Quest'anno ho preferito fare il carnevale dall'interno a differenza degli altri anni che lo guardavo da casa o in giro , oppure se ispirato sfilavo con guppi estemporanei e ad andavo a ballare mascherato o meno, non dico tutta la sei giorni , ma almeno nei tre giorni principali cioè giovedi sabato o domenica e martedi a volte la sera a volte la sera viste le mie condizioni fisiche ( congiuntivite e problemi resiratori allora si poteva fumare dentro i locali ) e cefalea e problemi d'udito ( volume troppo alti e troppa confusione ) .
io con alcuni del gruppo dal gruppo di watsapp
Quest'anno ho lavorato con la classe 76 ( da noi i comitati delle feste sono gli anni di nascita ) per organizzare a settembre sant isidoro la 2 festa dell'estate \ autunno di tempio . Per le regole non scritte fra le classi chi fa la festa grande cioè quella del santo patrono fa una sola cosa ( panini + il pranzo alla cittadinanza e agli artisti ed il loro staff il giorno della festa ) e sant'isidoro un'altra ( dolci e salati + pranzo ai gruppi ospiti ed artisti ) .
.
Ognuno di noi aveva un detterminato compito come si vede dal mio video girato un momento di poca affluenza . il mio ero quello di prendere le ordinazioni dai clienti e portare le fritelle o le bibite al banco oppure se il turno era occupato da altri andare in magazzino e portare gli ingredienti per l'impasto , le bibite , ecc . Mi sono divertito tantissimo .Tali iniziative sono sentissime . Ecco ecco la testimonianza un mio amico trapianto ormai in alta italia ma sempre legato al paese . che per tre giorni ha preso tre giorni di permesso dal lavoro e un aereo ,
Ciao ragazzi.....vado via con più di una lacrimuccia, ma con il cuore ricco di un'esperienza unica!
È un'esperienza che difficilmente riesci a raccontare, perché solo vivendola riesci a percepire quelle emozioni che sono impossibili da trasformare in parole.
Vi ringrazio dal primo all'ultimo...... perché ognuno di voi mi ha dato e lasciato qualcosa!
E vi prometto che farò di tutto per esserci anche in future altre occasioni!
A presto....💙
PS: non sono riuscito a salutare tutti....scusatemi 🙏
e di cui ha riportato un vieo migliore del mio .
io non ci sono perchè ero già andato vià ero con una caviglia dolorante .Un gruppo molto affiatato in quanto in esso c'è riuscito a conciliare il godersi la sei giorni ( sfilando nei carri o andando a ballare ) con il lavoro per la festa e il lavoro quotidiano ed impegni familiari . La giornata d'ieri è stata bellissima perchè oltre ai fidali usciti dalla sfilata , sono venuti ad aiutarci mogli e mariti egli stessi , che magari fanno la festa di sant isidoro o di san paolo l'anno dopo di noi , o l'hanno fatte gli anni passati . Le attività della Classe sono come dice un altra fidale << per me un’esperienza… riscoprirci dopo tanti anni, conoscerci e apprezzare una piacevole sintonia, seppur nel lavoro, ha aggiunto una tessera importante nella mia vita, e penso anche nella vita di ognuno di voi. >> e come lei mi dispiace aver perso l’occasione della festa più importante, cioè quella del 2020 anno del covid ( unica classe a non aver fatto la festa grande ) ma credo che con questa la più piccola, ma altrettanto sentita dal paese , e la grande collaborazione che abbiamo tra noi saremo in grado di ricordare per sempre il nostro anno di nascita. Con grande orgolio siamo , per parafrasare la colonna sonora d'oggi , una grande famiglia che : litiga e fa pace , si prende in giro , si ma si vuole bene in fondo .
