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1.3.25

«Lotto contro il cancro, dipingo, vivo. E non ho più paura»la storia di sara marcella occulto., Famiglia pakistana sceglie di vivere Onifai: «Posto perfetto per i nostri bambini», Domitilla trova casa dopo sette anni in canile

  da   la  nuova  sardegna  del  1\3\2025

 Porto Torres 
Si chiama Sara Marcella Occulto, ha 39 anni, è di Porto Torres, è sposata e ha una figlia di 10 anni. Sara Marcella vive nella Nurra, a Palmadula, ed è una delle tante donne e madri che lotta contro il cancro al seno, una delle patologie tumorali più diffuse del pianeta. La malattia la combatte con le cure, la volontà e un'altra arma originale: l'arte. Sara Marcella infatti ha sempre dipinto sin da piccola e partecipato a concorsi, diplomandosi in quella fucina di talenti che è sempre stato il liceo Filippo Figari di Sassari. «Grazie a questa passione ho 
                                                  Sara Marcella Occulto e il ritratto della figlia


superato i momenti più bui, che in questi anni sono stati tanti - racconta la donna -. Ho quasi sempre disegnato a matita, in bianco e nero, specie i volti di persone. Nella disperazione i colori nella mia mente cambiavano. Ed erano passionali, attaccati alla vita: il giallo, il rosso, il rosa e il fucsia. Pensavo anche ai miei artisti preferiti: Picasso e Caravaggio. Alle loro opere con i miei colori, che mi davano la forza».La malattia per Sara si è svegliata nel luglio 2021, quando aveva appena aperto lo studio di massaggi olistici, in cui con regolare corso si era specializzata: «Dopo i controlli e gli esami il ricovero all'ospedale di Sassari – racconta la donna -. La situazione è grave. Ho un cancro. Non c'è tempo da perdere. Grazie all'amore

e impegno della dottoressa Pinella Serra mi trasferiscono ad Abano Terme. Il 9 novembre mi operano, guidati dal professor Stefano Martella. Mi portano via tutto e mi salvano la vita. Sono contenta fuori, ma piango in silenzio. So che non è finita. Ho paura di lasciare sola la famiglia e di non poter più disegnare».
Il calvario continua. «Inizia la chemioterapia. Da dicembre a luglio 2022. Le cure mi buttano a terra. Cerco di disegnare. Nei momenti di depressione occhi piangenti. Ma non è finita. Dopo la chemio inizio la radioterapia. Che mi brucia la pelle e l'anima. Riesco però a disegnare il murale dello studio di massaggi, anche se nel 2023 non sto bene, è un inizio di depressione». La malattia però sembra sconfitta.

ritratto  d'andrea  parodi 

 «Gli esami istologici e gli altri vanno bene per tutto il 2024. Il male non si risveglia più. Ma sono certamente più debole di prima. A volte non ho forza per occuparmi delle faccende domestiche più dure, riprendo però il lavoro di massaggiatrice - continua l'artista -. E disegno. Presto farò una mostra delle mie opere. Ho anche costruito una bambola che vorrei esporre. È fatta interamente di carta riciclabile. Il suo viso è bianco e rappresenta la purezza. Che si aggiunge agli altri stati d’animo che ho sempre voluto rappresentare: la forza, la protezione e l'amore».
Per Sara Marcella Occulto arriva anche un piccolo aiuto: una pensione mensile di 300 euro. «Non so però se ridere o piangere per la somma che mi è stata riconosciuta». Sara Marcella da mesi segue la terapia ormonale, e non è semplice. La fa andare in menopausa, per non fare risvegliare cellule pericolose. Ma purtroppo per la donna non è finita. Ha bisogno di un altro intervento, poi un altro ancora, da eseguire all’ospedale Brotzu di Cagliari. «La pelle del seno si è bruciata, la devono ricostruire con altra pelle che mi preleveranno dai fianchi e poi devono mettere i seni stessi in asse». L'ennesima prova di questi anni difficili. «Nel frattempo sto cercando a Porto Torres la sede per esporre i miei quadri e le mie creazioni di queste stagioni - conclude Sara Marcella -. Mi devono dare alcune risposte. Lavoro, dipingo. E non ho più paura».

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Onifai In un mondo in continuo cambiamento, anche i piccoli paesi si trovano a vivere trasformazioni che portano nuova linfa vitale. Due nuclei familiari originari del Pakistan per un totale di 15 persone hanno deciso di trasferirsi definitivamente in paese ottenendo nei giorni scorsi la cittadinanza italiana. Dopo aver vissuto a Roma per 10 anni, Shah Zar Wali
ed il suo nucleo familiare, si sono spostati per motivi di lavoro in Sardegna, dapprima ad Olbia e successivamente ad Onifai dove si sono integrati perfettamente con gli altri residenti. Shas vorrebbe aprire un negozio a Orosei ma continuerebbe a risiedere in paese che ritiene un posto adatto ai bambini ormai inseriti sia a scuola che nei servizi socioeducativi. I più piccoli frequentano la scuola dell’infanzia mentre i grandicelli prendono l’autobus per spostarsi nella vicina Irgoli. Nel doposcuola i bambini partecipano anche al punto studio spazio giovani e alle attività della ludoteca e tutti, prendono parte infine ai corsi di italiano per stranieri offerta dai servizi bibliotecari. «Il conferimento della cittadinanza italiana non è solo un evento amministrativo ma un segno del tempo che si rinnova» dice il sindaco 
Luca Monne.

