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16.10.25

diario di bordo n 152 immmigrazione non è solo un pericolo la storia di Francois Bazie, 45 anni, originario del Burkina Faso ed ex rifugiato politico, è arrivato in Italia nel 2015. Oggi vive sulle colline sopra Carrara, dove ha fondato un’azienda vinicola. ., rifiuti zero il caso di capannori ( toscana )

Francois Bazie, 45 anni, originario del Burkina Faso ed ex rifugiato politico, è arrivato in Italia nel 2015. Oggi vive sulle colline sopra Carrara, dove ha fondato un’azienda vinicola. Si tratta di terre difficili da coltivare, spesso soggette a rischio di frana, ma Francois è riuscito a trasformarle in sei ettari di vigneti a picco, da cui ogni anno produce circa diecimila bottiglie, con etichette che ricordano il suo Paese d'origine 
 
Durante la vendemmia lavorano con lui una quindicina di persone: alcuni braccianti italiani, altri migranti provenienti dai centri di accoglienza del territorio, oltre alla moglie e ai sei figli. Francois ha inoltre esportato alcuni dei suoi vitigni in Burkina Faso, con l’obiettivo di creare nuove opportunità di lavoro per i suoi connazionali. Lo abbiamo incontrato durante la vendemmia per farci raccontare la sua storia e capire come funziona la sua impresa.

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 A Capannori, in provincia di Lucca, i rifiuti sono quasi scomparsi. Merito di un sistema che punta sul riutilizzo, il riciclo e una serie di misure di prevenzione condivise dall’intera comunità.

L’obiettivo “rifiuti zero” è diventato una vera e propria filosofia di vita per molti cittadini. Abbiamo incontrato alcune delle persone che, per prime, hanno creduto nel progetto e lo hanno reso possibile.

4.5.25

diario di bordo n 119 anno IIII Zafar ex tassista pakistano che in italia fattura 8 milioni all'anno. «Non ho dipendenti italiani, non si fidano» ., La storia di Mattia Menghini : Al bivio della vita ha scelto la birra , Adidas Vs Puma: guerra in famiglia I marchi creati dai fratelli Adi e Rudolf Dassler che divisero gli sportivi Il vero pericolo

fonti corriere della sera tramite msn.it e unione sarda del 4\5\2025

Zafar, l'ex tassista pakistano che fattura 8 milioni all'anno. «Non ho dipendenti italiani, non si fidano»

Vendere agli immigrati in Italia il cibo del proprio Paese. Con questa semplice idea Zafar Iqbal, 61 anni, pakistano, è diventato un imprenditore di successo. Oggi è titolare di quattro punti vendita tra Bari e Brindisi. Nel suo market in Corso Italia, vicino alla stazione ferroviaria del capoluogo regionale pugliese, ogni giorno entrano circa mille clienti, tra stranieri e italiani. Sugli scaffali dei suoi negozi si trovano oltre duemila prodotti etnici: cibi halal, specialità africane, sudamericane, asiatiche. E il fatturato complessivo della sua azienda nel 2024 ha raggiunto 8 milioni.
Zafar è arrivato a Bari nel 1996 direttamente da Rawalpindi, città a sud di Islamabad, con un biglietto di sola andata e il sogno di una vita migliore. In Pakistan ha lasciato il suo impiego da tassista. «Lavoravo dalle cinque del mattino alle dieci di sera, sempre in macchina, ma sognavo una vita diversa», spiega. E, così, ha deciso di costruire la sua fortuna partendo da zero.
Appena arrivato a Bari ha trovato un lavoro in un centro sportivo come tuttofare. «Per dodici ore al giorno mi davano appena trecentomila lire al mese e così ho deciso, dopo poco tempo, di lasciare Bari e andare al Nord», racconta. Si è, quindi, trasferito a Brescia, dove ha lavorato in un’azienda specializzata nella produzione di barche in resina. Nel 2011 è stato licenziato e si è rimesso in gioco. «Ho deciso di tornare da mia sorella con pochi soldi. Non ero più da solo, avevo una moglie e cinque figli, ma tanta determinazione e voglia di ricominciare».
E così ha deciso di investire i suoi pochi risparmi ponendosi una sola semplice domanda: «Perché non offrire ai tanti stranieri che vivono in Italia un luogo dove poter trovare tutti i prodotti che consumavano nel loro Paese di origine?». E, così, è nata l’idea di aprire un piccolo market etnico in via Abbrescia, nel quartiere Madonnella di Bari, una zona con un’alta percentuale di immigrati. Sono arrivati i primi guadagni. «All’inizio incassavo appena 60 euro al giorno, ma poi, grazie al passaparola, vedevo che la clientela cresceva costantemente. E dopo un anno, gli incassi giornalieri aumentavano sempre di più».
Nel 2014 ha aperto il secondo punto vendita in via Quintino Sella e, poi, un terzo in corso Italia, sempre a Bari e, ancora un altro, a Brindisi, vicino alla stazione ferroviaria. Nel 2015 Zafar ha acquistato anche un grande magazzino di oltre mille metri quadri nella zona industriale di Bari per lo stoccaggio dei prodotti che arrivano da tutto il mondo: India, Pakistan, Cina, Turchia, Cambogia, Thailandia, Filippine, Marocco, Egitto, Brasile, Bangladesh, Paesi dell’Est Europa. Insomma, nei suoi supermercati si viaggia attraverso i sapori di tutto il mondo: nudles, alghe e spezie, salse, sushi, cous cous, hummus, dolci, formaggi, tutti i tipi di riso, falafel, frutta e verdura tropicale, bevande, ma anche pesce e carne halal macellata secondo il rituale islamico.
Zafar vive in un maxi appartamento di oltre 400 metri quadrati insieme a tutta la sua famiglia: la moglie, i suoi cinque figli, ed ora anche le nuore e i nipoti. Ogni giorno si sveglia alle 5 del mattino e lavora fino alle 23, con lo stesso entusiasmo degli inizi. Con il suo furgone si reca personalmente al Nord Italia per fare acquisti direttamente dal produttore, saltando gli intermediari così da poter offrire alla sua clientela prezzi competitivi.
Ci sono alimenti che costano non più di due euro. Ha creato decine di posti di lavoro, tutti stranieri e regolarmente assunti. «Sono ancora pochi gli italiani che accettano di lavorare alle dipendenze di un imprenditore immigrato nel loro Paese. Non si fidano. Io dico ai giovani italiani di non andare all’estero, in Italia il lavoro c’è. Basta avere coraggio e organizzazione».
Zafar non ha intenzione di fermarsi: sta per aprire un nuovo market sempre vicino alla stazione ferroviaria di Bari pensato esclusivamente per la clientela italiana. E, poi, ha un sogno: trasformare Zafar in un franchising famoso in tutto il mondo.

