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25.4.22

Da vittime di violenza a “madri cattive”, quando i giudici puniscono le donne La Commissione sul femminicidio: “Nel 97% delle separazioni conflittuali ignorati i referti sui maltrattamenti”

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 Nonostante  le  aperture    createsi   con le  lotte  degli anni 60\80   ed  la presenza  di molti   gruppi  \  e  associazion che  combattano   la  loro  guerriglia contro culturale  contro il  patriarcato  e  le  sue  basi culturali che  sono anticamera  dei  femminicidi   nel nostro paese c'è ancora  un sistema  opprimente   nei  confronti  delle   donnne  . Infatti  leggo su repubblica   d'oggi che 

Laura Massaro (a sinistra) durante una protesta contro l’alienazione parentale.
Un mese fa la donna ha vinto la sua battaglia in Cassazione 

 Nonostante  le  aperture    createsi   con le  lotte  degli anni 60\80   ed  la presenza  di molti   gruppi  \  e  associazion che  combattano   la  loro  guerriglia contro culturale  contro il  patriarcato  e  le  sue  basi culturali che  sono anticamera  dei  femminicidi   nel nostro paese c'è ancora  un sistema  opprimente   nei  confronti  delle   donnne  . Infatti  leggo su repubblica   d'oggi che  


Millecinquecento fascicoli esaminati, tre anni di lavoro, ottantanove pagine di relazione. Per testimoniare, sotto forma di numeri, quanto da tempo la cronaca racconta: quando in una separazione
conflittuale le donne denunciano per violenza i propri partner, da vittime, spesso, diventano imputate, vengono accusate di essere "madri cattive" e rischiano di perdere la tutela dei figli. Un nome simbolo: Laura Massaro. Un dato emblematico: nel 97% dei casi esaminati, i giudici, nel decidere dell'affido dei bambini, hanno ignorato documenti, referti addirittura sentenze di uomini rinviati a giudizio per maltrattamenti.
E' un documento da cui non si potrà più prescindere la relazione della Commissione d'Inchiesta sul femminicidio: "La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti di affidamento e responsabilità genitoriale". Una descrizione implacabile di un segmento distorto della Giustizia civile e minorile, per cui accade che un bambino possa essere affidato a un padre condannato per violenza e tolto alla madre che quell'uomo aveva denunciato. Ecco alcuni passaggi chiave della relazione, in particolare sui tribunali ordinari.
Esaminati  500 fascicoli
La Commissione ha analizzato circa 1460 fascicoli, di cui 569 provenienti dai tribunali ordinari per il trimestre marzo-maggio 2017 e 620 dei tribunali minorili relativi al mese di marzo 2017. A questi vanno aggiunti altri 45 fascicoli inviati direttamente da madri che hanno denunciato la sottrazione dei figli. Il lavoro del pool di magistrate, avvocate e consulenti ha evidenziato, sentenza dopo sentenza, come si arriva a casi clamorosi come quello di Laura Massaro che ha fondato il "Comitato madri unite contro la violenza istituzionale", e da 10 anni lotta perché suo figlio non venga collocato in casa famiglia, su richiesta del padre, denunciato per violenza e con il quale il bambino non vuole avere rapporti. O alla tragedia di Ginevra Pantasilea Amerighi, il cui fascicolo fa parte dei 45 esaminati dalla commissione, a cui la figlia Arianna venne strappata dalle braccia dai servizi sociali quando aveva soltanto pochi mesi e affidata a un padre condannato per maltrattamenti.
