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18.5.25

diario di bordo n 121 anno III . La disparita' di trattamento tra le donne e gli uomini anche agli internazionali di tennis di Roma. ., come educare i bambini d'infanzia in maiera non violenta ed al rispetto., I talenti sardi che restano: Federico ersu «Servono progetti, non idee»

  di  Maria Vittoria Dettoto di Cronache Dalla Sardegna

Ieri a seguito della vittoria di Jasmine Paolini ho scritto che la sua vittoria, purtroppo, non ha lo stesso valore di quella di un uomo e che avrebbe avuto un rilievo diverso se avesse fosse stato un uomo e avesse praticato il calcio. E lo ribadisco. Partiamo dal montepremi vinto dalla Paolini con la vittoria di ieri pari a 877.390 euro. Che potrebbe salire a quota 1.030.640 se dovesse vincere nel doppio con Sara Errani.Jannik Sinner invece se dovesse vincere oggi contro Carlos Alcaraz otterrebbe un montepremi di 985.030, ovvero
oltre 100.000 euro in più rispetto a quello percepto per la vittoria nello stesso torneo dalla Paolini. Sinner ha già guadagnato per aver meritato l'accesso alla finale di stasera 523.870 euro. Al netto di emolumenti vari e premi degli sponsor, naturalmente per entrambi.
Vi pare giusta questa disparita' di trattamento? A me no. Perché una donna anche in un torneo tennistico, come in qualsiasi lavoro svolto, a parita' di mansions deve essere pagata meno di un uomo? Quale sarebbe in questo caso la motivazione?O lo sforzo fisico, gli allenamenti, la passione di una donna per lo sport, quello di una campionessa mondiale come la Paolini non meritano la stessa ricompensa di un altrettanto campione come Sinner? Per me si.E non è questione di essere femministe. Ma di essere egualitari tra generi. Lo
stesso ragionamento l'avrei fatto se al posto della Paolini o Sinner ci fosse stato chiunque altro.
Veniamo ora al tipo di sport giocato, ovvero il tennis, che negli ultimi anni anche grazie proprio a Sinner ed alla Paolini ha avuto un grande richiamo mediatico. Ma parliamoci chiaro. Se la Paolini o Sinner vincono gli internazionali di tennis, nessuno scende in piazza a festeggiare come quando la Nazionale italiana di calcio vince un Europeo o un mondiale. Siamo tutti contenti della vittoria, certo. Che dopo due giorni passera' nel dimenticatoio o se ne ricorderanno solo gli addetti ai lavori. Quando in realtà ogni prestazione sportiva di massimo livello, di qualsiasi sport, andrebbe valorizzata allo stesso modo. Nel calcio come nel tennis o nella boxe o nel canottaggio o nella danza. Solo per citarne alcuni. Poi ognuno/a di voi può essere o meno d'accordo con il mio pensiero, ma purtroppo questa è ancora oggi la realtà dei fatti.

 Infatti  


Jasmine Paolini ha appena vinto gli Internazionali d’Italia!!!!Davanti a un pubblico fantastico e al Presidente della Repubblica Mattarella.Dopo un torneo clamoroso per resistenza, tenacia, dedizione, testa ma anche colpi e variazioni che ha fatto impazzire tutte le avversarie.Non succedeva da 40 anni!È il secondo 1000 in carriera. E da lunedì Jas tornerà numero 4 al mondo, eguagliando il suo best ranking.
Non c’è solo Sinner. Questa è anche l’era di Jasmine Paolini.

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  come  educare i bambini    al  rispetto  e  a un rapporto non  tossicoe  non  violento da