Bei commenti  quelli  che  leggo   perché nei ristoranti oppure market Italiani fanno le cose diversamente?Mi sembra che sotto sotto ci sia un pizzico di invidia o sbaglio.Come la volpe che fà la guardia all'uva che non riesce ad arrivare"va bene tanto é acerba

Al bivio della vita ha scelto la birra La storia di Mattia Menghini, che ha lasciato il posto fisso per tornare a casa




 



Bologna, mi sei mancata un casino, cantava Dalla con leggera malinconia. Suppergiù deve aver pensato questo quando è arrivata la proposta di lavoro come responsabile del settore ambientale dei cantieri delle Ferrovie dello Stato Italiane. Bologna, la città dove aveva studiato Geografia, la città che conosceva come le sue tasche, sembrava anche custode del suo futuro. Il tanto desiderato posto fisso.
Biglietto di solo ritorno
«Stavo benissimo, – ricorda Mattia Menghini, 42 anni di Baunei, oggi proprietario di un birrificio artigianale – giravo l’Italia da Roma in su per seguire i vari cantieri e fare sopralluoghi, un lavoro stimolante, in una città che sentivo come casa». Proprio quando stava organizzando la sua vita, pensando di comprare casa insieme alla fidanzata che lo avrebbe raggiunto dall’Ogliastra, arrivano le prime voci della chiusura del cantiere alla stazione di Bologna e il conseguente trasferimento di tutti i lavoratori. «Mi hanno proposto di scegliere fra Sicilia e Valle D’Aosta: ho detto di no. Avevo 32 anni, ho dovuto fare una scelta di vita. Se avessi accettato la proposta avrei passato l’esistenza a trasferirmi da cantiere in cantiere. Nei mesi in cui si vociferava della chiusura ho pensato alla mia passione per il mondo della birra e ho fatto una scelta, rischiosa forse, ma nessuno mi ha mai scoraggiato», racconta Mattia.
Il settore della birra artigianale è sempre stato nei suoi pensieri, una passione che negli anni ha coltivato sempre più. I continui spostamenti per lavoro, mentre era a Bologna, sono serviti anche ad approfondire le sue conoscenze, a far visita a diverse realtà, soprattutto in Veneto, come il birrificio Padevana, il più grande in Italia. Frequenta amici all’interno di questo mondo e conosce un anziano birraio in pensione che gli regala insegnamenti preziosi. Lascia il posto fisso, conserva per sé la sua laurea in Geografia e torna a Baunei per dedicarsi al progetto del Birrificio artigianale, che aprirà nel 2017. Una decisione vincente.
Il futuro è adesso
In tutti questi anni il settore è stato sempre in crescita, ma ci sono stati alcuni cambiamenti: «Dieci anni fa la birra artigianale, vuoi per moda o per curiosità, si vendeva facilmente da sola. Oggi si è capito che l’abbinamento con il cibo è molto forte e si lavora meglio, questo perché sono in parte cambiate le abitudini delle persone. Anche il mio birrificio ha subito una modifica dopo il Covid – spiega –. Con la chiusura dei locali non potevo più dedicarmi ai fusti, per cui mi sono occupato esclusivamente delle bottiglie. C’è stata un’impennata che ha richiesto molto spazio nel locale e ho dovuto eliminare la zona per la Tap Room». Due belle novità all’orizzonte: un’antica e storica casa del paese diventerà una rivendita con una piccola cucina e un progetto comune sta per vedere la luce. Mattia fa parte del Consorzio Birra Italiana che sta spingendo verso l’utilizzo di materie prime italiane e insieme ai birrai sardi sta creando una filiera interna all’Isola che comprende i birrai (sono circa 25), i contadini e la malteria della Puglia, perché in Sardegna al momento non ci sono luoghi che possono dedicarsi al processo di maltazione. «A brevissimo uscirà la prima birra sarda al 95%, creata da tutti noi insieme», conclude con orgoglio.