Gli allarmi inascoltati
Nel 97,6% dei circa 600 casi di separazione giudiziale esaminati, i giudici dei tribunali ordinari non hanno tenuto conto né di referti e testimonianze di violenza domestica, presentati nell'86,9% dalle donne, né, ed è forse ancora più grave, di "carte" che denunciavano maltrattamenti su figli minori (18,7% dei casi). Non solo. I presidenti dei tribunali, si legge nella relazione, "pur a conoscenza di procedimenti penali pendenti o definiti, nel 95% dei casi non hanno ritenuto di acquisire gli atti". Dunque può succedere, anzi è successo e l'indagine svela finalmente quale è il meccanismo che porta a questa distorsione, che in una separazione un bambino possa essere affidato a un padre condannato per violenza e tolto ad una madre accudente e presente. Commenta Valeria Valente, presidente della Commissione: "Ciò che emerge dalla relazione è che donne e bambini vittime di violenza domestica possono subire ulteriore vittimizzazione in tribunale. Occorre maggiore formazione da parte di tutti gli operatori per riconoscere la violenza domestica e una più ampia correlazione tra cause civili per separazione e cause penali per maltrattamenti".
L'alienazione parentale
Ma come si arriva ai casi estremi esaminati dalla Commissione sul femminicidio del Senato? Nell'affido dei figli oggi il concetto dominante è la salvaguardia della bigenitorialità al di sopra di tutto, come prevede la legge 54 del 2006 sull'affido condiviso. Un concetto spesso portato all'estremo nelle separazioni conflittuali, dove accade che ai figli vengano imposti incontri con padri maltrattanti, rinviati a giudizio, in carcere. La motivazione (smentita però dalla Cassazione) è che, "un cattivo padre è meglio di nessun padre", nell'idea, si legge nella relazione, "che una educazione monosessuale" potrebbe incidere (negativamente) sul futuro dei figli.
Dunque i servizi sociali impongono incontri ai quali però in moltissimi casi i bambini non vogliono partecipare perché hanno visto quei padri picchiare o sono stati a loro volta abusati. Di questo rifiuto vengono colpevolizzate le madri, definite nelle relazioni dei "Ctu", discussi consulenti tecnici di ufficio, nel 28% dei casi, madri alienanti, simbiotiche, manipolatrici, malevole, fragili. Inadatte allora a fare le madri, tanto da poter essere sollevate dalla responsabilità genitoriale, tanto da poter strappare loro i figli con la forza. Da ricordare una storia su tutte e il nome di un bambino: Federico Barakat. Fu ucciso a 8 anni a coltellate dal padre durante un incontro protetto nella sede della Asl di San Donato Milanese. La mamma, Antonella Penati, invano aveva avvertito i servizi sociali della pericolosità del suo ex. Era stata definita alienante e ipertutelante e al bambino erano stati imposti quegli incontri con un padre che si sarebbe trasformato in killer.
Il silenzio dei bambini
Uno dei dati di accusa più forti di tutta la relazione riguarda il diritto negato dei bambini, e degli adolescenti, a far sentire la propria voce nelle sentenze di affido che li riguardano. Soltanto nel 30,8% dei fascicoli esaminati i minori vengono ascoltati, ma soprattutto soltanto il 7,8% viene ascoltato direttamente dal giudice. Questo fondamentale e delicatissimo momento viene nell'85,4% dei casi delegato ai servizi sociali. Anzi, la voce dei bambini non viene nemmeno registrata durante l'incontro, al giudice dunque - ed è gravissimo - il pensiero dei minori non arriva mai nella sua autenticità.

16.12.12

quando i giudici rovinano la gente Travolti negli anni Novanta dall’incredibile caso (falso) dei “satanisti pedofili” del Modenese, i coniugi Covezzi




  Nel 1997, la caccia al pedofilo ha raggiunto il suo culmine. I casi di pedofilia sembrano estendersi su tutto il continente europeo. In Italia, le denunce di abusi arrivano a superare del 60 per cento quelle dell’anno precedente. Da un giorno all’altro, chiunque abbia a che fare coi bambini potrebbe diventare un presunto colpevole. Le denunce colpiscono genitori, insegnanti, suore, preti e volontari. I media traboccano di storie dell’orrore: minorenni abusati, torturati, commerciati. Si sparge la voce dell’esistenza di sette di pedofili che occultano la propria esistenza nella normalità, persone apparentemente “amabili” e “per bene”, in realtà mostri che calano la maschera soltanto davanti alle proprie vittime, tenendo tutti all’oscuro. Medici e magistrati vengono chiamati a discutere dei presunti crimini. «I bambini non mentono mai», «il pedofilo è un insospettabile», «la maggior parte degli abusi avviene in famiglia», affermazioni ripetute ossessivamente sui giornali e in televisione. I dati statistici messi a disposizione del pubblico, a volte da associazioni implicate direttamente nel business degli affidamenti, delle consulenze e delle perizie, si fondano sulle denunce. Non c’è alcuna casistica sulle sentenze definitive. Un disegno, un problema psicologico, diventano l’indizio di un abuso. Chi osa parlare di “falsi abusi” è un negazionista. Il sospetto è  consuetudine, entra nelle procure, nei tribunali, contamina la ragione. In questo clima nasce una vicenda processuale su cui la giustizia italiana non è ancora riuscita a porre il sigillo della definitività.
