della madre di Manuel denunciano il pm (già qui siamo nella sfera dell’incredibile). Che va via. Ne arriva un altro, che riapre le indagini. Valentina è indagata per omicidio.A quel punto il team difensivo di Manuel e la madre di Manuel chiedono la riesumazione della salma di Manuel, sostenendo varie tesi, alcune surreali: Valentina ha sparato a Manuel, Valentina lo ha colpito con un bastone, Valentina è stata aiutata dalla sorella, Valentina si ispira a Freddy Krueger, Valentina potrebbe aver organizzato il pestaggio di Manuel settimane prima, Valentina ha inciso una scritta sulla caviglia di Manuel dopo averlo ucciso, Valentina agisce il giorno 17 perché è un numero simbolico per lei, uno dei ragazzi che pestò Manuel è morto ingoiando un pezzo di pane, va aperta una nuova indagine (chissà, Valentina lo ha forse soffocato con una baguette?) e così via, in un valzer di assurdità che a leggerle tutte insieme, come dicevo all’inizio, verrebbe perfino da ridere. Comunque, la riesumazione del corpo ha escluso proiettili, bastonate, incisioni alle caviglie e fantasie varie. Fantasie partorite in massima parte dalla mente della criminologa/consulente della madre di Manuel, Elisabetta Sionis, che si avventura in analisi personologiche e accurati trattati psicologici sulla personalità, a suo dire, borderline di Valentina, senza che l’abbia mai incontrata, senza che le sia consentito fare valutazioni psicologiche da depositare in procura (che infatti le vengono restituite dal giudice) e senza avere una laurea in psicologia perché è laureata in pedagogia. Incredibile ma vero, proprio la Sionis porta avanti anche la tesi dei proiettili e dell’incisione della caviglia, mentre una procura, in qualche modo, per tre anni le va dietro, mentre la povera Valentina continua a subire non solo la gogna del sospetto, ma anche le persecuzioni social della signora Mamusa, tanto che la denuncia per stalking.Addirittura, a sostenere il team legale della signora che lo ricordo, si dichiara nullatenente, arriva uno dei medici legali più noti e autorevoli del paese, Vittorio Fineschi, già visto nel caso Cucchi. Ed è una bizzarra coincidenza perché sia il perito del giudice, la dottoressa Mazzeo, che i suoi ausiliari, sono tutti professionalmente ed accademicamente vicini al professor Fineschi (chi è stata sua allieva, chi ha scritto un libro con lui…). Cosa ci fa Fineschi a dare manforte a queste tesi sgangherate, in una storia come questa, in cui chiunque dia una letta alle carte capisce che la Pitzalis è vittima due volte, dell’ex marito e di questa surreale vicenda giudiziaria? Beh, Fineschi aggiunge un altro tassello surreale alla storia: afferma, davanti al giudice, durante l’incidente probatorio, che Manuel non è morto respirando fumo, ma che Valentina potrebbe aver soffocato Manuel con un corpo soffice, magari una calza di seta, ecco perché non ha segni sul collo. Peccato che Manuel sia morto con una sciarpa annodata al collo, quindi sarebbe stato soffocato con una calza di seta su una sciarpa, senza reagire. Sempre più surreale.
Poi finalmente a maggio di quest’anno arriva la richiesta di archiviazione, la terza. A quel punto la Pitzalis si aspetta, ovviamente, l’opposizione all’archiviazione. Figuriamoci se si rassegnano. Quello che però anche in una vicenda oltre ogni immaginazione come questa non ci si può aspettare è che l’asticella delle assurdità si alzi ulteriormente. E invece. L’ultima notizia è che tra due giorni, in una conferenza stampa in un hotel di Cagliari (!), i genitori di Manuel e il loro team legale annunceranno l’opposizione all’archiviazione e udite udite, la richiesta dell’esumazione STRAORDINARIA del corpo di Manuel. Cioè, vogliono una nuova autopsia. Un’altra. Chissà cosa cercano questa volta. Forse delle frecce o il veleno di un cobra reale.
Inoltre mostreranno delle foto inedite ai giornalisti (nelle ultime foto inedite individuarono dei bossoli inesistenti sulla scena del delitto, l’incisione sulla caviglia e chissà cos’altro)! Giornalisti che, notate bene, sono invitati da loro e si devono registrare per entrare. Quindi stranamente i detentori della verità non vogliono giornalisti non selezionati, che magari possano far notare il valzer delle assurdità su cui ruota tutta questa orribile, grottesca, drammatica vicenda. Ah, la conferenza sarà il 18. Un giorno come un altro a Cagliari, ovvero quello in cui si aggiunge un nuovo tassello surreale a questa vicenda, sperando che nessuno vada più dietro a queste tesi grottesche, soprattutto la stampa.









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