oggi martedi i carnevale causa rafreddore , guarderò la sfilata da casa , tanto partono vicino quasi sotto casa mia . Con un po' d'amarezza a non poter dare una mano alla classe in una giornata campale della settimana \ sei giorni del carnevale . Quindi mi consolo buttando l'occhio ai carri che passano , seguendo sul web , il processo ed il rogo a re giorgio , e leggendo e riportando qui due storie trovate fra un carro e l'altro alcune storie trovate in rete . La prima da la nuova del 4\3\2005
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
4.3.25
Diario di bordo n 107 anno Ⅲ. Con la Bulldog Rugby la palla ovale diventa un veicolo di inclusivita ., il romanzo area tempestas di giulio neri fermato da una diffida di una persona che si sarebbe visto troppo simile al protagonista .,
1.3.25
«Lotto contro il cancro, dipingo, vivo. E non ho più paura»la storia di sara marcella occulto., Famiglia pakistana sceglie di vivere Onifai: «Posto perfetto per i nostri bambini», Domitilla trova casa dopo sette anni in canile
Porto Torres
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ritratto d'andrea parodi |
«Un respiro che porta con sé culture, tradizioni e colori diversi. È come se le strade del paese si allargassero, accogliendo non solo nuove persone, ma anche nuovi modi di pensare, nuovi sapori, nuove voci che arricchiscono la melodia quotidiana».«Scegliere Onifai come casa rappresenta sì un riconoscimento giuridico, ma soprattutto un simbolo di integrazione e accoglienza – spiega il sindaco –. I gesti di sempre, il saluto a chiunque si incontri per strada, il lavoro nei campi, la vita della comunità, su cumbitu in su tzilleri, si mescolano con nuove parole, nuove abitudini che lentamente si integrano senza cancellare nulla. Forse è proprio questa la chiave per affrontare il futuro con saggezza: non temere il cambiamento, ma accoglierlo come un arricchimento. Non si perde l’identità aprendosi agli altri, anzi, si rafforza e forse la vera sfida è riscoprire il valore dell’incontro». E conclude con un ringraziamento all’ufficiale di Stato civile del Comune di Nicoletta Pulloni, che «con professionalità e puntualità nella giornata di ieri ha condotto la cerimonia».
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Cabras Dopo sette anni trascorsi in canile, ora vive con il suo amico umano Andrea, 30 anni, e gioca libera in giardino dove, a poca distanza, abita un altro cane con cui la cagnolina ha già fatto amicizia. E’ la nuova vita di Domitilla, ribattezzata Scintilla, manto bianco e macchia nera sul tenero musetto: grazie al progetto Baibau, avviato dall’amministrazione comunale nel 2023 per combattere il randagismo urbano e incentivare le adozioni dal canile, ha trovato finalmente casa a Cabras.
Il percorso di avvicinamento tra il cane e il suo padrone è stato guidato dall’educatore cinofilo che segue il progetto per il Comune e prima dell’adozione l’animale ha ricevuto le adeguate cure veterinarie. Dopo la sua adozione Domitilla è stata ribattezzata Scintilla. Il colpo di fulmine è avvenuto grazie alla pubblicazione delle sue foto, sui canali social dell’ente. Andrea cercava una cagnetta solare e serena e, dopo sole tre ore dal loro primo incontro, ha deciso che Domitilla avrebbe fatto al caso suo. Fra i due l’intesa è stata immediata.
«Siamo soddisfatti di vedere come Baibau stia dando i suoi frutti – ha commentato Carlo Trincas, l’assessore alla Cultura che ha avviato il progetto – l’adozione di Scintilla dimostra l’efficacia del nostro impegno per migliorare le condizioni degli animali ospitati nel canile e offrire loro la possibilità di una nuova vita. Grazie alla collaborazione con professionisti e associazioni partner e al supporto delle famiglie adottive, stiamo riuscendo a fare un passo importante verso il benessere degli animali e la sensibilizzazione della comunità. Continueremo a lavorare per garantire che altri cani come Scintilla possano trovare una casa». Quando il progetto Baibau è partito nel 2023 i cani presenti nel canile erano una sessantina, mentre oggi sono 40. Con il Comune collaborano le associazioni Effetto Palla Onlus e Hachiko Eroi a 4 zampe.
25.2.25
diario di bordo n 105 anno III . Rania zariri da popstar in olanda a clochard ad Avellino ., Salvi dalla fucilazione, piantano un albero: la storia del monumentale “Piopp de Ambrous” le medaglie olimpiche del 2024 sono patacche
La giovane donna, trentenne, trovandosi in una situazione di grave difficoltà e senza dimora, è stata soccorsa nei giorni scorsi dalla polizia municipale e dai servizi sociali del Comune di Avellino, che hanno tentato di offrirle un aiuto concreto. Nonostante l'impegno delle istituzioni, Rania ha rifiutato ogni forma di assistenza, dichiarando con fermezza «il desiderio di restare libera e di rivendicare il diritto all'autodeterminazione». La sindaca Laura Nargi ha avviato un dialogo con le autorità competenti e con l'azienda sanitaria locale per predisporre un piano di assistenza mirato. L'intento è quello di garantire a Rania un'accoglienza sicura in una struttura adeguata, dove potrebbe ricevere supporto sia dal punto di vista sociale che sanitario.
«Non siamo rimasti indifferenti di fronte a questa emergenza- ha dichiarato la sindaca - importante una risposta tempestiva e coordinata. L'obiettivo principale dell'amministrazione è sempre stato quello di offrire a Rania una via d'uscita dalla sua condizione di precarietà, coinvolgendo tutti gli enti preposti per costruire un percorso di recupero e reinserimento nella comunità». Ma Rania ha opposto un netto rifiuto all'assistenza proposta, dichiarando la volontà di non essere vincolata a strutture o programmi di recupero, ritenendo che la libertà personale debba prevalere su qualsiasi intervento esterno.
L'ex popstar ieri da Avellino si è incamminata ed è arrivata a Mercogliano, dove, questa notte, ha dormito sotto una pioggia battente. «Stiamo cercando di aiutare la giovane cantante olandese in difficoltà. Sono in contatto con l'ambasciata olandese-ha detto il sindaco di Mercogliano, Vittorio D' Alessio- alla quale ho spiegato la situazione di Rania e sto ricevendo le giuste indicazioni. Intanto, è sul posto la psicologa Michela Bortugno dei nostri servizi sociali che sta tentando di dialogare con la ragazza. Abbiamo già ottenuto la disponibilità di una struttura sul territorio, nella quale poter ospitare Rania non solo per una doccia, ma un posto sicuro per consentirle un recupero psicofisico».
Per Rania si sta impegnando anche Francesco Emilio Borrelli, il parlamentare napoletano. «Faremo da tramite con l'ambasciata olandese affinché possa essere messa in contatto con la famiglia - ha detto Borrelli - la storia di Rania è la testimonianza di come ognuno di noi, nessuno escluso, possa vivere, a prescindere dalla condizioni di partenza, dallo stato sociale, dalla professione, dal successo, momenti drammatici e farsi sfuggire dalle mani il controllo della propria vita».«Rania Zeriri è a Mercogliano». È un nome che a molti potrebbe non dire nulla, ma in olanda Rania è una pop star molto famosa. La 39enne ora si trova ad Avellino, non su un palco o in qualche hotel di lusso, ma per strada, come clochard. Sono tantissimi gli appelli sui social che riguardano la giovane donna. Il sindaco Vittorio D'Alessio ha condiviso un post sulla sua pagina Facebook.