«Un respiro che porta con sé culture, tradizioni e colori diversi. È come se le strade del paese si allargassero, accogliendo non solo nuove persone, ma anche nuovi modi di pensare, nuovi sapori, nuove voci che arricchiscono la melodia quotidiana».«Scegliere Onifai come casa rappresenta sì un riconoscimento giuridico, ma soprattutto un simbolo di integrazione e accoglienza – spiega il sindaco –. I gesti di sempre, il saluto a chiunque si incontri per strada, il lavoro nei campi, la vita della comunità, su cumbitu in su tzilleri, si mescolano con nuove parole, nuove abitudini che lentamente si integrano senza cancellare nulla. Forse è proprio questa la chiave per affrontare il futuro con saggezza: non temere il cambiamento, ma accoglierlo come un arricchimento. Non si perde l’identità aprendosi agli altri, anzi, si rafforza e forse la vera sfida è riscoprire il valore dell’incontro». E conclude con un ringraziamento all’ufficiale di Stato civile del Comune di Nicoletta Pulloni, che «con professionalità e puntualità nella giornata di ieri ha condotto la cerimonia».

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Cabras Dopo sette anni trascorsi in canile, ora vive con il suo amico umano Andrea, 30 anni, e gioca libera in giardino dove, a poca distanza, abita un altro cane con cui la cagnolina ha già fatto amicizia. E’ la nuova vita di Domitilla, ribattezzata Scintilla, manto bianco e macchia nera sul tenero musetto: grazie al progetto Baibau, avviato dall’amministrazione comunale nel 2023 per combattere il randagismo urbano e incentivare le adozioni dal canile, ha trovato finalmente casa a Cabras.


 
Il percorso di avvicinamento tra il cane e il suo padrone è stato guidato dall’educatore cinofilo che segue il progetto per il Comune e prima dell’adozione l’animale ha ricevuto le adeguate cure veterinarie. Dopo la sua adozione Domitilla è stata ribattezzata Scintilla. Il colpo di fulmine è avvenuto grazie alla pubblicazione delle sue foto, sui canali social dell’ente. Andrea cercava una cagnetta solare e serena e, dopo sole tre ore dal loro primo incontro, ha deciso che Domitilla avrebbe fatto al caso suo. Fra i due l’intesa è stata immediata.
«Siamo soddisfatti di vedere come Baibau stia dando i suoi frutti – ha commentato Carlo Trincas, l’assessore alla Cultura che ha avviato il progetto – l’adozione di Scintilla dimostra l’efficacia del nostro impegno per migliorare le condizioni degli animali ospitati nel canile e offrire loro la possibilità di una nuova vita. Grazie alla collaborazione con professionisti e associazioni partner e al supporto delle famiglie adottive, stiamo riuscendo a fare un passo importante verso il benessere degli animali e la sensibilizzazione della comunità. Continueremo a lavorare per garantire che altri cani come Scintilla possano trovare una casa». Quando il progetto Baibau è partito nel 2023 i cani presenti nel canile erano una sessantina, mentre oggi sono 40. Con il Comune collaborano le associazioni Effetto Palla Onlus e Hachiko Eroi a 4 zampe.

26.6.24

DIARIO DI BORDO N 58 ANNO II Speranza e nuova vita i casi di Bahara ragazza afgana giunta con un corridoio umanitario e quella di giulia Ghiretti, campionessa paralimpica di nuoto

"Ciò che conta è trovare il coraggio di rialzarsi e andare avanti, non importa quante volte la vita ci abbatterà. "
                  Charles Bukowski


Avendo sostenuto  non ricordo con precisione    quale   causa  umanitaria  del giornale   ho ricevuto  un abbonamento  gratuito  ad avvenire.it     da  cui  ho tratto queste  due  storie  piene  di speranze  e voglia  di rincominciare    come  quella  che  sto  afffrontando e  di cui  ho una  delle rara    volte, parlato nel  n  56     di questa rubrica    : <<   dopo  aver  attraversato la tempesta  e  ritornata  la  paura  ma   sono riuscito ad  affrontarla con consapevolezza >>    forse perche  come  la  protagonista  ( e  per  altri  motivi  personali ed familiari ) del primo    articolo  ho difficoltà  a   esternare le mie  emozioni   .
La prima  storia è quella di  Giulia Ghiretti,Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti si racconta ad Avvenire: « Le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile».  27 medaglie e un record del mondo in vasca corta. Sarà a Parigi, ma anche in tante scuole a raccontare la paralisi dopo una caduta e la rinascita

