fonti corriere della sera tramite msn.it e unione sarda del 4\5\2025
Zafar, l'ex tassista pakistano che fattura 8 milioni all'anno. «Non ho dipendenti italiani, non si fidano»
Vendere agli immigrati in Italia il cibo del proprio Paese. Con questa semplice idea Zafar Iqbal, 61 anni, pakistano, è diventato un imprenditore di successo. Oggi è titolare di quattro punti vendita tra Bari e Brindisi. Nel suo market in Corso Italia, vicino alla stazione ferroviaria del capoluogo regionale pugliese, ogni giorno entrano circa mille clienti, tra stranieri e italiani. Sugli scaffali dei suoi negozi si trovano oltre duemila prodotti etnici: cibi halal, specialità africane, sudamericane, asiatiche. E il fatturato complessivo della sua azienda nel 2024 ha raggiunto 8 milioni.
Zafar è arrivato a Bari nel 1996 direttamente da Rawalpindi, città a sud di Islamabad, con un biglietto di sola andata e il sogno di una vita migliore. In Pakistan ha lasciato il suo impiego da tassista. «Lavoravo dalle cinque del mattino alle dieci di sera, sempre in macchina, ma sognavo una vita diversa», spiega. E, così, ha deciso di costruire la sua fortuna partendo da zero.
Appena arrivato a Bari ha trovato un lavoro in un centro sportivo come tuttofare. «Per dodici ore al giorno mi davano appena trecentomila lire al mese e così ho deciso, dopo poco tempo, di lasciare Bari e andare al Nord», racconta. Si è, quindi, trasferito a Brescia, dove ha lavorato in un’azienda specializzata nella produzione di barche in resina. Nel 2011 è stato licenziato e si è rimesso in gioco. «Ho deciso di tornare da mia sorella con pochi soldi. Non ero più da solo, avevo una moglie e cinque figli, ma tanta determinazione e voglia di ricominciare».
E così ha deciso di investire i suoi pochi risparmi ponendosi una sola semplice domanda: «Perché non offrire ai tanti stranieri che vivono in Italia un luogo dove poter trovare tutti i prodotti che consumavano nel loro Paese di origine?». E, così, è nata l’idea di aprire un piccolo market etnico in via Abbrescia, nel quartiere Madonnella di Bari, una zona con un’alta percentuale di immigrati. Sono arrivati i primi guadagni. «All’inizio incassavo appena 60 euro al giorno, ma poi, grazie al passaparola, vedevo che la clientela cresceva costantemente. E dopo un anno, gli incassi giornalieri aumentavano sempre di più».
Nel 2014 ha aperto il secondo punto vendita in via Quintino Sella e, poi, un terzo in corso Italia, sempre a Bari e, ancora un altro, a Brindisi, vicino alla stazione ferroviaria. Nel 2015 Zafar ha acquistato anche un grande magazzino di oltre mille metri quadri nella zona industriale di Bari per lo stoccaggio dei prodotti che arrivano da tutto il mondo: India, Pakistan, Cina, Turchia, Cambogia, Thailandia, Filippine, Marocco, Egitto, Brasile, Bangladesh, Paesi dell’Est Europa. Insomma, nei suoi supermercati si viaggia attraverso i sapori di tutto il mondo: nudles, alghe e spezie, salse, sushi, cous cous, hummus, dolci, formaggi, tutti i tipi di riso, falafel, frutta e verdura tropicale, bevande, ma anche pesce e carne halal macellata secondo il rituale islamico.
Zafar vive in un maxi appartamento di oltre 400 metri quadrati insieme a tutta la sua famiglia: la moglie, i suoi cinque figli, ed ora anche le nuore e i nipoti. Ogni giorno si sveglia alle 5 del mattino e lavora fino alle 23, con lo stesso entusiasmo degli inizi. Con il suo furgone si reca personalmente al Nord Italia per fare acquisti direttamente dal produttore, saltando gli intermediari così da poter offrire alla sua clientela prezzi competitivi.
Ci sono alimenti che costano non più di due euro. Ha creato decine di posti di lavoro, tutti stranieri e regolarmente assunti. «Sono ancora pochi gli italiani che accettano di lavorare alle dipendenze di un imprenditore immigrato nel loro Paese. Non si fidano. Io dico ai giovani italiani di non andare all’estero, in Italia il lavoro c’è. Basta avere coraggio e organizzazione».
Zafar non ha intenzione di fermarsi: sta per aprire un nuovo market sempre vicino alla stazione ferroviaria di Bari pensato esclusivamente per la clientela italiana. E, poi, ha un sogno: trasformare Zafar in un franchising famoso in tutto il mondo.