Oggi in classe ho portato due mele.Entrambe belle, rosse, lucide. A vederle così, nessuna
differenza.
Ma solo io sapevo che una delle due era stata fatta cadere più volte prima della lezione.
L’avevo raccolta con cura, senza romperla all’esterno. Era ancora perfetta… almeno in apparenza.Abbiamo osservato insieme le due mele. I bambini le descrivevano:
“Sembrano uguali”,
“Sono buone”,
“Mi viene voglia di mangiarle”.
Poi ho fatto qualcosa di insolito.Ho preso la mela che avevo fatto cadere e ho cominciato a parlarle male davanti a tutti.Ho detto che era brutta, che non mi piaceva, che aveva un colore orribile e un picciolo troppo corto.E ho chiesto ai bambini di fare lo stesso:di dirle cose cattive, come se fosse un’altra persona.Alcuni mi hanno guardata con esitazione.Uno ha detto: “Ma è solo una mela…”Ma sono andati avanti:
«Fai schifo»,«Nessuno ti vuole»,«Sembri marcia»,«Non vali niente».
Poi abbiamo preso l’altra mela.Quella che nessuno aveva insultato.E le abbiamo detto solo parole belle: «Sei splendida», «Hai un profumo buonissimo»,«Scommetto che sei dolcissima». Dopo, le ho tagliate davanti a loro.La mela trattata con amore era fresca, chiara, croccante.Quella insultata… era piena di lividi. Molle. Scura.Era danneggiata dentro, anche se fuori sembrava intatta.E in quel momento, nella classe è calato il silenzio.Nessuno rideva. Nessuno parlava.Gli sguardi erano diversi: avevano capito.Quelle parole che avevamo detto per finta a una mela,sono le stesse che ogni giorno tante persone — e tanti bambini — sentono davvero.Parole che non si vedono.Parole che non lasciano segni sulla pelle…Ma che lasciano lividi dentro.Ho raccontato ai bambini che anche a me, solo qualche giorno fa, qualcuno ha detto qualcosa che mi ha fatto male.Eppure sorridevo, sembravo serena. Nessuno se ne è accorto.Ma dentro mi sentivo come quella mela: rotta. Ammaccata. Ferita in silenzio.La verità è che le parole possono fare più male di uno schiaffo.E spesso quel dolore resta. Anche quando gli altri non lo vedono.Per questo dobbiamo insegnare ai nostri figli — e a noi stessi —che ogni parola ha un peso.Che si può ferire anche con una frase detta per gioco.Che la gentilezza non è debolezza: è forza, coraggio, scelta.E voglio raccontarvi una cosa che mi ha colpita più di tutto:mentre gli altri insultavano la mela,una bambina si è rifiutata.Ha detto: “Io non voglio dire cose brutte. Anche se è solo una mela”.Quel piccolo gesto vale più di mille lezioni.Le parole possono costruire ponti.O scavare ferite.Possono sollevare.O distruggere.E il loro effetto spesso resta per molto, molto tempo.La lingua non ha ossa,ma può spezzare un cuore.Scegliamo le parole con cura.Usiamole per amare, non per ferire.Per accogliere, non per escludere.Per guarire, non per distruggere.Che i nostri figli crescano imparando il valore del rispetto,della gentilezza, dell’empatia.Perché dietro ogni sorriso, potrebbe nascondersi una mela ammaccata.E noi possiamo fare la differenza.

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nuova sardegna 18\5\2025

Sassari 
Non c’è solo una Sardegna che vede partire i suoi talenti ma un’isola in cui chi decide di rimanere o di ritornare nella propria terra costruisce reti e crea opportunità condivise di sviluppo. Un esempio è rappresentato da Federico Esu. Dopo anni all’estero ha deciso di ritornare ma non si è limitato a quello. Ha fondato “Itaca”, un podcast che raccoglie storie