la  

Non smette mai di sorridere, Giulia. Ogni risata scuote la massa di capelli ricci, nel verde del cortile della sua casa in una frazione di Parma che è già
campagna. « Non potrei mai vivere in città – dice -. Questo è il mio mondo». Un mondo apparentemente confinato nella villetta in cui vive con la famiglia, a fianco del casale agricolo in cui abita la nonna.
Solo apparentemente, però. Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti vive tra aerei da prendere, gare da affrontare, allenamenti quotidiani da onorare. E poi gli incontri nelle scuole, che negli ultimi anni si sono moltiplicati.  Perché lei ha la sua storia da raccontare: quella di una ragazza di 16 anni, giovane atleta promettente, che in un giorno di gennaio del 2010, durante il primo allenamento dopo le feste di Natale e poco prima dei Mondiali a cui era attesa, prende letteralmente il volo sul tappeto elastico, la sua specialità, atterra di schiena e si frantuma una vertebra. Intervento, mesi di terapia. La certezza che non tornerà mai più a camminare. La carrozzina che diventa il suo “fine pena mai” (anche se lei questa espressione non la sottoscrive, perché la sedia con le ruote non l'ha mai vissuta come una prigione). E poi la scelta di tornare a fare agonismo. In piscina, però, dove si sente libera. Da allora è stato un crescendo: oltre 60 titoli italiani, un primato mondiale, titoli europei e iridati, due argenti e un bronzo tra i Giochi di Rio e Tokyo.

Giulia, la tua vicenda è diventata anche un libro Sono sempre io (Piemme, 208 pagine). Quando hai pensato di volerlo scrivere?

Non ho mai voluto! Mi ha convinto Andrea (Del Bue, giornalista e amico del cuore di Giulia, firma con lei il libro, ndr). Non mi piace parlare di me. La svolta è stata con il Covid: chiusi in casa, ne abbiamo avuto il tempo.

Lo scorso febbraio hai compiuto 30 anni. Che effetto ti ha fatto?

Traumatico. Mi sembra di non aver realizzato nulla. Di essere un po’ in ritardo.

In ritardo? Hai completato la laurea magistrale in ingegneria biomedica al Politecnico di Milano, hai vinto decine di medaglie tra Olimpiadi e competizioni mondiali...

Sì, è vero. Però dentro di me, la mia vita personale, intima, mi sento in ritardo.

Da anni giri per le scuole a testimoniare che la disabilità non limita la vita. Cosa ti piace di più dell’incontro con i bambini e i ragazzi?

Mi piace la loro spontaneità. Mi chiedono cose come: entri in acqua con la carrozzina? Perché ti metti i pantaloni se non senti le gambe? Non potresti tagliarti le gambe e metterti le protesi? I bambini non avvertono barriere. A loro cerco di trasmettere l’idea che i disabili possono fare le stesse cose dei normodotati, in modi diversi. L’importante è avere la curiosità di conoscere chi è diverso da te, così ti fa meno paura. La disabilità spaventa, sì, ma solo perché non la si conosce.

Il titolo del tuo libro è "Sono sempre io": Giulia, davvero sei rimasta la stessa che eri prima dell’incidente?

Sì, e sai perché? Perché non ho abbandonato i miei sogni. Anzi, ne ho fatti di nuovi. Per me è un sogno tutto ciò che è successo in questi anni: le Olimpiadi, i Mondiali, conoscere il presidente della Repubblica, presentare la candidatura di Parma come città italiana della Cultura… A volte penso: cos’ho fatto per meritarmi tutto questo?

Diciamo che hai trasformato la disabilità di forza. Non è poco. Pensi che grazie ai tuoi incontri nelle scuole chi ti ascolta cambi lo sguardo?

Sì, un po’. Vedo che si instaura un clima di confidenza e sono spesso i ragazzi a chiedermi come è giusto comportarsi con chi è nella mia condizione.

Per esempio, cosa non bisogna fare?

Be’, le carezze sulla testa, gli abbracci non richiesti. In generale, è semplice: le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile. Quelli che ti dicono: che brava, ma come fai... Per quanto mi riguarda, amo conservare una mia normalità.

Non ho mai abbandonato i miei sogni
Sento una responsabilità verso gli altri
Da questa carrozzina posso costruire qualcosa
Forse è questo il senso di quello che mi è successo









Dopo l’incidente hai scelto di dedicarti al nuoto paralimpico. Perché?

L’acqua è libertà. In piscina per la prima volta dopo l’incidente ho avuto piena consapevolezza del mio corpo. Fuori dall’acqua sto sempre appoggiata a qualcosa, le mie gambe pesano molto ma non ne ho la percezione. In acqua non conta più nulla, le gambe seguono docilmente i movimenti del corpo.

Senti mai di avere dei limiti?

I limiti sono fisici. Un gradino, una scala, per me sono oggettivamente altrettanti limiti, perché da sola non li posso oltrepassare. I limiti sono tutti fuori da me, o in certe mentalità che escludono i disabili. Per il resto, più che limiti io dico che esistono obiettivi.

Nel libro scrivi che quando sogni te stessa, ti vedi in piedi. Che sensazione provi?

È difficile da spiegare: sono in piedi, però magari in un punto dove c'è la ghiaia e faccio fatica a muovermi. È una situazione irreale eppure vera: oggi con la carrozzina sulla ghiaia non mi muovo.

Pensi mai che un giorno, grazie ai progressi della scienza, della medicina e della tecnologia, potrai tornare a camminare?