Zafar, l'ex tassista pakistano che fattura 8 milioni all'anno. «Non ho dipendenti italiani, non si fidano»
Zafar è arrivato a Bari nel 1996 direttamente da Rawalpindi, città a sud di Islamabad, con un biglietto di sola andata e il sogno di una vita migliore. In Pakistan ha lasciato il suo impiego da tassista. «Lavoravo dalle cinque del mattino alle dieci di sera, sempre in macchina, ma sognavo una vita diversa», spiega. E, così, ha deciso di costruire la sua fortuna partendo da zero.
Appena arrivato a Bari ha trovato un lavoro in un centro sportivo come tuttofare. «Per dodici ore al giorno mi davano appena trecentomila lire al mese e così ho deciso, dopo poco tempo, di lasciare Bari e andare al Nord», racconta. Si è, quindi, trasferito a Brescia, dove ha lavorato in un’azienda specializzata nella produzione di barche in resina. Nel 2011 è stato licenziato e si è rimesso in gioco. «Ho deciso di tornare da mia sorella con pochi soldi. Non ero più da solo, avevo una moglie e cinque figli, ma tanta determinazione e voglia di ricominciare».
E così ha deciso di investire i suoi pochi risparmi ponendosi una sola semplice domanda: «Perché non offrire ai tanti stranieri che vivono in Italia un luogo dove poter trovare tutti i prodotti che consumavano nel loro Paese di origine?». E, così, è nata l’idea di aprire un piccolo market etnico in via Abbrescia, nel quartiere Madonnella di Bari, una zona con un’alta percentuale di immigrati. Sono arrivati i primi guadagni. «All’inizio incassavo appena 60 euro al giorno, ma poi, grazie al passaparola, vedevo che la clientela cresceva costantemente. E dopo un anno, gli incassi giornalieri aumentavano sempre di più».
Nel 2014 ha aperto il secondo punto vendita in via Quintino Sella e, poi, un terzo in corso Italia, sempre a Bari e, ancora un altro, a Brindisi, vicino alla stazione ferroviaria. Nel 2015 Zafar ha acquistato anche un grande magazzino di oltre mille metri quadri nella zona industriale di Bari per lo stoccaggio dei prodotti che arrivano da tutto il mondo: India, Pakistan, Cina, Turchia, Cambogia, Thailandia, Filippine, Marocco, Egitto, Brasile, Bangladesh, Paesi dell’Est Europa. Insomma, nei suoi supermercati si viaggia attraverso i sapori di tutto il mondo: nudles, alghe e spezie, salse, sushi, cous cous, hummus, dolci, formaggi, tutti i tipi di riso, falafel, frutta e verdura tropicale, bevande, ma anche pesce e carne halal macellata secondo il rituale islamico.
Zafar vive in un maxi appartamento di oltre 400 metri quadrati insieme a tutta la sua famiglia: la moglie, i suoi cinque figli, ed ora anche le nuore e i nipoti. Ogni giorno si sveglia alle 5 del mattino e lavora fino alle 23, con lo stesso entusiasmo degli inizi. Con il suo furgone si reca personalmente al Nord Italia per fare acquisti direttamente dal produttore, saltando gli intermediari così da poter offrire alla sua clientela prezzi competitivi.
Ci sono alimenti che costano non più di due euro. Ha creato decine di posti di lavoro, tutti stranieri e regolarmente assunti. «Sono ancora pochi gli italiani che accettano di lavorare alle dipendenze di un imprenditore immigrato nel loro Paese. Non si fidano. Io dico ai giovani italiani di non andare all’estero, in Italia il lavoro c’è. Basta avere coraggio e organizzazione».
Zafar non ha intenzione di fermarsi: sta per aprire un nuovo market sempre vicino alla stazione ferroviaria di Bari pensato esclusivamente per la clientela italiana. E, poi, ha un sogno: trasformare Zafar in un franchising famoso in tutto il mondo.
Bei commenti quelli che leggo perché nei ristoranti oppure market Italiani fanno le cose diversamente?Mi sembra che sotto sotto ci sia un pizzico di invidia o sbaglio.Come la volpe che fà la guardia all'uva che non riesce ad arrivare"va bene tanto é acerba
Al bivio della vita ha scelto la birra La storia di Mattia Menghini, che ha lasciato il posto fisso per tornare a casa
Bologna, mi sei mancata un casino, cantava Dalla con leggera malinconia. Suppergiù deve aver pensato questo quando è arrivata la proposta di lavoro come responsabile del settore ambientale dei cantieri delle Ferrovie dello Stato Italiane. Bologna, la città dove aveva studiato Geografia, la città che conosceva come le sue tasche, sembrava anche custode del suo futuro. Il tanto desiderato posto fisso.
