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17.12.25

Per 33 anni 'ostaggio' dell’Italia dove è nata e cresciuta, ora è finalmente apolide: il decreto del Viminaleente apolide: il decreto del Viminale ., Sputa la foglia che gli era finita in bocca per il vento, 86enne riceve una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti



ecco dopo la precedente ecco altre due storie d'assurde






 decreto del Viminale

(Adnkronos) – E’ arrivato un provvedimento che fa giustizia in una storia che si trascinava da troppi anni. A Suada Hadzovic, trentatré anni vissuti tutti in Italia fin dalla nascita, un decreto del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno ha riconosciuto lo status di apolide. Una conquista, quella attestata nel documento che porta la data del 9 dicembre in possesso dell’Adnkronos, che la libera da una condizione di surreale costrizione, di fatto ostaggio del Paese in cui è nata e cresciuta perché impossibilitata ad avere un documento, il passaporto o anche solo la carta d’identità valida per l’espatrio. La storia di Suada era stata denunciata dall’agenzia di stampa più di un anno fa, a novembre 2024, evidenziando le conseguenze grottesche di un ‘buco’ di legislazione in cui è finita per la sola ‘colpa’ di un percorso di vita difficile, complicato ulteriormente dal cortocircuito di una burocrazia che ha prodotto un evidente paradosso. Oggi, il provvedimento amministrativo che le restituisce la libertà.
Suada Hadzovic nasce ad Albano laziale il 21 ottobre 1992, da due genitori stranieri di origini slave ma anche loro nati in Italia. Il padre, nato il 10 ottobre 1975 sempre ad Albano laziale e di nazionalità serba, muore il 16 ottobre del 2000, quando Suada ha 8 anni. La madre, sempre di nazionalità serba e nata a Torino il 29 luglio del 1975, decide alla morte del padre di affidare Suada a una casa famiglia, la Comunità 21 marzo di Terracina. Da questo momento, entra in gioco come tutrice legale un assistente sociale. Quando ha 14 anni, Suada viene trasferita in un’altra casa famiglia, la Comunità Domus Bernadette, a Roma.
Al compimento del diciottesimo anno di età, in base alla legge 91 del 5 febbraio del 92, Suada avrebbe avuto il diritto di diventare cittadina italiana presentando una semplice dichiarazione di volontà all’Ufficio di Stato Civile del comune di Roma. Il problema è che il Comune di Roma non manda la relativa comunicazione nei sei mesi precedenti, come avrebbe dovuto fare in base all’art. 33 della legge 98/2013, e la tutrice legale non informa Suada di questa possibilità. La conseguenza è che al compimento del diciannovesimo anno di età la ragazza perde il diritto alla cittadinanza. Nel 2010 Suada ottiene il suo primo permesso di soggiorno in cui viene erroneamente indicata la cittadinanza serba, deducendola evidentemente dalle origini dei genitori. E qui c’è l’altro snodo chiave della vicenda. Perché la Serbia, come risulta dalla comunicazione ufficiale dell’Ambasciata serba in Italia, dichiara esplicitamente che Suada Hadzovic non è cittadina serba. Del resto, non ha mai messo piede in Serbia ed è vissuta in Italia fin dalla sua nascita.
Nel corso degli anni, Suada e i legali ai quali si è rivolta tentano diverse strade, incluse la richiesta di cittadinanza per residenza e la richiesta dello status di apolide. Ma tutte le istanze si infrangono su sentenze di Tribunale che non indicano mai una soluzione al problema. “Fatto sta che mi ritrovo a 32 anni prigioniera di un Paese, in cui sono nata e in cui vivo da sempre, che non mi riconosce come cittadina e che sostiene io sia cittadina di un altro Stato in cui non ho mai messo piede”, sintetizzava con amarezza un fa, in attesa di rivolgersi al prossimo legale e di fare l’ennesimo tentativo per uscire dalla sua condizione di ostaggio. Diventata adulta, con un compagno e un figlio italiani, rimane senza nazionalità e senza cittadinanza, priva di passaporto e con una carta d’identità che continua a recitare la dicitura ‘non valida per l’espatrio’. Da oggi, però, lo status di apolide libera Suada Hadzovic dalla sua condizione e le restituisce, finalmente, il diritto a muoversi anche fuori dall’Italia. (Di Fabio Insenga)

cronaca webinfo@adnkronos.com (Web Info)


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Sputa la foglia che gli era finita in bocca per il vento, 86enne riceve una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti



(Foto: Facebook)© Social (Facebook etc)

(Foto: Facebook) Sputa la foglia che gli era finita in bocca per il vento, 86enne riceve una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti© Social (Facebook etc)
Si era seduto su una panchina, gli è finita una foglia in bocca a causa del vento, l'ha sputata per strada e ha ricevuto una multa di 285 euro per abbandono di rifiuti. È la disavventura di un uom di 86 anni, RoyMarsh, fermato da due agenti che hanno visto il gesto. Accade a Skegness, in Inghilterra«Inutile e sproporzionato»
L'anziano ha denunciato alla BBC l'accaduto, definendolo «inutile e sproporzionato». La sanzione, dopo un ricorso, da 285 euro (circa 250 sterline, ndr) sarebbe dovuta essere ridotta a 170 euro (150 sterline), ma l'86enne ha dovuto comunque pagare l'intero importo.
Secondo il consigliere della contea Adrian Findley, si tratta di uno dei tanti casi in cui gli agenti hanno calcato la mano laddove non ce n'era il bisogno. Il consiglio distrettuale di Eat Lindsey ha dichiarato alla BBC che gli agenti avrebbero fermato solo chi è stato visto «commettere reati ambientali».

