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30.10.25

Rovigo respinge : non vogliono soldi pubblici per migliorare la vita dei migranti La sindaca ha rifiutato dei fondi del PNRR per costruire alloggi per braccianti

A Rovigo il silenzio è più tagliente di mille parole: non è l’odio che parla, ma l’indifferenza che decide. E nel rifiuto di un tetto, si costruisce il confine tra chi merita e chi no. Infatti  Come espresso   nel  tag  consideravo i  fattti di rovigo  ( vedere  articolo sotto per  dettagli ) solo come   una  forma  di razzismo istituzionale .Ma poi vista  la  sottile  differenza   tra razzismo e discriminazione   che   in questi caso  si manifesta in modo emblematico attraverso le scelte politiche e amministrative della sindaca Valeria Cittadin, che ha rifiutato fondi del PNRR destinati alla costruzione di alloggi per braccianti agricoli migranti, bloccando di fatto il sistema di accoglienza. Infatti  ecco   🧩 Come si intrecciano razzismo e discriminazione in  questo caso  

ConcettoManifestazione nel caso di Rovigo
Razzismo istituzionaleL’idea implicita che i migranti non meritino investimenti pubblici. È una forma di razzismo che si esprime attraverso le politiche e le scelte amministrative.
DiscriminazioneIl rifiuto degli alloggi crea una disparità concreta: i braccianti migranti restano senza soluzioni abitative dignitose, esposti al caporalato e all’emarginazione.

Infatti  Razzismo qui non è espresso con insulti o slogan, ma con atti amministrativi che negano diritti e dignità. E la Discriminazione si concretizza nel non offrire pari opportunità di accoglienza e sicurezza, pur avendo risorse disponibili. 

Ma  ora  basta  parlare  io   lasciamo la  parola   all'articolo  del   https://www.ilpost.it/ Mercoledì 29 ottobre 2025

A Rovigo non vogliono soldi pubblici per migliorare la vita dei migranti
La sindaca ha rifiutato dei fondi del PNRR per costruire alloggi per braccianti, e bloccato di fatto il sistema di accoglienza
                            di Angelo Mastrandrea

Il centro di Rovigo, di sera (Angelo Mastrandrea/il Post)



La sindaca di Rovigo, in Veneto, è Valeria Cittadin. È un’ex insegnante e sindacalista della CISL, è stata eletta col centrodestra e preferisce farsi chiamare “sindaco”. Come diversi sindaci di destra, Cittadin ha posizioni molto nette sui migranti. I suoi colleghi e colleghe più pragmatici, però, accettano spesso fondi pubblici per gestire efficacemente la presenza dei migranti nelle proprie città. Cittadin, invece, questi soldi non li vuole.
Negli ultimi mesi ha cancellato un progetto per costruire alloggi e servizi per i migranti che lavorano nelle campagne, rifiutando oltre 1 milione di euro di fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Inoltre ha bloccato il Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) per i richiedenti asilo, quello dei cosiddetti centri di “seconda accoglienza”, più piccoli ed efficienti: altri 500mila euro all’anno. Infine ha chiesto e ottenuto di dimezzare i migranti ospitati nel Centro di accoglienza straordinaria (CAS) situato nell’ex convento dei Cappuccini, e ora vorrebbe chiuderlo.
Il suo ragionamento sembra questo: rendere la vita più difficile per le persone straniere dovrebbe scoraggiarle dal vivere a Rovigo. Il punto è che secondo diverse associazioni locali l’approccio di Cittadin non tiene conto del fatto che una persona straniera ben integrata è meno spinta ai margini della società e quindi verso la criminalità. Inoltre le limitazioni di Cittadin stanno producendo effetti poco graditi anche per il resto della popolazione locale.
Alla fine di luglio, dopo l’omicidio di un uomo di origine tunisina avvenuto durante un litigio nella centrale piazza Matteotti e alcuni altri episodi di violenza, Cittadin ha ottenuto dal governo nazionale l’istituzione nel centro della città di una «zona rossa», in cui i controlli delle forze dell’ordine sono rafforzati. Nei giorni seguenti ha emesso un’ordinanza che vieta di chiedere l’elemosina e impone limitazioni agli spostamenti negli orari serali. Cittadin ha spiegato che l’obiettivo del provvedimento è di «contrastare comportamenti che alimentano il degrado», attribuiti in particolare agli stranieri non bianchi, maschi, che di sera si incontrano nei bar del centro e in piazza Matteotti.
Con una seconda ordinanza, Cittadin ha poi esteso i divieti alla tradizionale fiera autunnale cittadina, che si è svolta dal 18 al 21 di ottobre. In quei giorni lungo le strade del centro c’erano più carabinieri, poliziotti e vigili urbani del solito. Nonostante le eccezionali misure di sicurezza la notte del 18 ottobre davanti a un bar lungo corso del Popolo, a poche decine di metri da Palazzo Roverella (l’edificio più importante della città), è stato ferito gravemente a coltellate un uomo di origine marocchina. La mattina dopo, su Facebook, Cittadin l’ha definita «una scena squallida, indegna, che si ripete ormai troppo spesso: una rissa tra cittadini nordafricani, in uno dei bar più frequentati da stranieri. È razzista dirlo? No. È semplicemente raccontare la verità».