di chi resta, torna, arriva, o parte dalla Sardegna, e “Nodi”, un movimento culturale e un progetto di comunità che connette queste persone tra loro, dando vita a una rete viva, concreta, che supera le etichette e ricompone una nuova geografia umana dell’isola.
«Le connessioni che abbiamo creato e che continuiamo a coltivare stanno dimostrando che esiste un capitale umano attivo, intraprendente e pieno di visione, che sceglie di vivere in Sardegna non per nostalgia, ma per convinzione. Perché crede che proprio qui, nella nostra isola, si possano fare le cose. E si possano fare bene. Mettere in rete tutte queste persone significa creare un ecosistema di fiducia e collaborazione. Un contesto in cui chi arriva trova accoglienza, chi torna – come è stato anche il mio caso – trova alleati, e chi resta non si sente più l’unico rimasto. Così la Sardegna può tornare ad essere fertile: non solo bella, ma viva di idee, relazioni, progetti, possibilità. Solo così può tornare ad attrarre persone, energie e anche nuove nascite».Questa rete si propone come una risposta concreta alla crisi demografica: non basta attirare nuovi residenti con incentivi o slogan. Serve costruire relazioni, occasioni di incontro, condizioni abitative e lavorative degne. Serve far sentire le persone parte di qualcosa.«Stiamo vedendo nascere progetti proprio dagli incontri, dal programma di mentoring, dagli eventi che organizziamo in tutta la Sardegna ma anche online. E si stanno creando le precondizioni per collaborare in modo sistemico, tra territori, discipline e generazioni. In un contesto insulare come quello sardo, dove l’isolamento è spesso duplice – fisico e simbolico – il “fare rete” è una forma di riattivazione culturale, economica ed emotiva. È come smuovere il terreno per far emergere tutto ciò».I risultati raggiunti fino ad oggi sono tangibili e in progressiva crescita. Dalle tante interviste del podcast “Itaca” sono nate nuove storie di ritorno o arrivo. Dalle connessioni di “Nodi” sono emersi progetti imprenditoriali, iniziative condivise, scambi tra professionisti e realtà locali. Il programma di mentoring sta facilitando transizioni, integrazioni, nuovi inizi. Tutto questo in modo organico ma con metodo, cura, ascolto e visione.«La nostra forza è nelle persone, e nella capacità di metterle nella giusta connessione», aggiunge Federico Esu.
Avete già instaurato un rapporto e una collaborazione con le istituzioni regionali ?
«Più che fare richieste, ci interessa costruire un dialogo continuo e costruttivo, tra pari, tra professionisti, amministratori, realtà del terzo settore e stakeholder privati. È un processo che stiamo già vivendo: sempre più spesso con “Nodi” ci troviamo a collaborare con attori pubblici e privati, come è accaduto pochi giorni fa a Laconi, durante un incontro internazionale tra spazi creativi europei, dove erano presenti anche CRENoS, l’Assessorato all’Industria e la Presidenza della Regione Sardegna. Questi momenti dimostrano che c’è un terreno fertile per collaborazioni trasversali e che, lavorando insieme, possiamo individuare modalità più agili e accessibili per sostenere chi vuole restare, tornare o arrivare in Sardegna. Facilitare l’avvio di nuove attività, ridurre le complessità burocratiche e mettere in campo strumenti più flessibili può contribuire in modo concreto a rendere l’isola più attrattiva per nuove energie, competenze e progettualità. Non si tratta di puntare il dito contro nessuno, ma di riconoscere che solo con una visione condivisa e relazionale possiamo affrontare sfide complesse come quella demografica e sociale».
Alla domanda sulla visione demografica per i prossimi 10-15 anni, Esu risponde con chiarezza: «Immagino una Sardegna che non si definisca più per ciò che perde, ma per ciò che decide di generare. Non mi piace la parola 'trattenere': dà un’idea di costrizione. Meglio pensare a un’isola che attira, perché offre qualità della vita, relazioni, spazi rigenerati, opportunità di contribuire. Una Sardegna che riabita i paesi in modo intelligente, con servizi, infrastrutture digitali, spazi di comunità, che riconosce i “nuovi sardi” – anche se nati altrove – come parte attiva del tessuto sociale. Che sostiene l’autoimprenditorialità diffusa, e valorizza i tanti sardi nel mondo come alleati dello sviluppo locale, non solo come nostalgici da evocare a fasi alterne».Con i progetti di “Itaca” e di “Nodi” Federico Esu vuole quindi cercare di disegnare un’altra mappa della Sardegna, fatta non solo di luoghi, ma di legami. Una visione complessiva nella quale la demografia non è solo una curva da invertire, ma un invito a immaginare nuove rotte e nuovi approdi per chi rimane, per chi ritorna e per chi decide di arrivare nell’isola. 

con questo è tutto alla prossima sempre che Dio lo voghlia e i carabinieri lo permettano

2.11.19

La Sardegna sospesa tra l’agonia del Sulcis e il sogno di Internet


Impiego pubblico e industria di Stato non garantiscono più lavoro. Si vive di sussidi e reddito di cittadinanza. Resta la speranza di una rivoluzione digitale