Gli aiuti
«Sono in contatto con l'Ambasciata olandese» afferma il sindaco «alla quale ho spiegato la situazione di Rania e sto ricevendo le giuste indicazioni. Intanto, è sul posto la psicologa Michela Bortugno afferente ai nostri servizi sociali che sta tentando di dialogare con la ragazza.Abbiamo già ottenuto la disponibilità di una struttura sul territorio, nella quale poter ospitare Rania non solo per una doccia, ma un posto sicuro per consentirle un recupero psicofisico».
La giovane, infatti, «Dopo la morte della madre ha sviluppato psicosi e depressione, condizioni che l’hanno portata a vivere per strada ora si è ritrovata a vivere senza fissa dimora ad Avellino. Ora, la sua famiglia la sta cercando in Olanda».Secondo gli ultimi aggiornamenti, come condiviso sui social di Francesco Emilio Borrelli, i soccorritori assieme al sindaco Di Mercogliano hanno convinto oggi Rania, per la prima volta, ad accettare aiuti e cure.
Chi è Rania Zeriri
Rania Zeriri è una cantante olandese, nata il 6 gennaio 1986 a Enschede, nei Paesi Bassi. Cresciuta in una famiglia mista, ha studiato spagnolo in Spagna e ha lavorato nel settore dell'animazione turistica, iniziando a cantare in alberghi. Ha guadagnato notorietà partecipando alla quinta edizione del talent show tedesco "Deutschland sucht den Superstar" (DSDS), dove si è classificata quinta.
La sua carriera musicale è decollata dopo il programma, con la pubblicazione del suo singolo di debutto "Crying Undercover" nel 2008. Rania ha anche affrontato controversie durante la sua partecipazione al DSDS, inclusa un'accusa di uso di droghe, che ha respinto pubblicamente. Oltre alla musica, ha studiato al Conservatorio di Enschede e lavora come reporter per un'emittente locale.
Salvi dalla fucilazione, piantano un albero: la storia del monumentale “Piopp de Ambrous
Varedo. Sono 207 gli alberi monumentali presenti in Brianza. Giganti verdi custodi non solo di maestosità e bellezza, ma anche di storie lontane. E tra questi, c’è un albero in particolare che è testimone di un periodo storico importante per tutti noi: quello della
Seconda guerra mondiale. Si tratta del Pioppo di Varedo, “nato” nel 1946 come simbolo di libertà. I protagonisti di questa incredibile storia sono Carlo e Ambrogio, due fratelli. A raccontarci del loro pioppo è Saro Sciuto dell’Associazione RAMI che ha raccolto la testimonianza di Ambrogio.
Il Piopp de Ambrous: l’albero simbolo di libertà
“La famiglia di Carlo e Ambrogio vive accanto alla Villa Bagatti, quartier generale dei nazisti in quel di Varedo. Visto l’orientamento politico non in contraddizione con gli obiettivi nazi-fascisti, sono ben conosciuti dal luogotenente locale, e la vicinanza tra i due edifici è talmente esigua da permettere al piccolo Ambrogio di poter guardare perfino nell’aia della storica villa, costruita nel secolo precedente”, spiega Sciuto. L’inizio di questa storia, però, risale al 10 luglio 1943.“Ambrogio ha soli 3 anni e 3 mesi: dalla radio un severo quanto speranzoso annuncio recita che gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Il piccolo Ambrogio è accanto al luogotenente e non dimenticherà mai l’espressione del nazista che esclama per ben tre volte un rassegnato: ‘Non va bene, non va bene, non va bene'”.
La guerra e quel pioppo di Varedo piantato per dire “grazie”
Da quell’estate del ’43, i ricordi di Ambrogio fanno un salto fino al 1945: i nazisti sono costretti alla resa e hanno ormai raccattato i loro averi, pronti per imboccare, a una certa altezza, la statale dei Giovi.
“A partenza imminente, un facinoroso antifascista sbuca da un bar e spara, ferendo mortalmente un tale Otto, che muore sul colpo. Il suo corpo resterà nel cimitero di Varedo per oltre 70 anni. La rappresaglia è praticamente immediata: vengono presi in ostaggio dai soldati sette uomini, tra i quali Carlo e suo fratello, pronti per essere giustiziati. Ma la regola nazista dice che devono essere dieci i condannati a morte per ogni singolo tedesco ucciso. Si cercano gli altri tre, ma in giro tutti si sono dileguati come potevano”, racconta ancora Saro Sciuto, che ha raccolto la testimonianza dell’anziano brianzolo.“Nel frattempo, il caporale tedesco riconosce in mezzo al gruppo Carlo e suo fratello e ordina che queste due persone non vengano giustiziate. Si cercano così inutilmente altri cinque uomini, che furbescamente si erano dileguati in vari nascondigli, chissà dove. La rappresaglia non viene eseguita e il capo ordina che per tre giorni nessuno si facesse vedere in giro e per nessun motivo. L’invito, però, non viene colto da tutti e alcuni curiosi vengono uccisi da infallibili cecchini. La guerra è finita”, conclude.
Come ringraziamento alla vita per essere stati risparmiati, nel 1946, quando Ambrogio ha solo 6 anni, i due fratelli mettono a dimora nel loro campo di Varedo due pioppi, uno accanto all’altro.
Tra i 207 alberi monumentali in Brianza, anche il Pioppo di Varedo
Di quei due pioppi, oggi ne è sopravvissuto solo uno. Ha 80 anni e misura ben 4 metri di circonferenza. Un gigante verde che custodisce un pezzo di storia davvero importante e sicuramente molti ricordi. Ambrogio accanto al suo pioppo. Foto di Saro Sciuto“Un albero della libertà? – conclude Sciuto – Ambrogio non lo reputa tale, perché il belligerante lustro ad Ambrogio non ha portato, tutto sommato, dolore, ma il contrario”.
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Mostra lo stato della medaglia d’oro vinta a Parigi 2024, non sa cosa fare: “È da restituire?”
Ancora una volta si torna a discutere delle medaglie degli ultimi Giochi di Parigi. Un altro atleta si è lamentato e non poco per le condizioni del prestigioso cimelio vinto alle ultime paralimpiadi. Si tratta di Hunter Woodhall, che ha conquistato l'oro nella prova dei 400 metri T62 maschili. A soli cinque mesi dal successo, in un video suo social, il classe 1999 americano ha posto ai suoi followers una domanda sulla fine da far fare alla
medaglia.Woodhall ha mostrato a tutti le condizioni della sua medaglia. In realtà il problema non è il premio vero e proprio, ma il laccio che lo tiene legato che si è quasi completamente tagliato. Per questo il campione olimpico nel video ha spiegato: "Ho bisogno del vostro parere su una questione. Come avrete visto, ho strappato accidentalmente il nastro della mia medaglia di Parigi. Mi sono rivolto agli organizzatori e hanno detto che avrebbero riparato il nastro. L'unico problema è che non puoi rimuoverlo senza rovinare la medaglia, quindi ho due opzioni".L'atleta può seguire solo due strade a questo punto: "O tengo la medaglia originale e aggiusto il nastro cucendolo e quindi possono tenere il tutto con ammaccature e colpi. Oppure posso rispedire indietro la medaglia e loro possono inviarmene una nuova con un nastrino fisso. In questo caso però sarà una medaglia diversa. Non riusciamo proprio a decidere".
Molto combattutto dunque Woodhall che si unisce al coro dei campioni olimpici e paralimpici che hanno avuto a che fare con problemi alle loro medaglie. Sono circa 100 gli atleti che hanno restituito i loro cimeli, alcuni di questi a causa di danni e ruggine. Una situazione che ha alimentato il dibattito sulla qualità dei premi, non proprio di primissimo livello. Infatti secondo la stampa francese, la dirigenza dell'azienda produttrice delle medaglie è stata tagliata fuori dal comitato olimpico. I problemi sono sorti proprio a causa della mancanza di tempo nella realizzazione delle stesse che ha portato ad un'accelerata nei test.
