da repubblica del Febbraio 27.2. 2020
Da Internet agli acquisti su Amazon, la contrazione
nelle vendite va avanti da più di vent’anni. Senza parlare della
pirateria
di SERGIO RIZZO
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Passavamo i pomeriggi da Consorti, come si chiamava
quel negozio che vendeva dischi in viale Giulio Cesare, a Roma. In
quelle cabine con sottili pareti di vetro si stava ore, seduti a terra,
ad ascoltare dischi appena usciti, o magari soltanto sfuggiti alla
bulimia musicale che negli anni Settanta contagiava tutti i ragazzi. Un
long playing a 33 giri costava fra 4 e 5 mila lire. Una discreta
sommetta: rapportata a oggi, una quarantina di euro. Ne compravamo uno
di tanto in tanto, e quando succedeva sembrava una grande conquista.
I pomeriggi ad ascoltare musica.
Quei pomeriggi erano qualcosa di più, la scoperta miracolosa di un
mondo magico destinato però a scomparire. Finiva la scuola e si
diventava grandi, mentre tutto cambiava. I dischi di vinile morivano,
soppiantati dai compact disc. La pirateria, che già aveva invaso il
mercato, prese subito confidenza con il nuovo mezzo e dilagò. Le cabine
sparirono, qualche negozio falliva e chiudeva. Poi, un bel giorno,
arrivò internet e fu il patatrac.
Confesercenti dice che nel 2006 i negozi indipendenti che vendevano
dischi e video in Italia erano 1.391. Di quelli ne sarebbero rimasti
secondo gli ultimi dati disponibili, 258. Ma i dati di cui parliamo sono
del 2017. E come per le librerie e per le edicole, neppure questa
emorragia si è arrestata. Con una differenza non da poco: perché la
chiusura delle edicole ha a che fare con la crisi della carta stampata e
quella delle librerie è anche la conseguenza logica di un Paese che non
ama la lettura, la musica non è affatto in difficoltà. Tutt’altro.
L’ultimo a chiudere è stato lo storico rivenditore di dischi di
Chivasso, città piemontese di 27 mila abitanti. Non va meglio tuttavia
nelle metropoli. «Qui a Milano», dice Mario Buscemi che gestisce una
rivendita in Corso Magenta, «il nostro è praticamente l’unico negozio
indipendente rimasto, se si eccettua qualcuno che vende dischi usati».
Il suo negozio ha cinquant’anni. Ma Buscemi sa che durerà fino a quando
dietro il bancone ci sarà lui: «Per me è come fosse una sfida. Il
mestiere mi piace e vado avanti finché me la sento. Non penso però di
lasciare l’attività a qualcuno in condizioni di continuarla, una volta
che sarò andato in pensione». La situazione si è fatta per molti
insostenibile. «Il fatturato sarà sì e no il 30 per cento di quello di
un tempo. La musica non si ascolta quasi più dai supporti fisici. La
scaricano da internet con costi modestissimi senza dire della pirateria.
E quello che si compra, si compra per corrispondenza da Amazon, che ha
ormai la metà del mercato italiano. Ma il fatto è che la crisi», insiste
Buscemi, «va avanti da più di vent’anni».
Multinazionali contro negozi
Risale a quell’epoca l’appello all’Antitrust del Forum cultura e
spettacolo dei Verdi che denunciavano un accordo delle grandi
multinazionali sul prezzo dei dischi in grado di danneggiare i piccoli
negozi. La denuncia aveva preso le mosse da un procedimento innescato in
28 stati americani nei confronti delle stesse multinazionali. Ma già
nel 1997 l’Antitrust italiano aveva sanzionato con una multa di 8
miliardi di lire il cartello ritenuto responsabile, come ricordò un
articolo di Carlo Moretti su Affari&Finanza di Repubblica nel 2003,
di aver falsato “in maniera consistente la concorrenza sul mercato
discografico in Italia mediante la definizione di una struttura e un
livello uniforme dei prezzi praticati ai rivenditori”.