MA IN CHE PAESE VIVIAMO? I DELINQUENTI SONO A PIEDE LIBERO E CHI DENUNCIA IL RACKET È COSTRETTO A FALLIRE STORIA DI MAURIZIO DI STEFANO, 59ENNE COSTRETTO A CHIUDERE IL RISTORANTE A BOLOGNA DOPO CHE LO STATO RIVUOLE INDIETRO I 150MILA EURO CHE GLI AVEVA DATO PER RICOMINCIARE FUORI DALLA SICILIA.

 da  dagospia  del  17\12\2025

MA IN CHE PAESE VIVIAMO? I DELINQUENTI SONO A PIEDE LIBERO E CHI DENUNCIA IL RACKET È COSTRETTO A FALLIRE -
 LEGGERETE LA STORIA DI MAURIZIO DI STEFANO, 59ENNE COSTRETTO A CHIUDERE IL RISTORANTE A BOLOGNA DOPO CHE LO STATO RIVUOLE INDIETRO I 150MILA EURO CHE GLI AVEVA DATO PER RICOMINCIARE FUORI DALLA SICILIA. IL MOTIVO? "I MAFIOSI CHE MI IMPONEVANO IL PIZZO A CATANIA SONO STATI CONDANNATI PER USURA AGGRAVATA E NON PER ESTORSIONE. SONO VITTIMA DELLO STATO PER DUE VOLTE: PRIMA MI HA PORTATO A ESEMPIO PER QUANTI NON SI PIEGANO AL RACKET, ORA LO STESSO STATO MI TRATTA COME UN BANDITO…” 

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca per il "Corriere della Sera"

 

maurizio di stefano 3

Dieci giorni fa ha chiuso per sempre il suo ristorante a Bologna.

Si chiamava «Liccu», che sta per goloso ed era un rifugio dove gustare tutte le specialità della rosticceria e della pasticceria siciliana. Ma era anche il segno tangibile di una storia di riscatto. Il titolare, Maurizio Di Stefano, 59 anni, aveva infatti avviato l’attività con i fondi per le vittime di estorsione. 

Circa 150 mila euro che ora lo Stato vuole indietro. «L’Agenzia delle Entrate mi ha notificato una cartella esattoriale per lo stesso importo». Perché? «La motivazione è che i mafiosi che mi imponevano il pizzo sono stati condannati per usura aggravata e non per estorsione ».

 

maurizio di stefano 1

Di Stefano ha provato ad opporsi, ma ha dovuto fare i conti con un’altra faccia dello Stato: la lentezza della giustizia. «La prima udienza del ricorso in sede civile è stata fissata per gennaio 2027 —racconta—. L’opposizione non sospende la cartella e quindi ora devo pagare, poi si vede. Ma io non ho dove prenderli 150 mila euro. Se non pago mi viene pignorato tutto, anche il conto corrente. Non mi resta che chiudere, vendere il ristorare e provare a racimolare i soldi per pagare la cartella». 

Tanta la rabbia. «Prima lo Stato mi ha portato ad esempio per quanti si piegano al racket, ora lo stesso Stato mi tratta come un bandito e ruba il futuro mio e della mia famiglia. In Italia si dicono tante belle parole, ma poi la realtà è questa e te la sbattono in faccia senza tanti scrupoli. Mi sento tradito due volte».

maurizio di stefano 5

 La storia di Maurizio Di Stefano comincia oltre 20 anni.

In Sicilia era la stagione della rivolta dei commercianti contro la mafia del «pizzo». E lui fu uno dei protagonisti. All’epoca viveva a Catania dove gestiva due librerie: una all’interno dell’aeroporto, l’altra in centro città. Attività che, come tante in quegli anni, finirono nel mirino della mafia. In particolare della temuta famiglia Nizza […] Gli imponevano di pagare 800 euro al mese di «pizzo». Più l’obbligo di accettare e scambiare un giro di assegni strani che erano anche una forma di usura. Fino a quando Di Stefano non decise di ribellarsi, denunciando e facendo arrestare alcuni dei suoi aguzzini.