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Adidas Vs Puma: guerra in famiglia 
I marchi creati dai fratelli Adi e Rudolf Dassler che divisero gli sportivi 



Adidas contro Puma è il “derby” commerciale nato a Herzogenaurach, Germania.
Se non sapete di cosa si tratta, l’unico avvertimento è: preparatevi a molto, molto di più di ciò che potrete immaginare. Perché quanto la giornalista economica Barbara Smit descrive nelle oltre trecento pagine del suo “La sfida del Secolo” (edizioni Limina) è qualcosa che va ben oltre il romanzo in cui la vicenda si trasforma. È una lite in famiglia durante la cena che diventa guerra mondiale. È una crepa che si apre pian piano tra due fratelli tedeschi, compagni di giochi e di bravate, che si allarga sino a dividere letteralmente in due il mondo dello sport. Il tutto partendo da una cittadina bavarese che oggi conta 23mila abitanti e che nel 1948 si spaccherà letteralmente in due, seguendo la frattura della Gebrüder Dassler , la premiata ditta di calzature sportive dei fratelli Adolf (Adi) e Rudolf (Rudi) Dassler.
I chiodi di Owens
La vicenda ha origine dal piccolo calzaturificio di Christoph Dassler. Dopo la Prima Guerra mondiale, con la Germania in ginocchio, le intuizioni del figlio più piccolo (Adi) e la capacità comunicativa del maggiore, Rudi, aprono il filone delle scarpe sportive. Scarpe da atletica che, negli anni Trenta, con i loro chiodi, si fanno presto conoscere in Germania. Al punto che, nel 1936, Adi si presenta in pista, a Berlino, e le fa provare con soddisfazione a Jesse Owens. Boom! Da quel momento la crescita dei prodotti dei due fratelli (ce n’è anche un terzo, Fritz) è irresistibile, ma due grandi sciagure, i rispettivi matrimoni e la pur tiepida adesione al nazismo, li metteranno uno contro l’altro a partire dal 1948. Nascono, su sponde opposte del fiume Aurach, Adidas (le iniziali di Adolf) e Ruda, che ben presto si trasforma in Puma, i rispettivi marchi delle tre strisce e del felino destinati a conquistare il mondo.
Come Forrest Gump
Da quel momento il racconto si dipana come la trama di Forrest Gump: Adi e Rudolf, le Adidas e le Puma, compaiono sullo sfondo dei più grandi avvenimenti agonistici del Novecento, accompagnando, talvolta guidando, l’evoluzione del mondo dello sport. Dal “Miracolo di Berna” (la vittoria tedesca nel mondiale di calcio del 1954 grazie ai tacchetti intercambiabili dati da Adi a Sepp Herberger), all’Olimpiade di Città del Messico (con la Puma poggiata da Tommy Smith con la mano guantata di nero sul podio dei 200 metri); dal Mondiale di Messico ’70 (con Pelè che si allaccia teatralmente le Puma prima della finale con l’Italia), a quello di Monaco 1974, con la sfida in finale tra i tedeschi vestiti di Adidas e guidati dal testimonial Franz Beckembauer e gli olandesi con la maglia arancione, anche loro con le tre strisce, tranne la numero 14 di Johann Cruijff, che essendo uomo Puma ne ammette soltanto due.
Il professionismo
La rivalità tra le due case, trasferita ai figli di Adi (il machiavellico Horst) e Rudi (il più incerto Armin), incrocia l’evoluzione del mondo sportivo, l’invasione del professionismo anche nel sacro recinto di Olimpia (prima si lasciavano semplicemente un paio di scarpette con dei soldi all’interno nello spogliatoio), i colpi bassi, lo spionaggio, l’assunzione di alleati più o meno onesti, la corsa a farsi amici i dirigenti più potenti, l’influenza sulle elezioni di federazioni e Cio, l’allargamento della produzione all’abbigliamento. E poi le scarpe sportive che invadono la moda di ogni giorno, i testimonial scelti non più soltanto tra gli sportivi ma anche tra i personaggi - ad esempio - della musica, l’acquisizione o la creazione di marchi collaterali (Arena, Le Coq Sportif, Pony, Reebok). Adidas sempre avanti, Puma a inseguire. Sino agli anni Ottanta, quando compare un baffo, uno swoosh e tutto cambia. Puma festeggia (tra gli altri) il Mondiale 2006 dell’Italia e l’Europeo 2021, ma non è più sul proscenio. Il mondo è cambiato. Adesso è Messi contro Ronaldo, è Adidas contro Nike...