Corso del Popolo, la strada in pieno centro in cui è avvenuto un accoltellamento (Angelo Mastrandrea/il Post)

Sul tema della sicurezza e della migrazione la sindaca Cittadin sa di poter contare su un consenso trasversale. Lo dimostra per esempio l’esito del referendum della scorsa primavera sulla cittadinanza per gli stranieri: a Rovigo votò appena il 29 per cento degli aventi diritto, e di questi il 37 per cento rispose “no” al quesito, che proponeva di dimezzare il periodo di residenza necessario a poter chiedere di diventare cittadini italiani. Poche altre città italiane hanno avuto una percentuale simile di “no”. Il Post ha provato più volte a parlare con Cittadin per questo articolo, e le ha inviato alcune domande, ma la sindaca non ha risposto.




L’ex convento dei Cappuccini dove si trova il Centro di accoglienza straordinaria (CAS) per migranti (Angelo Mastrandrea/Il Post)

Le misure di Cittadin hanno provocato diversi malumori tra i commercianti, che si sentono danneggiati. «Tante persone, soprattutto anziani e i più giovani, non escono più, soprattutto la sera», ha detto il presidente della Confcommercio locale Stefano Pattaro, parlando esplicitamente di «perdita della clientela». «Il messaggio che hanno dato con questi provvedimenti è che il centro di Rovigo è pericoloso ed è meglio non andarci, e questo ha allontanato non solo le persone del posto ma anche i turisti», dice Carlo Zagato, presidente della cooperativa Porto Alegre, che gestisce il centro di accoglienza nell’ex convento e una sartoria sociale dove lavorano alcune donne migranti.
Le persone più colpite, comunque, restano quelle migranti, che in città non hanno più spazi o iniziative riservate a loro. È possibile che per queste ragioni alcuni decidano di andarsene: in molti però vivono a Rovigo da tempo, hanno un lavoro e qualche rete informale di supporto, e insomma rimarranno qui a prescindere. Anche per questo per esempio alcune associazioni cattoliche come ACLI e Azione cattolica hanno scritto una lettera alla sindaca per chiederle di rafforzare «il sistema locale dei servizi». «Rinunciando all’accoglienza, l’amministrazione comunale si troverà comunque a dover sostenere con mezzi propri l’assistenza di singoli e famiglie migranti che si trovano sul territorio».
A Rovigo gli stranieri residenti sono poco più di 5mila, circa il 10 per cento della popolazione totale. Ogni anno ne arrivano poco meno di 1.500 con il decreto “flussi” per lavorare nelle campagne come stagionali, ma molti di loro finiscono a vivere in alloggi in subaffitto nei comuni della provincia. Altri 440, che hanno presentato una richiesta di protezione internazionale, sono ospitati nei CAS, dati in gestione dalla prefettura ad associazioni e cooperative sociali.
«Per rendere Rovigo una città tranquilla la stanno facendo diventare una città impossibile», dice il direttore della Caritas locale Davide Girotto. «Hanno cancellato tutte le misure che aiuterebbero i migranti a inserirsi, come i corsi di italiano e l’assistenza di uno psicologo per chi è in difficoltà, però poi dicono che i migranti non si vogliono integrare e quindi devono andarsene». Secondo lui a Rovigo non c’è alcuna emergenza legata alla sicurezza: i casi di violenze sono avvenuti tra persone senza dimora e si sarebbero potuti evitare se queste persone fossero state accolte e quindi fosse stata data loro una prospettiva diversa.
La Caritas ha aperto al pianterreno del seminario diocesano locale quella che viene chiamata “locanda”, che ha rimpiazzato la mensa chiusa dai francescani. Serve un pranzo gratuito fra le 11 e le 11:30. Ogni anno assiste circa 300 migranti, ma quelli che vengono a mangiare tutti i giorni sono una trentina: gli altri a quell’ora stanno tutti lavorando.
«La maggior parte di loro sono impiegati nell’agricoltura, molti lavorano anche nell’edilizia e nella logistica che noi definiamo da “nastro trasportatore”, cioè la più povera e con un’occupazione di bassa qualità», dice il segretario della CGIL locale Pieralberto Colombo. Secondo dati dell’INPS nel 2024 i lavoratori migranti nelle campagne del Polesine, in provincia di Rovigo, erano 6.500. Sono aumentati del 21 per cento dopo la morte di Satnam Singh, il bracciante indiano morto schiacciato da un macchinario mentre lavorava in nero in un’azienda agricola di Latina. Secondo il sindacato è il segno che molte aziende, temendo maggiori controlli, hanno regolarizzato i dipendenti che erano in nero.
Zagato, il presidente della cooperativa Porto Alegre, spiega che i migranti che non vengono accolti dagli enti pubblici o da associazioni e cooperative sociali finiscono spesso, soprattutto nelle campagne, in «alloggi impropri e molto affollati, gestiti dai caporali che guadagnano sul subaffitto, sul trasporto e sul vitto», in condizioni quindi di estrema vulnerabilità, che spesso si concretizza in disagi fisici e psichici.
A fine giugno nelle campagne di Porto Viro, un comune della provincia vicino al mare, la Guardia di Finanza ha scoperto 18 braccianti stranieri che lavoravano fino a 12 ore consecutive con temperature anche sopra i 30 gradi per 6 euro all’ora. Due di loro erano in nero e un terzo non aveva i documenti. Due caporali li portavano ogni mattina nei campi di quattro aziende agricole e la sera li riportavano in alloggi fatiscenti, dove non c’erano servizi igienici e docce.