Raffaele Parisi, ballerino e insegnante originario di Molfetta,Primo uomo in Italia a danzare sulle punte. «Ho realizzato il mio sogno, ma sui social quanti commenti discriminatori»
corriere dela sera tramite msn.it
Nel mondo della danza classica, la tecnica sulle punte è stata per secoli una prerogativa esclusivamente femminile. Tuttavia, Raffaele Parisi, ballerino e insegnante originario di Molfetta, ha infranto questa barriera diventando il primo uomo in Italia a ricevere la certificazione di danzatore sulle punte dalla Royal Academy of Dance di Londra. Un risultato che non solo segna un primato personale, ma rappresenta anche un'importante evoluzione nel panorama della danza. Parisi racconta il suo percorso, le difficoltà affrontate e le speranze per il futuro della disciplina.Lei è il primo uomo in Italia ad aver ottenuto questa certificazione. Ci sono però altri uomini che ballano sulle punte?
«Quando si è diffusa la notizia del conseguimento della certificazione, in molti hanno pensato che fossi l'unico uomo a danzare sulle punte. In realtà altri uomini lo fanno già come allenamento nelle scuole private. La differenza è che nessuno prima di me aveva superato l'esame ufficiale per ottenere la certificazione. Infatti, quando ho inoltrato la richiesta, a Londra hanno pensato che stessi intraprendendo un percorso di transizione di genere. Ho dovuto spiegare che si trattava semplicemente della mia volontà di affrontare l'esame con il programma femminile. Dopo aver chiarito, mi è stata concessa l'autorizzazione e ho superato la prova con il massimo dei voti».
Cosa l'ha spinta a voler superare questa barriera?
«Fin da bambino ero spesso l'unico maschietto nelle classi di danza e sentivo ripetere che "i ragazzi non vanno sulle punte". Mi chiedevo sempre: "Perché no?". Ho continuato i miei studi come ballerino classico maschile, ma il desiderio di cimentarmi sulle punte è sempre rimasto. Quando ho iniziato il mio percorso presso la Faculty of Education della Royal Academy of Dance per diventare insegnante certificato, durante un seminario di 14 giorni ho posto una domanda a un'esaminatrice: "Se un uomo volesse praticare il programma femminile, potrebbe farlo?". Mi è stato risposto di sì. Questo mi ha dato la spinta per proseguire».
Dal punto di vista tecnico, quali sono le principali difficoltà per un uomo nel ballare sulle punte?
Ci sono differenze fisiche significative. La gamba femminile è più lineare e slanciata, il che facilita il lavoro sulle punte. Per un uomo, invece, il peso corporeo e la diversa distribuzione della massa muscolare rendono il movimento più complesso. Tuttavia, l'uomo ha generalmente una muscolatura più forte, che può offrire un vantaggio in termini di resistenza.
Pensa che questo possa aprire a un nuovo repertorio per i ballerini uomini?
«Potrebbe essere un'opportunità. Oggi, nel repertorio classico, il lavoro sulle punte è riservato esclusivamente alle donne. L'unica compagnia in cui gli uomini danzano sulle punte è il Ballets Trockadero de Monte Carlo, ma si tratta di uno spettacolo comico, con ballerini travestiti da donne. Questo dimostra che gli uomini possono padroneggiare la tecnica, ma ancora non si è esplorato un repertorio più ampio in contesti tradizionali».
Insegna la tecnica sulle punte nella sua scuola?
«Sì, insegno la tecnica sulle punte alle allieve. Dopo la notizia della mia certificazione, un ragazzo ha deciso di iscriversi per provare anche lui. Ha acquistato le sue prime scarpette da punta ed è stato entusiasta di iniziare questo percorso».
Ha ricevuto critiche per questa sua scelta?
«Sì, sui social ci sono stati commenti negativi, alcuni anche molto discriminatori. Ma non mi importa. So di non poter cambiare il mondo, ma se anche solo una persona trovasse ispirazione nella mia esperienza, per me sarebbe già una vittoria»
Crede che questa sua scelta possa influenzare il mondo della danza?
«Lo spero. Anche una mia collega ha manifestato il desiderio di affrontare il programma maschile, ma teme il giudizio degli altri. In molti si fanno condizionare dai pregiudizi. Io, invece, ho deciso di seguire la mia strada»
Quali sono i suoi progetti futuri?
«Mi sto preparando per il secondo livello dell'esame in punta, che sosterrò a novembre. Sarà una sfida ancora più difficile, ma sono determinato a superarla. Dopo questo livello non ci sono altre certificazioni, quindi è il massimo riconoscimento che posso ottenere»
Qual è il suo sogno?
»Il mio sogno l'ho già realizzato, essere il primo uomo in Italia a superare questo esame. Ma mi piacerebbe vedere più uomini sulle punte, senza paura dei pregiudizi .
Inoltre Nella mattinata di sabato 25 gennaio, ospite del Talk show "Mattino Norba Weekend" intervistato dal conduttore Maurizio Spaccavento. Quest'ultimo ha voluto capire cosa abbia spinto il danzatore a conquistare il certificato di balletto su punte, rendendolo unico in Italia e secondo a livello mondiale. Il direttore artistico della Les Dances Molfetta, dopo aver menzionato la sua formazione da ballerino con l'insegnante Francesca Rucci, ha fatto intendere ai telespettatori che tale certificato vuole essere un "inno al coraggio", a quella perseveranza a cui si è sempre ancorato per rifugiarsi dal bullismo di cui è stato vittima. Oltre che passione, amore sviscerato, per Raffaele la danza è stata scudo contro pregiudizi, omofobia, disuguaglianze di ogni genere. E grazie alla danza si è temprato. Si augura,dunque,di poter essere un prototipo per le giovani generazioni affinché non abbiano alcun timore a mostrare la loro natura e, attraverso l arte di ogni genere, possano mutare le loro insicurezze indotte, in sicurezze.
23.2.25
L'ex campione di motocross Toccaceli: «Paralizzato dal collo in giù a 23 anni: uso il joystick col fiato. E faccio il coach per Valentino Rossi»
L'ex campione di motocross Toccaceli |
Cosa sta ascoltando?
«Cremonini, il nuovo cd. Mi piace molto, sto facendo un ripasso generale delle ultime canzoni perché a giugno andrò al concerto. Non ero mai riuscito a trovare il biglietto, per noi persone con disabilità ce ne sono sempre pochi».
Bryan Toccaceli abbassa il volume per farsi sentire meglio. Lo fa senza alzarsi e senza muovere un braccio o un dito. Non può, il suo corpo è completamente paralizzato dal collo in giù, è così da quando aveva 23 anni: «Ne sono passati già sette dall’incidente, mi sembra ieri. Era l’1 maggio, il giorno prima del mio compleanno».
Campione di motocross, poi cosa è successo?
«Ero passato all’enduro, la domenica avrei avuto la prima gara del campionato italiano. Quel giorno era festa e la mattina andai ad allenarmi insieme ai miei amici. Succede che la moto si spegne. La spingiamo fuori dal bosco, la porto a casa, la smonto e cambio tutto quello che potevo cambiare. Era saltato un fusibile, lo sostituisco».
E poi?
«Faccio qualche giro di prova intorno a casa, la moto andava bene. Vado al crossodromo di Baldasserona per capire se avrebbe risposto bene ai salti e alle vibrazioni. Arrivo alla pista, faccio un paio di giri. Sembra tutto a posto. "cavolo, stamani non mi sono allenato. Già che ci sono faccio qualche manche", mi dico. Rientro, faccio il primo giro. Ma a metà del secondo, durante un salto, la moto si spegne di nuovo. Improvvisamente».
Da lì cosa ricorda?
