Neppure il pontefice è uno specialistra eppure parla di femminicidi
"Lo Spirito trasforma anche quei pericoli più nascosti che inquinano le nostre relazioni, come i fraintendimenti, i pregiudizi, le strumentalizzazioni", ha detto Papa Leone XIV nella messa di Pentecoste in Piazza San Pietro. "Penso anche - con molto dolore - a quando una relazione viene infestata dalla volontà di dominare sull'altro, un atteggiamento che spesso sfocia nella violenza, come purtroppo dimostrano i numerosi e recenti casi di femminicidio", ha aggiunto il Pontefice.
"Abbattere i muri di odio, basi di nazionalismi e guerre" "Lo Spirito infrange le frontiere e abbatte i muri
dell'indifferenza e dell'odio", e "dove c'è l'amore non c'è spazio per i pregiudizi, per le distanze di sicurezza che ci allontanano dal prossimo, per la logica dell'esclusione che vediamo emergere purtroppo anche nei nazionalismi politici", ha detto ancora il Santo Padre. "E di tutto questo sono tragico segno le guerre che agitano il nostro pianeta", ha proseguito. "Lo Spirito apre le frontiere anche tra i popoli", ha spiegato Prevost nell'omelia: "Le differenze, quando il Soffio divino unisce i nostri cuori e ci fa vedere nell'altro il volto di un fratello, non diventano occasione di divisione e di conflitto, ma un patrimonio comune da cui tutti possiamo attingere, e che ci mette tutti in cammino, insieme, nella fraternità". "Invochiamo lo Spirito dell'amore e della pace, perché apra le frontiere, abbatta i muri, dissolva l'odio e ci aiuti a vivere da figli dell'unico Padre che è nei cieli".
"Viviamo connessi ma incapaci di 'fare rete .È triste osservare come in un mondo dove si moltiplicano le occasioni di socializzare, rischiamo di essere paradossalmente più soli, sempre connessi eppure incapaci di 'fare rete', sempre immersi nella folla restando però viaggiatori spaesati e solitari", ha sottolineato il Papa. "Lo Spirito di Dio, ha evidenziato ancora - ci fa scoprire un nuovo modo di vedere e vivere la vita: ci apre all'incontro con noi stessi oltre le maschere che indossiamo; ci conduce all'incontro con il Signore educandoci a fare esperienza della sua gioia; ci convince - secondo le stesse parole di Gesù appena proclamate - che solo se rimaniamo nell'amore riceviamo anche la forza di osservare la sua Parola e quindi di esserne trasformati. Apre le frontiere dentro di noi, perché la nostra vita diventi uno spazio ospitale".La vera Chiesa è uno spazio accogliente e ospitale verso tutti" "Lo Spirito allarga le frontiere dei nostri rapporti con gli altri e ci apre alla gioia della fraternità. E questo è un criterio decisivo anche per la Chiesa: siamo davvero la Chiesa del Risorto e i discepoli della Pentecoste soltanto se tra di noi non ci sono né frontiere e né divisioni, se nella Chiesa sappiamo dialogare e accoglierci reciprocamente integrando le nostre diversità, se come Chiesa diventiamo uno spazio accogliente e ospitale verso tutti", ha concluso il Pontefice.
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Trova una bottiglia su una spiaggia, all'interno delle ceneri e un messaggio commovente: «È mia madre. Rilanciala in mare, sta girando il mondo»
«Volevo che finalmente potesse viaggiare, perché non ci è riuscita prima di morire». Dopo la morte della madre la 24enne Cara Melia ha voluto che la donna potesse essere in giro per il mondo, per sempre. Ha così deciso di riempire una bottiglia con le sue ceneri da lanciare nell'oceano. Prima di separarsene, però, si è assicurata che il sogno del genitore non venisse interrotto. E così ha inserito un biglietto nella
bottiglia per tutti coloro che avrebbero potuto trovare l'oggetto sul bagnasciuga spinto dalla corrente.
Wendy Chadwick, 51 anni, è morta per un problema cardiaco. Madre di cinque figli non ha mai avuto la possibilità di viaggiare. «Per molto tempo si è presa cura del suo defunto fratello e della madre», ha raccontato Melia a “Manchester Evening News”. Chadwick amava il mare e sua figlia inizialmente ha pensato di spargere le sue ceneri sulla spiaggia a Skegness, una cittadina inglese lungo la costa del Mare del Nord. «Ma la mia migliore amica ha avuto l'idea della bottiglia da gettare in mare», ha detto. «Ho scritto il biglietto perché volevo che finalmente potesse viaggiare senza impedimenti».
«Questa è mia madre. Rilanciala in mare, sta girando il mondo. Grazie, Cara», sono le parole che la 24enne ha inserito insieme alle ceneri della madre.
Il post su Facebook
Melia ha dato l'ultimo saluto alla madre il 3 giugno 2025, ma solo 12 ore dopo la bottiglia è stata ritrovata da Kerry Sheridan che si trovava su una spiaggia di Skegness. Il post su Facebook ha reso il ritrovamento subito virale. «Potete tutti, per favore, condividere questo messaggio in lungo e in largo nella speranza che trovi Cara», ha scritto Kerry allegando una foto della bottiglia, del biglietto all'interno e un video mentre un bambino la rilancia in acqua.
«L'abbiamo trovata questa mattina», si legge. «È stata ributtata in mare come richiesto. Buon viaggio, mamma di Cara». Il post di Sheridan è stato condiviso da tantissime persone, fino a raggiungere anche la 24enne.
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«Un uomo mi è caduto addosso mentre ero per negozi e sono rimasta paralizzata. È stato un trauma, ma così sono rinata»
La 29enne Grace Spence Green non ricorda niente di quell'incidente che le ha cambiato la vita. Quando si è alzata la mattina del 17 ottobre del 2019 era serena e aveva deciso di approfittare del giorno di riposo dall'università – studiava medicina – per andare al centro commerciale. Ma la sera si è risvegliata in ospedale, paralizzata. Dopo aver fatto shopping stava camminando lungo l'atrio del centro commerciale per raggiungere la stazione ferroviaria che l'avrebbe riportato a casa. Ma un uomo è caduto
dal terzo piano, precipitandole addosso. «Dopo l'incidente, ho sentito come se la mia vita fosse improvvisamente diventata molto piccola e le cose che da quel momento avrei potuto fare potessero entrare tutte in una scatola molto piccola». Poi, però, l'esperienza traumatica l'ha fatta rinascere.
La storia
Un uomo è precipitato dal terzo piano di un centro commerciale cadendo addosso a Grace, allora 22enne, che da allora vive su una sedia a rotelle. Dell'incidente non ricorda quasi niente, se non di essersi svegliata sul pavimento senza più sentire le gambe. «Ricordo di aver pianto, forse urlato», ha raccontato a The Mirror. L'impatto le ha spezzato la spina dorsale, lasciandola paralizzata dal petto in giù. Improvvisamente, la specializzanda in medicina era diventata una paziente. Ha trascorso due settimane in ospedale, le hanno impiantato del titanio nella colonna vertebrale per tenere a posto le vertebre frantumate. Dopo giorni di anestetici, ha trovato la forza di reagire scrivendo e nel corso del tempo ha visto come i suoi sentimenti sono cambiati giorno dopo giorno. Alla fine non riusciva più a riconoscere la Grace delle prime pagine: «Mi dispiaceva molto per questa ragazza. Le pagine erano piene di rabbia o confusione. Sembravo una persona davvero persa, come effettivamente ero all'inizio. Ma ho dovuto attraversare tutto questo per uscirne».