Quando mi sono fatta male mi dicevano che in un decennio ci sarebbero state strabilianti novità. Ne sono trascorsi 14. Uso l’esoscheletro per la fisioterapia, ma non c’è paragone con la mobilità che mi garantisce la mia carrozzina.

Nel tuo libro scrivi anche che non sai dire ti voglio bene, nemmeno a tua sorella a cui sei legatissima. Come mai?

Perché non riesco a esternare i miei sentimenti. Mi considero una persona molto riservata, a volte posso sembrare fredda e lontana. Ma a me gli abbracci piacciono tantissimo, ci sono dei momenti in cui ho bisogno del calore umano. Però ecco, i gesti sono una cosa, le parole un’altra.

Amore?

Storie sentimentali ne ho avute, ma non è facile, mi accorgo che la disabilità fa paura. Io voglio un amore come un film, ma è difficile... Poi più cresci più diventi esigente. Lo dicevo all’inizio no, che mi sento in ritardo?

Sei cresciuta in oratorio, ma poi ti sei allontanata. Cosa è successo?

Dopo l’incidente andavo a Messa e le persone venivano intorno a me, mi accerchiavano e mi sono sentita a disagio. Era il loro modo per farmi sentire la vicinanza, ma alla fine scappavo via prima che la funzione finisse. Adesso per me essere credente è voler bene e accogliere gli altri.

A fine estate parteciperai alle Paralimpiadi di Parigi, ci arriverai da campionessa in carica. Come la vedi?

Sarà molto difficile. Ho il terrore delle due atlete cinesi con le quali mi sfiderò, perché non sai cosa fanno durante l’anno, non le conosci, spuntano fuori solo alle Olimpiadi.

Insomma, nuoterai per difendere il tuo titolo?

Ora sulla carta ho il primo tempo, però so che alcune delle mie avversarie sono molto più veloci di me. Quindi, no, non mi sento una inseguita ma ancora una inseguitrice.

Che cosa ti ha regalato fare il tuo record personale nei 100 rana in finale a un Mondiale?

Una gioia indescrivibile. Ma non per il record in sé, quanto per l'idea di avere ogni volta la possibilità di superare i miei limiti. E poi, la scarica di adrenalina...

C’è una donna a cui ti ispiri?

Mia mamma. Su certe cose siamo molto simili. L’intuizione, ad esempio. Capire i bisogni degli altri senza nemmeno che li esprimano. La praticità: sa sempre cosa bisogna fare. Dopo l’incidente a un certo punto ha detto: be’ io adesso dormo due ore perché da domani ci saranno un sacco di cose da fare.

Com’è stata la tua adolescenza?

Io l’adolescenza è come se non la avessi vissuta. A 16 anni ho avuto l’incidente per cui ho dovuto reimparare tutto. Era tutto nuovo.

Hai trovato un senso in ciò che ti è successo?

In realtà non me lo chiedo nemmeno. È successo, pura sfiga. L’unica cosa che mi domando è se posso essere utile a qualcuno, se questa sfiga può dare un frutto. Se la risposta è sì, allora forse questo è il senso.

Tu sei un’atleta, sei una sorella, una figlia, una ingegnera. Tanti ruoli insieme, come ciascuno di noi. Ma Giulia davvero chi è? 

Sono una ragazza che ama sfidare i suoi limiti. E che però ha le sue paure, che talvolta vorrebbe chiudere il mondo fuori e fermarsi. Ma che sente di avere responsabilità nei confronti degli altri. Mi chiamano frequentemente a parlare della mia vita, delle mie esperienze e in alcuni casi saltano fuori curiosità su cosa c’è dietro, nella quotidianità, a una persona con disabilità. Vuol dire che trovano qualcosa di bello e di buono in me. Vuol dire che anche io, da questa carrozzina, posso costruire qualcosa.

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La  seconda   è  inve e lastoria   di  Bahara  una ragazza  Afgana  , una sintesi  nel video  sotto  ,  che  Ha lasciato famiglia e cuore nel suo Paese  (  nella foto sotto   a  sinistra   una png   da  avvenire  del 26\6\2024  sulla  situazione  in  Afganistan )   diciannove anni, afgana, avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne, grazie ai corridoi umanitari venerdì sera è arrivata in Italia...

Il suo nome significa "primavera", ha 19 anni e avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne. Ora è in Italia, vuole aiutare «le donne afghane a sentirsi libere come mi sento io adesso»
È dentro un frullato di emozioni e un altro lo ha dentro. Si chiama Bahara, che in afghano significa primavera, ha 19 anni, non è potuta più andare a scuola da mille giorni, avrebbe dovuto sposare un talebano 60enne. Scende dall’aereo, a Roma, felicemente stanca e spaesata, un misto di gioia, paura, stanchezza. È incredula, le ci vorrà un po’ per capire che non sogna e non lo nasconde: «Se qualcuno mi avesse detto un anno fa che adesso sarei stata qui in questa situazione, non ci avrei creduto, perché non avrei mai pensato di avere questa forza interiore che mi ha portata a superare tutto quel che ho dovuto superare». Allora adesso, in questo aeroporto, libera, si guarda indietro e «mi emoziono per essere riuscita a farcela nonostante tutto».