«Una volta a terra non riuscivo più a respirare. Mi sono agitato molto, un amico si avvicinò prendendomi la mano. "Stringila, stanno arrivando i soccorsi”. Ci provavo, ma non riuscivo. Da lì il buio».
Quando riapre gli occhi?
«Cinque giorni dopo, al Bufalini di Cesena. Mi avevano sedato, avevo avuto degli arresti cardiaci. Poi due operazioni e i problemi di respirazione. Per i dottori sarei dovuto restare per sempre attaccato all'ossigeno, ma mi imposi. "Non lo voglio più". E oggi è solo un ricordo».
Quando ha realizzato che non si sarebbe più mosso?
«All’inizio pensavo si trattasse di una frattura che si sarebbe risistemata. In fin dei conti avevo diversi amici sulla sedia a rotelle. "Loro le braccia le muovono, guidano le macchine, fanno tante altre cose”, pensavo. Spronavo i dottori ad aumentare le ore di palestra illudendomi che sarebbe servito a qualcosa. Loro hanno cercato di farmelo capire giorno dopo giorno: "Bryan, hai una lesione completa del midollo”. Muovo solo un po’ le spalle, ogni tanto mi chiedo. "Perché a me? Perché così tanto?"».
Tanti piloti le sono stati vicino, compreso Valentino Rossi.
«In molti sono venuti a trovarmi e anche lui si era informato per farlo in modo segreto, così da evitare la calca. Ma decideva un orario e dopo mezz’ora lo sapeva già tutto l’ospedale. Quindi organizzò un grande pranzo a casa sua».
Oggi lavora per lui.
«Nel 2021 mi chiamò. "Ti andrebbe di diventare il coach della VR46 Academy?". Lo andavo a vedere spesso quando coi suoi allievi girava al Ranch di Tavullia. Sono tutti appassionati di motocross e il mio compito consiste nell’aiutarli nell’impostazione di guida e non solo. Ma ne hanno poco bisogno, si vede che sono dei professionisti. Hanno una maniacalità nel setup della moto fuori dal normale. Anche alla PlayStation».
Alla PlayStation?
«Col primo joystick usavo il mento, poi ne ho ordinato uno più avanzato dall'America e con la bocca cambio le marce. Poi invece dei tasti uso il fiato: soffio per una cosa, doppio soffio per un'altra e così via. Sfido Valentino, Pasini e Mauro Sanchini ad IRacing, un simulatore di guida. Girano forte, è tosta. Ogni tanto faccio da tappo, ma non mi faccio passare».
Cosa le manca della vita di prima?
«Le moto erano diventate una pugnalata, oggi le guardo con più leggerezza. Mi sentivo osservato, ma ci ho fatto l’abitudine. Il dipendere da altri mi fa arrabbiare. “Mi puoi grattare il naso?”, all’inizio lo chiedevo solo ai miei genitori. Se avevo bisogno di bere un sorso d’acqua ed ero solo coi miei amici, piuttosto restavo a secco».
Ha ereditato la passione per i motori da suo padre. Si è mai sentito in colpa per quello che è successo?
«Il fatto che abbia reagito bene fin da subito lo ha aiutato. E poi chi sceglie di correre sa sempre che quando scende in pista potrebbe essere l’ultima volta».
E lei si sente mai in colpa nei confronti dei suoi genitori?
«Ho stravolto la loro vita. Potevano fare viaggi, andare in vacanza. Invece devono restare a casa per me e io a questa cosa ci penso, non c’è niente da fare. Mia mamma faceva la cuoca nelle scuole, poi è stata quattro anni con me grazie alle ferie solidali di colleghi e amici. Ora è tornata a lavorare, mentre papà – gommista – è andato in pensione».
Il 2 maggio farà 30 anni.
«Ogni 1 maggio mi incupisco, guardo le lancette dell’orologio e con la testa torno al momento dell’incidente. Ma i miei amici bussano, entrano in casa e mi portano via di peso. "Tanto non puoi opporre resistenza", scherzano. Da poco siamo stati a un addio al celibato a Barcellona, è stato il mio primo viaggio sulla sedia a rotelle».
E l’amore?
«Ci credo ancora ma non ne sento la mancanza. Una volta pensavo di dover avere tutto per essere felice, oggi anche una chiacchierata a casa mi fa stare bene».
È vero che ama i bambini?
«Sogno di aprire una scuola per giovani piloti, mi sono anche informato per prendere il patentino da istruttore. Prima dell’incidente avevo già avuto un’esperienza simile, quando li vedevo agitati prima delle gare mi piaceva tranquillizzarli. Purtroppo il mio incidente ha spaventato un po’ tutti, in molti hanno venduto le loro moto».
E suo figlio lo metterebbe su una moto?
«Sì, perché mi ha fatto vivere emozioni bellissime».
8.2.25
diario di bodo 102 anno III wanda processo sommario a Sinner, i Lego sono omofobi e sessisti ? , finalmente il razzismo sportivo viene punito daspo per una tifoa delbasket , mia riflessione sul perdono
in sottofondo
Just The Way You Are (from Old Grey Whistle Test) -Billy Joel
È scorretto che il numero 1 della Wada faccia dichiarazioni pubbliche a due mesi dal processo sportivo dell'anno contro Sinner (è l'accusa).C'è l'arroganza di chi esercita il potere . Ma quello che ancora più delirante la motivazione che lo porta a dire perché Sinner merita condanna. Si sostiene che uno sportivo deve ledere i più naturali diritti dell'uomo nei confronti del suo team, invaderne totalmente la privacy e conoscerne ogni azione, h24. E poi Sinner gli ha licenziati per pressapochismo . Nemmeno un stato totalitario è così delirante.
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Quallche giorno fa c'è stato un grave episodio di razzismo sportibo . Esso si è verificato durante una partita di basket femminile Under 19 a Rimini, dove una cestista è stata insultata da una spettatrice che le ha urlato "scimmia". La donna, madre di due giocatrici del team avversario, stava trasmettendo l’incontro in diretta su Facebook. Il video, poi rimosso, si è diffuso rapidamente tramite chat private. La giocatrice, dopo aver udito l’offesa, ha reagito cercando di affrontare la donna ed è stata espulsa dal match. La squadra riminese ha deciso di sporgere denuncia, mentre il club cesenate ha condannato il gesto, sottolineando che la spettatrice non è affiliata alla società. Ieri è arrivata la decisione in merito la ragazza dell'Under 19 dell’Under 19 del Rimini Basket che ha reagito, forse certo in maniera eccessiva ( ma sfido chiunque riceva un insulto del genere riesca difficilmente a porgere l'altra guancia ) agli incommentabili insulti razzisti da parte della madre di una giocatrice avversaria.Non riceverà nessuna squalifica . In compenso, la madre razzista è stata denunciata e ha ricevuto un Daspo di due anni.È finita così. Un degno finale di una storia indegna .