RACCONTI HORROR. Assolti nel 2010 per fatti risalenti al 1997-1998, stanno ancora aspettando l’udienza del secondo processo d’appello, i coniugi Delfino Covezzi e Lorena Morselli di Massa Finalese (Mo). Uno degli ultimi strascichi di un’Italia che a fine anni Novanta affondava nella melma dei sospetti, dei processi spettacolo, delle accuse di testimoni “attendibili per definizione”, di presunti colpevoli che dovevano dimostrare la propria innocenza, di quelle che gli avvocati definirebbero “perizie per corrispondenza”. Il caso inizia con due testimonianze raccolte dagli psicologi dell’Ausl di Mirandola, affiliata al Cismai (vedi box). Si tratta di due bambini seguiti da anni dai servizi sociali. Nel 1997, vengono prelevati e trattenuti lontano dalle famiglie. Dopo qualche mese, sulla base di colloqui dei quali non vengono conservati né appunti né videoregistrazioni, i servizi sociali dell’Ausl coordinati dall’ex seminarista Marcello Burgoni, danno motivazione degli allontanamenti. C’è un’accusa che hanno deciso di prendere sul serio. «Durante queste messe nel cimitero, i grandi ci hanno fatto lanciare in aria dei bambini che poi ricadevano per terra e forse morivano». I piccoli testimoni raccontano di una storia e di personaggi che sembrano maschere e canovaccio prodotti dall’isterismo collettivo di quegli anni: una banda di persone amabili e perbene che si riunisce al cimitero per compiere atti satanici e orgiastici con la partecipazione dei bambini, all’oscuro dell’intera comunità, per trarne profitto. C’è il prete, don Giorgio Govoni, che conduce i riti e si sbarazza dei corpi, dopo averli trasportati nel pulmino parrocchiale, gettandoli in un fiume, c’è il fotografo che si occupa di filmare e smerciare le riprese, ci sono le famiglie povere del paese che fanno da fornitori di bambini in cambio di denaro e utilità varie. Nonostante la logica serrata con cui si dà credito a questa storia, “suffragata” dagli opinionisti chia mati a commentarla, il paese, che conosce gli indagati, rimane incredulo. Vengono lanciate petizioni. Si chiede l’aiuto alla politica.