La rinascita
Lentamente Grace ha iniziato ad accettare la sua condizione. Si è concentrata sulle cose positive che poteva trarre da quello che le era capitato. Grazie alla sua determinazione è tornata a medicina 10 mesi dopo l'infortunio e nel 2021 si è laureata e ha iniziato a lavorare in un ospedale londinese. Ha preferito non rivivere all'infinito il giorno del suo infortunio, né rimuginare sull'uomo che l'ha ferita e non ha mai provato rabbia o rancore nei suoi confronti.
Invece di soffermarsi sul passato, è molto più interessata a concentrarsi sul futuro e a sostenere le persone disabili. Ha scritto un libro sulla sua storia: «Non vorrei mai cambiare la persona che sono ora. Ma, condividendo la mia esperienza e mostrando la mia vulnerabilità, spero che le persone siano più aperte all'ascolto e all'apprendimento. Mi sembra il modo in cui posso fare la differenza. Le persone disabili meritano di più».
fonti corriere della sera tramite msn.it e unione sarda del 4\5\2025
Zafar, l'ex tassista pakistano che fattura 8 milioni all'anno. «Non ho dipendenti italiani, non si fidano»
Vendere agli immigrati in Italia il cibo del proprio Paese. Con questa semplice idea Zafar Iqbal, 61 anni, pakistano, è diventato un imprenditore di successo. Oggi è titolare di quattro punti vendita tra Bari e Brindisi. Nel suo market in Corso Italia, vicino alla stazione ferroviaria del capoluogo regionale pugliese, ogni giorno entrano circa mille clienti, tra stranieri e italiani. Sugli scaffali dei suoi negozi si trovano oltre duemila prodotti etnici: cibi halal, specialità africane, sudamericane, asiatiche. E il fatturato complessivo della sua azienda nel 2024 ha raggiunto 8 milioni. Zafar è arrivato a Bari nel 1996 direttamente da Rawalpindi, città a sud di Islamabad, con un biglietto di sola andata e il sogno di una vita migliore. In Pakistan ha lasciato il suo impiego da tassista. «Lavoravo dalle cinque del mattino alle dieci di sera, sempre in macchina, ma sognavo una vita diversa», spiega. E, così, ha deciso di costruire la sua fortuna partendo da zero. Appena arrivato a Bari ha trovato un lavoro in un centro sportivo come tuttofare. «Per dodici ore al giorno mi davano appena trecentomila lire al mese e così ho deciso, dopo poco tempo, di lasciare Bari e andare al Nord», racconta. Si è, quindi, trasferito a Brescia, dove ha lavorato in un’azienda specializzata nella produzione di barche in resina. Nel 2011 è stato licenziato e si è rimesso in gioco. «Ho deciso di tornare da mia sorella con pochi soldi. Non ero più da solo, avevo una moglie e cinque figli, ma tanta determinazione e voglia di ricominciare». E così ha deciso di investire i suoi pochi risparmi ponendosi una sola semplice domanda: «Perché non offrire ai tanti stranieri che vivono in Italia un luogo dove poter trovare tutti i prodotti che consumavano nel loro Paese di origine?». E, così, è nata l’idea di aprire un piccolo market etnico in via Abbrescia, nel quartiere Madonnella di Bari, una zona con un’alta percentuale di immigrati. Sono arrivati i primi guadagni. «All’inizio incassavo appena 60 euro al giorno, ma poi, grazie al passaparola, vedevo che la clientela cresceva costantemente. E dopo un anno, gli incassi giornalieri aumentavano sempre di più». Nel 2014 ha aperto il secondo punto vendita in via Quintino Sella e, poi, un terzo in corso Italia, sempre a Bari e, ancora un altro, a Brindisi, vicino alla stazione ferroviaria. Nel 2015 Zafar ha acquistato anche un grande magazzino di oltre mille metri quadri nella zona industriale di Bari per lo stoccaggio dei prodotti che arrivano da tutto il mondo: India, Pakistan, Cina, Turchia, Cambogia, Thailandia, Filippine, Marocco, Egitto, Brasile, Bangladesh, Paesi dell’Est Europa. Insomma, nei suoi supermercati si viaggia attraverso i sapori di tutto il mondo: nudles, alghe e spezie, salse, sushi, cous cous, hummus, dolci, formaggi, tutti i tipi di riso, falafel, frutta e verdura tropicale, bevande, ma anche pesce e carne halal macellata secondo il rituale islamico. Zafar vive in un maxi appartamento di oltre 400 metri quadrati insieme a tutta la sua famiglia: la moglie, i suoi cinque figli, ed ora anche le nuore e i nipoti. Ogni giorno si sveglia alle 5 del mattino e lavora fino alle 23, con lo stesso entusiasmo degli inizi. Con il suo furgone si reca personalmente al Nord Italia per fare acquisti direttamente dal produttore, saltando gli intermediari così da poter offrire alla sua clientela prezzi competitivi. Ci sono alimenti che costano non più di due euro. Ha creato decine di posti di lavoro, tutti stranieri e regolarmente assunti. «Sono ancora pochi gli italiani che accettano di lavorare alle dipendenze di un imprenditore immigrato nel loro Paese. Non si fidano. Io dico ai giovani italiani di non andare all’estero, in Italia il lavoro c’è. Basta avere coraggio e organizzazione». Zafar non ha intenzione di fermarsi: sta per aprire un nuovo market sempre vicino alla stazione ferroviaria di Bari pensato esclusivamente per la clientela italiana. E, poi, ha un sogno: trasformare Zafar in un franchising famoso in tutto il mondo.
Bei commenti quelli che leggo perché nei ristoranti oppure market Italiani fanno le cose diversamente?Mi sembra che sotto sotto ci sia un pizzico di invidia o sbaglio.Come la volpe che fà la guardia all'uva che non riesce ad arrivare"va bene tanto é acerba
Al bivio della vita ha scelto la birra La storia di Mattia Menghini, che ha lasciato il posto fisso per tornare a casa
Bologna, mi sei mancata un casino, cantava Dalla con leggera malinconia. Suppergiù deve aver pensato questo quando è arrivata la proposta di lavoro come responsabile del settore ambientale dei cantieri delle Ferrovie dello Stato Italiane. Bologna, la città dove aveva studiato Geografia, la città che conosceva come le sue tasche, sembrava anche custode del suo futuro. Il tanto desiderato posto fisso.