la maestra Tomasa e Pedrito di Tina Spagnolo dal gruppo facebook quando sbagli gruppo
ascoltata attentamente, senza dirle nulla, ha esaminato gli archivi e ha messo nelle mani di Donna Tomasa il libro della vita di Pedrito. L'insegnante ha iniziato a leggerlo per dovere, senza convinzione. Tuttavia, la lettura ha raggrinzito il suo cuore:La maestra di prima elementare aveva scritto: "Pedrito è un bambino molto brillante e amichevole. Ha sempre un sorriso sulle labbra e tutti gli vogliono molto bene. Consegna i suoi lavori in tempo, è molto intelligente e applicato. È un piacere averlo nella mia classe”.La maestra di seconda elementare: "Pedrito è un alunno esemplare con i suoi compagni. Ma ultimamente è triste perché sua madre soffre di una malattia incurabile”L'insegnante di terza elementare: "La morte di sua madre è stata un colpo insopportabile. Ha perso interesse in tutto e passa il tempo a piangere. Suo padre non si sforza di aiutarlo e sembra molto violento. Penso che lo stia colpendo. ”L'insegnante di quarta: "Pedrito non mostra alcun interesse in classe. Vive a disagio e quando cerco di aiutarlo e chiedergli cosa gli succede, si chiude in un mutismo disperato. Non ha amici ed è sempre più isolato e triste"Poiché era l'ultimo giorno di scuola prima di Natale, tutti gli alunni hanno portato a Doña Tomasa dei bellissimi regali avvolti in fogli raffinati e colorati. Anche Pedrito gli ha portato il suo avvolto in un sacchetto di carta. Donna Tomasa sta aprendo i regali dei suoi studenti e quando ha mostrato quello di Pedrito, tutti i compagni si sono messi a ridere vedendo il suo contenuto: un vecchio braccialetto a cui mancavano alcune pietre e un vasetto di profumo quasi vuoto. Per tagliare al meglio con la risata degli alunni, Donna Tomasa si è messa con piacere il braccialetto e si è versata qualche goccia di profumo su ogni bambola. Quel giorno Pedrito è rimasto l'ultimo dopo la lezione e ha detto alla sua insegnante: "Dona Tomasa, oggi lei profuma come mia madre"Quella sera, da sola a casa sua, Donna Tomasa pianse a lungo. E decise che d'ora in poi, non solo avrebbe insegnato ai suoi studenti lettura, scrittura, matematica... ma soprattutto che li avrei amati e li avrei educati il cuore. Quando tornarono a scuola a gennaio, la signora Tomasa arrivò con il braccialetto della mamma di Pedrito e con qualche goccia di profumo. Il sorriso di Pedrito è stata una dichiarazione di affetto. La semina di attenzione e affetto di Doña Tomasa ha fruttificato in un crescente raccolto di applicazione e cambiamento di comportamento di Pedrito. A poco a poco, tornò ad essere quel bambino applicato e lavoratore dei suoi primi anni di scuola. Alla fine del corso, Doña Tomasa ha avuto difficoltà a rispettare le sue parole secondo cui tutti gli alunni erano uguali per lei, poiché provava una evidente predilezione per Pedrito.Passarono gli anni, Pedrito andò a continuare i suoi studi all'università e la signora Tomasa perse i contatti con lui. Un giorno ricevette una lettera dal dottor Pedro Altamira, nella quale gli comunicava che aveva terminato con successo gli studi di medicina e che stava per sposare una ragazza che aveva conosciuto all'università. Nella lettera lo invitavo al matrimonio e lo supplicavo di essere la sua madrina di nozze.Il giorno del matrimonio, Donna Tomasa ha rimesso il braccialetto senza pietre e il profumo della mamma di Pedrito. Quando si sono incontrati, si sono abbracciati molto forte e il dottor Altamira gli ha detto all'orecchio: "Devo tutto a lei, Donna Tomasa". Lei, con le lacrime agli occhi, gli rispose: "No, Pedrito, la cosa è successa al contrario, sei stato tu a salvare me e mi hai insegnato la lezione più importante della vita, che nessun professore era mai stato capace di insegnarmi all'università: mi hai insegnato a fare l'insegnante".
1.2.25
diario di bordo n 101 anno III . francesco lotoro e L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta rqccoglie la musica dei lager nazisti ., Sebastiano Notarnicola rapito da una donna in un bar a 5 mesi, dopo 16 anni ritrova la famiglia: «Lei non poteva avere figli» ., La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina .,La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina
da ilfatto quotidiano del 28\1 \2025
UN ARCHIVIO PER LE ARMONIE DELLA PRIGIONIA SI CHIAMA Fo n d a z i o n e Istituto di Letteratura Musicale C o n c e n t ra z i o n a r i a . Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest ’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta
Che genere di documenti ha catalogato?
Manoscritti, partiture, materiali epistolari, foto. Da qualche anno raccolgo anche strumenti musicali: ho cominciato tardi, ma ho capito che sono fondamentali per disegnare la geografia musicale del luogo da cui provengono.
Quali strumenti?
Abbiamo tre violini. Nel 2018 la CBS realizzò un servizio di 30 minuti sulla mia ricerche, la videro negli Stati Uniti e mi contattò un amico di John Stanislav Hillenbrand, che era stato violinista dell’orchestra di Auschwitz. La vedova ci donò lo strumento. L’altro violino è di un italiano, internato dopo la battaglia di Gondar in Etiopia del 1941. Il terzo è uno strumento di liuteria arrivato a brandelli da Dachau, restaurato da un bravissimo liutaio di Ruvo.
Li usa per suonare le musiche che ha riscoperto.
Deve sapere che i violini hanno memoria. Sono come una pianta: vedono, sentono e riconoscono. Sembra un pensiero immateriale, ma è provato scientificamente. Il legno ha respirato l’aria dei lager, il suono di questi violini non è uguale agli altri: ha una voce diversa.
Che musica suonavano nei campi di prigionia?
Ovviamente i classici: Beethoven, Mozart, Wagner. Ma c’è u n’enorme produzione musicale ex novo: valzer, intrattenimento, musica religiosa. Ci sono prigionieri che hanno lasciato segni profondi nella storia della letteratura musicale: penso a Jean Martinon, Leibu Levin, Vsevolod Zaderatzki.
Si suonava anche per intrattenere i carcerieri? Sì. La banda poteva accompagnare l’uscita e il ritorno dei gruppi di lavoro, a volte anche i prigionieri all’esecuzione. Un uso perverso, ma era forse l’uno per cento. Per il resto era musica scritta per necessità e per un’esigenza testamentaria, una spinta letteraria. Mi viene in mente l’orchestra sul Titanic: il mondo affondava, spettava al musicista conservare e tramandare una forma di civiltà. Ma la libertà espressiva era clandestina o tollerata? C’era una forte controllo sui testi, ovviamente, ma la musica non veniva proibita. A volte era favorita. Il campo toglie la libertà e la dignità umana, doveva dare qualcosa in cambio, altrimenti rischiava di esplodere. I tedeschi lo facevano per controllare meglio i lager. Le sarà capitato di suonare musica inedita, che era stata solo scritta. Ci sono opere che sono state portate alla luce perché finalmente il testo è stato decrittato. Una volta invece sono stato raggiunto da un americano di nome Jack Gaffain, venne a Barletta da New York per cantarmi questa canzoncina... una melodia che dura un paio di minuti: l’aveva ascoltata durante la prigionia e aveva conservato il ricordo per decenni.
La musica scritta sulla carta igienica da Rudolf Karel, prigioniero politico nel campo di Pankrac, Praga. Fu torturato, non parlò, ma si ammalò di dissenteria, quindi disponeva di quantità cospicue di carta igienica e carbonella, da cui ricavò una puntina a forma di matita. Scriveva nelle due ore al giorno che passava in infermeria, con una tensione cerebrale che non possiamo neanche immaginare. Stendeva prima la minuta, poi la bella copia, infine nascondeva le strisce di carta tra la biancheria sporca che consegnava alla famiglia. Così ha scritto un’intera opera in tre atti: Tre capelli di vecchio saggio. Quando suono questa musica, provo sensazioni fortissime
Essendo una storia importante ho deciso di non limitarmi ad un solo sito ma ho riportato anche un altra intervista trovata in rete più precisamente questa di https://musicabile.tgcom24.it/ del 27\1\201
Delle poche cose che mia madre ricordava, ragazzina in Friuli negli anni del secondo conflitto mondiale, a parte la fame, il nulla imposto dalla guerra, il terrore del rombo degli aerei che venivano a bombardare (trauma che l’ha convinta a non salire mai a bordo di un aereo e che si è portata sino alla morte), c’era il ricordo dei treni dei deportati diretti ai campi di concentramento, che facevano sosta nella stazione del paese dove viveva. Era un ricordo meticoloso, quasi un’imposizione per non dimenticare, così vivido da materializzarsi.