La crociata contro la pirateria
E nel 2002 fu la Confesercenti a tentare di avviare una crociata contro
la pirateria, rivelando che in Italia il 20 per cento del mercato dei
compact disc era controllato dalla contraffazione. L’anno seguente la
crisi era già conclamata, con chiusure a ripetizione dei negozi
specializzati. Allora il fenomeno di Amazon non si era ancora palesato, e
i rivenditori indipendenti puntavano il dito contro la grande
distribuzione. Al punto che Norina Rossi, già presidente del comparto
che fa capo alla stessa Confesercenti, avanzò la proposta di vendere i
dischi anche nelle edicole: non potendo immaginare quello che sarebbe
accaduto in seguito alla rivendite dei giornali.
Oggi anche lei, titolare di un negozio di Arezzo, dice che «la crisi è
nella lettera A, quella di Amazon». E poi la contraffazione, «che è
diventata un meccanismo perfetto». Il bilancio: «in Toscana siamo
rimasti una dozzina di negozi indipendenti. Sono spariti a Siena, sono
spariti a Viareggio, stanno sparendo a Pisa. Il fenomeno è così serio
che a questo punto non so cosa debba accadere perché se ne occupi il
governo».
Una piccola boccata d’ossigeno è venuta dalla riscoperta del vinile. Che
però, avverte Buscemi, «è comunque un fenomeno limitato, e certo non
compensa la paurosa flessione delle vendite». C’è quindi chi cerca di
tenersi a galla organizzando incontri con musicisti e cantanti. E
intorno a questi eventi si è costruito anche un discreto mercato. Ma non
può essere questa la soluzione.
La verità è che siamo di fronte a una questione di portata globale. Sul
Sole 24 Ore Simone Filippetti ha raccontato sei mesi fa che a Londra,
nella centralissima Oxford street, ha chiuso nientemeno che Hmv: His
master’s voice. Per gli italiani, la Voce del padrone. Era il più famoso
negozio di dischi della capitale britannica, fondato addirittura nel
1921. Ha resistito finché ha potuto, più di Megastore di Richard
Branson, e decisamente più di Tower records, che ha abbassato le
saracinesche ormai da più di un decennio.
In Italia la resistenza ha provato a sfondare con il Fisco. Finora però
inutilmente. All’inizio del 1997, per decisione del primo governo di
Romano Prodi che oltre ad aver introdotto l’eurotassa stava raschiando
il fondo del barile per riuscire a entrare nel gruppo di testa della
moneta unica, l’Iva su dischi e compact venne portata dal 9 al 20 per
cento. Le case discografiche lamentarono subito che avrebbe quindi fatto
impennare anche i prezzi. Senza esito.
L’appello contro l’Iva
Cinque anni più tardi, con un appello al presidente del consiglio Silvio
Berlusconi e ai ministri dell’Economia e dei Beni culturali Giulio
Tremonti e Giuliano Urbani, 150 artisti, da Salvatore Accardo a Zucchero
Fornaciari, chiesero di abbattere l’Iva su dischi e compact disc dal 20
al 4 per cento. Portandola allo stesso livello dell’imposta applicata
su giornali e libri. «Sembra un paradosso», scrivevano, «ma ad un libro
che racconta la vita di Giuseppe Verdi si applica il 4 per cento di Iva;
tuttavia, se volessimo acquistare un disco che contiene l’opera del
grande compositore italiano, dovremmo pagare un’Iva del 20 per cento».
Ma pure quello, nonostante il peso di tutti quei nomi, fu un buco
nell’acqua.
Finché a gennaio del 2005 un deputato dell’opposizione di centrosinistra
presentò una proposta di legge per accogliere quell’appello. Il suo
nome? Dario Franceschini, attuale ministro dei Beni culturali. Anche la
sua proposta cadde però nel vuoto. Da allora la pratica è finita nei
fatti su un binario morto. Con il risultato che l’Iva sui dischi e i cd
attualmente è al 22 per cento, il livello più alto d’Europa.