L’ambulatorio nella frazione Concadirame che avrebbe dovuto essere ristrutturato (Angelo Mastrandrea/il Post)

Per arginare questo fenomeno la precedente giunta di centrosinistra aveva deciso di ristrutturare una ex scuola elementare e un ambulatorio medico a Concadirame, una frazione di 250 abitanti a nord della città. È il progetto che avrebbe portato a Rovigo 1 milione e 129mila euro di fondi europei, e che prevedeva alcune decine di posti letto, un servizio medico e sportelli di assistenza gestiti da associazioni e sindacati per contrastare almeno in parte lo sfruttamento dei lavoratori migranti.
La sindaca Cittadin però ha bloccato il progetto, perché secondo lei «il nostro comune non può farsi carico di ulteriori sacche di difficoltà».

23.6.24

Fragole ( e non solo ) rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia da https://www.thesocialpost.it/




Fragole rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia Giovanni Pizzo
Idee
Pubblicato: 23/06/2024 10:50


Incredibile. Scopriamo oggi che le fragole, con quel colore rosso intenso che ci fa venire l’acquolina in bocca, sono in realtà dipinte dal sangue. Come i San Marzano a Nocera, la frutta a Rosarno, il radicchio nei campi a Treviso, i datterini a Pachino, dove gli schiavi, perché nuovi schiavi sono, li vedi in piazza a fine giornata, ma poi qualcuno scompare senza lasciare traccia della propria esistenza in questo Bel Paese.
Lavorano in schiavitù da decenni, perché di schiavitù si tratta, e noi che facciamo? Nulla. Ci mangiamo la pesca dell’Esselunga, commuovendoci con lacrime di coccodrillo allo spot della bambina con la madre separata, mentre l’Italia ha ormai divorziato dalla verità, dalla legittimità, dalla liceità.
Ma poi facciamo di peggio, facciamo leggi che nessuno rispetta perché allo Stato non interessa farle rispettare. La legge sul caporalato prevede addirittura la confisca dell’azienda, come nel 416 bis, qualcuno si è spaventato di tutto ciò? No, perché sanno che è una delle tante foglie di fico di un Paese bello che vive di brutte cose, l’importante è che la verdura, sempre più cara per gli intermediari commerciali, non certo per la remunerazione delle aziende agricole e soprattutto di chi ci lavora, sia in tavola, la frutta nella terrina, magari a marcire, come i campi riarsi dalla siccità che il sangue dei morti non può alleviare.
L’ipocrisia maggiore è quella dei contratti collettivi di lavoro: si rifiutano le gabbie salariali, la decontribuzione, perché tanto poi c’è il lavoro nero, irregolare, la schiavitù come ai tempi dei Faraoni. Poi ci sono le truffe, l’olio extravergine italiano non può per i reali costi della produzione andare sotto i dieci euro al frantoio; se lo troviamo a meno, molto meno al supermercato, è una truffa, non è italiano, anche se venduto per tale, e forse non è neanche olio, certamente non vergine, ma meretrice.
Ma intanto il Bel Paese va avanti, ammazza di lavoro nei campi in nero, come il colore delle loro carni sotto i 40 gradi, orde di lavoratori/schiavi, a cui si sequestra il passaporto, a chi ce l’ha, perché gli italiani questi lavori non li fanno più da 50 anni. Ma noi gridiamo allo straniero, nero, che ci toglie il lavoro, che non deve venire, con quei barconi fatiscenti, che spaventano i turisti, quando poi sguatteri, camerieri, cuochi pagati da lavapiatti sono sempre loro.
Rispetto ai dati dei vari governi si è già capito che per mantenere i livelli attuali di vita dei vecchi italiani ne servirebbero il triplo di stranieri, li dovremmo andare a prendere, non respingerli. Ma poi agli italiani che gli diciamo? Un po’ di ipocrisia ovviamente. Ne abbiamo più del petrolio, è la risorsa primaria nazionale e, soprattutto, non costa nulla. A parte la morte di un uomo senza un braccio, che muore dissanguato, buttato nella discarica del nostro quieto vivere.

27.7.20

quando gli schiavi aiutano altri schiavi Lucia bracciante tarantina salvata dal caporalato da Yvan Sagnet della rete Nocap un sindacalista migrante

repubblica del 26\7\2020


che strano paese il nostro la  maggior parte  della  gente    vuole  cacciarli via  o li considera  clandestini   se  va bene  . Ma  generalmente   li si etichetta con  stereotipi  e luoghi comuni  exenofobici  e razzisti     chje  noi tutti sentiamo e leggiamo h24   ed  molti   di noi   almeno quelli che   ascoltano passivamente   e  approvano    coloro  che

Urlano teorie, rincorrono morali,
La propaganda vince
Con frasi sempre uguali


e sempre citando oltre alla guerra e la paura - Mcr    hanno
Mio fratello ha rinunciatoAd avere un'opinione,Mio fratello ha rinunciatoIn cambio di un padroneChe sceglie al suo posto

2.10.15

MORTE DEI CAMPI di © Daniela Tuscano

MORTE DEI CAMPI
Come una Nedda cresciuta, o un . Sud verghiano, naturalista e positivista, spietato, di oltre cent'anni fa. Sud dei vinti. Invece siamo nel 2015. E Paola Clemente era italiana. Non un'immigrata. Ma proviamo a sentirla mormorare, mentre s'ammazza letteralmente di fatica in quel deserto di seminagione, "che è quest'Italia?". Sgobbava sette giorni su sette per due euro l'ora, sotto la schiavitù del caporalato. Alla fine è schiattata, ma nelle fotografie, lei, col suo cognome da pontefice (ottocentesco pure quello), riusciva ancora a sorridere. Un sorriso liquido, largamente mansueto sopra un modesto vezzo di perle. Perché la vita è fuori. Deve esserlo. 