Sono passati quasi 80 anni da quegli eventi, i sopravvissuti dei lager sono ormai pochissimi, il tempo fa il suo corso. L’orrore dell’olocausto è diventato un’ansia mentale intorpidita; il racconto serve a tenere vive le putrefazioni a cui l’uomo può arrivare, poiché ce ne dimentichiamo troppo spesso.
A questo serve la giornata della memoria. Almeno un giorno all’anno ci viene imposto di pensare che, nemmeno un secolo fa, sono state commesse atrocità senza fine, sono state cancellate milioni di vite, famiglie, amori, passioni, storie…
E arrivo al punto di oggi: sì, anche questa volta c’entra la musica. Anzi, la musica è la protagonista. Perché lo è stata nei campi di detenzione, di sterminio, di rieducazione – e non solo nazisti. C’è un musicista italiano, che certamente molti di voi conosceranno, che da oltre trent’anni sta dedicando la sua vita e la sua professione alla causa: raccogliere opere, canzoni, spartiti, brani, partiture scritte su fogli musicali, altre annotate su carta igienica o pezzi di tessuto, altre tramandate oralmente. Musica come resilienza, musica come anelito di libertà, musica come scansione delle attività giornaliere nei campi, anche quelle terribili, musica per salvare la propria mente e la vita.
Ho trovato la “missione” di Francesco Lotoro, classe 1964, musicista di Barletta, pianista, compositore e direttore d’orchestra, docente di pianoforte presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, un enorme atto d’amore, verso chi è stato privato della libertà, torturato e massacrato ma anche verso la musica stessa.Avere la possibilità di riascoltare quello che è stato scritto nei campi, una musica che potremmo definire sicuramente nuova, “concentrazionaria” come è stata battezzata, è una delle concrete possibilità per non dimenticare, testimonianza diretta e reale delle atrocità commesse. Francesco Lotoro lavora per questo, perché le prossime generazioni possano “ascoltare” la cruda realtà di quello che l’essere umano è riuscito a concepire ma anche cogliere la creatività e la necessità di vedere la propria esistenza oltre i confini di un lager nazista. Musica per evadere, per volare, per fissare momenti “resistenti”. Nel 2017 il regista franco-argentino Alexandre Valenti ha dedicato a Francesco un docufilm, Maestro, una coproduzione italo-francese.
Gli ho scritto se potevo intervistarlo, mi ha risposto immediatamente. Ne è nata una lunga e intensa chiacchierata…
Francesco come è iniziato tutto ciò?
«Ho cominciato nel 1988, spinto da molti elementi giovanili, passioni, curiosità. Mi mancava la visione d’insieme di ciò a cui stavo andando incontro… I primi quattro anni cercavo solo musiche composte da musicisti ebrei. Mano a mano che contattavo persone, le incontravo, mi documentavo, lavoravo con l’aiuto di tutor perché trovavo manoscritti scritti in diverse lingue, catalogavo, suonano, eseguivo le partiture, sono passati gli anni e mi sono accorto che questa ricerca si era mangiata un po’ tutto della mia vita. Non era prevedibile. Sono arrivato a migliaia di opere catalogate e non è ancora finita…CI vogliono tante risorse ancora per finire il lungo lavoro».
Come musicista che idea ti sei fatto?
«Sono un pianista e ciò mi ha aiutato a cercare un repertorio pianistico denso di linguaggi molto avanzati, che andavano persino oltre Arnold Schönberg (il compositore austriaco naturalizzato americano, considerato dirimente per aver scritto musica al di fuori dalle regole del sistema tonale, ndr).
«L’ossigeno della ricerca e la sua bellezza estetica è suonare molta di questa musica. Sai, ho sempre pensato che eseguirla sia un gesto magico, liberarla dai campi, in una sorta di redenzione».
Quando pensiamo ai campi di concentramento spesso ci facciamo dei “film” errati…
«I campi di concentramento, internamento, sterminio erano realtà metropolitane zippate, con elementi di eterogeneità. L’elemento artistico ha fatto scattare connessioni tra gruppi sociali e linguistici. Nel campo di Birkenau (Auschwitz II), per esempio, è impossibile distinguere tra musica ebraica e musica rom. La promiscuità nel gergo artistico è illuminante, fertile. Capitava anche che i musicisti prestassero i loro strumenti ad altri musicisti, come è successo nel campo di Sandbostel quando i francesi che stavano nello Stalag XB dettero più volte il violoncello a Giuseppe Selmi, grande violoncellista, compositore e didatta italiano (Selmi ha scritto in prigionia molte partiture per violoncello e il meraviglioso Concerto Spirituale per violoncello e orchestra, ndr) che stava nell’attiguo Stalag XA» (Selmi, come scrive lo stesso Francesco, «si esibì per i prigionieri italiani in un intero concerto imbracciando un violino a mo’ di violoncello…»).
Ci sono stati anche sodalizi gloriosi e proficui nei campi, come quello di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola…
«Sono nati brani bellissimi. Prendi La favola di Natale che Guareschi scrisse nel 1944 nel campo di Sandbostel e Coppola mise in musica, è un’opera straordinaria e così poco rappresentata oggi. Coppola scrisse molti altri brani, come Treviso (la città in cui passò maggior parte della sua vita, ndr) quando seppe del bombardamento sulla città, molti mesi dopo l’avvenimento. Da ricordare anche Dai Dai Bepin, un’esortazione a Stalin che si muovesse in fretta per liberarli dalla prigionia…».
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Gerusalemme. Francesco Lotoro con il pianista e compositore Alex Tamir, sopravvissuto al Ghetto di Vilnius – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta |
Quanto ha influito la privazione della libertà sui musicisti e sulle partiture composte?
«Il musicista in prigionia componeva per esorcizzare il campo, l’ambiente non influiva, dunque, più del necessario sui criteri architettonici della composizione. Il campo c’è, attraversa la musica, ma il musicista è ancorato alle proprie visioni, alla propria storia. Il dramma esiste, ma in chiaroscuro, il musicista in questo modo vuole annichilire il campo. Spesso, sono stati gli stessi musicisti prigionieri a costringere i loro carcerieri ad acquistare strumenti musicali, fogli per scrivere partiture, a farsi esentare dal lavoro per dedicarsi alla composizione».
La musica faceva vedere la prigionia in un altro modo…
«Hai presente l’orchestra del Titanic che non smetteva di suonare mentre il transatlantico affondava? O Pau Casals il grande violoncellista catalano, che si esibiva anche durante il regime franchista perché mai come in quei momenti la gente aveva bisogno della musica? Così era nei campi. Ogni musicista ha portato nella prigionia la propria esperienza, che è rimasta patrimonio del luogo. L’elemento campo ha modificato, evoluto, deteriorato, agito da drenante, intaccato certe corde, certe sensibilità. Gli artisti sopravvissuti alla prigionia, una volta liberi, sono diventati fondamentalmente diversi, hanno voluto cancellare completamente la detenzione. Ci sono dolori che vengono redenti in maniera diversa. Di per sé nei campi abbiamo avuto lo sviluppo, l’estremizzazione, la radicalizzazione di certi linguaggi, forme brecktiane possibili solo perché, appunto, nate all’interno del campo».