 

maurizio di stefano 2

«[…] Nel 2018 decisi di chiudere con la Sicilia e di ripartire con una nuova attività qui a Bologna». Di Stefano aveva ripreso in mano la sua vita. Tutto sembrava filare liscio. «L’attività in questi anni è andata benissimo —spiega —. Il locale era sempre pieno.

Pensavo di essermi lasciato per sempre il passato alle spalle. E invece all’improvviso lo Stato si è rifatto vivo trattandomi come un lestofante».

 

Oltre alla rabbia c’è anche tanta amarezza. «A suo tempo erano in tanti che mi davano coraggio e mi dicevano che avrei potuto contare sul loro aiuto. Sono spariti tutti. […]».

maurizio di stefano 4

 Di Stefano sostiene che il processo ai suoi estorsori non sarebbe mai cominciato. «Sono andati avanti con il processo per usura — spiega — mentre quello per estorsione non si è mai capito che fine abbia fatto». Non gli resta che fare i conti con la solitudine.

[…]

15.12.25

preoccupazioni e sgomenti culturali comunicato di Giuditta Sireus direttrice artistica presso Il Club di Jane Austen Sardegna- Circolo Letterario Femminile

 Esprimo una preoccupazione sempre più profonda verso quelle comunità che, in modo sistematico o silenzioso, non sostengono i progetti culturali e le iniziative culturali che nascono e crescono nei propri territori, salvo poi vederli riconosciuti, apprezzati e applauditi altrove, fuori dai confini della città o della cittadina di origine.Un paradosso ormai diffuso, una sorta di epidemia che investe — chi più chi meno — molte realtà. Progetti che trovano ascolto, attenzione e valore lontano da casa, ma che restano invisibili, ignorati o ostacolati proprio nei luoghi che dovrebbero esserne il primo nutrimento. In questo scenario esprimo un sentimento profondo di dispiacere, di disappunto e anche di rabbia.Il

Ph credit: Barrosa che legge, AriuCeramiche.
mancato sostegno assume forme diverse: economiche, certo, ma anche morali, istituzionali, di semplice disponibilità e presenza. 𝐄̀ 𝐮𝐧’𝐚𝐬𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐞𝐬𝐚, 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐦𝐚𝐢 𝐧𝐞𝐮𝐭𝐫𝐚. 𝐄̀ 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐧𝐜𝐢𝐝𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐭𝐞𝐫𝐫𝐢𝐭𝐨𝐫𝐢𝐨 𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢𝐧𝐮𝐢 𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐦𝐨𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚. 𝐋𝐚 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐨𝐫𝐧𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐧𝐞́ 𝐮𝐧 𝐞𝐬𝐞𝐫𝐜𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐢𝐚𝐥𝐞. 𝐄̀ 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐚, 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞, 𝐚𝐩𝐞𝐫𝐭𝐮𝐫𝐚. 𝐄̀ 𝐮𝐧𝐨 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐬𝐨𝐥𝐨 𝐬𝐞 𝐯𝐢𝐞𝐧𝐞 𝐚𝐭𝐭𝐫𝐚𝐯𝐞𝐫𝐬𝐚𝐭𝐨, 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐧𝐮𝐭𝐨, 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐬𝐨. Ogni progetto culturale dovrebbe essere coltivato con amore e attenzione, al di là delle amicizie personali, dei pregiudizi, delle simpatie o delle prese di posizione individuali. Sostenere la cultura significa riconoscerne il valore anche quando non ci somiglia, anche quando disturba, anche quando mette in discussione. 𝑵𝒐𝒏 𝒔𝒐𝒔𝒕𝒆𝒏𝒆𝒓𝒆 𝒄𝒊𝒐̀ 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒂𝒔𝒄𝒆 𝒔𝒖𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒐 𝒕𝒆𝒓𝒓𝒊𝒕𝒐𝒓𝒊𝒐 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒊𝒇𝒊𝒄𝒂 𝒓𝒊𝒏𝒖𝒏𝒄𝒊𝒂𝒓𝒆 𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒂 𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂̀ 𝒄𝒐𝒍𝒍𝒆𝒕𝒕𝒊𝒗𝒂.