17.2.16

Terra dei Fuochi, «quello che non ho potuto dire da Vespa» di Anna Spena vita il 16 febbraio 2016 e ECCO CHI ERA ROBERTO MANCINI, IL POLIZIOTTO EROE CHE SCOPRÌ LA TERRA DEI FUOCHI

da http://www.vita.it/it/article 16\2\2016



Ieri [ in realtà era avantieri ] a Porta a Porta








ospiti in studio due mamme che vivono in Campania e hanno perso i loro figli per colpa di un tumore. Eppure il conduttore durante la trasmissione non ha mai usato la parola cancro. Marzia Caccioppoli: «In trasmissione per esempio non sono riuscita a parlare del problema dell'evasione fiscale o del fatto che in Campania non esiste la terapia del dolore. In queste terre la camorra esegue quello che lo Stato colluso le comanda». L'intervista


Marzia Caccioppoli con suo figlio Antonio morto a nove anni e mezzo


Ieri in seconda serata è andata in onda una puntata di Porta a Porta dove si è parlato di Terra dei fuochi. Tra gli ospiti in studio Beppe Fiorello, protagonista della prima puntata della fiction andata in onda in prima serata, sempre su Rai1, “Io non mi arrendo” che nella mini-serie interpreta il ruolo di Roberto Mancini, il poliziotto che per primo indagò sulla questione dei rifiuti tossici in Campania, Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore della Sanità e la moglie di Roberto Mancini Monika Dobrowolska. Poi due “mamme delle terra dei fuochi” che fanno parte dell’associazione “Noi genitori di Tutti”, Anna Magri e Marzia Caccioppoli; i loro figli sono morti a 22 mesi e nove anni e mezzo per colpa di un tumore.
Ma alle due mamme è stata davvero data la possibilità di denunciare tutto?
Vita.it intervista Marzia Caccioppoli che racconta quello che avrebbe voluto aggiungere…



Dopo la puntata di Porta a Porta si sono sollevate alcune polemiche. Prima tra tutte, il conduttore Bruno Vespa non ha mai utilizzato, neanche una volta, la parola cancro o tumore. Ha sempre parlato di malattia grave e ha sottolineato più volte che la percentuale della terra inquinata “è solo una piccolissima parte della Campania”…
Quando io e Anna Magri abbiamo accettato l’invito eravamo consapevoli che non avremmo avuto modo di ribattere molto o di raccontare la gravità dei fatti. Queste sono le regole di quel format televisivo.

Allora perché avete accettato lo stesso l’invito?
Per due ragioni. La prima è che se non fossimo andate noi avrebbero potuto invitare qualcuno dei medici negazionisti che non fa altro che peggiorare la nostra situazione. La seconda è che il nostro obiettivo è mantenere alta l’attenzione mediatica sulla tragedia che si consuma ogni giorno nella nostra terra. Saremmo volute andare in trasmissione con qualcuno dei dottori che collabora con l’associazione. Ma questo non è stato possibile.

Cosa avrebbe voluto aggiungere ieri sera?
Che quel 3% di cui tanto si parla e che si tende a banalizzare come una percentuale piccolissima non è poi così insignificante se si considera che è tutta concentrata tra i comuni a Nord tra Napoli e Caserta.
Che quello per cui ci stiamo battendo non è solo il numero di morti per tumore ma soprattutto il numero dei bambini morti per tumore. Sono due cose differenti. Ieri è stato ripetuto da Loredana Musmeci, dirigente di ricerca all’Istituto Superiore di Sanità, che ci sono altre zone d’Italia come Brescia, Gela, Taranto, nella stessa situazione della terra dei fuochi…Il problema è anche questo: la Campania non è una regione industrializzata. Qui si vive ancora di agricoltura. Com’è possibile che ci si ammali allo stesso modo? I rifiuti tossici sono stati sversati per 30 anni tutti i giorni in queste terre. La camorra ha eseguito ed esegue quello che lo Stato colluso le comanda.