Biglietto di solo ritorno
«Stavo benissimo, – ricorda Mattia Menghini, 42 anni di Baunei, oggi proprietario di un birrificio artigianale – giravo l’Italia da Roma in su per seguire i vari cantieri e fare sopralluoghi, un lavoro stimolante, in una città che sentivo come casa». Proprio quando stava organizzando la sua vita, pensando di comprare casa insieme alla fidanzata che lo avrebbe raggiunto dall’Ogliastra, arrivano le prime voci della chiusura del cantiere alla stazione di Bologna e il conseguente trasferimento di tutti i lavoratori. «Mi hanno proposto di scegliere fra Sicilia e Valle D’Aosta: ho detto di no. Avevo 32 anni, ho dovuto fare una scelta di vita. Se avessi accettato la proposta avrei passato l’esistenza a trasferirmi da cantiere in cantiere. Nei mesi in cui si vociferava della chiusura ho pensato alla mia passione per il mondo della birra e ho fatto una scelta, rischiosa forse, ma nessuno mi ha mai scoraggiato», racconta Mattia.
Il settore della birra artigianale è sempre stato nei suoi pensieri, una passione che negli anni ha coltivato sempre più. I continui spostamenti per lavoro, mentre era a Bologna, sono serviti anche ad approfondire le sue conoscenze, a far visita a diverse realtà, soprattutto in Veneto, come il birrificio Padevana, il più grande in Italia. Frequenta amici all’interno di questo mondo e conosce un anziano birraio in pensione che gli regala insegnamenti preziosi. Lascia il posto fisso, conserva per sé la sua laurea in Geografia e torna a Baunei per dedicarsi al progetto del Birrificio artigianale, che aprirà nel 2017. Una decisione vincente.
Il futuro è adesso
In tutti questi anni il settore è stato sempre in crescita, ma ci sono stati alcuni cambiamenti: «Dieci anni fa la birra artigianale, vuoi per moda o per curiosità, si vendeva facilmente da sola. Oggi si è capito che l’abbinamento con il cibo è molto forte e si lavora meglio, questo perché sono in parte cambiate le abitudini delle persone. Anche il mio birrificio ha subito una modifica dopo il Covid – spiega –. Con la chiusura dei locali non potevo più dedicarmi ai fusti, per cui mi sono occupato esclusivamente delle bottiglie. C’è stata un’impennata che ha richiesto molto spazio nel locale e ho dovuto eliminare la zona per la Tap Room». Due belle novità all’orizzonte: un’antica e storica casa del paese diventerà una rivendita con una piccola cucina e un progetto comune sta per vedere la luce. Mattia fa parte del Consorzio Birra Italiana che sta spingendo verso l’utilizzo di materie prime italiane e insieme ai birrai sardi sta creando una filiera interna all’Isola che comprende i birrai (sono circa 25), i contadini e la malteria della Puglia, perché in Sardegna al momento non ci sono luoghi che possono dedicarsi al processo di maltazione. «A brevissimo uscirà la prima birra sarda al 95%, creata da tutti noi insieme», conclude con orgoglio.
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Adidas Vs Puma: guerra in famiglia
I marchi creati dai fratelli Adi e Rudolf Dassler che divisero gli sportivi
Adidas contro Puma è il “derby” commerciale nato a Herzogenaurach, Germania. Se non sapete di cosa si tratta, l’unico avvertimento è: preparatevi a molto, molto di più di ciò che potrete immaginare. Perché quanto la giornalista economica Barbara Smit descrive nelle oltre trecento pagine del suo “La sfida del Secolo” (edizioni Limina) è qualcosa che va ben oltre il romanzo in cui la vicenda si trasforma. È una lite in famiglia durante la cena che diventa guerra mondiale. È una crepa che si apre pian piano tra due fratelli tedeschi, compagni di giochi e di bravate, che si allarga sino a dividere letteralmente in due il mondo dello sport. Il tutto partendo da una cittadina bavarese che oggi conta 23mila abitanti e che nel 1948 si spaccherà letteralmente in due, seguendo la frattura della Gebrüder Dassler , la premiata ditta di calzature sportive dei fratelli Adolf (Adi) e Rudolf (Rudi) Dassler.