(Grazie ad Arianna Briganti, vicepresidente di "Nove Caring Humans", per la traduzione)


Va avanti. «Penso alle brave persone – dice -. Alle brave persone che sono venute in mio aiuto. Penso a loro, quando penso alla parola amore». Sistema il velo sui suoi capelli. Sorride. Le danno un pasto e dell’acqua. Le tiene la mano e la coccola Arianna Briganti, vicepresidente dell’associazione Nove Caring Humans, che seguirà Bahara nel suo futuro italiano e l’aspettava con un borsone: «Bahara non ha nulla, nemmeno vestiti», spiegava Arianna, prima che la ragazza s’affacciasse nel terminal tenendo fra le mani giusto uno zainetto, sola, in un Paese che per lei dev’essere qualcosa simile alla luna.
Non è arrivata in Italia da sola, sul volo da Islamabad atterrato venerdì sera al “Leonardo da Vinci”, con lei c’erano altri 190 profughi afghani (fra loro, 71 minorenni e 70 donne), che erano rifugiati in Pakistan dall’agosto 2021. Qui grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Conferenza episcopale italiana (attraverso la Caritas), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci e d’intesa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri.
Bahara ha lasciato in Afghanistan cuore e famiglia e non è stato facile. Ma non le sembra vero che ora «posso studiare, vestire come voglio, uscire quando voglio, essere libera». Il volo dal Pakistan è durato cinque ore e mezza, ha avuto tempo per riflettere e «mi sono messa a pensare a settembre, a quando sarò in classe, a come farò a diventare una studentessa modello e poi una donna che lavora, di quelle molto in gamba, molto capaci», quindi «mentre volavo pensavo a come farò a eccellere nello studio e nel lavoro».
Ne ha passate tante, troppe in 19 anni, però nemmeno ha mai pensato d’abbattersi, arrendersi, né ha mai vacillato ciò in cui crede o la sua speranza. E se adesso è felice, «continuo a sentirmi anche estremamente triste per quello che succede alle donne afghane nel mio Paese – racconta -. Non possono uscire di casa, sono costrette a umiliazioni di tutti i tipi, a matrimoni forzati». Perciò – ripete spesso Bahara - «quel che voglio fare è essere libera, ma anche aiutare le donne afghane a liberarsi come mi sento io adesso».

Con auesto è  tutto alla prossima

31.5.24

La foto ritrovata del soldato Usa. "Quella sono io 79 anni fa"Ermina Zappoli aveva 14 anni quando nel 1945 fu ritratta da Hans George. "Con me c’erano mia sorella e mia zia. Ora l’immagine finirà in un museo"

 


La foto ritrovata del soldato Usa. "Quella sono io 79 anni fa"Ermina Zappoli aveva 14 anni quando nel 1945 fu ritratta da Hans George. "Con me c’erano mia sorella e mia zia. Ora l’immagine finirà in un museo"

Ermina Zappoli (a destra) mostra la vecchia foto (a sinistra) scattata da Hans George

Ermina Zappoli (a destra) mostra la vecchia foto (a sinistra) scattata da Hans George

Modena, 31 maggio 2024 – Una fotografia scattata 79 anni fa quando la Seconda guerra mondiale era ormai finita, è arrivata in Italia dagli Usa e, con grande sorpresa, sono state individuate le tre persone ritratte. Si deve al ricercatore Andrea Sabattini, di San Cesario, e ai colleghi dell’associazione Green Line II, se si è giunti a questo risultato. La foto la scattò, dopo il 20 aprile 1945, il soldato statunitense Hans George, medico della compagnia B della 10ª divisione da montagna, morto nel ’65. Faceva parte di un album di quando, arruolatosi volontario, venne in Italia a combattere. L’ha trovata per caso la signora Dana Miller nella soffitta dei nonni materni, amici di Hans.“Toh, quella sono io, era appena finita la guerra”, ha esclamato quando ha visto l’immagine Ermina Zappoli, ora residente a Porretta Terme. Aveva 14 anni allora e abitava con la famiglia alla Costa di Affrico di Gaggio Montano. “Ho subito riconosciuto mia sorella Anna e la zia Imelde Verardi – dice –. La foto fu fatta a casa di zia Imelde a Labante di Castel d’Aiano. Eravamo appena ritornati dallo sfollamento. In casa nostra trovammo i soldati brasiliani, mentre dalla zia c’erano gli americani. “Andate a vedere se sono ancora tutti vivi“, ci disse nostra madre. Non avevamo più notizie da mesi. Per fortuna non mancava nessuno”. Ermina, che abbiamo incontrato a Porretta, ha espresso un desiderio: “Chiedo al Signore almeno un altro anno di vita per poter vedere il museo che stanno allestendo a Castel d’Aiano i ragazzi di Green Line II. Vi sarà anche la foto ritrovata. Ma merito proprio così tanto?”.