GLI APPELLI FINITI NEL VUOTO. Autunno 1998. A sirene spiegate, l’alba di un giorno di novembre, la polizia irrompe nella casa e nella vita della famiglia Covezzi. Non è chiaro perché i quattro figli devono essere presi in custodia dai servizi sociali. I fratelli vengono portati su una volante e poi divisi fra istituti e famiglie differenti. I genitori non sanno né dove sono né come stanno. Non li rivedranno mai più. L’accusa, si scoprirà, è “mancata vigilanza”. Valeria, Enrico, Paolo e Agnese infatti sarebbero stati presenti durante i riti notturni dei satanisti guidati da don Govoni. Il crimine della coppia è lo stesso che avrebbe potuto colpire tutto il paese: non essersi accorta di nulla. Una settimana dopo l’allontanamento dei figli, i Covezzi inoltrano un reclamo alla Corte d’appello di Reggio Emilia. Il pm chiama come consulenti il medico legale Maurizio Bruni e la ginecologa Cristina Maggioni, i quali, con le loro perizie, accertano le violenze subìte dai fratelli: nel corso di questi riti al cimitero la sorella maggiore sarebbe stata abusata centinaia di volte. Nessun perito della parte civile è ammesso alla visita. Il tribunale d’appello, un mese dopo, rifiuta il ricorso dei Covezzi dichiarando i provvedimenti del Tribunale dei minori inoppugnabili in quanto «provvisori e urgenti». Il Tribunale dei minori continua a varare provvedimenti “provvisori” per mesi, impedendo così qualsiasi ricorso ai genitori Covezzi, anche se l’accusa di mancata vigilanza non può motivarli. In questo periodo, i Covezzi devono recarsi all’Ausl per colloqui, senza avvocati e senza psicologi. I figli continuano a essere interrogati dalla psicologa Valeria Donati e da altri funzionari dell’Ausl di Mirandola. Né degli interrogatori dei bambini, né degli interrogatori dei genitori, durati quattro mesi, sarà registrato qualcosa. Gli appunti andranno “perduti”.
LIMITE DI TEMPO. Non ottenendo udienza dall’autorità giudiziaria, i coniugi si rivolgono ai politici. Sostenuti dai compaesani di Massa Finalese, firmano una petizione. Dopo quattro mesi dalla presa in custodia dei fratelli Covezzi, il ministero della Giustizia, sollecitato dai parlamentari Carlo Giovanardi e Aurelio Cortelloni, pone a una settimana il termine di tempo in cui il Tribunale dei minori deve dare definitivamente risposta alla famiglia e ai loro figli. Lo stesso giorno, la sorella più grande, piangendo, dopo un colloquio con la psicologa Valeria Donati riferisce all’affidatario, che lo riferisce al magistrato, di essere stata abusata dal padre, in presenza della madre, che assisteva indifferente. Il giorno della scadenza dell’ultimatum del ministero i genitori Covezzi vengono raggiunti da un avviso di garanzia. Il ministero può dunque evadere le interrogazioni parlamentari e ritirare l’ultimatum, dichiarando che si tratta di un’indagine regolare.
LA BAMBINA ABUSATA È VERGINE. Primavera 1999. Sono passati  centocinquanta giorni dall’allontanamento forzato dei fratelli Covezzi. Un perito del Tribunale dei minori è chiamato ad  accertare la capacità genitoriale dei due coniugi. Lo psicologo, dichiarando che non sono autosufficienti l’una senza l’altro, concluderà che hanno delle «personalità abusanti ». La moglie di Covezzi, incinta, decide di fuggire. Non in Sudamerica: in Francia. Il marito resta in Italia. Ancora oggi vivono separati e autosufficienti. E il bambino non è stato preso in custodia dalle autorità francesi. Secondo i ginecologi incaricati dai Covezzi, quella di Cristina Maggioni e Maurizio Bruni è una perizia inadeguata: «Non è neppure stato impiegato l’elementare, ma fondamentale, presupposto tecnico di qualsivoglia ricognizione fotografica raccolta a scopo medico legale e cioè l’inserimento di una scala metrica nel contesto del campo ripreso. Risulta inaccettabilmente assente l’inquadramento anamnestico. Traspare dalla relazione dei due consulenti un’impostazione pregiudiziale dell’approccio alla perizia risultando in modo chiaro, il dato per scontato dell’abuso ancor prima della vista». La perizia è sommaria. Le conclusioni errate: la bambina abusata centinaia di volte è vergine. Le affermazioni dei periti del pm, secondo i ginecologi, sono «destituite di qualsiasi fondamento medico-biologico». Una conclusione che sarà confermata qualche mese dopo dal medico incaricato dal gip di visitare tutti i fratelli. Il pm della Procura di Modena, Andrea Claudiani, parlerà di normali scambi di vedute fra periti. Un anno dopo l’allontanamento dai genitori, i bambini più grandi vedono mamma e papà ovunque. Ma sono solo fantasticherie. I genitori, preoccupati, chiedono al Tribunale dei minori di nominare un neuropsichiatra infantile per verificare lo stato di salute psichica dei propri figli. Il Tribunale non lo concede. La bambina grande, quella che per prima ha parlato di abusi dei genitori, va male con gli studi. Confessa a Valeria Donati di essere stata violentata negli ultimi due mesi dagli zii e dal nonno Morselli, nel boschetto adiacente a scuola, prima di prendere l’autobus, con una frasca di quaranta centimetri. Da questa accusa i Morselli sono stati tutti assolti nel 2012. Si accerterà infatti che il boschetto non esiste, che la bambina usciva insieme agli altri alunni, che lo scuolabus era guidato dal suo affidatario, che gli zii e il nonno abitavano a ottantacinque  chilometri di distanza e che nei giorni delle violenze non potevano essere presenti. Ma, allora, i Morselli sono arrestati. La bambina violentata per mesi, l’ultima volta appena due settimane prima, non viene portata in pronto soccorso. Il pm Claudiani non chiede alcuna perizia, perché, gli rivela la ginecologa Maggioni, i segni di violenza, a una distanza di due settimane, «scompaiono».