I chiodi di Owens
La vicenda ha origine dal piccolo calzaturificio di Christoph Dassler. Dopo la Prima Guerra mondiale, con la Germania in ginocchio, le intuizioni del figlio più piccolo (Adi) e la capacità comunicativa del maggiore, Rudi, aprono il filone delle scarpe sportive. Scarpe da atletica che, negli anni Trenta, con i loro chiodi, si fanno presto conoscere in Germania. Al punto che, nel 1936, Adi si presenta in pista, a Berlino, e le fa provare con soddisfazione a Jesse Owens. Boom! Da quel momento la crescita dei prodotti dei due fratelli (ce n’è anche un terzo, Fritz) è irresistibile, ma due grandi sciagure, i rispettivi matrimoni e la pur tiepida adesione al nazismo, li metteranno uno contro l’altro a partire dal 1948. Nascono, su sponde opposte del fiume Aurach, Adidas (le iniziali di Adolf) e Ruda, che ben presto si trasforma in Puma, i rispettivi marchi delle tre strisce e del felino destinati a conquistare il mondo.
Come Forrest Gump
Da quel momento il racconto si dipana come la trama di Forrest Gump: Adi e Rudolf, le Adidas e le Puma, compaiono sullo sfondo dei più grandi avvenimenti agonistici del Novecento, accompagnando, talvolta guidando, l’evoluzione del mondo dello sport. Dal “Miracolo di Berna” (la vittoria tedesca nel mondiale di calcio del 1954 grazie ai tacchetti intercambiabili dati da Adi a Sepp Herberger), all’Olimpiade di Città del Messico (con la Puma poggiata da Tommy Smith con la mano guantata di nero sul podio dei 200 metri); dal Mondiale di Messico ’70 (con Pelè che si allaccia teatralmente le Puma prima della finale con l’Italia), a quello di Monaco 1974, con la sfida in finale tra i tedeschi vestiti di Adidas e guidati dal testimonial Franz Beckembauer e gli olandesi con la maglia arancione, anche loro con le tre strisce, tranne la numero 14 di Johann Cruijff, che essendo uomo Puma ne ammette soltanto due.
Il professionismo
La rivalità tra le due case, trasferita ai figli di Adi (il machiavellico Horst) e Rudi (il più incerto Armin), incrocia l’evoluzione del mondo sportivo, l’invasione del professionismo anche nel sacro recinto di Olimpia (prima si lasciavano semplicemente un paio di scarpette con dei soldi all’interno nello spogliatoio), i colpi bassi, lo spionaggio, l’assunzione di alleati più o meno onesti, la corsa a farsi amici i dirigenti più potenti, l’influenza sulle elezioni di federazioni e Cio, l’allargamento della produzione all’abbigliamento. E poi le scarpe sportive che invadono la moda di ogni giorno, i testimonial scelti non più soltanto tra gli sportivi ma anche tra i personaggi - ad esempio - della musica, l’acquisizione o la creazione di marchi collaterali (Arena, Le Coq Sportif, Pony, Reebok). Adidas sempre avanti, Puma a inseguire. Sino agli anni Ottanta, quando compare un baffo, uno swoosh e tutto cambia. Puma festeggia (tra gli altri) il Mondiale 2006 dell’Italia e l’Europeo 2021, ma non è più sul proscenio. Il mondo è cambiato. Adesso è Messi contro Ronaldo, è Adidas contro Nike...
Caffe scoretto Tacitus
A ll’improvviso si fece buio. In tutta la Spagna. Il buio della paura. Era venuta meno l’energia, non quella della Terra, ma quella che catturiamo, stocchiamo e ci somministriamo gradatamente in funzione delle nostre esigenze, ormai innumerevoli. Il dio Energia, il più potente dell’Olimpo tecnologico, generatore di tutti gli altri dei che per nostra delega ci governano, si era distratto. In quel momento tutto si fermò, il buio invase le menti, il panico si diffuse contagiosamente. La distopia di certe fantasie gotiche prese consistenza. «Siamo prigionieri della tecnologia» hanno titolato i giornali del giorno dopo quando, tornata la Luce, le macchine hanno ricominciato a funzionare e l’intelligenza artificiale ha ripreso a vivere dopo avere rivelato la sua fragilità, uguale a quella del suo creatore umano. «Siamo prigionieri della tecnologia», hanno commentato gli opinionisti a gettone dei talk show televisivi. «Le macchine da cui ormai totalmente dipendiamo possono diventare strumenti distruttivi come armi da guerra» ha scritto un quotidiano spagnolo. Che ha paventato un’azione terroristica quale causa del blackout. Questa ipotesi, se fosse vera, dovrebbe rassicurarci. Confermerebbe che il pericolo non viene dalle macchine. Il pericolo per l’uomo è l’uomo, che come spesso ha fatto nella sua storia, può ritorcere contro sé stesso le sue meravigliose invenzioni.