Quindi la musica è stata tante cose: un atto di liberazione, una forma di rigore mentale e pure la summa di colonne sonore della vita quotidiana nei campi…
«A Buchenwald c’era un’orchestra di 80 elementi. Auschwitz, nelle sue tre declinazioni, il campo principale (I), Birchenau (II) e Monowitz (III) contava ben sette orchestre. D’opposto, Hans Gál (musicista viennese che fuggì dall’Austria nazista rifugiandosi in Gran Bretagna dove, per ironia della sorte venne recluso dagli inglesi che arrestarono gran parte dei profughi tedeschi scampati al regime, tra questi anche numerosi ebrei, ndr) nel campo di detenzione di Douglas, sull’isola di Man compose la Huyton Suite op.92 con gli strumenti che aveva a disposizione, un flauto e due violini».
Ma nella musica concentrazioanria c’era anche altro…
«È una musica sessista, divisa per genere. Orchestre maschili e orchestre femminili. Solo nel campo di Theresienstadt c’era un’orchestra mista. È stata poi usata per il più sublime e il più perverso degli scopi. Si suonava quando arrivavano i treni con i nuovi prigionieri e i nazisti facevano una selezione veloce delle persone: vecchi, malati, bambini venivano soppressi, gli altri in salute andavano ai lavori forzati. L’orchestra suonava quando il gruppo di deportati partiva e arrivava dal lavoro coatto. Suonava la domenica nei villaggi dei militari per rallegrare le passeggiate pomeridiane dei nazisti con le loro famiglie, ma suonava anche per i deportati…».
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Berto Boccosi, prima pagina del quaderno di Saida (abbozzo dell’opera La Lettera Scarlatta) – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta |
La musica era dunque sempre concessa?
«Nei campi di detenzione dove c’erano ebrei si poteva scrivere musica, in quelli dove c’erano i prigionieri politici, no. In questo caso gli artisti memorizzavano ciò che componevano, o scrivevano le partiture sulla carta igienica o sui teli di juta, addirittura sulla terra, quando andavano a lavorare nei campi di patate. Ognuno dei detenuti imparava a memoria quattro battute e poi la sera venivano trascritte su mezzi di fortuna. Ma non dobbiamo pensare a gesti di magnanimità da parte dei carcerieri. Il polacco Artur Gold, per esempio, famosissimo musicista, una delle star del tempo, venne arrestato e deportato a Treblinka. Fu ricevuto dal comandante del campo con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari, poi venne messo a morte. La negazione di ogni logica. Al musicista non poteva che rimanere la sua musica, poteva contare solo su quella».
Venendo a oggi, dopo trent’anni di lavoro, qualcuno ti ha chiamato lo Sherlock Holmes della musica, che valore ha questo enorme patrimonio che stai raccogliendo?
«Sono convinto che questa sia una musica di portata universale. Per completare il quadro ci vorranno ancora 15, 20 anni. Siamo ben oltre gli ottomila brani raccolti e catalogati e ogni settimana arrivano partiture, segnalazioni, note all’ILMC, l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrationaria. Con il lockdown ho smesso di viaggiare ma presto spero di ritornare a intervistare, raccogliere, ascoltare. Dovrei andare in Francia dove c’è una testimone che mi aspetta, appena il virus lo permetterà volerò a Parigi. Questa musica è come se fosse stata chiusa in una capsula del tempo. Ti ricordi il film con Nicolas Cage Segnali dal Futuro? Ecco, la musica concentrazionaria è chiusa lì dentro, non si è mai interfacciata con la musica a lei contemporanea, è tanto simile quanto differente. Credo che abbia molto da darci. Però, ne usufruiranno con quotidianità le generazioni future, tra venti o trent’anni».
E la capsula del tempo dovrebbe trovare posto a Barletta in un’ex distilleria, giusto? Sono anni che se ne parla…
«Nel 2016 partecipammo a un bando per la riqualificazione delle periferie, indetto dal governo Renzi. Barletta si candidò e sposò in pieno il progetto di una cittadella della musica concetrazionaria. Considero questo genere di musica in un periodo che va dal 1933 al 1953 includendo anche i gulag sovietici, praticamente fino alla morte di Stalin. Il nostro progetto arrivò dodicesimo. I primi 24 avrebbero avuto una sovvenzione statale. Che però è stata insufficiente. Quindi abbiamo atteso ancora e, se tutto andrà per il meglio, dovremmo inaugurarla nel 2024. Sarà un campus con biblioteca, museo, libreria, teatro, ristorante, due laboratori, un polo di studio della musica ebraica… allora sì, potremo finire la ricerca, ci vogliono altri fondi, è un lavoro enorme, ma che dobbiamo portare a termine».
SI CHIAMA Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria. Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta
Il dediserio smodato di avere un figlio e l'impossibilità di averne uno biologico, la folle idea di rapire un bambino e tenerlo nascosto al mondo pur di non vederselo portare via. La storia di Sebastiano Notarnicola assomiglia per alcuni versi a quella della piccola Sofia rapita a qualche tempo fa Cosenza, anche se il finale è del tutto diverso: lui aveva solo 5 mesi e mezzo
quando è stato portato via alla sua famiglia. Era il 20 aprile 1978. Dopo 16 anni è riuscito a ritrovare la sua famiglia biologica, oggi ha ripercorso la sua storia in un'intervista a Fanpage. L'infanzia di Sebastiano, che credeva di chiamarsi Hermann, è stata segnata dalla solitudine, senza documenti e senza la possibilità di frequentare la scuola. Dopo un incendio, il bambino fu messo in collegio. Una sua foto pubblicata su una rivista dell'istituto segnò l'inizio del suo ricongiungmento con la famiglia.Il rapimento
Sebastiano Notarnicola ricostruisce il suo passato a partire dal rapimento. Dopo la sua nascita, a Milano, nel 1977, sua madre Annamaria mise un annuncio su un quotidiano chiedendo abiti usati per il suo bambino. All'appello rispose una donna che, spacciandosi per un'assistente sociale, conquistò la fiducia della neomamma, tanto da riuscire con un inganno a restare da sola con il neonato mentre si trovavano in un bar di Milano: «Ha chiesto a mia madre se poteva lasciarmi con lei, che mi avrebbe comprato dei vestiti al negozio Chicco», spiega Sebastiano. Da quel momento, il bambino è cresciuto con quelli che credeva essere i suoi genitori.
L'infanzia nascosta
La donna aveva fornito un indirizzo falso e non fu possibile rintracciarla. «Lei non poteva avere figli, però desiderava averne, non tanto per sé ma per suo marito. Aveva avuto delle gravidanze isteriche e, dal momento che mi aveva portato a casa a cinque mesi e mezzo, a suo marito aveva detto che ero dovuto stare in ospedale perché non stavo bene, lui non sapeva niente e quando sono arrivato era molto felice», spiega Sebastiano, che nel frattempo era stato chiamato Hermann. Vivevano in Valsassina, in provincia di Lecco, ma il bambino non poteva frequentare la scuola poiché senza documenti. Un'infanzia «diversa dagli altri, ma non ho un ricordo brutto». Quello che credeva essere suo padre gli ha insegnato a leggere e scrivere, anche se non usciva mai di casa e non frequentava coetanei.
Il collegio
La situazione è cambiata quando, in seguito a un incendio in casa, Sebastiano - che all'epoca aveva circa 10 anni - è stato messo in un collegio religioso. L'istituto ha pubblicato delle foto dei ragazzi su una rivista che girava gratuitamente nelle parrocchie di tutta Italia ed è stato così che quell'immagine è arrivata in Puglia, tra le mani di una cugina del padre biologico di Sebastiano, che ha notato la somiglianza tra quel ragazzino e suo nipote. Da lì sono partite le ricerche: «Dentro di me sapevo da sempre che mio figlio era ancora vivo e il dna ce ne ha dato la prova».