SIAMO TUTTI POTENZIALI ORCHI. Primavera 2000. Dopo un anno e mezzo, per la prima volta la magistratura visiona un’anamnesi delle bambine. In un anno e mezzo, medici, psicologi, magistrati, non hanno mai verificato la cartella clinica delle presunte vittime di abusi. Si scopre che non esiste alcuna  namnesi sulle relazioni interpersonali dei minori coinvolti nel caso. Inoltre nessuno aveva interrogato i conoscenti delle bambine, i maestri, i pediatri di famiglia, i catechisti. Il gip chiede conto agli psicologi delle discrepanze fra le indagini psicologiche e quelle mediche. Se la bambina è ancora vergine, chiede, avrebbero potuto cambiare idea sugli abusi? «Facciamo veramente fatica a rispondere», dicono quegli stessi psicologi che, su una rivista specializzata, dichiareranno che chiunque difenda dei presunti innocenti accusati di pedofilia potrebbe «colludere involontariamente con essi», violentando «a propria volta i bambini». Tutti i periti che hanno confutato le tesi di Cristina Maggioni e Maurizio Bruni non sono stati richiamati. Nella  requisitoria, il pm si è dimenticato di citare il perito del gip che confutava le perizie dei suoi consulenti. Il quadro completo delle accuse lo ha fornito Cristina Roccia, psicologa che, come la maggior parte dei periti di questo processo chiamati da tribunali e procure, come la stessa Ausl di Mirandola, ruota attorno alla galassia Cismai. Roccia, dopo aver apprezzato l’aspetto psicologico delle perizie della ginecologa-psicologa Maggioni, individua nella «serietà» dello sguardo della madre Lorena (di cui uno dei bambini le aveva fatto cenno) il modo «inquietante» con cui avrebbe «fissato» durante le udienze i terrorizzati periti dell’accusa. Uno sguardo che suscitava «paura e inquietudine». Nel 2002, il processo di primo grado si conclude con una condanna per entrambi i coniugi Covezzi a 12 anni. Le accuse, secondo il Tribunale di Modena, sono «ontologicamente possibili ». Gli avvocati che avevano denunciato le irregolarità delle perizie e la violazione del codice di procedura penale, individuando atti ricopiati da un altro procedimento, e il mancato coinvolgimento della difesa, rimangono inascoltati.
L’ASSOLUZIONE NON BASTA. Devono passare altri otto anni – e un verdetto della Corte Europea, che sulla violazione dei diritti alla difesa dava ragione ai Covezzi – prima che i giudici di appello riconoscano il mancato coinvolgimento dei periti dei coniugi, ribaltando la sentenza di condanna di primo grado e decretando la nullità delle perizie psico-diagnostiche prodotte dall’accusa. La Cassazione, nel 2011, un anno dopo la sentenza d’assoluzione, ordina il rifacimento del processo. Dopo dodici anni, i Covezzi stanno ancora aspettando la prima udienza di un nuovo procedimento d’appello.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...