Biglietto di solo ritorno
«Stavo benissimo, – ricorda Mattia Menghini, 42 anni di Baunei, oggi proprietario di un birrificio artigianale – giravo l’Italia da Roma in su per seguire i vari cantieri e fare sopralluoghi, un lavoro stimolante, in una città che sentivo come casa». Proprio quando stava organizzando la sua vita, pensando di comprare casa insieme alla fidanzata che lo avrebbe raggiunto dall’Ogliastra, arrivano le prime voci della chiusura del cantiere alla stazione di Bologna e il conseguente trasferimento di tutti i lavoratori. «Mi hanno proposto di scegliere fra Sicilia e Valle D’Aosta: ho detto di no. Avevo 32 anni, ho dovuto fare una scelta di vita. Se avessi accettato la proposta avrei passato l’esistenza a trasferirmi da cantiere in cantiere. Nei mesi in cui si vociferava della chiusura ho pensato alla mia passione per il mondo della birra e ho fatto una scelta, rischiosa forse, ma nessuno mi ha mai scoraggiato», racconta Mattia.
Il settore della birra artigianale è sempre stato nei suoi pensieri, una passione che negli anni ha coltivato sempre più. I continui spostamenti per lavoro, mentre era a Bologna, sono serviti anche ad approfondire le sue conoscenze, a far visita a diverse realtà, soprattutto in Veneto, come il birrificio Padevana, il più grande in Italia. Frequenta amici all’interno di questo mondo e conosce un anziano birraio in pensione che gli regala insegnamenti preziosi. Lascia il posto fisso, conserva per sé la sua laurea in Geografia e torna a Baunei per dedicarsi al progetto del Birrificio artigianale, che aprirà nel 2017. Una decisione vincente.
Il futuro è adesso
In tutti questi anni il settore è stato sempre in crescita, ma ci sono stati alcuni cambiamenti: «Dieci anni fa la birra artigianale, vuoi per moda o per curiosità, si vendeva facilmente da sola. Oggi si è capito che l’abbinamento con il cibo è molto forte e si lavora meglio, questo perché sono in parte cambiate le abitudini delle persone. Anche il mio birrificio ha subito una modifica dopo il Covid – spiega –. Con la chiusura dei locali non potevo più dedicarmi ai fusti, per cui mi sono occupato esclusivamente delle bottiglie. C’è stata un’impennata che ha richiesto molto spazio nel locale e ho dovuto eliminare la zona per la Tap Room». Due belle novità all’orizzonte: un’antica e storica casa del paese diventerà una rivendita con una piccola cucina e un progetto comune sta per vedere la luce. Mattia fa parte del Consorzio Birra Italiana che sta spingendo verso l’utilizzo di materie prime italiane e insieme ai birrai sardi sta creando una filiera interna all’Isola che comprende i birrai (sono circa 25), i contadini e la malteria della Puglia, perché in Sardegna al momento non ci sono luoghi che possono dedicarsi al processo di maltazione. «A brevissimo uscirà la prima birra sarda al 95%, creata da tutti noi insieme», conclude con orgoglio.
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Adidas Vs Puma: guerra in famiglia
I marchi creati dai fratelli Adi e Rudolf Dassler che divisero gli sportivi
Adidas contro Puma è il “derby” commerciale nato a Herzogenaurach, Germania. Se non sapete di cosa si tratta, l’unico avvertimento è: preparatevi a molto, molto di più di ciò che potrete immaginare. Perché quanto la giornalista economica Barbara Smit descrive nelle oltre trecento pagine del suo “La sfida del Secolo” (edizioni Limina) è qualcosa che va ben oltre il romanzo in cui la vicenda si trasforma. È una lite in famiglia durante la cena che diventa guerra mondiale. È una crepa che si apre pian piano tra due fratelli tedeschi, compagni di giochi e di bravate, che si allarga sino a dividere letteralmente in due il mondo dello sport. Il tutto partendo da una cittadina bavarese che oggi conta 23mila abitanti e che nel 1948 si spaccherà letteralmente in due, seguendo la frattura della Gebrüder Dassler , la premiata ditta di calzature sportive dei fratelli Adolf (Adi) e Rudolf (Rudi) Dassler.
I chiodi di Owens
La vicenda ha origine dal piccolo calzaturificio di Christoph Dassler. Dopo la Prima Guerra mondiale, con la Germania in ginocchio, le intuizioni del figlio più piccolo (Adi) e la capacità comunicativa del maggiore, Rudi, aprono il filone delle scarpe sportive. Scarpe da atletica che, negli anni Trenta, con i loro chiodi, si fanno presto conoscere in Germania. Al punto che, nel 1936, Adi si presenta in pista, a Berlino, e le fa provare con soddisfazione a Jesse Owens. Boom! Da quel momento la crescita dei prodotti dei due fratelli (ce n’è anche un terzo, Fritz) è irresistibile, ma due grandi sciagure, i rispettivi matrimoni e la pur tiepida adesione al nazismo, li metteranno uno contro l’altro a partire dal 1948. Nascono, su sponde opposte del fiume Aurach, Adidas (le iniziali di Adolf) e Ruda, che ben presto si trasforma in Puma, i rispettivi marchi delle tre strisce e del felino destinati a conquistare il mondo.
Come Forrest Gump
Da quel momento il racconto si dipana come la trama di Forrest Gump: Adi e Rudolf, le Adidas e le Puma, compaiono sullo sfondo dei più grandi avvenimenti agonistici del Novecento, accompagnando, talvolta guidando, l’evoluzione del mondo dello sport. Dal “Miracolo di Berna” (la vittoria tedesca nel mondiale di calcio del 1954 grazie ai tacchetti intercambiabili dati da Adi a Sepp Herberger), all’Olimpiade di Città del Messico (con la Puma poggiata da Tommy Smith con la mano guantata di nero sul podio dei 200 metri); dal Mondiale di Messico ’70 (con Pelè che si allaccia teatralmente le Puma prima della finale con l’Italia), a quello di Monaco 1974, con la sfida in finale tra i tedeschi vestiti di Adidas e guidati dal testimonial Franz Beckembauer e gli olandesi con la maglia arancione, anche loro con le tre strisce, tranne la numero 14 di Johann Cruijff, che essendo uomo Puma ne ammette soltanto due.
Il professionismo
La rivalità tra le due case, trasferita ai figli di Adi (il machiavellico Horst) e Rudi (il più incerto Armin), incrocia l’evoluzione del mondo sportivo, l’invasione del professionismo anche nel sacro recinto di Olimpia (prima si lasciavano semplicemente un paio di scarpette con dei soldi all’interno nello spogliatoio), i colpi bassi, lo spionaggio, l’assunzione di alleati più o meno onesti, la corsa a farsi amici i dirigenti più potenti, l’influenza sulle elezioni di federazioni e Cio, l’allargamento della produzione all’abbigliamento. E poi le scarpe sportive che invadono la moda di ogni giorno, i testimonial scelti non più soltanto tra gli sportivi ma anche tra i personaggi - ad esempio - della musica, l’acquisizione o la creazione di marchi collaterali (Arena, Le Coq Sportif, Pony, Reebok). Adidas sempre avanti, Puma a inseguire. Sino agli anni Ottanta, quando compare un baffo, uno swoosh e tutto cambia. Puma festeggia (tra gli altri) il Mondiale 2006 dell’Italia e l’Europeo 2021, ma non è più sul proscenio. Il mondo è cambiato. Adesso è Messi contro Ronaldo, è Adidas contro Nike...