𝐋𝐚 𝐛𝐚𝐫𝐫𝐨𝐬𝐢𝐚: 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞
In questa situazione, rivendico ciò che chiamo barrosia: la scelta di non andare via dai luoghi in cui non si è apprezzati o considerati, ma di restare.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 non per rassegnazione, ma come dichiarazione di esistenza.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 come atto di volontà e di responsabilità. Restare per continuare a seminare, anche quando il terreno appare ostile o indifferente. Seminare per gli altri, per chi lo desidera, per chi apprezza, per chi riconosce il valore di ciò che viene proposto.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞, e non andare, per alimentare con la propria presenza un disturbo: non nel senso negativo del termine, ma come accensione del dibattito critico, come stimolo al confronto, come possibilità di ricchezza e bellezza. Un disturbo necessario, che rompe l’abitudine, che impedisce l’appiattimento, che tiene viva la comunità.
𝐑𝐞𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 significa credere che la cultura debba essere viva, non comoda. Che debba interrogare, creare frizioni, aprire possibilità.
𝐀𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐢
Questo discorso è rivolto in modo particolare agli amministratori pubblici. Perché sostenere la cultura non è un gesto opzionale, né una concessione. È una responsabilità politica. Ogni scelta di non partecipare, di non sostenere, di voltarsi dall’altra parte — per calcolo, per presa di posizione o per disinteresse — lascia un progetto solo e indebolisce l’intero tessuto culturale di un territorio.
𝑪𝒐𝒏𝒄𝒍𝒖𝒅𝒐 𝒓𝒊𝒏𝒈𝒓𝒂𝒛𝒊𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒄𝒉𝒊 𝒄’𝒆̀ 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒆 𝒄𝒉𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒊𝒏𝒖𝒂 𝒂 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒄𝒊. 𝑴𝒂 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒉𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒄’𝒆̀ 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐, 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒂𝒔𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒔𝒆𝒈𝒏𝒂𝒍𝒆. 𝑶𝒈𝒏𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒄𝒂𝒕𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒆𝒄𝒊𝒑𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆̀ 𝒖𝒏𝒂 𝒔𝒄𝒆𝒍𝒕𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒓𝒐𝒅𝒖𝒄𝒆 𝒄𝒐𝒏𝒔𝒆𝒈𝒖𝒆𝒏𝒛𝒆. 𝑬 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒖𝒏 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒖𝒍𝒕𝒖𝒓𝒂𝒍𝒆 𝒗𝒊𝒆𝒏𝒆 𝒍𝒂𝒔𝒄𝒊𝒂𝒕𝒐 𝒔𝒐𝒍𝒐, 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆 𝒔𝒐𝒍𝒐 𝒄𝒉𝒊 𝒍𝒐 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂 𝒂𝒗𝒂𝒏𝒕𝒊: 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒂 𝒍𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒖𝒏𝒊𝒕𝒂̀.
Giuditta Sireus

11.12.25

cosa fare davanti ad una malattia terminale e incurabile curarsi o non curarsi ? il caso di Diana Zanin che diceva «Lei diceva: “Il corpo non si tocca”

a freddo , ho aspettato un po' prima di dire la mia sulla scelta di Diana Zanin ( vedere post precedente ) e ho deciso di farlo come suggerisce l'unione sarda di oggi :

[...] Conviene raccontarla con estrema delicatezza questa storia confinata nello spazio accidentato in cui possono incontrarsi la libertà personale, le convinzioni ideologiche e persino la volontà di cedere e accettare una qualche sorta di condizionamento. Lo spazio in cui una persona può essere pienamente in sé, ed è qui – su questo crinale tutto da sondare – che si sono schierati da una parte il sindaco Giovanni Daga e tanti nella comunità, dall’altra il compagno Giuseppe. «Da oltre un anno Diana non era più lei», raccontano in
paese, ed è la voce di chi la vedeva ogni giorno, più spesso dietro la cassa o il bancone del supermercato. Raccontano che era diventata «magra da non reggersi in piedi», e che aveva «il ventre gonfio». Che «si nutriva soltanto di insalate e di frullati».         C’è chi riferisce il monito di diverse amiche affezionate: «Se continui così, muori». [...] «“Il corpo non si tocca”, diceva, ed era ciò che riteneva giusto». Giuseppe, il compagno di Diana [...] il viso incorniciato dalla barba rada, non vuole parlare ma due cose ci tiene a metterle in chiaro. «Stavamo insieme da tre anni, ho cercato in tutti i modi di convincerla a curarsi ma niente, lei non voleva. L’ho portata al pronto soccorso di San Gavino ed è venuta via. Ho lasciato il mio lavoro per farla star bene, per permetterle di andare nella nostra casa in montagna e riposare». La chiama «mia moglie». Io, puntualizza, «l’amavo, nessuno può dire il contrario».
Non so che  malattia  avesse  o  se  fosse  una  che   rifiuta  le  cure   ufficiali  e  si cure  con quelle  alternative  (   scietìntificamente provate  o meno  ) ,  se    si sia  arresa  accettano   il proprio destino  . Ma   se  la sua   scelta soprattutto    se    spontanea  e  non indotta  (  c'è un indagine  in  corso   staremo a  vedere  come s'evolve  )  , anche se  a  noi  , sembrerà  asurda  ed   egoistica  ,   va  rispettata   ed  acettata  . Chi  siamo noi   per  giudicare  e   decidere  , soprattutto    quando come riferito dal  marito  ,   non voleva   curarsi  ,     cosa  avrebbe dovuto  fare  . Quindi facciamo   silenzio   


  lasciamo in pace la  sua famiglia  ( sempre  che  la magistratura  non acerti il  contrario   cioè sia stata manipolata   nella  sua decisione  )  e  facciamo   silenzio   e    facciamo   cadere  il velo   dell'oblio   sutale  vicenda 

 