Paola voleva sentirsi umana e s'insinuava in feste amicali per restituirsi all'umanità. Quell'angolo d'esistenza, i caporali non erano riusciti a spegnerlo. E lei vi s'aggrappava tenacemente. Appesa a un pensiero, alla gioia della famiglia, come Rosso al ricordo del padre. La femminilità di Paola si sformava avvilita nel sole, ma lei insisteva a sentirsi bella, annotava scrupolosamente sul calendario le "giornate" che le restavano, la miseria largita. Lenta pure la grafia, così grottescamente infantile, ansante, inesorabile. Perché manca poco, ce la posso fare, solo per oggi, poi finalmente la pace.
Ma la pace non è giunta. Il corpo s'è arreso. L'anima forse no. Oggi quegli appunti mai trascurati rappresentano un formidabile atto d'accusa contro i suoi aguzzini. I conti non tornano, a Paola hanno dato ancor meno del nulla che le rifilavano.
E che è, quest'Italia. Nel frattempo divenuta repubblica e, almeno sulla carta, Stato di diritto. Era il paese di Paola e di tante vinte e vinti come lei, sul cui sangue questo diritto è nato. Ma quando soccombe al profitto diventa involucro vuoto, suono inarticolato. La cifra dei nostri anni tecnologici e bestiali. E tuttavia il diritto esiste, l'inesorabilità non è più destino. Il sorriso di Paola, dietro l'aria da povera crista, ne trasmetteva la consapevolezza.
Lo si chiami assassinio, il suo. E lo si punisca con la massima severità.

                                .© Daniela Tuscano

17.10.12

italiani prendiamo esempio da loro L'eroe qualunque, il ragazzo africano che si è ribellato ai "caporali" del Sud

da   repubblica  17\10\2012
L'eroe qualunque, il ragazzo africano
che si è ribellato ai "caporali" del Sud
Yvan Sagnet arriva dal Camerun anche grazie alla passione per il calcio. Ma scopre il lato peggiore dell'Italia. La sua storia è diventata un libro che racconta la rivolta contro lo sfruttamento dei migranti nelle campagne pugliesi
                                                      di ROBERTO SAVIANO