Caffe scoretto Tacitus
A ll’improvviso si fece buio. In tutta la Spagna. Il buio della paura. Era venuta meno l’energia, non quella della Terra, ma quella che catturiamo, stocchiamo e ci somministriamo gradatamente in funzione delle nostre esigenze, ormai innumerevoli. Il dio Energia, il più potente dell’Olimpo tecnologico, generatore di tutti gli altri dei che per nostra delega ci governano, si era distratto. In quel momento tutto si fermò, il buio invase le menti, il panico si diffuse contagiosamente. La distopia di certe fantasie gotiche prese consistenza. «Siamo prigionieri della tecnologia» hanno titolato i giornali del giorno dopo quando, tornata la Luce, le macchine hanno ricominciato a funzionare e l’intelligenza artificiale ha ripreso a vivere dopo avere rivelato la sua fragilità, uguale a quella del suo creatore umano. «Siamo prigionieri della tecnologia», hanno commentato gli opinionisti a gettone dei talk show televisivi. «Le macchine da cui ormai totalmente dipendiamo possono diventare strumenti distruttivi come armi da guerra» ha scritto un quotidiano spagnolo. Che ha paventato un’azione terroristica quale causa del blackout. Questa ipotesi, se fosse vera, dovrebbe rassicurarci. Confermerebbe che il pericolo non viene dalle macchine. Il pericolo per l’uomo è l’uomo, che come spesso ha fatto nella sua storia, può ritorcere contro sé stesso le sue meravigliose invenzioni.
Si chiama Sara Marcella Occulto, ha 39 anni, è di Porto Torres, è sposata e ha una figlia di 10 anni. Sara Marcella vive nella Nurra, a Palmadula, ed è una delle tante donne e madri che lotta contro il cancro al seno, una delle patologie tumorali più diffuse del pianeta. La malattia la combatte con le cure, la volontà e un'altra arma originale: l'arte. Sara Marcella infatti ha sempre dipinto sin da piccola e partecipato a concorsi, diplomandosi in quella fucina di talenti che è sempre stato il liceo Filippo Figari di Sassari. «Grazie a questa passione ho
Sara Marcella Occulto e il ritratto della figlia
superato i momenti più bui, che in questi anni sono stati tanti - racconta la donna -. Ho quasi sempre disegnato a matita, in bianco e nero, specie i volti di persone. Nella disperazione i colori nella mia mente cambiavano. Ed erano passionali, attaccati alla vita: il giallo, il rosso, il rosa e il fucsia. Pensavo anche ai miei artisti preferiti: Picasso e Caravaggio. Alle loro opere con i miei colori, che mi davano la forza».La malattia per Sara si è svegliata nel luglio 2021, quando aveva appena aperto lo studio di massaggi olistici, in cui con regolare corso si era specializzata: «Dopo i controlli e gli esami il ricovero all'ospedale di Sassari – racconta la donna -. La situazione è grave. Ho un cancro. Non c'è tempo da perdere. Grazie all'amore
e impegno della dottoressa Pinella Serra mi trasferiscono ad Abano Terme. Il 9 novembre mi operano, guidati dal professor Stefano Martella. Mi portano via tutto e mi salvano la vita. Sono contenta fuori, ma piango in silenzio. So che non è finita. Ho paura di lasciare sola la famiglia e di non poter più disegnare».
Il calvario continua. «Inizia la chemioterapia. Da dicembre a luglio 2022. Le cure mi buttano a terra. Cerco di disegnare. Nei momenti di depressione occhi piangenti. Ma non è finita. Dopo la chemio inizio la radioterapia. Che mi brucia la pelle e l'anima. Riesco però a disegnare il murale dello studio di massaggi, anche se nel 2023 non sto bene, è un inizio di depressione». La malattia però sembra sconfitta.
ritratto d'andrea parodi
«Gli esami istologici e gli altri vanno bene per tutto il 2024. Il male non si risveglia più. Ma sono certamente più debole di prima. A volte non ho forza per occuparmi delle faccende domestiche più dure, riprendo però il lavoro di massaggiatrice - continua l'artista -. E disegno. Presto farò una mostra delle mie opere. Ho anche costruito una bambola che vorrei esporre. È fatta interamente di carta riciclabile. Il suo viso è bianco e rappresenta la purezza. Che si aggiunge agli altri stati d’animo che ho sempre voluto rappresentare: la forza, la protezione e l'amore».
Per Sara Marcella Occulto arriva anche un piccolo aiuto: una pensione mensile di 300 euro. «Non so però se ridere o piangere per la somma che mi è stata riconosciuta». Sara Marcella da mesi segue la terapia ormonale, e non è semplice. La fa andare in menopausa, per non fare risvegliare cellule pericolose. Ma purtroppo per la donna non è finita. Ha bisogno di un altro intervento, poi un altro ancora, da eseguire all’ospedale Brotzu di Cagliari. «La pelle del seno si è bruciata, la devono ricostruire con altra pelle che mi preleveranno dai fianchi e poi devono mettere i seni stessi in asse». L'ennesima prova di questi anni difficili. «Nel frattempo sto cercando a Porto Torres la sede per esporre i miei quadri e le mie creazioni di queste stagioni - conclude Sara Marcella -. Mi devono dare alcune risposte. Lavoro, dipingo. E non ho più paura».
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Onifai In un mondo in continuo cambiamento, anche i piccoli paesi si trovano a vivere trasformazioni che portano nuova linfa vitale. Due nuclei familiari originari del Pakistan per un totale di 15 persone hanno deciso di trasferirsi definitivamente in paese ottenendo nei giorni scorsi la cittadinanza italiana. Dopo aver vissuto a Roma per 10 anni, Shah Zar Wali
ed il suo nucleo familiare, si sono spostati per motivi di lavoro in Sardegna, dapprima ad Olbia e successivamente ad Onifai dove si sono integrati perfettamente con gli altri residenti. Shas vorrebbe aprire un negozio a Orosei ma continuerebbe a risiedere in paese che ritiene un posto adatto ai bambini ormai inseriti sia a scuola che nei servizi socioeducativi. I più piccoli frequentano la scuola dell’infanzia mentre i grandicelli prendono l’autobus per spostarsi nella vicina Irgoli. Nel doposcuola i bambini partecipano anche al punto studio spazio giovani e alle attività della ludoteca e tutti, prendono parte infine ai corsi di italiano per stranieri offerta dai servizi bibliotecari. «Il conferimento della cittadinanza italiana non è solo un evento amministrativo ma un segno del tempo che si rinnova» dice il sindaco Luca Monne.