  Caffe scoretto   Tacitus 

A ll’improvviso si fece buio. In tutta la Spagna. Il buio della paura. Era venuta meno l’energia, non quella della Terra, ma quella che catturiamo, stocchiamo e ci somministriamo gradatamente in funzione delle nostre esigenze, ormai innumerevoli. Il dio Energia, il più potente dell’Olimpo tecnologico, generatore di tutti gli altri dei che per nostra delega ci governano, si era distratto. In quel momento tutto si fermò, il buio invase le menti, il panico si diffuse contagiosamente. La distopia di certe fantasie gotiche prese consistenza. «Siamo prigionieri della tecnologia» hanno titolato i giornali del giorno dopo quando, tornata la Luce, le macchine hanno ricominciato a funzionare e l’intelligenza artificiale ha ripreso a vivere dopo avere rivelato la sua fragilità, uguale a quella del suo creatore umano. «Siamo prigionieri della tecnologia», hanno commentato gli opinionisti a gettone dei talk show televisivi. «Le macchine da cui ormai totalmente dipendiamo possono diventare strumenti distruttivi come armi da guerra» ha scritto un quotidiano spagnolo. Che ha paventato un’azione terroristica quale causa del blackout. Questa ipotesi, se fosse vera, dovrebbe rassicurarci. Confermerebbe che il pericolo non viene dalle macchine. Il pericolo per l’uomo è l’uomo, che come spesso ha fatto nella sua storia, può ritorcere contro sé stesso le sue meravigliose invenzioni.



4.7.24

diario di bordo n 60 anno II . MATRIMONIO IN METROPOLITANA , «Paralizzata per sempre per uno scherzo di un'amica al party prima del matrimonio: l'ho voluta comunque come damigella», Separate alla nascita, sorelle gemelle si ritrovano su TikTok: «Era uguale a me, abbiamo indagato e ho scoperto la verità»

 

  ogni luogo per  sposarsi    va  bene  .  L'articolo Coppia senza soldi organizza matrimonio in metropolitana: un successo proviene da Bake News.

                                                    Coppia senza soldi organizza matrimonio in metropolitana 

                                                                                           © TikTok

Quando una coppia si ritrova con pochi soldi per organizzare un matrimonio coi fiocchi serve fantasia ecco la storia di Daniel ed Esmy che per il sì hanno scelto la metropolitana di New York. Daniel Jean non aveva i soldi necessari per poter organizzare alla sua fidanzata Esmy Valdez un matrimonio esagerato. E così ha avuto la sua idea: organizzare le nozze nella metropolitana di New York. “Non avevamo i soldi per organizzare il ricevimento da sogno che avevo sempre immaginato”, ha detto al NY Post Jean, 39 anni, di professione responsabile marketing, sottolineando l’elevato costo dell’organizzazione di nozze a New York. “Ho deciso di sorprenderla organizzando un ricevimento fantastico sulla metropolitana L”, ha detto Jean.

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Matrimonio in metropolitana costato solo 3mila dollari

Lui e Valdez, estetista trentottenne, hanno celebrato ufficialmente il loro matrimonio con una cerimonia privata in chiesa il 27 giugno. Martedì 2 luglio invece i due hanno brindato alla loro presunta unione insieme a 20 amici all’interno di una carrozza della metropolitana piena di perfetti sconosciuti. E per farlo hanno speso in tutto 3.000 dollari. Secondo recenti statistiche raccolte dal Post pronunciare il fatidico sì con una cerimonia e un ricevimento standard nella Grande Mela può costare alle coppie fino a 63.000 dollari.
Jean, tuttavia, scelse l’amico Jodell “Joe the Show” Lewis per organizzare la loro serata economica in metropolitana. “Ho presentato il ricevimento, il mio amico Christopher Dupree ci ha aiutato a gestire l’allestimento e abbiamo assunto una wedding planner, Anya, per aiutarci con la produzione generale”, ha detto Lewis, 40 anni, comico, al Post. Lewis aveva già diretto diverse feste sgargianti sul treno, tra cui una festa in piscina bagnata.

Il video del matrimonio in metropolitana diventa virale

“Abbiamo ricevuto il cibo preparato dallo Chef O di O’s Grill Spot [a Brooklyn], abbiamo avuto una torta, bevande e musica dal DJ Whoo Kid”, ha detto Lewis della festa di nozze. “È stata una festa incredibilmente divertente e memorabile per circa $ 3.000 che sarebbero costati $ 30.000 in una sala ricevimenti”.E la frugalità ha fatto miracoli anche in un altro modo per Valdez: ha raccontato al Post che la loro accoglienza sfrenata ha ulteriormente approfondito il suo amore per Jean. “Quando sono salita sul treno e ho visto tutto, ho pensato: ‘Wow, ho scelto la persona giusta'”, ha detto entusiasta la novella sposa. Le immagini virali dei festeggiamenti hanno totalizzato più di 363.000 visualizzazioni su TikTok.


La gente in questa città pensa che sia importante per gli uomini avere cose costose per stupire la donna dei loro sogni”, ha aggiunto. “Il nostro ricevimento era tutto incentrato sull’amore”. “Ma non esiste nessun altro posto al mondo in cui puoi celebrare le tue nozze su un treno e ricevere così tanto amore da persone felici che non conosci nemmeno”.