Il territorio diLaconiinizia dove l’ultimo tornante della strada statale 128 si apre sul verde. Per chi è originario di quel luogo, per chi vi è nato e da lì è emigrato, quel confine ufficioso segnala il ritorno a casa: è il “canali mraxani”, la valle stretta e lunga delle volpi. In quel paese dell’entroterra sardo, in provincia diOristano, lapopolazionesi è ridotta della metà nell’arco di sessant’anni, fino ad arrivare agli
attuali 1600 residenti. E in altri sessant’anni, se ladecrescitadovesse rimanere costante, come molti altri paesi dellaSardegna, Laconi potrebbe quasi non esistere più. Eppure iprimi segnalidi un’inversione di rotta ci sono: nel centro storico del borgo, tra le mura di un’antica casa con il cortile, dal 2020 esisteTreballu(in sardo “lavoro”), il primo spazio dicoworkinge coliving rurale dell’isola. Che in quasi cinque anni ha innescato uncircolo virtuoso di ritorni, arrivi e scambi culturali. E che ora vuole investire sui giovani del territorio.
LeonardodallaColombia,EvgeniyadallaRussia,Ardeenadall’Australia. Sono tanti inomadi digitaliche negli anni si sono fermati aLaconi,comune al di fuori dei principali circuiti turistici dell’isola – che da sempre è vista soprattutto come una meta di mare – e che non vuole convertirsi al turismo “mordi e fuggi”. “Volevamo avere un impatto reale sulla comunità, innestando nuove storie e nuovi incontri, che durassero nel tempo e che portassero nuova vita nel paese”, spiegaCarlo Coni, fondatore e project manager diTreballu. “Con tutti inomadi digitalisi è creato un rapporto profondo, di amicizia e di connessione con il territorio. E spesso ritornano”.
Come Leonardo: “È un ragazzo colombiano che vive in Canada e lavora per un’azienda del nord degli Stati Uniti. È venuto l’estate scorsa e alla fine è rimasto per due mesi. I primi giorni era molto timido, credevo non si stesse integrando – ricorda Carlo – poi un giorno ha deciso che doveva farci provare il suo mojito”. Carlo in quell’occasione prova a dargli consigli sui negozi del paese, così che Leonardo possa recuperare il necessario: rum bianco, zucchero di canna, menta. Non sa che quel timido ragazzo del nuovo continente conosce bene persino i commercianti del borgo. Li cita per nome, poi dalla tasca estrae un foglietto un po’ stropicciato: “Il signore della bottega locale gli aveva disegnato una mappa per trovare il punto in cui cresce la mentuccia selvatica – racconta Carlo – Abbiamo bevuto quel mojito un po’ fusion, e al brindisi ha promesso che sarebbe tornato: voleva rivedere tutti”.
Del gruppo di Treballu fa parte anche Annalisa Zaccaria, europrogettista e garden designer permacultrice, insieme a tanti altri che supportano e collaborano con lo spazio. “Il progetto è nato anche da un bisogno personale: vogliamo vivere a Laconi, ma anche incontrare persone sempre diverse, che ci ricordino che non siamo unici e che il modo in cui facciamo noi le cose non è necessariamente il migliore – spiega Carlo – E questo scambio di visioni, fondamentale per crescere, vorremmo coinvolgesse sempre di più anche i ragazzi di Laconi e della Sardegna. Per questo guidiamo Giovani Iddocca, un’associazione che si occupa di mobilità giovanile”.
Perché secondo il fondatore di Treballu emigrare è positivo, ma può esserlo anche tornare. “Non credo nella retorica del bloccare lo spopolamento, è giusto che la gente emigri. Ciò che si può fare è offrire prospettive di ritorno, lavorare concretamente perché un luogo come questo non si rassegni né all’estinzione, né all’essere solo una meta turistica o una località nota per le sue tradizioni”. E spiega: “Il folclore, il costume sardo, i balli, sono sì una parte di ciò che siamo, ma non bastano a definire la nostra identità”. Proprio come in una poesia dello scrittore sardo Marcello Fois: “Io ho visto bene me stesso col costume della festa. E mi sono visto come gli altri mi vedevano, non com’ero. Perché adattarsi allo sguardo altrui può diventare una forma di sopravvivenza, ma anche una forma di eutanasia”.
Su queste premesse è nato anche il progetto Ammonte dell’associazione Giovani Iddocca, con il supporto della European Youth Foundation e il patrocinio del Comune di Laconi. Partendo da un processo di progettazione partecipata, l’obiettivo è quello di creare uno “spazio creativo rurale”, un punto di riferimento per la comunità, soprattutto per i giovani, in collaborazione con enti locali, imprese del territorio e associazioni culturali. Un luogo dove tutti possano essere liberi di organizzare workshop, eventi, presentazioni. “Sentiamo che Treballu non è abbastanza. Serve un luogo che sia di tutti. Così uniremo la dimensione internazionale e la dimensione locale”.
