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5.12.25

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti







 
 Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo tatuatore d’Italia, è morto a 80 anni. Nel 1972 aveva fondato il Teatro Parenti con Andrée Ruth Shammah, Franco Parenti, Giovanni Testori e Dante Isella che      trovate  qui   su questo   articolo  di fanpage   per   maggiori    notizie  a     riguardo .  un po' di rimpianto  ad  non essere  riusciti  ad   (  ma  pazienza  cosi va la vita )   intervistarlo  per il nostro blog ,  appassionat si.a  di storie  sia    d'arte  e  di tatuaggi    pur    non avendone  nessuno   per  carattere  incostante  e mutevole      essendo sempre  alla ricerca di un centro   di gravità permanente  che  mi fa  sempre  cambiare idea e  parere  e    non avere   un pensiero definitivo  .Ma  sopratutto  paura   che  mi succeda  come   il protagonista    del video  sotto 

     
Ho  letto  coincidenza    o casualità  ? sulla la  nuova sardegna  4\12\2025   un intervista   di Caterina  cossu   al designer, artista e tatuatore di fama mondiale Pietro Sedda (  foto in alto  a  destra ) .


L’intervista
Da Milano a Cabras, dal tatuaggio all’home restaurant: la nuova vita di Pietro Sedda
di Caterina Cossu



Per strada gli capita spesso di imbarazzarsi: che sia a New York, in Oriente o tra le stradine di San Giovanni di Sinis, le persone lo riconoscono e gli chiedono un autografo: «Non penso mai che quello che ho fatto nella vita sia di ispirazione per qualcun altro, invece lo è. Oggi ho mollato un po’, ma le persone continuano a chiamarmi “maestro”, vengono a tatuarsi da me con un atteggiamento di reverenza. Non mi ci abituo, non mi piace autocelebrarmi».Definire Pietro Sedda designer, artista e tatuatore sembra riduttivo: la sua fama è arrivata ovunque nel mondo grazie a progetti con partner come Bmw, Fritz Hansen, il collega Diego Brandi. Oggi ha 56 anni e si era ripromesso che entro i 60 sarebbe tornato lì dove tutto è iniziato, con nuovi stimoli e nuovi progetti.

Come si è evoluta la sensazione di tatuare?

«Mi piace essere metodico: leggo le mail appena arrivo, preparo da me la mia postazione. Lo studio ora risulta un ambiente intimo, confortevole, ed è un grande cambiamento dal precedente, super affollato. Invito sempre a stare tranquilli e godersi quel momento. Cerco di parlare il meno possibile, perché se si parla di meno si capisce di più l’esigenza del cliente, si crea questo filo rosso ed è molto soddisfacente. Ho sempre potuto scremare le richieste, faccio capire quando non voglio fare qualcosa e che è un’arte che voglio esercitare con entusiasmo e non per fare marchette. Mi rendo conto di trasmettere autorità, questo sì, ma è il mestiere che lo impone: non puoi tatuare ed essere titubante. E poi sono convinto che i progetti belli nascano da soli, non c’è bisogno di forzare nulla nella vita».

Come ha iniziato?

«Il mio primo laboratorio è stata una botteguccia a Oristano: si chiamava Officina Alzheimer e realizzavo oggetti di design con materiale di recupero. Mi ricordo ancora Lo Scomodino, fatto di chiodi, era un luogo pieno di oggetti assurdi e clienti attirati dalla loro eccentricità. Uno di questi fu proprio Renato Soru, a cui devo il mio primo lavoro su commissione di un certo rilievo: negli anni in cui nasceva Tiscali, infatti, mi chiese di realizzare cinque grafiche per le tessere ricaricabili, usavamo ancora le lire».

Come si è guadagnato l’appellativo di “maestro”?

«Nasco come artista visivo, pittore. Ai tempi in cui ho definito la mia proposta, era un’estetica che nel mondo del tatuaggio non esisteva (si riferisce allo stile contaminato dalla cultura olandese del Seicento, le incisioni botaniche dell’Ottocento, dai viaggi soprattutto in Oriente e Giappone, definito surreale, neo-tradizionale e pittorico, tra fumetto e Bad Painting, ndc). Ora magari è passato talmente tanto tempo che chi tatua oggi non sa che sta copiando me».

Perché non ha più voglia di dedicarsi solo al tatuaggio.

«Sono stanco: Milano è alienante, e io ho dato tanto, a questo mestiere specialmente. Mi sono trasferito a Cabras da una settimana e già ho i miei ritmi: qui vado al mare a mangiare una focaccia, cerco asparagi, faccio altre scelte. Il mondo del tatuaggio è complesso ed è cambiato negli ultimi anni, soprattutto dopo il Covid. Dieci anni fa avevo l’agenda piena con una programmazione a 6 mesi, oggi se riesco a programmarne uno intero è l’eccezione, così è anche per i colleghi in tutto il mondo. Non c’è un'età giusta per cambiare, c’è il momento per farlo».

 I suoi ravioli sembrano gioielli...

 «In vista ho cambiamenti categorici, come riprendere la pittura. Ora però sono concentrato sull’home restaurant, la mia nuova creazione è Musubi - Al Giardino di sera. Cucino io, una fusion tra cucina sarda ed etnica: sono di Oristano, ma i miei genitori sono originari di Ovodda e Desulo, la Barbagia mi abita. Di contro, ho viaggiato per tutto il mondo, e la cucina unisce le mie esperienze. Sto iniziando in giardino, arrivo a un massimo di 12 coperti per volta, e ho sempre voluto farlo: dopo le medie i miei mi impedirono di iscrivermi all’alberghiero, imponendomi l’Istituto Tecnico».