10.12.25

Diana Zanin, Sceglie di non curarsi e muore a 49 anni condizionata psicologicamente o libera scelta davati a una malatia incurabile ? Giovanni Daga il sindaco di Nuragus chiede l'autopsia

da la nuova sardegna tramite msn.it

Nuragus
Quasi 50 anni, da più di 20 aveva scelto il paese della Marmilla per vivere e lavorare. Diana Zanin, origini svizzere, era titolare di un frequentato negozio di alimentari. È deceduta a causa di una grave malattia che aveva scelto di non curare. Una morte che ha scosso la piccola comunità di poco più di 800 abitanti. E che ha spinto il sindaco Giovanni Daga a scrivere un messaggio sui social. Parole di dolore profondo, ma anche di amarezza per non aver potuto fare nulla per evitare questa morte. «Una giovane vita spezzata da scelte che, con ogni probabilità, sono maturate in un contesto di forte condizionamento emotivo e psicologico. Purtroppo capita che, quando una persona fragile viene influenzata da idee distorte o da convinzioni radicali, rifiuti cure che avrebbero potuto salvarla. In questi casi tutti intorno vedono, intuiscono, cercano di parlare, ma spesso non sanno come intervenire davvero. Anch’io, nel mio piccolo, ho cercato di fare ciò che ritenevo giusto, presentando una segnalazione formale alle autorità competenti. È doloroso sapere che non sempre gli strumenti istituzionali riescono ad attivarsi in tempo, non per cattiva volontà, ma perché i confini tra autodeterminazione, fragilità e influenza psicologica sono difficilissimi da valutare. Il primo cittadino

La vicenda di Diana ci colpisce e ci addolora profondamente.
Una giovane vita spezzata da scelte che, con ogni probabilità, sono maturate in un contesto di forte condizionamento emotivo e psicologico.
Purtroppo capita che, quando una persona fragile viene influenzata da idee distorte o da convinzioni radicali, rifiuti cure che avrebbero potuto salvarla. In questi casi tutti intorno vedono, intuiscono, cercano di parlare, ma spesso non sanno come intervenire davvero.
Anch’io, nel mio piccolo, ho cercato di fare ciò che ritenevo giusto, presentando una segnalazione formale alle autorità competenti. È doloroso sapere che non sempre gli strumenti istituzionali riescono ad attivarsi in tempo, non per cattiva volontà, ma perché i confini tra autodeterminazione, fragilità e influenza psicologica sono difficilissimi da valutare.
Oggi resta soprattutto l’amarezza di una tragedia che forse poteva essere evitata.
E resta un dovere per tutti noi: non voltare lo sguardo quando percepiamo segnali di isolamento, manipolazione o dipendenza emotiva.
Diana meritava di più.
Ricordiamola così: come un invito a creare comunità più attente, più coraggiose e più capaci di tendere la mano prima che sia troppo tardi.

 parla di amarezza per «una tragedia che forse poteva essere evitata. E resta un dovere per tutti noi: non voltare lo sguardo quando percepiamo segnali di isolamento, manipolazione o dipendenza emotiva. Diana meritava di più. Ricordiamola così: come un invito a creare comunità più attente, più coraggiose e più capaci di tendere la mano prima che sia troppo tardi». 

9.12.25

il dott Pierluigi Congiu 65 nonostante il grave incidente ha rimesso il camice per aiutare i pazienti ., Lo specialista Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicanalista, avverte: «I genitori non si nascondano davanti ai tabù»«Sessuo-affettività, non concentriamoci su temi ideologici» ., Il mare che cura, ad Alghero la vela diventa terapia per ragazzi in difficoltà Un viaggio nell’Accademia di Laurent Campus

 

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«Sessuo-affettività, non concentriamoci su temi ideologici»

Lo specialista Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicanalista, avverte: «I genitori non si nascondano davanti ai tabù»

purtroppo  il video dura troppo e   downloadhelper  me  lo a  si scaricare   ma    non  mettere  su  blogger  deovete  accontentarvi  dell'intervista  scritta  o consultate    qui la  pagina       dell'unione  sarda   :«Sessuo-affettività, non concentriamoci su temi ideologici»