Il 7 dicembre per il progetto Ammonte si è tenuto un evento di restituzione e confronto. Molte tra le realtà presenti – Treballu compresa – fanno parte di Nodi, una rete di connessione fondata e coordinata da Federico Esu. Nodi vuole unire il capitale culturale di chi è emigrato e poi tornato, di chi non se n’è mai andato, ma anche di chi si è trasferito in Sardegna per la prima volta: “È importante collaborare, coesistere. Ci si sente meno soli e si cresce insieme – riflette Carlo – Io stesso so cosa significa viaggiare e poi portare le proprie scoperte a casa, un’esperienza che condivido con Esu e con alcuni degli amici che collaborano a Treballu. L’idea stessa di coliving rurale l’ho avuta in un’esperienza di scambio giovanile in Spagna”. Perché il cambiamento non si attua da soli: nasce con l’incontro e si sviluppa con lo scambio.
L’8 dicembre ha soffiato su una torta con cento candeline nella sua casa di via Orsini, a Sanluri, al fianco dell’inseparabile moglie Rosina Muntoni che di anni ne ha 98 e con la quale il 31 dicembre festeggerà 71 anni di matrimonio, traguardo che consegnerà loro il record di coppia più longeva della città. «Ci saremmo sposati anche prima, ma era morta mia madre e bisognava rispettare il lutto», spiega lei assisa sulla poltroncina dalla quale non perde mai di vista quell’ex ragazzo che dal fronte della seconda guerra mondiale le spedì un mucchio di lettere che lei conserva ancora. «Avevo chiesto il permesso a suo padre di poterle scrivere e lui mi disse “Va bene, purché non siano troppe”. Ma io appena potevo le mandavo lettere d’amore molto lunghe. Lei no, era più corta, poche righe e basta».Dunque, tornando alla carriera. «I miei genitori avrebbero voluto che lavorassi in ufficio, per questo dopo la scuola dell’avviamento iniziai all’ufficio catastale del Comune. Dovevo sistemare le carte anche dei paesi del circondario, eravamo in sette. Ma non ero felice e ogni giorno guardavo questo mio collega: aveva avuto un figlio ogni anno, il più grande ne aveva 15, ma non stava mai in famiglia e lo stipendio non bastava per mantenerla. Mi sono detto: chi me lo fa fare? E poi volevo aiutare mio padre che soffriva di asma e faceva fatica a lavorare nei terreni e badare agli animali». Da qui la decisione di mollare tutto. «Il mio capoufficio era molto credente, ogni domenica andava in chiesa per la prima messa. Allora un bel giorno l’ho aspettato fuori e gli ho detto “Da domani non vengo più”. Non ci credeva ma avevo ragione io, lì dentro non mi hanno più visto». La vita però aveva in serbo ancora molte sorprese per Luigi Mocci e il lavoro nei campi ha dovuto aspettare. Prima venne il militare. «Il primo anno l’ho fatto nel nord Sardegna. Una notte eravamo accampati a Serra Secca, a Sassari, ci svegliarono al suono di tromba e il generale annunciò “Oggi nasce la nuova Brigata Sassari”. Dovevamo tenerci pronti per partire». E così fu. Presto arrivarono la traversata da Cagliari a Napoli, il viaggio in treno per Brindisi e poi il fronte tra Bologna e Rimini e la battaglia di Monte Cassino. «Nacque il Corpo di Liberazione e noi eravamo con gli Alleati, facevamo saltare i ponti o i binari dove sarebbero passati i fascisti e i tedeschi». L’incarico Il rischio di finire dietro una scrivania era ancora in agguato. «Il sergente maggiore affidò a ognuno di noi un compito. Io rimasi per ultimo e alla fine mi disse “Tu stai nell’ufficio del generale”. Io gli risposi che non sapevo parlare l’americano, sapevo dire solo “okay”. Eppure ci capimmo». A casa Tornato a Sanluri iniziarono i preparativi per il matrimonio. «Ho trasportato ogni pietra che è stata usata per costruire questa casa. Il 31 dicembre del 1953 vennero celebrate le nozze e dall’amore tra Luigi e Rosina nacquero Brunella, Raffaele, Maria Pina e Annalisa. «In campagna ho faticato parecchio, ma sono sempre stato felice».