Le hanno già detto che è un progetto ambizioso per la piccola Cabras?

«Certo, mi hanno proposto di farlo a Milano, ma ho risposto dicendo che non mi fermo a questo: voglio realizzare a breve il sogno di aprire un ristorante. Ho studiato Alta cucina a Milano, l’anno prossimo parto due mesi per approfondire in Giappone. In cucina ho riportato la mia poetica e l’esordio quest’estate è stato più che incoraggiante. Ho portato a Cabras una ventata di sapori nuovi e inaspettati».

Andare “fuori” è imprescindibile per chi vive l’insularità?

«No, lo è a prescindere dal luogo dove si vive: favorisce il percorso personale: solo con il confronto si può avere una reale crescita. Nonostante oggi viviamo immersi nella cyber technology, viaggiare ed esporsi è imprescindibile per la definizione della propria tempra, nel bene e nel male. L’insularità non è un escamotage per dire che si è potuto fare qualcosa. Io provengo da una famiglia benestante e sono stato supportato. Ma non è il luogo a determinare le possibilità».

Si dice che i sardi tra loro si confrontino sempre nel male però.

«Non parlerei di invidia ma di una permalosità dilagante, soprattutto nel Campidano. Però arriva un punto in cui, come ho fatto io, te ne puoi anche fregare e andare avanti. Ho raggiunto una maturità e ho fatto un percorso tale, che oggi mi permette di poter fare quello che voglio. A chi dubita rispondo con una domanda: “Volete rimanere come lo stagno, immobili”?»

22.4.18

Wabi Sabi, quando la bellezza dell'imperfezione conquista l'arredo La concezione estetica che viene dall'Oriente applicata all'interior design: qualità artigianale, materiali naturali, imperfetti e asimmetrici



uno  dei tantoi articoli pubblicitatri presi dalla rete  


Nell'estetica giapponese tradizionale Wabi-sabi   è una visione del mondo incentrata sull'accettazione della transitorietà e dell'imperfezione, in cui la bellezza è appunto "imperfetta, impermanente e incompleta".


Wabi Sabi, quando la bellezza dell'imperfezione conquista l'arredo



 La traduzione dei due termini è complessa e nel corso dei secoli hanno cambiato significato persino nella lingua d'origine. Wabi si riferisce all'eleganza discreta, non ostentata e semplice.  Sabi rimanda alla bellezza che solo il passare del tempo può donare.
 


Ora l’estetica giapponese chiamata wabi-sabi si traduce nel campo dell’interior e nel décor in pochi pezzi ma di qualità artigianale, in materiali naturali le cui  “imperfezioni divengono elementi narrativi, che raccontano il vissuto specifico dell'artefatto, le sue peculiarità e l'uso che ne è stato fatto” spiega il libro Il valore dell'imperfezione. L'approccio wabi sabi al design "Attribuire valore all'imperfezione significa progettare prodotti capaci di invecchiare, di modificarsi, di essere riparati; significa stimolare il legame emotivo tra utente e prodotto, allungarne il ciclo di vita e, soprattutto, accettare la presenza di una variabile non controllabile che spesso "cambia il finale del racconto".
Wabi Sabi, quando la bellezza dell'imperfezione conquista l'arredo
Ma qual è nell'arredo questa 'variabile' incontrollabile? Prima di tutto la materia da cui viene ricavato il mobile - i 'difetti' naturali del legno diventano pregi – e poi la lavorazione artigianale che fa si che non esistano prodotti replicabili perfettamente, ogni pezzo è unico e irripetibile.Forme irregolari, eleganza, imperfezioni naturali, oggetti originali con una storia, sono dunque queste le parole d’ordine del wabi sabi associato alla decorazione di interni che si caratterizza anche per i materiali organici usati come il cotone, il legno, la carta o la pietra, forme semplici e colori tenui, spesso neutri.
Wabi Sabi, quando la bellezza dell'imperfezione conquista l'arredo
Wabi Sabi, quando la bellezza dell'imperfezione conquista l'arredo
Artigianale, unico, naturale, autentico, asimmetrico, materico sono queste le caratteristiche degli arredi Devina Nais, atelier di mobili di design per la zona giorno e notte, dove ogni pezzo viene prodotto, confezionato e rifinito in forma artigianale. Le materie prime vengono selezionate per la loro unicità, dove il “difetto” non viene considerato tale ma parte integrante dell'effetto finale che vuole ottenere. 


La lavorazione, che ricorda le tecniche e la meticolosità dei falegnami di un tempo, riesce a regalare ai modelli proposti un sapore dimenticato, che evoca piccole e grandi gioie da condividere. La nuova collezione ,che sarà presentata al Salone del mobile di Milano dal 17 al 22 aprile, è stata concepita con l'intento di creare uno stile unico per arredare tutta la casa con prodotti contraddistinti da giochi materici, grafismi e asimmetrie in cui domina il legno massello.
 

Emergenza medici, nel sud dell’Isola un drappello di veterani ancora in servizio: «Il riposo può aspettare» Al lavoro anche se in età di pensione .,

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