«Sessuo-affettività, non concentriamoci su temi ideologici» Lo specialista Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicanalista, avverte: «I genitori non si nascondano davanti ai tabù» La Camera ha
approvato il disegno di legge Valditara. Passerà al Senato dopo la sessione di bilancio. L’educazione sessuo-affettiva entra così nelle scuole medie e superiori. Ma solo col consenso dei genitori. Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoanalista, è uno specialista in disturbi alimentari e salute mentale degli adolescenti. Collabora con due format Rai: Storie Italiane e Fame d’amore. Apre il suo sito internet con un pensiero: «In questo tempo di grandi fragilità, io credo nell’ascolto che cura». Ecco la “sua” educazione. Arriviamo in ritardo. E divisi.
«In questo Paese rendiamo tutto dibattito ideologico. Ci dimentichiamo che il mondo sta cambiando radicalmente. E il cambiamento va interpretato, innanzitutto da noi adulti».
Pericoli?
«Il sistema dell’informazione è complesso. Pensiamo ai social e a come trattano la sessualità. Anziché insistere sulle attività educative e pedagogiche, si dibatte sulla scuola, sul “posto”, giusto o no, dove affrontare questo tema. È assolutamente anacronistico».
Ma è naturale pensare alla scuola.
«Sì, ma dimentichiamo il cuore della questione. Dobbiamo chiederci che cosa insegnare ai nostri figli sulla sessualità e sull’affettività. Invece ci concentriamo su questioni ideologiche. La scuola non è l’unico focus, così non stiamo affrontando i contenuti».
La politica non ce l’ha fatta: 34 proposte di legge, nell’80 ci ha provato anche Tina Anselmi. Cattolica, ex partigiana, primo ministro donna. Curioso?
«Era un altro Paese, con presupposti culturali totalmente diversi da oggi. Politici di quel livello puntavano a fare passi avanti proprio in direzione della crescita culturale».
Ecco, crescita. I ragazzi raccontano che in famiglia il tema resta un tabù.
«Non sono temi facili, quel tabù è quasi naturale. L’emergenza sta nell’accessibilità ai contenuti sessuali. I ragazzi di 14, 15 anni hanno tutto in un click. Capisco le difficoltà dei genitori, ma rispetto a quel tabù non devono nascondersi. Parlo da psicanalista: hanno il dovere di affrontarlo e di essere preparati».
Mica poco.
«È molto importante aiutare i genitori. Ha ricordato Tina Anselmi. Il tema della sessualità era il tema del bene pubblico, della crescita sana. Un principio molto superiore rispetto al tema ideologico. Forse la classe politica di oggi fa fatica a individuare le priorità. Il futuro del nostro Paese sono i nostri figli, non le questioni partitiche»
Cedo all’ovvio. La Svezia, 70 anni di educazione sessuale. Oggi è il Paese con la maggiore parità di genere.
«È un tasto dolente. Da noi in Italia c’è un metodo vecchio per affrontare temi nuovi. Parcellizziamo per singoli segmenti. È giusto combattere la violenza di genere, educando alla sessualità. Mapoi c’è anche il resto, che non è scollegato. E così poco importa se una donna entra nel mercato del lavoro con il 30 per cento in meno di capacità economica rispetto a un suo pari grado di sesso diverso. Non ci occupiamo del gender gap, delle discriminazioni sociali».
Quindi una visione limitata.
«Dobbiamo impegnarci tutti per una coerenza culturale, sociale, politica ed economica molto più ampia. I modelli che funzionano non sono quelli che dibattono su “educazione sì, educazione no”. Sono quelli sociali, e sottolineo sociali, che si basano su un modello politico che crea un contesto di rispetto».
Siamo già oltre.
«Attenzione a tutte le disparità e le diseguaglianze. Possiamo fare i corsi migliori sull’educazione affettiva, ma non avranno effetto se non si risolve la discriminazione».
Legge Valditara, domanda scontata. A che età serve l’educazione sessuo-affettiva?
«Domanda difficile, il punto è fondamentale. Siamo sinceri: i nostri ragazzi a 9, 10 anni entrano in contatto con contenuti di natura sessuale. Mettiamoci allora in un’ottica di protezione. Offriamo contenuti seri, sani, legittimi. Abbiamo un antagonista, non un nemico, che si chiama digitale e che di fatto non governiamo. Dobbiamo essere attrezzati per il confronto, anche quando i nostri figli sono nella preadolescenza. Può essere utile e importante».

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Il mare che cura, ad Alghero la vela diventa terapia per ragazzi in difficoltà
Un viaggio nell’Accademia di Laurent Campus






Sul mare di Alghero, tra vele antiche e onde del Mediterraneo, bambini e adolescenti scoprono la forza di fidarsi e collaborare. È qui che Laurent Campus, 58 anni, trasforma la sua passione per la vela latina in un progetto unico: “Mare come Terapia”.Nato dalla sua esperienza personale con il figlio, il progetto accoglie giovani con fragilità psicologiche e sociali, offrendo loro esperienze in barca che uniscono crescita personale e antichi saperi.
La barca-maestra “Santa Barbara”, del 1953, diventa così una scuola di vita: a bordo non ci sono ruoli fissi, tutti collaborano e imparano a comunicare e affrontare insieme le sfide. In cinque anni oltre 800 ragazzi hanno partecipato alle attività, spesso in collaborazione con la Asl di Sassari. Durante l’inverno, l’apprendimento continua con artigiani e maestri d’ascia, tra restauri e lavori in cantiere.Il progetto punta ora a trovare una nuova sede-cantiere e ha attirato l’attenzione del Parco di Porto Conte e del Comune di Alghero, pronti a sostenere un’iniziativa che unisce cultura, inclusione e terapia sociale.