L'incontro con i genitori biologici
L'incontro di Sebastiano con la sua famiglia biologica è avvenuto quando aveva 16 anni. «Ho conosciuto prima mio padre e i miei fratelli, con cui finita la scuola ho iniziato a vivere. Mamma e papà si erano nel frattempo separati e mia madre l'ho incontrata solo tempo dopo, perché il giudice aveva disposto che stessi con l'unico dei due genitori che aveva un lavoro». Poi, il ricongiungimento con la madre: «Io ero seduto sul divano e quando lei mi ha visto è scoppiata a piangere». Il rapporto tra i due, però, non è stato idilliaco: «Purtroppo con mia madre non ho avuto un rapporto madre-figlio, ma io penso che non sia colpa sua, è colpa mia, perché sono cresciuto con una famiglia che ho sempre creduto che fosse la mia mentre non lo era, perciò mi è molto difficile oggi costruire legami».
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Senza parole davanti a tali forme di fanatismo religioso e fondamentalista
Quattordici membri di un gruppo religioso australiano sono stati dichiarati colpevoli della morte di Elizabeth Struhs, una bimba diabetica di otto anni a cui era stata negata l’insulina per quasi una settimana. La piccola è deceduta nel 2022 nella sua casa di Toowoomba, nel Queensland, a causa di una grave chetoacidosi diabetica. Secondo la ricostruzione del tribunale, il gruppo noto come i “Saints” si opponeva alle cure mediche, nella convinzione che solo Dio potesse guarire Elizabeth. Anche il padre della bambina,
Jason Struhs, la madre e il fratello della bambina, oltre al leader della congregazione, Brendan Stevens, sono stati condannati per omicidio colposo. Nel pronunciare il verdetto di quasi 500 pagine, il giudice Martin Burns ha evidenziato che, sebbene Elizabeth fosse amata e accudita sotto molti aspetti, le sue condizioni di salute erano state ignorate a causa della fede cieca nel potere di guarigione divino. “Le è stata negata l’unica cosa che le avrebbe salvato la vita”, ha dichiarato il giudice.La tragedia e il processo
Elizabeth, descritta come una bimba intelligente e vivace, ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita tra sofferenze atroci. Secondo la testimonianza dell’accusa, la piccola era debole, parlava a fatica ed era incapace di camminare autonomamente. Mentre le sue condizioni peggioravano, i membri della setta si limitavano a pregare e cantare, convinti che la guarigione sarebbe arrivata per intervento di Dio. Nessun medico venne chiamato, e le autorità furono avvisate solo 36 ore dopo il decesso. Il processo, iniziato nel luglio scorso, ha visto la deposizione di 60 testimoni e ha svelato dettagli inquietanti sulla comunità religiosa, che conta circa due dozzine di membri provenienti da tre famiglie. Gli imputati, di età compresa tra i 22 e i 67 anni, hanno scelto di rappresentarsi da soli, rifiutando ogni assistenza legale e senza dichiararsi colpevoli. Il tribunale ha pertanto registrato automaticamente dichiarazioni di non colpevolezza.
Una lunga storia di negligenza
Il caso di Elizabeth non era il primo episodio di negligenza da parte della sua famiglia. Nel 2019, la bambina era stata ricoverata in ospedale in coma diabetico, pesando appena 15 chili. I medici le diagnosticarono il diabete di tipo 1 e spiegarono alla famiglia che avrebbe avuto bisogno di iniezioni quotidiane di insulina per sopravvivere. Tuttavia, il padre, inizialmente favorevole alle cure, cambiò posizione dopo il battesimo nella setta e, sotto la pressione degli altri membri, smise di somministrarle il farmaco salvavita. Durante il processo, Jason Struhs ha dichiarato tra le lacrime che lui ed Elizabeth avevano deciso insieme di interrompere l’insulina, convinto che la figlia sarebbe “risorta”. Stevens, leader della setta, ha difeso le azioni del gruppo, sostenendo che il processo fosse un atto di “persecuzione religiosa” e rivendicando il diritto della congregazione di credere unicamente nella parola di Dio. I “Saints”, una piccola congregazione separatasi dalla Revival Centres International di Brisbane, continuano a rimanere un gruppo chiuso e poco conosciuto. Fondato da Stevens dopo il suo fallimento nel diventare pastore, il gruppo tiene sermoni settimanali nella sua abitazione. La sentenza per gli altri imputati è attesa il mese prossimo. Il caso ha riacceso il dibattito in Australia sull’intervento dello Stato nei confronti di gruppi religiosi estremisti e sulla protezione dei minori in contesti di negligenza dovuta a credenze radicali.
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La voglia di essere abbronzati anche in inverno è molto comune, tanto che in molti cedono allo sfizio di farsi una lampada pur di vedersi più colorati allo specchio. A farla è stata anche una ragazza a cui, però, questa volta non è andata bene. Dopo una seduta di 20 minuti sotto il lettino abbronzante, infatti, ha iniziato a perdere pelle dal viso. A raccontare la disavventura è stata lei stessa sui social.
Cosa è successo
Natalia Armstrong ha mostrato su TikTok le orribili conseguenze di essersi sottoposta ad una lampada abbronzante "al contrario" per ben 20 minuti. Appena uscita ha riferito di sentirsi «bene», come sempre. Tutto è cambiato due giorni dopo la seduta. Da allora si è rivolta al social per sensibilizzare le altre ragazze all'utilizzo di queste apparecchiature.
La ragazza, che ha esortato gli altri a non commettere lo stesso errore che ha commesso lei, ha spiegato di aver messo il viso dove avrebbero dovuto esserci i piedi, e le dita dei piedi sotto i tubi abbronzanti. Natalia ha scoperto solo dopo, che le luci UV nella zona dei piedi sono «più forti di quelle della lampada abbronzante per il viso».
Le conseguenze e il messaggio
Sebbene all'inizio Natalia si sentisse benissimo e non avesse segni evidenti di alcuna scottatura, due giorni dopo la sua faccia ha iniziato a spellarsi. La ragazza ha spiegato sul social che la pelle del viso era talmente tesa da non riuscire neanche a sorridere correttamente. Tuttavia, il peggio doveva ancora arrivare, la ragazza, infatti, presentava anche alcune dita delle mani rosse e gonfie.
Dopo alcune visite mediche, a Natalia sono stati tagliati quattro anelli che indossava alle dita e che non riusciva più a togliere. Un suo dito ha anche sviluppato un'infezione. «Sono lesa, ma è riparabile», ha detto Natalia, spiegando che erano state delle sue amiche a parlarle del metodo di sdraiarsi a testa in giù nel lettino abbronzante. La ragazza, nonostante si dichiari «dipendente dalle lampade» ha voluto mandare un messaggio di avvertimento a chiunque, come lei, ne faccia uso: «Condividetelo, ripubblicatelo. Se conoscete qualcuno che lo fa, per favore ditegli di non farlo».
Rischi dei lettini abbronzanti
I lettini abbronzanti sono da tempo ormai associati al cancro della pelle, sono stati addirittura vietati in alcuni paesi, come Brasile e Australia. Secondo l'International Agency for Research on Cancer (IARC) (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), ci sono prove significative che dimostrano che l'uso dei lettini abbronzanti causino il melanoma. Secondo gli esperti, infatti, i lettini abbronzanti aumentano il rischio di cancro della pelle fino al 20 percento.«Siamo chiari sui lettini abbronzanti. Non sono solo “alcuni” esperti a dire che fanno male alla pelle. Sono quasi tutti - ha dichiarato la dottoressa Carol Cooper - I raggi UV danneggiano il DNA nelle cellule della pelle, quindi è più probabile che si trasformino in cancro. Non devi nemmeno scottarti perché ciò accada».
emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello
Apro l'email e tovo queste "lettere " di alcuni haters \odiatori , tralasciando gli insulti e le solite litanie ...

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