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da   www.leggo.it    tramite  msn.it   • 8 ora/e • 2 min di lettura


© Social (Facebook etc)



Una storia di dolore, profondo e inaspettato, ma soprattutto una storia di vita, di rinascita, di accettazione: Rachelle è rimasta paralizzata per sempre dopo uno scherzo della sua migliore amica durante l'addio al nubilato e il giorno del matrimonio ha dovuto percorrere la navata in sedia a rotelle. Eppure, tra le damigelle della sposa, quell'amica era presente e anche con lei ha celebrato l'unione con l'uomo della sua vita.«Non mi piacerà mai essere paralizzata - dice la donna, mamma e moglie - Ma il trucco sta nel guardare sempre al lato positivo, nella vita». Rachelle ha deciso di raccontare la sua storia tramite una serie di video sui social, non solo il drammatico momento dell'incidente, ma anche tutto ciò che è successo dopo, a dimostrazione che nonostante gli ostacoli che ha dovuto superare, è riuscita a raggiungere la felicità.
L'incidente in piscina e il matrimonio
«Quattordici anni fa il mio mondo ha tremato - scrive Rachelle nella didascalia del video pubblicato su TikTok, raccontando la sua storia -. Avevo 24 anni e la mia vita stava andando alla grande. Avevo comprato casa, ottenuto il primo lavoro vero e mi ero fidanzata con il mio amore dell'università. Era arrivato il momento di festeggiare l'addio al nubilato e io ero al settimo cielo! Dopo una serata fuori a divertirci tra amiche siamo tornate a casa per fare una nuotata in piscina».Nulla di strano in tutto ciò. Poi l'incidente inaspettato: «Un'amica mi ha spinta in piscina. Sono stata colta di sorpresa, sono caduta di testa e mi sono rotta il collo, il che ha causato una lesione istantanea al midollo spinale. Potrei parlare nel dettaglio di tutto ciò che è successo quella sera - scrive Rachelle -, ma questa è una storia di amore, famiglia e di ostacoli superati. Un anno dopo ci siamo sposati, abbiamo avuto una bimba e quattro anni dopo abbiamo una vita fantastica».Rachelle non vuole raccontare il dolore, ma la gratitudine: «Lasciatemi dire... vorrei che ci fosse una cura. Ci penso spesso. Ma è possibile volere una cura e comunque andare avanti con la vita ed essere grati per ciò che si ha. In tanti ambiti sono davvero, davvero fortunata, e me ne rendo conto. Il mio messaggio è di essere sempre grati, umili e gentili... e fate attenzione vicino all'acqua!».
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Sorelle gemelle si trovano grazie a TikTok

Una studentessa si è imbattuta in un video di TikTok di una ragazza che le somigliava tantissimo: ha iniziato a seguirla sui social credendo che fosse semplicemente un caso. Sono diventate amiche e solo dopo hanno scoperto di essere sorelle gemelle, vittime di un enorme traffico umano durato più di 50 anni. Elene, 19 anni, della Georgia, stava guardando alcuni video su TikTok quando le è apparsa una clip girata da una ragazza di nome Anna con dei tratti somatici identici ai suoi: naso, bocca, occhi e mani, tutto di quell'adolescente le ricordava se stessa. Le due sono diventate amiche, «senza sospettare che potessimo essere sorelle - spiega Anna - ma entrambe sentivamo che tra noi c'era un legame speciale».Quando le rispettive famiglie delle ragazze hanno svelato a ciascuna di averle adottate, le ragazze hanno deciso di indagare. Con un test del DNA hanno scoperto di essere sorelle gemelle. «Ho avuto un'infanzia felice - ha raccontato Anna a The Sun - ma d'un tratto tutto il mio passato mi sembrava un inganno. Ho fatto fatica a elaborare l'informazione, ad accettare la nuova realtà: le persone che mi hanno cresciuto per 18 anni non sono i miei genitori biologici. Ed ora avevo anche una sorella».
50 anni di adozioni condotte illegalmente
Dietro la loro adozione c'è una storia davvero sinistra: le due ragazze «sono tra le decine di migliaia di bambini georgiani venduti illegalmente in uno scandalo di traffico di neonati durato decenni», riferisce la testata inglese. «Il piano, scoperto dai giornalisti e dalle famiglie in cerca di parenti scomparsi, prevedeva il furto di neonati alle loro madri, molte delle quali si sentivano dire che i loro bambini erano morti ed erano stati sepolti nel cimitero dell'ospedale». Il fenomeno è durato per oltre 50 anni, «sorprendentemente orchestrato dagli operatori sanitari stessi», i quali falsificavano gli atti di nascita e affidavano i neonati a nuove famiglie in cambio di denaro.
La giornalista georgiana Tamuna Museridze combatte ancora contro questa macabra criminalità. La donna, che è lei stessa vittima di questo sistema malato, gestisce un gruppo Facebook dedicato al ricongiungimento dei bambini sottratti ai loro genitori, il quale conta 200 mila membri attivi. Tamuna afferma di avere le prove che almeno 120.000 bambini sono stati rubati ai loro genitori e venduti tra il 1950 e il 2006, anno in cui le misure anti-tratta del presidente riformista Mikheil Saakashvili hanno definitivamente stroncato il sistema.
Molte coppie che scoprono un problema nella fertilità sono disposte a ricorrere a un'adozione illegale, purtroppo, come ha fatto la mamma di Elene: «Adottare da un orfanotrofio sembrava impossibile a causa delle liste d'attesa incredibilmente lunghe», ha dichiarato la donna. Nel 2005 un conoscente le parlò di una bambina di sei mesi disponibile per l'adozione presso un ospedale locale, dietro pagamento di un compenso e lei ha accettato, perché le sembrava l'unica occasione rimasta per allargare la famiglia. Alcuni infermieri hanno portato Elene direttamente a casa sua e lei non ha compreso fino in fondo che si trattava di un'operazione illegale. Per formalizzare l'adozione, ci sono voluti mesi estenuanti di ritardi burocratici, ma poi la coppia ne uscì con successo: Elene era la loro bambina, a tutti gli effetti.
Al momento, il gruppo Facebook gestito dalla giornalista ha riunito più di 800 famiglie; mentre gli organi di giustizia georgiani cercano di rintracciare tutti i responsabili di traffico umano. Qualcuno è stato arrestato, ma si presume che la maggior parte dei professionisti coinvolti sia ancora a piede libero. Anna e Elene non provano risentimento per la faccenda: oggi sono due ragazze gioiose di essersi trovate e sono concentrate sul vivere al meglio il loro rapporto.