28.3.23

La coop opera a Porto Ferro ( sassari ) nel reinserimento di soggetti svantaggiati . Lavoro, surf e volontariato a Piccoli Passi il ritorno alla vita


La coop opera a Porto Ferro nel reinserimento di soggetti svantaggiati Una seconda possibilità per ex carcerati, pazienti psichici e minori a rischio Tutto può accadere, a “Piccoli passi”. Porto Ferro è un posto meravigliosamente “sperduto”, più per la narrazione e l’essenza che per l’impossibilità a raggiungerlo. Dista 35 chilometri da Sassari e 28 da Alghero ma è in territorio sassarese: ci si arriva percorrendo la strada statale 291 della Nurra. A Porto Ferro si fa surf, c’è la natura selvaggia, ci si fanno le escursioni a piedi e a cavallo, c’è il Baretto che nel 2023 compie 20 anni di attività e ci sono


festival culturali e musicali che sono ormai appuntamenti radicati della primavera, estate e autunno della baia. Ma a Porto Ferro, proprio con la “complicità” di Baretto, Bonga surf School e Vosma e sotto la regia della cooperativa sociale “Piccoli Passi”, è il sociale ad essere lavorato ad arte e declinato in inclusione, integrazione, valorizzazione e recupero. Se ne parla poco, ma è una realtà tangibile. Operativa e foriera di grandi soddisfazioni che sotto la traccia del tramonto e delle note che spesso lo accompagnano, passa in secondo piano Accoglienza a Piccoli passi «Nasce tutto lì, dietro il Baretto, oltre le dune. Nasce e diventa realtà importante a livello nazionale e unica in Sardegna rispetto a una particolare tipologia di accoglienza, di servizi e di inserimenti: la cooperativa ha lavorato con i minori, spesso alle prese con situazioni difficili e problemi psichici e psichiatrici, ha lavorato con i disabili, con carcerati ed ex carcerati, umanità varia passata al setaccio dell’integrazione appunto favorendo un vero e concreto intreccio di storie e culture diverse». Si appassiona e parla con il sorriso sul volto Danilo Cappai della cooperativa “Piccoli passi”. Nel campeggio di Porto Ferro, modalità colonia estiva, arrivava l’adolescente del centro Sardegna che all’alba si alzava per andare in campagna e poi andava a scuola con il pari età di Torino che prendeva il tram ma poi andava in ferie al parco del Valentino a spendere la paghetta: «Vite diverse, trasportate in una dimensione in cui una maglietta e un costume da bagno azzeravano già in partenza tutte le disparità e le differenze di classe – spiega –. Il ragazzo mandato sull’isola dai servizi sociali di Cinisello Balsamo o dal comune del Nord Est della Sardegna insieme al figlio del notaio che vive in America e gli regala una vacanza esotica chiamando in agenzia. Ma la vacanza, qui, era uguale per tutti. E alla fine, erano abbracci e lacrime, per tutti noi operatori compresi». Questa visione è la stessa che ha animato ogni singola azione della cooperativa e del Baretto: «Questa piccola società si è rivelata modello adattabile al surf camp e alla gestione del Baretto: anche lì, fronte mare e sotto la tettoia della nostra struttura, ragazze e ragazzi, uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale si incontrano in costume da bagno per vivere le loro giornate. Non sai chi hai di fianco, ma le differenze non sussistono». Una realtà aperta, che dopo anni dedicati ai minori, oggi collabora con il carcere di Alghero. Risultato? Tre inserimenti importanti trasformati in contratti a tempo indeterminato a ridare vita e prospettiva a chi aveva rischiato di perderla. E di perdersi. Dal
carcere al lavoro «Uno alla volta ci sono stati affidati e hanno iniziato a lavorare. Per qualcuno è arrivato un contratto a tempo indeterminato. Uno dei nostri si è comprato casa e vive oggi per conto suo. Stessi obiettivi di sempre: non è più semplice o più complicato, devi integrare e includere secondo equilibri esistenti e delicatissimi a prescindere». Oltre a chi ha avuto a che fare con il carcere e ora si ritrova a vedere una seconda possibilità proprio fronte mare, da diversi anni a Porto Ferro sono in corso inserimenti di persone con problemi psichici, ovviamente sotto controllo delle apposite strutture: «Sono 4/5, fanno un percorso estivo, lavorano al bancone, ai tavoli della griglieria, in cucina o nella squadra manutenzioni». Un enorme passo avanti quello compiuto da chi 20 anni fa arrivava su quella
meravigliosa spiaggia selvaggia e sperduta per cominciare a costruire quel che oggi è piccolo grande merito e vanto oltre l’aspetto ludico e vacanziero. «Porto Ferro era abbandonato da tutti, istituzioni comprese. Era meta di campeggio abusivo che spesso lasciava tracce indelebili del suo passaggio sul territorio. Noi, insieme ai surfisti, la Bonga School, Vosma abbiamo accettato la sfida in un luogo per nulla semplice e si è creato un equilibrio naturale – continua Danilo Cappai –. Diverse realtà. Sguardi diversi sulla realtà. Persone spesso agli antipodi che convivono fra loro in armonia perfetta. Quando anche le istituzioni si sono accorte di noi, Porto Ferro era già stato scoperto e riscoperto da chi aveva percepito quell’equilibrio umano, quella sorta di magia che lo rende un posto speciale. Si sente che c’è. Il magistrato e l’ex galeotto, il dj e la modella, lo studente e il medico nella baia sono tutti, realmente uguali. Non è facciata. È realtà, la nostra realtà».