«Un respiro che porta con sé culture, tradizioni e colori diversi. È come se le strade del paese si allargassero, accogliendo non solo nuove persone, ma anche nuovi modi di pensare, nuovi sapori, nuove voci che arricchiscono la melodia quotidiana».«Scegliere Onifai come casa rappresenta sì un riconoscimento giuridico, ma soprattutto un simbolo di integrazione e accoglienza – spiega il sindaco –. I gesti di sempre, il saluto a chiunque si incontri per strada, il lavoro nei campi, la vita della comunità, su cumbitu in su tzilleri, si mescolano con nuove parole, nuove abitudini che lentamente si integrano senza cancellare nulla. Forse è proprio questa la chiave per affrontare il futuro con saggezza: non temere il cambiamento, ma accoglierlo come un arricchimento. Non si perde l’identità aprendosi agli altri, anzi, si rafforza e forse la vera sfida è riscoprire il valore dell’incontro». E conclude con un ringraziamento all’ufficiale di Stato civile del Comune di Nicoletta Pulloni, che «con professionalità e puntualità nella giornata di ieri ha condotto la cerimonia».
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Cabras Dopo sette anni trascorsi in canile, ora vive con il suo amico umano Andrea, 30 anni, e gioca libera in giardino dove, a poca distanza, abita un altro cane con cui la cagnolina ha già fatto amicizia. E’ la nuova vita di Domitilla, ribattezzata Scintilla, manto bianco e macchia nera sul tenero musetto: grazie al progetto Baibau, avviato dall’amministrazione comunale nel 2023 per combattere il randagismo urbano e incentivare le adozioni dal canile, ha trovato finalmente casa a Cabras.
Il percorso di avvicinamento tra il cane e il suo padrone è stato guidato dall’educatore cinofilo che segue il progetto per il Comune e prima dell’adozione l’animale ha ricevuto le adeguate cure veterinarie. Dopo la sua adozione Domitilla è stata ribattezzata Scintilla. Il colpo di fulmine è avvenuto grazie alla pubblicazione delle sue foto, sui canali social dell’ente. Andrea cercava una cagnetta solare e serena e, dopo sole tre ore dal loro primo incontro, ha deciso che Domitilla avrebbe fatto al caso suo. Fra i due l’intesa è stata immediata. «Siamo soddisfatti di vedere come Baibau stia dando i suoi frutti – ha commentato Carlo Trincas, l’assessore alla Cultura che ha avviato il progetto – l’adozione di Scintilla dimostra l’efficacia del nostro impegno per migliorare le condizioni degli animali ospitati nel canile e offrire loro la possibilità di una nuova vita. Grazie alla collaborazione con professionisti e associazioni partner e al supporto delle famiglie adottive, stiamo riuscendo a fare un passo importante verso il benessere degli animali e la sensibilizzazione della comunità. Continueremo a lavorare per garantire che altri cani come Scintilla possano trovare una casa». Quando il progetto Baibau è partito nel 2023 i cani presenti nel canile erano una sessantina, mentre oggi sono 40. Con il Comune collaborano le associazioni Effetto Palla Onlus e Hachiko Eroi a 4 zampe.
"Ciò che conta è trovare il coraggio di rialzarsi e andare avanti, non importa quante volte la vita ci abbatterà. "
Charles Bukowski
Avendo sostenuto non ricordo con precisione quale causa umanitaria del giornale ho ricevuto un abbonamento gratuito ad avvenire.it da cui ho tratto queste due storie piene di speranze e voglia di rincominciare come quella che sto afffrontando e di cui ho una delle rara volte, parlato nel n 56 di questa rubrica : << dopo aver attraversato la tempesta e ritornata la paura ma sono riuscito ad affrontarla con consapevolezza>> forse perche come la protagonista ( e per altri motivi personali ed familiari ) del primo articolo ho difficoltà a esternare le mie emozioni .
La prima storia è quella di Giulia Ghiretti,Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti si racconta ad Avvenire: « Le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile». 27 medaglie e un record del mondo in vasca corta. Sarà a Parigi, ma anche in tante scuole a raccontare la paralisi dopo una caduta e la rinascita
la
Non smette mai di sorridere, Giulia. Ogni risata scuote la massa di capelli ricci, nel verde del cortile della sua casa in una frazione di Parma che è già
campagna. « Non potrei mai vivere in città – dice -. Questo è il mio mondo». Un mondo apparentemente confinato nella villetta in cui vive con la famiglia, a fianco del casale agricolo in cui abita la nonna.
Solo apparentemente, però. Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti vive tra aerei da prendere, gare da affrontare, allenamenti quotidiani da onorare. E poi gli incontri nelle scuole, che negli ultimi anni si sono moltiplicati. Perché lei ha la sua storia da raccontare: quella di una ragazza di 16 anni, giovane atleta promettente, che in un giorno di gennaio del 2010, durante il primo allenamento dopo le feste di Natale e poco prima dei Mondiali a cui era attesa, prende letteralmente il volo sul tappeto elastico, la sua specialità, atterra di schiena e si frantuma una vertebra. Intervento, mesi di terapia. La certezza che non tornerà mai più a camminare. La carrozzina che diventa il suo “fine pena mai” (anche se lei questa espressione non la sottoscrive, perché la sedia con le ruote non l'ha mai vissuta come una prigione). E poi la scelta di tornare a fare agonismo. In piscina, però, dove si sente libera. Da allora è stato un crescendo: oltre 60 titoli italiani, un primato mondiale, titoli europei e iridati, due argenti e un bronzo tra i Giochi di Rio e Tokyo.
Giulia, la tua vicenda è diventata anche un libroSono sempre io(Piemme, 208 pagine). Quando hai pensato di volerlo scrivere?
Non ho mai voluto! Mi ha convinto Andrea (Del Bue, giornalista e amico del cuore di Giulia, firma con lei il libro, ndr). Non mi piace parlare di me. La svolta è stata con il Covid: chiusi in casa, ne abbiamo avuto il tempo.
Lo scorso febbraiohai compiuto 30 anni. Che effetto ti ha fatto?
Traumatico. Mi sembra di non aver realizzato nulla. Di essere un po’ in ritardo.
In ritardo? Hai completato la laurea magistrale in ingegneria biomedica al Politecnico di Milano, hai vinto decine di medaglie tra Olimpiadi e competizioni mondiali...
Sì, è vero. Però dentro di me, la mia vita personale, intima, mi sento in ritardo.
Da anni giri per le scuole a testimoniare che la disabilità non limita la vita. Cosa ti piace di più dell’incontro con i bambini e i ragazzi?
Mi piace la loro spontaneità. Mi chiedono cose come: entri in acqua con la carrozzina? Perché ti metti i pantaloni se non senti le gambe? Non potresti tagliarti le gambe e metterti le protesi? I bambini non avvertono barriere. A loro cerco di trasmettere l’idea che i disabili possono fare le stesse cose dei normodotati, in modi diversi. L’importante è avere la curiosità di conoscere chi è diverso da te, così ti fa meno paura. La disabilità spaventa, sì, ma solo perché non la si conosce.
Il titolo del tuo libro è "Sono sempre io":Giulia, davvero sei rimasta la stessa che eri prima dell’incidente?