QUESTA è una storia d'amore nata per caso tra un bambino e un Paese, la racconta Yvan Sagnet nel suo libro Ama il tuo sogno (Fandango). Il bambino è Yvan che nel 1990 aveva 5 anni e il Paese è l'Italia. È una storia d'amore che parte dal calcio. Yvan è nato Douala, in Camerun, nel 1985 e nel 1990, come molti bambini camerunensi, visse la cavalcata trionfale dei Leoni d'Africa nel mondiale, dalla prima partita con l'Argentina di Maradona fino ai quarti di finale contro l'Inghilterra. Napoli, domenica primo luglio. Ancora oggi chi c'era ricorda i tifosi del Camerun, coloratissimi, sportivi e con l'espressione di chi non poteva credere a ciò che stava accadendo.
Essere arrivati fino a lì aveva del miracoloso: il Camerun era la prima squadra africana a raggiungere i quarti di finale in Coppa del Mondo. E Napoli, dove si svolse la partita, tifò con loro sperando nel miracolo. La partita fu incredibile, con il Camerun in vantaggio per 2-1 fino a otto minuti dal termine dei tempi regolamentari. Poi il primo rigore all'Inghilterra, i supplementari, il secondo rigore e la sconfitta. A Yvan quella partita ha cambiato la vita. Il ricordo del rientro in patria della nazionale, che pur non avendo vinto il mondiale aveva ottenuto il rispetto di tutto il mondo, per Yvan significava una sola cosa: un nuovo sguardo sul suo paese, maggiore attenzione su un Camerun in crisi economica e politica. E questo nuovo sguardo era stato possibile proprio grazie al mondiale e al paese che lo aveva ospitato: l'Italia. A scuola il
programma di economia dei licei camerunensi prevedeva lo studio del sistema economico francese, ma lui decise per conto suo di specializzarsi sull'economia italiana.
Dal calcio all'economia. Yvan impara l'italiano e con un permesso di studio si iscrive all'università di Torino perché vuole diventare ingegnere. Finalmente può conoscere dal vivo il calcio italiano che ha amato da bambino. Tifa Juventus ma la prima partita dal vivo della sua vita la vede di spalle, come steward, allo stadio. Sono i primi di luglio del 2011 e i soldi della borsa di studio non bastano. Alcuni amici di Torino gli dicono che al Sud si può andare a lavorare per la raccolta del pomodoro perché serve manodopera. Così Yvan decide di trasferirsi nelle campagne salentine, a Nardò, dove sa di una masseria che accoglie i braccianti che fanno la stagione, togliendoli dalla strada, dove spesso dormono accampati sotto gli alberi, dentro case di cartone, senza acqua né corrente elettrica. Eppure anche alla Masseria Boncuri, nonostante l'impegno di tante associazioni di volontariato, la longa manus dei caporali detta le sue leggi.
Appena arrivati, i caporali requisiscono i documenti ai braccianti e li usano per procurarsi altra mano d'opera, altri immigrati, ma clandestini. Il rischio che i documenti vadano persi è altissimo e quando accade i braccianti diventano schiavi. Le condizioni di lavoro sono agghiaccianti: diciotto ore consecutive, di cui molte sotto il sole cocente. Chi sviene non è assistito e se vuole raggiungere l'ospedale deve pagare il trasporto ai caporali. Il guadagno è di appena 3,5 euro a cassone, un cassone è da tre quintali e per riempirlo ci vuole molto tempo, ore. Si lavora con questi ritmi anche durante il Ramadan, quando molti lavoratori di religione islamica non bevono e non mangiano. In Italia la disoccupazione è una piaga che sembra insanabile. Eppure questi ragazzi trovano lavoro, trovano un lavoro a condizioni inaccettabili per quasi la totalità dei disoccupati italiani. Si crede che i ragazzi africani siano abituati a una vita di disumanità, sporcizia, alloggi immondi e quindi questa attitudine alla suburra la sopportino in Italia perché medesima nel loro paese.