19.8.23

da ex ministro russo a camionista in Usa: “Così ho cambiato vita. Ora ho un lavoro onesto e mi sento libero


Guerra Ucraina - Russia: diretta no stop

  da  repubblica  del  19\8\2023




 LONDRA – Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, centinaia di migliaia di cittadini russi hanno lasciato il proprio Paese, per dissenso verso la guerra, per evitare di essere chiamati a combatterla, per le conseguenze del conflitto o per una combinazione di questi fattori.Molti di loro sono emigrati temporaneamente o a lungo termine in Occidente, in cerca di democrazia e un nuovo lavoro. Ma pochi cambi di carriera di questo genere sono insoliti come quello di Denis Sharonov, che è passato dal suo posto di ministro dell’Agricoltura in una delle regioni della Russia a camionista in giro per gli Stati Uniti.“Un sacco di gente non capisce la mia scelta, dicendo che ho abbandonato una posizione di potere per fare un mestiere manuale, da ministro a camionista”, dice Sharonov al Guardian, che racconta stamani la sua storia. “Ma io sono contento e orgoglioso di quello che faccio adesso. Finalmente ho un lavoro onesto e mi sento libero”. La sua pagina Instagram fotografa il cambiamento: fino a un certo punto lo ritrae in giacca e cravatta a riunioni governative, poi lo si vede in maniche di camicia, “on the road”, al volante di un camion a rimorchio.Nel 2020 Sharonov era diventato ministro dell’Agricoltura a Komi, una regione grande come la California nel nord della Russia. Ben presto si è disilluso sul governo regionale a causa di “una burocrazia inefficiente e una corruzione rampante”. Il motivo principale per darsi alla politica, per i russi, “è rubare soldi”, afferma. E se non partecipi alle ruberie vieni messo da parte. Ciò che è capitato a lui, quando ha rifiutato di prendere parte a un appalto corrotto insieme a Vladimir Uyba, il governatore di Komi. Il risultato è che nel gennaio 2022 è stato costretto a dimettersi.
Il mese dopo le truppe russe hanno invaso l’Ucraina. Contrario a una guerra che giudicava “illegale”, qualche mese dopo Sharomov ha ricevuto una cartolina precetto per arruolarsi, sebbene a 48 anni fosse troppo vecchio per la mobilitazione: ha avuto il sospetto che fosse una trappola organizzata dal governatore di Komi per spedirlo al fronte e non rivederlo più, in modo da evitare il rischio di una denuncia degli sporchi affari di cui era stato testimone.Avendo studiato brevemente negli Usa nel 1995, durante un programma di scambio dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha perciò deciso di provare a rifarsi una vita in America. Arrivarci è stata un’odissea, che lo ha portato prima in Kyrgystan, una delle ex-repubbliche sovietiche nell’Asia centrale, quindi a Dubai, poi in Messico, dove ha attraversato a piedi illegalmente la frontiera con gli Stati Uniti. La sua richiesta di asilo politico è stata accettata: negli ultimi sei mesi, più di 8600 russi sono entrati negli Usa dal Messico, 35 volte più che nell’anno precedente la guerra in Ucraina, quando erano stati soltanto 249 a farlo.Mentre aspettava il permesso di residenza, Sharonov si è messo a cercare lavoro, ha pensato che fare l’autotrasportatore fosse l’opportunità giusta e che gli desse anche l’opportunità di conoscere meglio il Paese in cui si è trasferito. “Ho già visitato 45 stati”, dice l’ex-ministro diventato camionista. “Molti funzionari di governo nazionali e regionali russi sono contrari all’invasione dell’Ucraina, ma hanno paura a parlare e pensano di non avere altra scelta. Io la mia scelta l’ho fatta e mi sembra di vivere una grande avventura”. On the road again, come cantava Willie Nelson.