Quale altra questione doveva essere approfondita?
Quella dei roghi. Che invece di diminuire aumentano. Avevano parlato di 800 militari da mandare nelle Terra dei Fuochi. Io non ne ho visto nemmeno uno. Però quello che penso io è che le forze dell’ordine devono essere rafforzate sul posto. E che quei soldi invece potrebbero essere investiti nella prevenzione della salute dei bambini.




Anche ieri sera, durate la trasmissione, si è sottolineato più volte che non è scientificamente provato un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale e le morti per tumore…
Tutti continuano a ripeterlo. Invece di parlare venissero a vedere questo nesso al dipartimento di oncologia del Pausilipon o del Santo Bono di Napoli. Negano l’evidenza. Se non c’è questo nesso allora perché nel corpo della maggior parte dei campani che abitano quei comuni c’è piombo, arsenico, diossina. Dicono che la Campania è la regione più giovane d’Italia. Ma se i vecchi muoiono perché sono vecchi e i giovani ce li continuano ad ammazzare, che saremo una regione deserta? Faranno quello che vogliono con questo territorio.

Che vuol dire?
Che hanno deciso di condannarci a morte. A questo punto almeno ci dessero un giorno stabilito. È peggio svegliarsi ogni mattina con la paura di avere un cancro. Qua è diventata una roulette russa.

Qual è la verità che si tiene sempre nascosta?
Il problema principale è l’evasione fiscale. Se tu prendi e arresti uno che sta sversando rifiuti tossici, non fai altro che toccare l’ultima ruota del carro. Magari un rom o un poveretto senza lavoro che si sta guadagnando la mazzetta. Ma a chi appartengo quelle gomme? E quei pellami? Ecco noi mettiamo i microchip ai cani e non riusciamo a tracciare un camion di rifiuto tossici?

Di cosa ha bisogno questa terra?
Di fondi per tutelare i bambini che la abitano. Di controlli più seri. Di qualcuno che ci venga incontro e capisca la necessità di proteggerli. Se a mio figlio Antonio avessi fatto un esame tossicologico forse avrei potuto prevenire la sua morte. Ma l’hanno ammazzato silenziosamente e omertosamente il mio bambino. Questa è una guerra silenziosa.

Tra chi?
Tra lo Stato e noi poverini che subiamo. Lo Stato li avrebbe dovuti proteggere questi bambini. Invece ha ammazzato i figli delle madri di queste terre. Qua se vai a prenotare una visita per un nodulo sospetto c’è una lista d’attesa di cinque mesi. In cinque mesi il cancro ti uccide. Se sei povero nella Terra dei fuochi muori due volte. Quando mio figlio si è ammalato, l’ho preso e l’ho portato fuori dalla Campania. Qui non fanno neanche una terapia del dolore adeguata.

Anche questo avrebbe voluto dire…
Li fanno morire nel dolore. Un’altra delle nostre bambine l’hanno fatta morire con gli arresti cardiaci. L’altro giorno è arrivata all’ospedale Pausilipon una ragazzina di 12 anni con forti dolori alla pancia. La mamma credeva fossero i dolori mestruali. Invece era un cancro metastatico in una delle tube. Abbiamo delle bombe in corpo.

da http://www.famigliacristiana.it  mercoledì 17 febbraio 2016


ECCO CHI ERA ROBERTO MANCINI, IL POLIZIOTTO EROE CHE SCOPRÌ LA TERRA DEI FUOCHI
15/02/2016 La Rai gli dedica una fiction con Beppe Fiorello, ma Roberto Mancini ha fatto fatica a veder riconosciuto il lavoro che gli è costato la vita.
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Elisa Chiari