Sì, e sai perché? Perché non ho abbandonato i miei sogni. Anzi, ne ho fatti di nuovi. Per me è un sogno tutto ciò che è successo in questi anni: le Olimpiadi, i Mondiali, conoscere il presidente della Repubblica, presentare la candidatura di Parma come città italiana della Cultura… A volte penso: cos’ho fatto per meritarmi tutto questo?
Diciamo che hai trasformato la disabilità di forza. Non è poco. Pensi che grazie ai tuoi incontri nelle scuole chi ti ascolta cambi lo sguardo?
Sì, un po’. Vedo che si instaura un clima di confidenza e sono spesso i ragazzi a chiedermi come è giusto comportarsi con chi è nella mia condizione.
Per esempio, cosa non bisogna fare?
Be’, le carezze sulla testa, gli abbracci non richiesti. In generale, è semplice: le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile. Quelli che ti dicono: che brava, ma come fai... Per quanto mi riguarda, amo conservare una mia normalità.
Non ho mai abbandonato i miei sogni
Sento una responsabilità verso gli altri
Da questa carrozzina posso costruire qualcosa
Forse è questo il senso di quello che mi è successo
Dopo l’incidente hai scelto di dedicarti al nuoto paralimpico.Perché?
L’acqua è libertà. In piscina per la prima volta dopo l’incidente ho avuto piena consapevolezza del mio corpo. Fuori dall’acqua sto sempre appoggiata a qualcosa, le mie gambe pesano molto ma non ne ho la percezione. In acqua non conta più nulla, le gambe seguono docilmente i movimenti del corpo.
Senti mai di avere dei limiti?
I limiti sono fisici. Un gradino, una scala, per me sono oggettivamente altrettanti limiti, perché da sola non li posso oltrepassare. I limiti sono tutti fuori da me, o in certe mentalità che escludono i disabili. Per il resto, più che limiti io dico che esistono obiettivi.
Nel libro scrivi che quando sogni te stessa, ti vedi in piedi.Che sensazione provi?
È difficile da spiegare: sono in piedi, però magari in un punto dove c'è la ghiaia e faccio fatica a muovermi. È una situazione irreale eppure vera: oggi con la carrozzina sulla ghiaia non mi muovo.
Pensi mai che un giorno, grazie ai progressi della scienza, della medicina e della tecnologia, potrai tornare a camminare?
Quando mi sono fatta male mi dicevano che in un decennio ci sarebbero state strabilianti novità. Ne sono trascorsi 14. Uso l’esoscheletro per la fisioterapia, ma non c’è paragone con la mobilità che mi garantisce la mia carrozzina.
Nel tuo libro scrivi anche che non sai dire ti voglio bene, nemmeno a tua sorella a cui sei legatissima. Come mai?
Perché non riesco a esternare i miei sentimenti. Mi considero una persona molto riservata, a volte posso sembrare fredda e lontana. Ma a me gli abbracci piacciono tantissimo, ci sono dei momenti in cui ho bisogno del calore umano. Però ecco, i gesti sono una cosa, le parole un’altra.
Amore?
Storie sentimentali ne ho avute, ma non è facile, mi accorgo che la disabilità fa paura. Io voglio un amore come un film, ma è difficile... Poi più cresci più diventi esigente. Lo dicevo all’inizio no, che mi sento in ritardo?
Sei cresciuta in oratorio, ma poi ti sei allontanata. Cosa è successo?
Dopo l’incidente andavo a Messa e le persone venivano intorno a me, mi accerchiavano e mi sono sentita a disagio. Era il loro modo per farmi sentire la vicinanza, ma alla fine scappavo via prima che la funzione finisse. Adesso per me essere credente è voler bene e accogliere gli altri.
A fine estate parteciperai alle Paralimpiadi di Parigi, ci arriverai da campionessa in carica. Comela vedi?
Sarà molto difficile. Ho il terrore delle due atlete cinesi con le quali mi sfiderò, perché non sai cosa fanno durante l’anno, non le conosci, spuntano fuori solo alle Olimpiadi.
Insomma, nuoterai per difendereil tuo titolo?
Ora sulla carta ho il primo tempo, però so che alcune delle mie avversarie sono molto più veloci di me. Quindi, no, non mi sento una inseguita ma ancora una inseguitrice.
Che cosa ti ha regalato fare il tuo record personale nei 100 rana in finale a un Mondiale?
Una gioia indescrivibile. Ma non per il record in sé, quanto per l'idea di avere ogni volta la possibilità di superare i miei limiti. E poi, la scarica di adrenalina...
C’è una donna a cui ti ispiri?
Mia mamma. Su certe cose siamo molto simili. L’intuizione, ad esempio. Capire i bisogni degli altri senza nemmeno che li esprimano. La praticità: sa sempre cosa bisogna fare. Dopo l’incidente a un certo punto ha detto: be’ io adesso dormo due ore perché da domani ci saranno un sacco di cose da fare.
Com’è stata la tua adolescenza?
Io l’adolescenza è come se non la avessi vissuta. A 16 anni ho avuto l’incidente per cui ho dovuto reimparare tutto. Era tutto nuovo.
Hai trovato un senso in ciò che ti è successo?
In realtà non me lo chiedo nemmeno. È successo, pura sfiga. L’unica cosa che mi domando è se posso essere utile a qualcuno, se questa sfiga può dare un frutto. Se la risposta è sì, allora forse questo è il senso.
Tu sei un’atleta, sei una sorella, una figlia, una ingegnera. Tanti ruoli insieme, come ciascuno di noi. Ma Giulia davvero chi è?
Sono una ragazza che ama sfidare i suoi limiti. E che però ha le sue paure, che talvolta vorrebbe chiudere il mondo fuori e fermarsi. Ma che sente di avere responsabilità nei confronti degli altri. Mi chiamano frequentemente a parlare della mia vita, delle mie esperienze e in alcuni casi saltano fuori curiosità su cosa c’è dietro, nella quotidianità, a una persona con disabilità. Vuol dire che trovano qualcosa di bello e di buono in me. Vuol dire che anche io, da questa carrozzina, posso costruire qualcosa.
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La seconda è inve e lastoria di Bahara una ragazza Afgana , una sintesi nel video sotto , che Ha lasciato famiglia e cuore nel suo Paese ( nella foto sotto a sinistra una png da avvenire del 26\6\2024 sulla situazione in Afganistan ) diciannove anni, afgana, avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne, grazie ai corridoi umanitari venerdì sera è arrivata in Italia...
Il suo nome significa "primavera", ha 19 anni e avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne. Ora è in Italia, vuole aiutare «le donne afghane a sentirsi libere come mi sento io adesso»
È dentro un frullato di emozioni e un altro lo ha dentro. Si chiama Bahara, che in afghano significa primavera, ha 19 anni, non è potuta più andare a scuola da mille giorni, avrebbe dovuto sposare un talebano 60enne. Scende dall’aereo, a Roma, felicemente stanca e spaesata, un misto di gioia, paura, stanchezza. È incredula, le ci vorrà un po’ per capire che non sogna e non lo nasconde: «Se qualcuno mi avesse detto un anno fa che adesso sarei stata qui in questa situazione, non ci avrei creduto, perché non avrei mai pensato di avere questa forza interiore che mi ha portata a superare tutto quel che ho dovuto superare». Allora adesso, in questo aeroporto, libera, si guarda indietro e «mi emoziono per essere riuscita a farcela nonostante tutto».