7.12.25

non sempre chi lavora con le carni necessariamente odia gli animali . simone cabras Il macellaio amico dei cavalli Nella vita vende carne, per passione è allevatore: «Ma i puledri non si toccano»

unione sarda 7\12\2025


 

Ad allevare cavalli da competizione, in tutto il Sud Sardegna, sono rimasti in pochissimi. Ancora meno sono quelli che hanno reso i propri animali in grado di gareggiare con i migliori esemplari della nazione. Da Monserrato alle grandi arene dell’equitazione italiana, è questo il percorso dei cavalli di Simone Cabras, 38 anni, macellaio di professione e allevatore per passione. Insieme al fratello Luca si occupa di tre puledre, la più giovane delle quali un mese fa è arrivata all’undicesimo posto – i partecipanti erano più di duecento – alla Fieracavalli di Verona, la più importante competizione equestre d’Italia. La specialità? Il salto a ostacoli, con balzi che superano un metro e trenta d’altezza.
La storia
«Ho iniziato da ragazzino, nel 2000. In casa abbiamo sempre avuto i cavalli, quindi come sport decisi di fare equitazione e da lì è partita la passione per l’allevamento», racconta Cabras, che per un po’ ha montato da sé gli equini. «Oggi per mancanza di tempo li affidiamo a un cavaliere professionista, Pietro Arba, che partecipa alle manifestazioni ippiche». Quella di Verona non è stata l’unica soddisfazione: gli ottimi risultati ottenuti in Sardegna hanno permesso di accedere anche alle finali nazionali di salto a ostacoli di Arezzo. Successi frutto di anni di lavoro. «Le cavalle vengono fatte inseminare da maschi con buoni curriculum da saltatori. Li nutriamo e ce ne prendiamo cura mattina e sera. Quando arrivano al periodo della doma possono iniziare a saltare e vengono portati ad allenarsi all’ippodromo. Nel periodo di riposo tornano a Monserrato». Dove la famiglia Cabras tiene anche i buoi che ogni primo maggio trainano Sant’Efisio. Ma avere tanti animali a casa e vendere carne ogni giorno non sono in conflitto. «La nostra è una famiglia di macellai, è un contesto in cui siamo nati. Chiaramente non macelliamo i nostri cavalli, sono intoccabili. Adesso hanno due-tre anni, ma possono fare attività fino a venti. In altri anni siamo riusciti ad avere fino a sette esemplari e con ognuno di loro si instaura un legame».
Legame
Ecco perché, anche se il tempo è poco, l'impegno è destinato a durare. «Ci vuole tempo e pazienza, ma è una passione. Allevare e allenare un cavallo che poi riesce a fare una lunga carriera agonistica e ottenere buoni risultati è una soddisfazione».

5.12.25

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti







 
 Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo tatuatore d’Italia, è morto a 80 anni. Nel 1972 aveva fondato il Teatro Parenti con Andrée Ruth Shammah, Franco Parenti, Giovanni Testori e Dante Isella che      trovate  qui   su questo   articolo  di fanpage   per   maggiori    notizie  a     riguardo .  un po' di rimpianto  ad  non essere  riusciti  ad   (  ma  pazienza  cosi va la vita )   intervistarlo  per il nostro blog ,  appassionat si.a  di storie  sia    d'arte  e  di tatuaggi    pur    non avendone  nessuno   per  carattere  incostante  e mutevole      essendo sempre  alla ricerca di un centro   di gravità permanente  che  mi fa  sempre  cambiare idea e  parere  e    non avere   un pensiero definitivo  .Ma  sopratutto  paura   che  mi succeda  come   il protagonista    del video  sotto 

     
Ho  letto  coincidenza    o casualità  ? sulla la  nuova sardegna  4\12\2025   un intervista   di Caterina  cossu   al designer, artista e tatuatore di fama mondiale Pietro Sedda (  foto in alto  a  destra ) .


L’intervista
Da Milano a Cabras, dal tatuaggio all’home restaurant: la nuova vita di Pietro Sedda
di Caterina Cossu



Per strada gli capita spesso di imbarazzarsi: che sia a New York, in Oriente o tra le stradine di San Giovanni di Sinis, le persone lo riconoscono e gli chiedono un autografo: «Non penso mai che quello che ho fatto nella vita sia di ispirazione per qualcun altro, invece lo è. Oggi ho mollato un po’, ma le persone continuano a chiamarmi “maestro”, vengono a tatuarsi da me con un atteggiamento di reverenza. Non mi ci abituo, non mi piace autocelebrarmi».Definire Pietro Sedda designer, artista e tatuatore sembra riduttivo: la sua fama è arrivata ovunque nel mondo grazie a progetti con partner come Bmw, Fritz Hansen, il collega Diego Brandi. Oggi ha 56 anni e si era ripromesso che entro i 60 sarebbe tornato lì dove tutto è iniziato, con nuovi stimoli e nuovi progetti.

Come si è evoluta la sensazione di tatuare?