2.8.23

Perde il marito in un incidente e fa donare gli organi. Dopo 10 anni le arriva una mail di uno che ha ricevuto il fegato dal marito



«Ciao Marina, non mi conosci, mi presento: io sono Luigi e 10 anni fa tuo marito mi salvò la vita». Il 27 luglio Marina Fontana, una donna palermitana, riceve una mail che inizia con queste parole. Per lei quella è una data particolare: esattamente dieci anni fa - il 10 luglio 2013 - ha perso il marito, Roberto Cona, in un incidente stradale in autostrada. La coppia viaggiava verso la Sicilia per trascorrere le vacanze, quando la loro auto è stata investita in pieno da un tir. Lei è rimasta gravemente ferita. Per lui, invece, non c'è stato nulla da fare.


Il mittente di quella mail è uno sconosciuto. Quella parole stravolgono la giornata di Marina. Non sa cosa pensare e continua a leggere: «Domani sono 10 anni che sono stato trapiantato di fegato all'ospedale Cisanello di Pisa. Tuo marito sarà sempre il mio angelo! Io in tutti questi anni ho sempre fatto fare una messa per Roberto, ma ho avuto il coraggio di scriverti solo adesso. Grazie infinite!».Poi continua: «Dal mese di dicembre 2013 mi sono messo sul computer per rintracciare quelli che avevano donato gli organi poiché facevo la fotoferesi a Cinisello, ho saputo che il mio organo veniva da Careggi - racconta Luigi - Io sono stato chiamato dall'ospedale alle ore 20.30 dicendomi che dovevo stare in ospedale entro le ore 23.30 per la preparazione». Marina allora inizia una ricerca, contatta il mittente della mail. È proprio uno dei pazienti ad avere ricevuto uno degli organi trapiantati al marito Roberto dopo l'incidente mortale. Senza quel trapianto, Luigi sarebbe morto pochi giorni dopo. «Mia figlia mi aiutato a scriverti perché non riuscivo a scrivere per l'emozione che ho provato - prosegue - Grazie alla sua generosità sono tornato in vita. Grazie a te e tutta la famiglia di Roberto con un grande grande grande abbraccio». All'indomani anche la figlia di Luigi ha scritto a Marina: «Suo marito sarà sempre l'angelo della nostra famiglia. Grazie al suo gesto io e i miei 2 fratelli abbiamo ancora un padre! Pochi giorni prima del trapianto di papà ormai eravamo certi che se non fosse avvenuto un miracolo papà sarebbe morto, oltre alle condizioni fisiche ormai gravissime, la sua condizione aveva anche intaccato il cervello e già da un pò non ci riconosceva più...grazie a suo marito, grazie a lei che lo ha permesso, abbiamo ancora un papà». Marina Fontana, quel giorno di dolore, aveva deciso di donare gli organi del marito. Il fegato, i polmoni, i reni. Un gesto che ha salvato almeno sei persone. «Ho sofferto tanto, oggi sono serena, ma ho dovuto fare un percorso di elaborazione del dolore e di guarigione dai postumi dell'incidente non facile: una roccia non si diventa mai. Ma con l'amore di chi ti ama davvero, la mia meravigliosa famiglia, e con la fede, ci puoi provare e anche riuscire piano piano. Oggi spero che anche per gli altri trapiantati sia stato così, e che anche loro stiano bene, e siano felici», dice Marina Fontana all'Adnkronos. Chi ha ucciso Roberto Cona, quel 27 luglio di dieci anni fa, mentre guidava il suo tir non ha mai scontato un giorno di carcere, nonostante la pena a 3 anni di reclusione. «Eravamo in coda in autostrada, con mio marito viaggiavamo da Milano in Sicilia, fermi per una coda di macchine causata da lavori in corso, al chilometro 260 in Toscana vicino Firenze, tra Rioveggio e Barberino», ricorda Marina, che prosegue: «Un tir con un autista di nazionalità turca, ci è venuto addosso con violenza, colpendo la nostra Lancia Thesis con la potenza distruttiva di una bomba. E 12 ore più tardi all'ospedale Careggi di Firenze, dove alle 13.15 del 27 luglio 2013 siamo arrivati sia io che Roberto, in condizioni gravissime, mio marito è morto. La chiamano morte cerebrale. Abbiamo donato i suoi organi».La ferita per quel giorno non è del tutto rimarginata: «Sono bastati pochi secondi di irresponsabile follia, di un autista scostumato, che guidava il suo tir senza alcun rispetto delle regole del codice della strada. Senza alcuna attenzione per la vita delle persone a cambiare la vita di una famiglia appena formata. Io e Roberto avevamo solo un anno e tre mesi di matrimonio e volevamo un figlio. Questo bambino/a non è mai nato». Quel conducente del tir «ha cambiato per sempre il mio destino e quello della mia famiglia, senza mai pagare o chiedere scusa per quello che ha fatto», ha ribadito in questi anni Marina Fontana.In questi anni Marina ha dovuto combattere anche contro la burocrazia. «Ricordo che pochi mesi dall'incidente, quando ero ancora impossibilitata a camminare da sola, qualcuno mi presentò il costo del deposito che aveva preso in custodia l'auto ridotta a rottame, con una nota che riportava: "Soccorso stradale, recupero difficoltoso, spese di demolizione, trasporto a demolizione, sosta dal 27/07/2013 al 15/01/2014". Per un totale di 1.641 euro» - denunciò ancora Marina - Ricordo che allora allora mi arrabbiai molto, ero ferita come cittadina italiana e delusa dalla giustizia, e scrissi qui su Facebook: "Senza parole. Il dolore e la beffa, ci hanno distrutto, massacrati, rubato il futuro e la vita di Robi e arriva da pagare..". Naturalmente pagai immediatamente la fattura».In questi anni, nonostante gli acciacchi di salute e i postumi dell'incidente, Marina non si è mai fermata nella sua lotta contro gli incidenti stradali. «Io so che niente e nessuno mi fermerà finché non avremo vinto anche questa battaglia, la mia e la vostra battaglia per una vera presa di coscienza di quanto sia indispensabile che l'unica strada possibile per chi guida debba essere la responsabilità di tutti al volante», ha ribadito.Oggi il pensiero di Marina Fontana va a Luigi, l'uomo che ha ricevuto il fegato di Roberto Cona e che solo grazie a questo gesto è vivo e può continuare a vivere. «Io penso che la vita mi abbia voluto dare un segno, proprio nel giorno del 10mo anniversario della morte del mio Roberto, ho sempre sperato di conoscerli. La legge tutela l'anonimato ed è una legge saggia, spesso è difficile gestire le emozioni e i comportamenti. Donare è un gesto d'amore unico, quello di un amore universale e gratuito - dice ancora all'Adnkronos - Le persone che sono riuscite a conoscersi, ci sono arrivate attraverso ricerche autonome, perché i media hanno parlato in generale della storia di uno dei protagonisti. Poi, poi se la vita vuole farti il dono di farvi conoscere, questo segno arriva. E arriva quando meno te lo aspetti, anche a distanza di anni. Io ho sempre pregato per loro e ho sempre pensato che ero felice di immaginarli guariti. Oggi ne ho la conferma, almeno per uno dei sei».E poi conclude il suo racconto: «Per me donazione significa scegliere l'amore per lavita e donare vita in modo altruista, per far vincere la vita sulla morte ingiusta di Roberto, la scelta giusta anche se il tuo cuore in quel momento sta vivendo un dolore atroce - spiega - La vita è bella, non dimentichiamolo mai. E non rubiamola agli altri e a noi stessi con gesti irresponsabili alla guida».