Aveva un nome famosissimo Roberto Mancini, ma era la fama di un altro, colpa di un’omonimia che portava altrove alla zazzera al vento dell’allenatore dell’Inter e poi del Manchester City e poi di nuovo dell’Inter. La beffa di un destino sgarbato.
Il Roberto Mancini, di cui parliamo, invece, non lo conosceva nessuno e capelli non ne aveva più, portati via dalle cure per il linfoma non Hodgkin con cui aveva combattuto per anni, dopo averne combattuto la causa: i rifiuti tossici, che oggi tutti ricollegano alla Terra dei fuochi, e che Roberto Mancini, da poliziotto, aveva scoperto prima degli altri, rendendone conto in una informativa che risale al 1996.
Quelle carte però restarono in un limbo (che fece dire a un Mancini demoralizzato: “Se fosse stata presa in considerazione forse non avremmo avuto Gomorra”), finché il Pm Alessandro Milita della Dda di Napoli, anni dopo, non la trovò. Chiamò Roberto Mancini e chiese la trascrizione delle registrazioni contenute in quell’informativa vecchia di parecchi anni, servivano per portare a giudizio una trentina di imputati per reati che vanno dall’associazione mafiosa al disastro ambientale, processo tuttora in corso davanti alla Corte d’Assise di Napoli.
Roberto Mancini a quell’epoca è poliziotto da un pezzo, entrato all’inizio degli anni Ottanta, passando per vari uffici, tra cui la Criminalpol e la Catturandi, con indagini su camorra infiltrazioni dei clan nel Basso Lazio, tra il 1997 e il 2001 Mancini collabora con la Commissione rifiuti della Camera, fa tra missioni e sopralluoghi in Italia e all’estero, si espone ai rifiuti tossici e alle loro esalazioni, e nel 2002 si ammala di linfoma. Nel 2010 Comitato di verifica del Ministero delle Finanze mette nero su bianco che la sua malattia viene da una “causa di servizio”, l’indennizzo, 5.000 euro, è poca cosa.
La richiesta di risarcimento danni che Mancini avanza alla Camera per “malattia professionale” si scontra con la burocrazia: l'attività svolta non ha determinato un rapporto di lavoro con la Camera. La risposta che arriva nel luglio del 2013 non è quella sperata, gli si dice che nel periodo della Commissione Mancini, pur collaborando con la Camera, ha continuato a fare il poliziotto, inquadrato nell’Ispettorato di Polizia presso la Camera, e che sarebbe toccato alla Polizia informare Mancini dei rischi diversi da quelli “tipici e propri delle sue mansioni professionali” e cioè dalla pallottola o dall’esito nefasto di una colluttazione più prevedibili nella vita quotidiana di un agente di Polizia.
Mancini non si arrende e non si arrendono neppure i suoi amici: nel novembre 2013 Fiore Santimone, amico di lunga data di Roberto Mancini, lancia una petizione su Change.org, la raccolta di firme schizza, il 6 marzo del 2014 Roberta Lombardi, con un’interrogazione parlamentare, porta il caso all’attenzione del Ministero dell’Interno. E in aprile il caso diventa una manifestazione pubblica in piazza Montecitorio. Roberto Mancini muore il 30 aprile 2014, le firme raccolte intanto sono 75.000, i promotori della petizione le consegnano alla Camera, che poco dopo invia al Ministero dell'Interno tutta la documentazione relativa alle indagini di Roberto Mancini sui rifiuti tossici.
La Presidente della Camera dà mandato perché parta l’istruttoria sulla vicenda. Nel settembre 2014 a Roberto Mancini viene riconosciuto lo status di “vittima del dovere” che non solo certifica la connessione tra la malattia e il servizio prestato ma riconosce alla sua famiglia il diritto al sostegno previsto dalla legge. Roberto ha infatti lasciato una moglie Monika e una figlia, Alessia, che oggi ha 15 anni. Come ha scritto Monika nel messaggio di ringraziamento alle persone che hanno messo quelle 75.000 firme non ci sono medaglia d’oro al valor civile né risarcimento che possano restituire l’affetto perduto ma: “Il suo importantissimo lavoro sul traffico di rifiuti tossici è servito a molte cose e adesso questo è ufficialmente riconosciuto. E’ giusto che chi ha dato la propria vita per il bene di tutti, venga almeno omaggiato dalle Istituzioni”.

2.10.15

MORTE DEI CAMPI di © Daniela Tuscano

MORTE DEI CAMPI
Come una Nedda cresciuta, o un . Sud verghiano, naturalista e positivista, spietato, di oltre cent'anni fa. Sud dei vinti. Invece siamo nel 2015. E Paola Clemente era italiana. Non un'immigrata. Ma proviamo a sentirla mormorare, mentre s'ammazza letteralmente di fatica in quel deserto di seminagione, "che è quest'Italia?". Sgobbava sette giorni su sette per due euro l'ora, sotto la schiavitù del caporalato. Alla fine è schiattata, ma nelle fotografie, lei, col suo cognome da pontefice (ottocentesco pure quello), riusciva ancora a sorridere. Un sorriso liquido, largamente mansueto sopra un modesto vezzo di perle. Perché la vita è fuori. Deve esserlo. 




