Hanno già scritto e detto tanto su di lei, ma io Franca Rame
voglio ricordarla innanzi tutto con questa fotografia: giovane, sexyssima,
d'una sensualità schietta e aperta. Bionda e solare. Giustamente esibita,
perché non era una colpa, men che meno un peccato, come pure qualche miserabile
le ha rinfacciato in questi giorni. Era una donna a tutto tondo, nelle sue
infinite declinazioni. Ma era, soprattutto, una compagna. Cum-panis, cioè colei che divideva volentieri il pane con chiunque
le sembrasse averne bisogno. A partire dal compagno per eccellenza, quel Dario
Fo che lei stessa corteggiò per prima, dopo le prove in teatro. Lui si
vergognava ad accettare l'invito: "Non ho un soldo". Ma lei: "Mi
fa piacere, adoro nutrire randagi, gatti abbandonati e disoccupati
affamati".
Non era un vezzo aristocratico, il suo. Lo sappiamo bene.
Franca Rame ha fatto della sua arte una battaglia, una coralità. A fianco di
mille lotte, in mezzo ai disoccupati, ai cassintegrati, agli operai, a favore
della pace e del disarmo (si dimise da senatrice dell'Idv nel 2008 in polemica
contro il rifinanziamento delle missioni militari). E delle donne,
naturalmente. Sempre, e pagando in prima persona.
E va bene. Lo stupro. Basterebbe
questo monologo a rendere immortale Franca. Lo scempio, dell'anima prima che
del corpo, da lei subito nel 1973 per mano di fascisti con la complicità di
carabinieri collusi, ha racchiuso in sé tutta la mostruosità di un odio
inveterato, primordiale, per il genere femminile da parte del maschio selvaggio
e ferito. Ferito nel suo frainteso senso dell'onore e del potere. Era più che
ucciderla, lo stupro. Era una relegazione al silenzio, all'accartocciamento su
sé stessa. Non avrebbe dovuto più parlare. Tornare mera forma, senza sostanza.
Rendersi invisibile con la sua presenza disarmata e dolente. E invece no.
Franca ne uscì con la parola vomitata, urlata e susurrata. Ne uscì da compagna,
cioè davanti al suo pubblico. Con un titolo che non lasciava alcuno spazio
all'immaginazione. Lo stupro era solo quello. Nient'altro. La sua psicoanalisi
fu la platea, la coralità. Ancora una volta. Insieme. Cum-panis. In questo caso il pane del dolore, l'offerta del dolore.
Sacrificio, sì, se per sacrificio s'intende non un'immolazione volontaria in
nome di qualche divinità crudele, ma racconto del proprio travaglio. Il
sacrificio di Franca è stato testimoniare la sopravvivenza, la strada da
proseguire "oltre" e "dopo", non lo scatto finale di una
vita. Franca ha saputo superarsi. Ha attraversato l'annullamento e ha vinto,
ancor più bella e forte di prima.
Compagna politicamente, senza dubbio. Una storia a sinistra, si direbbe,
volendo essere un po' volgari. Una scelta orgogliosamente di parte, la sua, e
anche, talora, orgogliosamente sbagliata - frequentazioni, personaggi -. Ma,
del resto, anche una scelta inclusiva e universale, volendo Franca comprendere
tutti quegli emarginati, abbandonati ecc. cui alludeva durante il suo primo
incontro con Dario.
Ma ecco, appunto, di là da tutti i meriti artistici, da quell'impasto d'arte e
vita di cui lei fu probabilmente l'ultima interprete, è proprio il suo essere
moglie che, forse, è stato poco sottolineato. Comprensibile, da un verso, per
tutte le ambiguità che comporta. La donna come eterna seconda, la donna che
trova significato solo nel e col marito. Ma noi affronteremo questo rischio,
perché Franca la vedevamo originaria: compagna, anche in questo. La compagna
dell'uomo nel giardino dell'Eden, non seconda, ma "a fianco"
(letteralmente: "quella che sta di fronte"). Del tutto logico
pertanto che Franca "la laica" concludesse il suo viaggio terreno
scrivendo un altro monologo, su Dio, anzi su Eva, anzi su Eva-Dio: "Siamo
nel paradiso terrestre. Dio è alle prese con la creazione del primo essere
umano. Che non è uomo ma donna. La modella con argilla fine e delicata. Adamo
verrà dopo, per tenerle compagnia. Ed Eva, che subito lo adocchia, si esibisce
per lui in una danza selvatica...". E ancora: "Dio sicuramente c'è ed
è comunista. Ma non è solo comunista, è anche femmina".
Qui il "cum-panis" è diventato l'uomo, in una Creazione rovesciata.
Ma solo all'apparenza. Perché nella compagnia, nell'essere di fronte, non
esiste gerarchia. Non esiste un primo e un gregario. Tutti siamo pari nella
diversità.
Ma la prima compagnia di Franca è stata Dario, e viceversa. E' stata feconda e
si è moltiplicata, quella coppia divisa e unita, turbolenta sempre (molti gli
abbandoni, tra cui uno ancora una volta dichiarato in pubblico, e i
ricongiungimenti). Non è stato un narcisismo a due. La vita di Franca (e di
Dario) sarebbe stata una grande vita anche da sola, ma così, a fianco, anzi di
fronte a lui, ha generato milioni di figli, una prole immensa, di arte, di
esperienza, di battaglie.
Al termine, Franca ha ricordato che Dio è innanzi tutto Altro. Quell'Altro
cercato fin dall'inizio, nel povero, nel diverso, nella donna, in una visione
dell'umanità senza pregiudizio, razzismo, violenza (in questo senso "Dio è
femmina e comunista", cioè a dire comunità). Quell'Altro ritrovato al
funerale: rito senza chiesa perché chiesa originaria: che non era tempio ma
assemblea, dove si spezzava il pane (cum
panis) assieme. La chiesa dei primordi era costituita solo da individui,
non da edifici, non da preti, non da simboli. Empirismo eretico? Forse. Franca
era senza dubbio un'eretica (eresia=scelta). E, come tutte le eretiche ed
eretici veri, interpella, disturba, scuote la nostra ortodossia.
Il Dio di Franca è stato laico, cioè del popolo. E' stato presente quanto meno
lo si è invocato, o nominato in quel modo strano, balbettante e fuori sede. E'
stato un Dio compagno che la compagna ha cercato con buona, indefessa volontà.
Questa ricerca solitaria e all'unisono, questa continua tensione verso qualcosa
che resti, è già traguardo.