«Mi piace essere metodico: leggo le mail appena arrivo, preparo da me la mia postazione. Lo studio ora risulta un ambiente intimo, confortevole, ed è un grande cambiamento dal precedente, super affollato. Invito sempre a stare tranquilli e godersi quel momento. Cerco di parlare il meno possibile, perché se si parla di meno si capisce di più l’esigenza del cliente, si crea questo filo rosso ed è molto soddisfacente. Ho sempre potuto scremare le richieste, faccio capire quando non voglio fare qualcosa e che è un’arte che voglio esercitare con entusiasmo e non per fare marchette. Mi rendo conto di trasmettere autorità, questo sì, ma è il mestiere che lo impone: non puoi tatuare ed essere titubante. E poi sono convinto che i progetti belli nascano da soli, non c’è bisogno di forzare nulla nella vita».

Come ha iniziato?

«Il mio primo laboratorio è stata una botteguccia a Oristano: si chiamava Officina Alzheimer e realizzavo oggetti di design con materiale di recupero. Mi ricordo ancora Lo Scomodino, fatto di chiodi, era un luogo pieno di oggetti assurdi e clienti attirati dalla loro eccentricità. Uno di questi fu proprio Renato Soru, a cui devo il mio primo lavoro su commissione di un certo rilievo: negli anni in cui nasceva Tiscali, infatti, mi chiese di realizzare cinque grafiche per le tessere ricaricabili, usavamo ancora le lire».

Come si è guadagnato l’appellativo di “maestro”?

«Nasco come artista visivo, pittore. Ai tempi in cui ho definito la mia proposta, era un’estetica che nel mondo del tatuaggio non esisteva (si riferisce allo stile contaminato dalla cultura olandese del Seicento, le incisioni botaniche dell’Ottocento, dai viaggi soprattutto in Oriente e Giappone, definito surreale, neo-tradizionale e pittorico, tra fumetto e Bad Painting, ndc). Ora magari è passato talmente tanto tempo che chi tatua oggi non sa che sta copiando me».

Perché non ha più voglia di dedicarsi solo al tatuaggio.

«Sono stanco: Milano è alienante, e io ho dato tanto, a questo mestiere specialmente. Mi sono trasferito a Cabras da una settimana e già ho i miei ritmi: qui vado al mare a mangiare una focaccia, cerco asparagi, faccio altre scelte. Il mondo del tatuaggio è complesso ed è cambiato negli ultimi anni, soprattutto dopo il Covid. Dieci anni fa avevo l’agenda piena con una programmazione a 6 mesi, oggi se riesco a programmarne uno intero è l’eccezione, così è anche per i colleghi in tutto il mondo. Non c’è un'età giusta per cambiare, c’è il momento per farlo».

 I suoi ravioli sembrano gioielli...

 «In vista ho cambiamenti categorici, come riprendere la pittura. Ora però sono concentrato sull’home restaurant, la mia nuova creazione è Musubi - Al Giardino di sera. Cucino io, una fusion tra cucina sarda ed etnica: sono di Oristano, ma i miei genitori sono originari di Ovodda e Desulo, la Barbagia mi abita. Di contro, ho viaggiato per tutto il mondo, e la cucina unisce le mie esperienze. Sto iniziando in giardino, arrivo a un massimo di 12 coperti per volta, e ho sempre voluto farlo: dopo le medie i miei mi impedirono di iscrivermi all’alberghiero, imponendomi l’Istituto Tecnico».

Le hanno già detto che è un progetto ambizioso per la piccola Cabras?

«Certo, mi hanno proposto di farlo a Milano, ma ho risposto dicendo che non mi fermo a questo: voglio realizzare a breve il sogno di aprire un ristorante. Ho studiato Alta cucina a Milano, l’anno prossimo parto due mesi per approfondire in Giappone. In cucina ho riportato la mia poetica e l’esordio quest’estate è stato più che incoraggiante. Ho portato a Cabras una ventata di sapori nuovi e inaspettati».

Andare “fuori” è imprescindibile per chi vive l’insularità?

«No, lo è a prescindere dal luogo dove si vive: favorisce il percorso personale: solo con il confronto si può avere una reale crescita. Nonostante oggi viviamo immersi nella cyber technology, viaggiare ed esporsi è imprescindibile per la definizione della propria tempra, nel bene e nel male. L’insularità non è un escamotage per dire che si è potuto fare qualcosa. Io provengo da una famiglia benestante e sono stato supportato. Ma non è il luogo a determinare le possibilità».

Si dice che i sardi tra loro si confrontino sempre nel male però.

«Non parlerei di invidia ma di una permalosità dilagante, soprattutto nel Campidano. Però arriva un punto in cui, come ho fatto io, te ne puoi anche fregare e andare avanti. Ho raggiunto una maturità e ho fatto un percorso tale, che oggi mi permette di poter fare quello che voglio. A chi dubita rispondo con una domanda: “Volete rimanere come lo stagno, immobili”?»

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