Paola voleva sentirsi umana e s'insinuava in feste amicali per restituirsi all'umanità. Quell'angolo d'esistenza, i caporali non erano riusciti a spegnerlo. E lei vi s'aggrappava tenacemente. Appesa a un pensiero, alla gioia della famiglia, come Rosso al ricordo del padre. La femminilità di Paola si sformava avvilita nel sole, ma lei insisteva a sentirsi bella, annotava scrupolosamente sul calendario le "giornate" che le restavano, la miseria largita. Lenta pure la grafia, così grottescamente infantile, ansante, inesorabile. Perché manca poco, ce la posso fare, solo per oggi, poi finalmente la pace.
Ma la pace non è giunta. Il corpo s'è arreso. L'anima forse no. Oggi quegli appunti mai trascurati rappresentano un formidabile atto d'accusa contro i suoi aguzzini. I conti non tornano, a Paola hanno dato ancor meno del nulla che le rifilavano.
E che è, quest'Italia. Nel frattempo divenuta repubblica e, almeno sulla carta, Stato di diritto. Era il paese di Paola e di tante vinte e vinti come lei, sul cui sangue questo diritto è nato. Ma quando soccombe al profitto diventa involucro vuoto, suono inarticolato. La cifra dei nostri anni tecnologici e bestiali. E tuttavia il diritto esiste, l'inesorabilità non è più destino. Il sorriso di Paola, dietro l'aria da povera crista, ne trasmetteva la consapevolezza.
Lo si chiami assassinio, il suo. E lo si punisca con la massima severità.

                                .© Daniela Tuscano

17.8.13

razzismo sempre più diffuso in italia ? anche in sardegna l'onda nera del razzismo si sta diffondendo ?

E'  gia il secondo caso   dopo quello di Alghero di due  \ tre  settimane fa  . A voglia che noi continuiamo a dire che non siamo razzisti .......ma il verme del nord sta contagiando anche noi del sud, paese  fin'ora  ospitale  come dimostra il caso della sicilia  qualche  giorno  fa  dove   i bagnanti hanno aiutato  gli immigrati a  sbarcare  e non ha  usato   motivazioni  in parte vere  e  in parte  ingigantite   del tipo  : << sono   troppi ,  sono invadenti  , non pagano le tasse  , non rilasciano scontrini \  ricevute  , vendono  roba  contraffatta  , ecc  >> 



 avevano ragione i Mcr  in una canzone di qualche tempo  fa  



 unione  sarda   online del Sabato 17 agosto 2013 07:53

"Vattene sporco negro"
Denunciati cinque giovani
UN AMBULANTE SENEGALESE IN SPIAGGIA


Nella spiaggia di Coe Quaddus, a Sant'Antioco, cinque studenti hanno insultato un senegalese che da 20 anni vive nel Sulcis. I ragazzi, tutti cagliaritani, sono stati denunciati.
Hanno minacciato e insultato con frasi a sfondo razziale un ambulante senegalese di 60 anni, ma da
20 residente a Carbonia, e sono stati denunciati dai carabinieri di Sant'Antioco. Si tratta di cinque studenti cagliaritani di età compresa tra i 20 e i 25 anni, che ora devono rispondere di minacce e ingiuria aggravata dalla discriminazione e dall'odio razziale. Secondo la ricostruzione dei carabinieri della compagnia di Carbonia il fatto è avvenuto nei giorni scorsi nella spiaggia di Coe Quaddus, a Sant'Antioco, nella costa sud occidentale della Sardegna: i cinque si sono avvicinati alla bancarella e senza apparente motivo, dopo aver buttato per terra la mercanzia dell'ambulante, l'avrebbero aggredito verbalmente invitandolo in malo modo ad andarsene. In soccorso dell'ambulante sono intervenute alcune persone che hanno fatto allontanare i giovani, che sono stati identificati oggi dai carabinieri.



Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...