21.12.22

La Crisi Fa Emergere Una Forza Che Non Pensavamo Di Avere ---- Elena Bernabè - 26 Gennaio 2021

« Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a sé stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai. »
                              Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”

Oltre in me  stesso   e   agli amici     trovo la  forza  l'aaiuto in articoli    come  questo   di   Elena Bernabè (  Autrice del libro “Alla conquista delle stelle”  )  - 26 Gennaio 2021  pubblicato  su  https://www.eticamente.net/

La crisi non è da allontanare ma da attraversare. E’ l’unico modo per sciogliere nodi, prendere decisioni, avviare cambiamenti.
E’ arrivato il momento di spogliarci da tutti i pregiudizi legati alla crisi: non è una sfortuna, una disgrazia fine a se stessa o un fallimento. Ma un’occasione di crescita, di arricchimento, di conoscenza di sé.

La crisi può essere una vera benedizione per ogni persona e per ogni nazione, perché è proprio la crisi a portare progresso. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
(Albert Einstein)

Attribuire colpe a se stessi o ad altri per aver fatto nascere una crisi è solo un modo per fuggire dai significati che ogni crisi porta con sé e che vuole portarci. Ciò che siamo chiamati a fare dinnanzi al dolore, al disorientamento e alla confusione è aprire finalmente i nostri occhi interiori. Per poterci scorgere l’occasione di cambiamento. Non è facile destarci dalla nostra vita di sempre e cambiare prospettiva e modo di pensiero, ma la crisi giunge proprio per aiutarci in questo. Se riusciamo ad abbandonare scuse, pregiudizi, paure e difese siamo in grado di scorgere la via indicata dalla crisi stessa.

In una congiuntura negativa bisogna affidarsi alla creatività: fare della crisi un’opportunità per reinventarsi. Un’altra dote indispensabile è l’ubiquità: essere flessibili, non vincolati a vecchi schemi e a un’immagine rigida della propria persona.
(Jacques Attali)

Nel dolore, nella frantumazione delle nostre certezze e nella confusione che ogni crisi porta con sé possiamo assistere a due tipi di risposte: possiamo farci annientare dagli eventi oppure cavalcarli come un surfista con le onde. Nel primo caso diventiamo servitori delle nostre paure. Se invece decidiamo di sfruttare il maremoto che c’è dentro di noi emerge una forza interiore che non pensavamo di avere.

Credit foto©Pixabay

E’ una forza speciale che nasce solo nei momenti di forte crisi. E’ la nostra ricompensa al dolore che abbiamo scelto di vivere in modo costruttivo e non distruttivo. E’ un’energia così potente da renderci particolarmente vitali, svegli, determinati.

I momenti di crisi raddoppiano la vitalità negli uomini. O forse, più in soldoni: gli uomini cominciano a vivere appieno solo quando si trovano con le spalle al muro.
(Paul Auster)

Affrontare la crisi in questo modo vuol dire risvegliare il proprio intuito, avere fiducia nella vita, affidarsi alla creatività, credere che tutto è il dettato di un maestro divino. Si comprende così che la crisi porta sempre con sé una ventata di aria nuova, invita a tagliare i rami ormai secchi, conduce a lasciar andare ciò che non ha più senso che resti. E’ il passo fondamentale che precede ogni cambiamento. Sappiamo che l’inverno precede la primavera e che un bambino per poter iniziare a camminare dovrà specializzarsi nella caduta, ma non abbiamo bene in mente che la crisi è un momento indispensabile alla costruzione di un nuovo equilibro. Non è distruzione: è l’inizio di una nuova costruzione. Che può avvenire solo grazie ad una forza primordiale e generatrice, proprio come quella che sperimenta il neonato quando nasce: non sa a cosa va incontro ma sente che deve seguire quel richiamo di vita e si affida con tutto se stesso al suo intuito. La stessa forza che trova sua madre nel farlo nascere: non potrebbe sopportare un dolore fisico così grande in un momento di stasi.

Credit foto ©Pixabay


La crisi ci risveglia, ci mette in moto, ci chiama a sé per mostrarci i nostri tesori interiori.  Non consideriamola più una seccatura. E’ il nostro fuoco interiore che vuole emergere !






12.12.22

[ 23 giorni senza vedere partite dei mondiali ] Losers”, il fallimento come risorsa . - di angela melis e dal suo blog elogiodellalentezza.wordpress.com/

 



  in virtù di quanto detto nel post  precedente   ho  cambiato    il  titolo  a  diario sui  mondiali  

. Dopo     questo  avviso     veniamo     a  noi  .  In questi mondiali  ,  come  generalmente    salvo  eccezioni  ,    quando  si  parla  (  o si racconta   nelle  arti  e in letteratura  )  di sport  si parla  della  vittoria  e  quasi mai   di   sconfitta  o  di fallimento . Ecco il post  d'oggi    non mio  , ma  io   non avrei  saputo  esprimerlo  meglio  ,  prova  a  parlare  d'esso  .  Perché  molto  spesso  anche   nel  fallimento o paura  di   fallire   c'è  il punto  di  partenza  oer   rincominciare  ed  andare  avanti  .  Ecco   l  post  