(Grazie ad Arianna Briganti, vicepresidente di "Nove Caring Humans", per la traduzione)
Va avanti. «Penso alle brave persone – dice -. Alle brave persone che sono venute in mio aiuto. Penso a loro, quando penso alla parola amore». Sistema il velo sui suoi capelli. Sorride. Le danno un pasto e dell’acqua. Le tiene la mano e la coccola Arianna Briganti, vicepresidente dell’associazione Nove Caring Humans, che seguirà Bahara nel suo futuro italiano e l’aspettava con un borsone: «Bahara non ha nulla, nemmeno vestiti», spiegava Arianna, prima che la ragazza s’affacciasse nel terminal tenendo fra le mani giusto uno zainetto, sola, in un Paese che per lei dev’essere qualcosa simile alla luna.
Non è arrivata in Italia da sola, sul volo da Islamabad atterrato venerdì sera al “Leonardo da Vinci”, con lei c’erano altri 190 profughi afghani (fra loro, 71 minorenni e 70 donne), che erano rifugiati in Pakistan dall’agosto 2021. Qui grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Conferenza episcopale italiana (attraverso la Caritas), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci e d’intesa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri.
Bahara ha lasciato in Afghanistan cuore e famiglia e non è stato facile. Ma non le sembra vero che ora «posso studiare, vestire come voglio, uscire quando voglio, essere libera». Il volo dal Pakistan è durato cinque ore e mezza, ha avuto tempo per riflettere e «mi sono messa a pensare a settembre, a quando sarò in classe, a come farò a diventare una studentessa modello e poi una donna che lavora, di quelle molto in gamba, molto capaci», quindi «mentre volavo pensavo a come farò a eccellere nello studio e nel lavoro».
Ne ha passate tante, troppe in 19 anni, però nemmeno ha mai pensato d’abbattersi, arrendersi, né ha mai vacillato ciò in cui crede o la sua speranza. E se adesso è felice, «continuo a sentirmi anche estremamente triste per quello che succede alle donne afghane nel mio Paese – racconta -. Non possono uscire di casa, sono costrette a umiliazioni di tutti i tipi, a matrimoni forzati». Perciò – ripete spesso Bahara - «quel che voglio fare è essere libera, ma anche aiutare le donne afghane a liberarsi come mi sento io adesso».
La foto ritrovata del soldato Usa. "Quella sono io 79 anni fa"Ermina Zappoli aveva 14 anni quando nel 1945 fu ritratta da Hans George. "Con me c’erano mia sorella e mia zia. Ora l’immagine finirà in un museo"
Ermina Zappoli (a destra) mostra la vecchia foto (a sinistra) scattata da Hans George
Modena, 31 maggio 2024 – Una fotografia scattata 79 anni fa quando la Seconda guerra mondiale era ormai finita, è arrivata in Italia dagli Usa e,
con grande sorpresa, sono state individuate le tre persone ritratte. Si
deve al ricercatore Andrea Sabattini, di San Cesario, e ai colleghi
dell’associazione Green Line II, se si è giunti a questo risultato. La
foto la scattò, dopo il 20 aprile 1945, il soldato statunitense Hans George,
medico della compagnia B della 10ª divisione da montagna, morto nel
’65. Faceva parte di un album di quando, arruolatosi volontario, venne
in Italia a combattere. L’ha trovata per caso la signora Dana Miller
nella soffitta dei nonni materni, amici di Hans.“Toh, quella sono io, era appena finita la guerra”, ha esclamato quando ha visto l’immagine Ermina Zappoli, ora residente a Porretta Terme.
Aveva 14 anni allora e abitava con la famiglia alla Costa di Affrico di
Gaggio Montano. “Ho subito riconosciuto mia sorella Anna e la zia
Imelde Verardi – dice –. La foto fu fatta a casa di zia Imelde a Labante di Castel d’Aiano.
Eravamo appena ritornati dallo sfollamento. In casa nostra trovammo i
soldati brasiliani, mentre dalla zia c’erano gli americani. “Andate a
vedere se sono ancora tutti vivi“, ci disse nostra madre. Non avevamo
più notizie da mesi. Per fortuna non mancava nessuno”. Ermina, che
abbiamo incontrato a Porretta, ha espresso un
desiderio: “Chiedo al Signore almeno un altro anno di vita per poter
vedere il museo che stanno allestendo a Castel d’Aiano i ragazzi di
Green Line II. Vi sarà anche la foto ritrovata. Ma merito proprio così
tanto?”.
La coop opera a Porto Ferro nel reinserimento di soggetti svantaggiati
Una seconda possibilità per ex carcerati, pazienti psichici e minori a rischio
Tutto può accadere, a “Piccoli
passi”. Porto Ferro è un posto
meravigliosamente “sperduto”,
più per la narrazione e l’essenza che
per l’impossibilità a raggiungerlo. Dista 35 chilometri da Sassari e 28 da Alghero ma è in territorio sassarese: ci si
arriva percorrendo la strada statale
291 della Nurra. A Porto Ferro si fa surf,
c’è la natura selvaggia, ci si fanno le
escursioni a piedi e a cavallo, c’è il Baretto che nel 2023 compie 20 anni di attività e ci sono
festival culturali e musicali che sono ormai appuntamenti radicati della primavera, estate e autunno della baia. Ma a Porto Ferro, proprio con la “complicità” di Baretto,
Bonga surf School e Vosma e sotto la regia della cooperativa sociale “Piccoli
Passi”, è il sociale ad essere lavorato ad
arte e declinato in inclusione, integrazione, valorizzazione e recupero. Se
ne parla poco, ma è una realtà tangibile. Operativa e foriera di grandi soddisfazioni che sotto la traccia del tramonto e delle note che spesso lo accompagnano, passa in secondo piano
Accoglienza a Piccoli passi «Nasce tutto lì, dietro il Baretto, oltre le
dune. Nasce e diventa realtà importante a livello nazionale e unica in
Sardegna rispetto a una particolare
tipologia di accoglienza, di servizi e
di inserimenti: la cooperativa ha lavorato con i minori, spesso alle prese
con situazioni difficili e problemi psichici e psichiatrici, ha lavorato con i
disabili, con carcerati ed ex carcerati, umanità varia passata al setaccio
dell’integrazione appunto favorendo un vero e concreto intreccio di storie e culture diverse». Si appassiona
e parla con il sorriso sul volto Danilo
Cappai della cooperativa “Piccoli
passi”. Nel campeggio di Porto Ferro, modalità colonia estiva, arrivava
l’adolescente del centro Sardegna
che all’alba si alzava per andare in
campagna e poi andava a scuola con
il pari età di Torino che prendeva il
tram ma poi andava in ferie al parco
del Valentino a spendere la paghetta: «Vite diverse, trasportate in una
dimensione in cui una maglietta e
un costume da bagno azzeravano
già in partenza tutte le disparità e le
differenze di classe – spiega –. Il ragazzo mandato sull’isola dai servizi
sociali di Cinisello Balsamo o dal comune del Nord Est della Sardegna insieme al figlio del notaio che vive in
America e gli regala una vacanza esotica chiamando in agenzia. Ma la vacanza, qui, era uguale per tutti. E alla
fine, erano abbracci e lacrime, per
tutti noi operatori compresi». Questa visione è la stessa che ha animato
ogni singola azione della cooperativa e del Baretto: «Questa piccola società si è rivelata modello adattabile
al surf camp e alla gestione del Baretto: anche lì, fronte mare e sotto la tettoia della nostra struttura, ragazze e
ragazzi, uomini e donne di ogni età
ed estrazione sociale si incontrano
in costume da bagno per vivere le loro giornate. Non sai chi hai di fianco,
ma le differenze non sussistono».