Nulla di più falso. Yvan scrive: "Mentre nel mio paese la dignità è sacra, a tutti livelli della scala sociale, il sistema dei campi di lavoro (in Italia, ndr) è appositamente studiato per togliere ai braccianti anche l'ultimo scampolo di umanità". Ma accade qualcosa che i caporali non hanno previsto. I braccianti in genere strappano le piantine alla radice per batterle sulle cassette così che i pomodori cadono tutti. Ma quel giorno il caporale impone un altro metodo. Servono pomodori da vendere ai supermercati per le insalate, quindi devono essere presi e selezionati uno a uno. Si tratta di riempire gli stessi cassoni di sempre, ma selezionare i pomodori significa raddoppiare la fatica. Il caporale impone tutto questo lavoro allo stesso prezzo: Yvan e gli altri braccianti non trovano alternative, si sollevano. È l'inizio della rivolta e Masseria Boncuri ne diventerà il simbolo con l'enorme striscione "Ingaggiami contro il lavoro nero". Ma lo sciopero non è facile da gestire soprattutto perché è quasi impossibile comunicare tra i diversi gruppi etnici. Gli unici a esprimersi facilmente in italiano sono i tunisini; per altri (bukinabé, togolesi, ivoriani, ghanesi, nigeriani, etiopi, somali) è necessario parlare in inglese e francese; altri capiscono solo la lingua araba. Eppure, nonostante le diversità, lo sciopero continua: tante culture e tante visioni della lotta hanno finito per essere non la debolezza ma la forza della protesta, che a un anno e mezzo da quella di Rosarno, è più organizzata e riesce a guadagnare un'eco nazionale. Gli italiani sembrano prendere finalmente coscienza delle condizioni difficili di chi lavora nei campi e le istituzioni sono costrette ad ammettere che il problema caporalato esiste.
La magistratura trova la forza per continuare le indagini già in corso, spesso protette da omertà e scarsa collaborazione, e a maggio 2012 i carabinieri del Ros arrestano 16 persone - presunti caporali e imprenditori agricoli - nell'ambito dell'operazione "Sabr" che ha colpito un'organizzazione criminale attiva tra Rosarno, Nardò e altre città della Puglia. Ma la reazione alla rivolta, allo sciopero, al clamore mediatico, all'inchiesta della magistratura e agli arresti, non si fa attendere. Alessandro Leogrande (autore peraltro di un importante reportage Uomini e caporali sui desaparecidos polacchi nel triangolo del pomodoro vicino Foggia) nell'intervista finale che accompagna il libro di Yvan Sagnet, svela che c'è un piano per uccidere Yvan e lo hanno ordito alcuni caporali tunisini che ancora operano a Nardò. La vita del primo leader nero italiano è, oggi, seriamente in pericolo. Quello che sento di poter fare con queste righe è non lasciarlo solo. Senza il suo impegno, senza questo ragazzo africano e gli altri che hanno lottato con lui, non esisterebbe la legge contro il caporalato, eppure i caporali esistono al Sud da più di un secolo. La speranza del mezzogiorno italiano sta proprio in questa parte d'Africa che arrivata al Sud, trasforma il Sud e rimette in gioco interi territori, migliorandoli. Rischia la vita per una democrazia diversa, battaglia che molti italiani hanno rinunciato a combattere.




Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...