20.10.22

«Ho visto la guerra, ora realizzo il mio sogno» Nella sua piccola bottega vende gli ingredienti per cucinare piatti africani

 unione  sara  del  20\10\2022


 «Ho visto la guerra, ora realizzo il mio sogno» Nella sua piccola bottega vende gli ingredienti per cucinare piatti africani
Il suo sogno di una vita migliore è stato più forte della, della povertà, delle lunghe traversate nel deserto e in mare. Una speranza diventata realtà che Joy Ekhaise, 30 anni nata e cresciuta in Nigeria, coltiva giorno dopo giorno nella sua piccola bottega in via Riva Villasanta a Pirri aperta a settembre scorso.

L’arrivo in città

Joy accoglie le persone sorridente, un lungo foulard grigio floreale avvolge il capo, una lunga giacca in jeans copre un abito bianco e nero: mostra con orgoglio la sua attività, dove abbondano prodotti locali del suo paese. «Sono venuta in Sardegna nel 2017, aspettavo il mio secondo bambino che adesso ha cinque anni», racconta. Nel parlare della sua storia emerge emozione e orgoglio, mai vittimismo e rassegnazione. «Prima di raggiungere la Sardegna sono stata in Libia per circa un anno, dove svolgevo il mio mestiere di parrucchiera professione per cui ho ottenuto il diploma che purtroppo qui non è valido. Spero di poter racimolare denaro a sufficienza per poter fare la scuola di parrucchiera, così da poter ricominciare».
L’insidia Boko Haram
La sua è una famiglia numerosa, in totale sono sette tra fratelli e sorelle. «Vivere la guerra è stato chiaramente terribile», aggiunge. «In Nigeria il gruppo terroristico Boko Haram è spietato, in Libia ho vissuto in pieno la seconda guerra civile che si è fatta ancora più cruenta con l’avvento dell’Isis. Lì era impossibile uscire e avere una vita normale ma non mi sono mai persa d’animo perché i miracoli accadono». E il miracolo di Joy si nutre di sacrificio, talento e tante passioni. «Nella mia bottega ci sono tutti i prodotti necessari per cucinare i piatti tipici nigeriani», prosegue. «Le persone sono curiosissime: cucino l’efo riro ovvero una zuppa di verdure miste, l’egusi uno stufato di carne e peperoncino rosso, immancabile il fufu che è una sorta di polenta speziata. Ma ho anche il vino di palma, che è molto leggero e gustoso»

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

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