Una realtà aperta, che dopo anni dedicati ai minori, oggi collabora con il
carcere di Alghero. Risultato? Tre inserimenti importanti trasformati in
contratti a tempo indeterminato a ridare vita e prospettiva a chi aveva rischiato di perderla. E di perdersi.
Dal carcere al lavoro «Uno alla volta ci sono stati affidati e hanno iniziato a lavorare. Per qualcuno è arrivato
un contratto a tempo indeterminato. Uno dei nostri si è comprato casa
e vive oggi per conto suo. Stessi obiettivi di sempre: non è più semplice o
più complicato, devi integrare e includere secondo equilibri esistenti e
delicatissimi a prescindere». Oltre a
chi ha avuto a che fare con il carcere
e ora si ritrova a vedere una seconda
possibilità proprio fronte mare, da
diversi anni a Porto Ferro sono in corso inserimenti di persone con problemi psichici, ovviamente sotto
controllo delle apposite strutture:
«Sono 4/5, fanno un percorso estivo,
lavorano al bancone, ai tavoli della
griglieria, in cucina o nella squadra
manutenzioni». Un enorme passo
avanti quello compiuto da chi 20 anni fa arrivava su quella
meravigliosa
spiaggia selvaggia e sperduta per cominciare a costruire quel che oggi è
piccolo grande merito e vanto oltre
l’aspetto ludico e vacanziero. «Porto
Ferro era abbandonato da tutti, istituzioni comprese. Era meta di campeggio abusivo che spesso lasciava
tracce indelebili del suo passaggio
sul territorio. Noi, insieme ai surfisti,
la Bonga School, Vosma abbiamo accettato la sfida in un luogo per nulla
semplice e si è creato un equilibrio
naturale – continua Danilo Cappai
–. Diverse realtà. Sguardi diversi sulla realtà. Persone spesso agli antipodi che convivono fra loro in armonia
perfetta. Quando anche le istituzioni si sono accorte di noi, Porto Ferro
era già stato scoperto e riscoperto da
chi aveva percepito quell’equilibrio
umano, quella sorta di magia che lo
rende un posto speciale. Si sente che
c’è. Il magistrato e l’ex galeotto, il dj e
la modella, lo studente e il medico
nella baia sono tutti, realmente uguali. Non è facciata. È realtà, la nostra
realtà».
« Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a sé stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai. »
Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”
Oltre in me stesso e agli amici trovo la forza l'aaiuto in articoli come questo di Elena Bernabè ( Autrice del libro “Alla conquista delle stelle” ) - 26 Gennaio 2021 pubblicato su https://www.eticamente.net/
La crisi non è da allontanare ma da attraversare. E’ l’unico modo per sciogliere nodi, prendere decisioni, avviare cambiamenti. E’ arrivato il momento di spogliarci da tutti i pregiudizi legati alla crisi: non è una sfortuna, una disgrazia fine a se stessa o un fallimento. Ma un’occasione di crescita, di arricchimento, di conoscenza di sé.
La crisi può essere una vera benedizione per ogni persona e per ogni nazione, perché è proprio la crisi a portare progresso. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. (Albert Einstein)
Attribuire colpe a se stessi o ad altri per aver fatto nascere una crisi è solo un modo per fuggire dai significati che ogni crisi porta con sé e che vuole portarci. Ciò che siamo chiamati a fare dinnanzi al dolore, al disorientamento e alla confusione è aprire finalmente i nostri occhi interiori. Per poterci scorgere l’occasione di cambiamento. Non è facile destarci dalla nostra vita di sempre e cambiare prospettiva e modo di pensiero, ma la crisi giunge proprio per aiutarci in questo. Se riusciamo ad abbandonare scuse, pregiudizi, paure e difese siamo in grado di scorgere la via indicata dalla crisi stessa.
In una congiuntura negativa bisogna affidarsi alla creatività: fare della crisi un’opportunità per reinventarsi. Un’altra dote indispensabile è l’ubiquità: essere flessibili, non vincolati a vecchi schemi e a un’immagine rigida della propria persona. (Jacques Attali)
Nel dolore, nella frantumazione delle nostre certezze e nella confusione che ogni crisi porta con sé possiamo assistere a due tipi di risposte: possiamo farci annientare dagli eventi oppure cavalcarli come un surfista con le onde. Nel primo caso diventiamo servitori delle nostre paure. Se invece decidiamo di sfruttare il maremoto che c’è dentro di noi emerge una forza interiore che non pensavamo di avere.
E’ una forza speciale che nasce solo nei momenti di forte crisi. E’ la nostra ricompensa al dolore che abbiamo scelto di vivere in modo costruttivo e non distruttivo. E’ un’energia così potente da renderci particolarmente vitali, svegli, determinati.
I momenti di crisi raddoppiano la vitalità negli uomini. O forse, più in soldoni: gli uomini cominciano a vivere appieno solo quando si trovano con le spalle al muro. (Paul Auster)
Affrontare la crisi in questo modo vuol dire risvegliare il proprio intuito, avere fiducia nella vita, affidarsi alla creatività, credere che tutto è il dettato di un maestro divino. Si comprende così che la crisi porta sempre con sé una ventata di aria nuova, invita a tagliare i rami ormai secchi, conduce a lasciar andare ciò che non ha più senso che resti. E’ il passo fondamentale che precede ogni cambiamento. Sappiamo che l’inverno precede la primavera e che un bambino per poter iniziare a camminare dovrà specializzarsi nella caduta, ma non abbiamo bene in mente che la crisi è un momento indispensabile alla costruzione di un nuovo equilibro. Non è distruzione: è l’inizio di una nuova costruzione. Che può avvenire solo grazie ad una forza primordiale e generatrice, proprio come quella che sperimenta il neonato quando nasce: non sa a cosa va incontro ma sente che deve seguire quel richiamo di vita e si affida con tutto se stesso al suo intuito. La stessa forza che trova sua madre nel farlo nascere: non potrebbe sopportare un dolore fisico così grande in un momento di stasi.
La crisi ci risveglia, ci mette in moto, ci chiama a sé per mostrarci i nostri tesori interiori. Non consideriamola più una seccatura. E’ il nostro fuoco interiore che vuole emergere !