La vita di un uomo è interessante soprattutto quando ha fallito – lo so bene. Perché è segno che ha tentato di superare se stesso.  GEORGES CLEMENCEAU


Che sia in ambito lavorativo, familiare o di studio, il fallimento è spesso vissuto come un ostacolo che rallenta il percorso intrapreso e può costituire il motivo principale per non raggiungere l’obiettivo prefissato.Il senso di frustrazione si insinua così nei pensieri e nei comportamenti, fino ad avere importanti ripercussioni nella vita. Questo accade perché la nostra società richiede continuamente di dare un’immagine di sé vincente, e nel sentire comune successo e fallimento sono spesso considerati come contraddizioni che non possono coesistere.

Photo by Brent Druyts on Pexels.com

Nella realtà dei fatti però non esiste successo senza aver sperimentato prima il fallimento, necessario per crescere e evolversi, mettersi alla prova, reinventarsi e/o cambiare strada. Siamo esseri imperfetti, progettati per cadere. E per quanto doloroso possa essere, il fallimento è decisivo nella vita perché ci consente di vedere le nostre debolezze ma anche, se affrontato in maniera attiva e responsabile, di svelarci risorse che non sospettavamo di possedere.

Qual’è stato il fallimento o la caduta che ti ha permesso di reinvertarti?

Scrivilo nei commenti 🙂

LOSERS”- la serie e i protagonisti

Lo sport, più di qualsiasi altra attività, è palestra di vita, metafora del superamento dei propri limiti. E la docu-serie Losers (Perdenti), scritta e diretta da Mickey Duzyj, esplora come la sconfitta insegni molto di più di una vittoria, se si ha il coraggio di affrontarla attivamente.

Incentrata sulla vita di otto sportivi provenienti da discipline differenti, la serie è composta da otto puntate di circa 40 minuti, ognuna dedicata a un atleta e alla sua narrazione del fallimento. I protagonisti raccontano le esperienze più significative della loro carriera e, all’interno di ogni puntata, accompagnate da interventi di colleghi e psicologi che commentano sia le criticità, che i punti di forza della vicenda.
Per gli spettatori che non hanno familiarità con questi sport, è dedicato spazio alla spiegazione delle regole e ogni narrazione è accompagnata da animazioni, che rendono ancora più avvincente il racconto.
Di seguito, la struttura della serie e una breve sinossi delle puntate:

  1. Michael Bentt – pugilato: Il campione fuori parte. Diventato pugile per volere del padre più che per un suo desiderio, dopo un pesante KO è costretto a reinventare la sua vita e trovare la sua autentica strada;
  2. Torquay United – calcio: una sfortunata squadra di calcio, a serio rischio di retrocessione, riesce a salvarsi all’ultima partita grazie … al morso di un cane (per questa puntata ho riso tantissimo);
  3. Suryia Bonaly – pattinaggio artistico: a mio giudizio la storia più avvincente e toccante. Surya, pattinatrice di colore, ha subito continuamente ingiustizie durante la sua carriera a causa del colore della sua pelle. Alla fine riuscirà però a prendersi la rivincita a suo modo;
  4. Pat Ryan – curling: dopo aver perso la finale dei campionati canadesi nel 1985, Ryan perfeziona la sua tattica cambiando il destino di questo sport;
  5. Mauro Prosperi-pentatleta e ultramaratoneta: nel 1994, Prosperi prese parte alla Marathon des Sables, l’ultramaratona che si disputa in Marocco, che si trasformerà per lui in una lotta per la vita;
  6. Aliy Zirkle-corse di cani da slitta: alla ricerca del titolo alla Iditaroad, Aliy si imbatte in un terribile incontro che avrebbe potuto stroncare per sempre la sua carriera;
  7. Black Jack-basket: a causa del suo temperamento, Jack ha rischiato di vedere la sua carriera stroncata per sempre ma alla fine, in un modo tutto suo, è riuscito a rimanere nel mondo del basket;
  8. Jean van de Velte-golf: il giocatore francese riflette sulla clamorosa sconfitta subita agli Open Championship del 1999

FALLISCI BENE, FALLISCI MEGLIO”, Samuel Beckett

Photo by Gaspar Zaldo on Pexels.com

Losers mette in evidenza il lato più umano dei campioni, e il fascino di queste storie sta proprio nel modo in cui ogni protagonista ha fatto del fallimento una risorsa. Fallire fa parte della natura dell’essere umano: prima di riuscire a stare in piedi e camminare è stato necessario sperimentare, cadere diverse volte per poi rialzarci, e ogni caduta ci ha insegnato cosa fare per non cadere. Essere a contatto con quel limite, toccarlo con mano e scegliere di andare avanti è fondamentale, dunque, per il progresso di un individuo. Per questo è necessario focalizzarsi non solamente sulle risorse che possediamo, e sulle vittorie ottenute, ma sui nostri limiti e fallimenti per potersi migliorare, correggere il tiro o semplicemente rendersi conto che ci sono altre strade da percorrere.




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