Vive senza gas, elettrodomestici e soprattutto in solitudine. È la storia di Anna, ultima abitante del borgho di Mossale Superiore, in provincia di Parma, che per raggiungere il primo centro abitato e
procurarsi da mangiare impiega due ore a piedi. Anna vive nel paese per tutto l'anno, anche durante l'inverno, nonostante i mille metri di altezza. A farle compagnia ci sono solo i gatti, Anna è sola ma non le manca nulla. La donna ha parlato a la Repubblica della sua scelta di vita. Non ha mai voluto abbandonare il luogo in cui è nata: una decisione forse d'altri tempi, senza dubbio romantica e particolare visto che a Mossale oltre a lei stessa non c'è niente e nessuno. Ha superato i 70 anni, ma la sua forza sembra inesauribile.
La vita nel bosco
«Io sono nata qui e sono sempre voluta restare, ma in inverno è dura. In inverno qui non si fa mica niente, bisogna solo farsi il fuoco per scaldarsi. Se mi serve qualcosa, a volte vado a Bosco di Corniglio», ha detto Anna. I suoi spostamenti avvengono esclusivamente a piedi: «Vado piano, sono vecchia, e mi ci vogliono due ore per arrivare. Se però passa qualcuno che mi conosce, allora mi prende su in macchina. C’è l’uomo che porta il pane, ad esempio: magro, alto, dal cuore proprio buono. Lui se mi vede per la strada mi accompagna al bosco. Ogni volta gli dico che vorrei pagargli il disturbo ma mi dice sempre di no, che non vuole nulla. Per fare spesa aspetto un camioncino che arriva da Aulla. Mi porta tutto: pane, pasta, zucchero, frutta e verdura. Ormai non coltivo più l’orto: c’è da tribolare, non ce la faccio. Il tempo non mi manca. Ho bisogno di poco, vivo all’antica».
Niente gas ed elettrodomestici
In casa non ha gas, elettrodomestici e nessun altro tipo di comfort che per tutti può definirsi scontato. Anna vive all'antica: «Avevamo un televisore ma si è rotto e non lo abbiamo mai fatto aggiustare. Vede quel fascio di rami lì a terra? L’ho messo insieme stamattina. Sono pesanti perché sono ancora bagnati ma li ho presi lo stesso tanto poi si asciugano e si adoperano». L'elettricità in casa c'è ma a causa dei temporali non è mai utilizzabile. A quel punto a fare luce sono le candele, le stelle e la luna. Per cucinare utilizza una stufa a legna.
La villeggiatura in estate
Anna ha raccontato come in estate nel borgo di Mossale Superiore ci sia vita, molte persone decidono di trascorrere qualche giorno immersi nella natura, prima di fare rientro in città: «A settembre iniziano ad andare via tutti, chi va a Milano, chi a Varese, chi a Parma. Anche quest’anno, gli ultimi ad andare via sono stati gli inglesi. In estate il paese si riempie e torna vivo, un po’ come quando ero piccola». L'infanzia
Ad Anna viene chiesto quali sono i suoi ricordi d'infanzia a Mossale, quando il borgo era ancora popolato: «Una volta qui avevamo le mucche, veniva il cascinaio a prendere il latte per portarlo giù al caseificio. Da bambina sapevo badare alle mucche e facevamo il formaggio. Non è facile, bisogna essere capaci. Quando ero piccola andavo a scuola a piedi, giù a Mossale inferiore: eravamo un gruppetto di quattro o cinque bambini, partivamo presto al mattino per arrivare in tempo alle lezioni. Dopo scuola, c’era la refezione, ci davano a tutti il pranzo, poi si andava a dottrina. Eravamo liberi, stavamo fuori tutto il giorno: sono ricordi belli. Ma anche se sono rimasta da sola, non mi sento sola: mi perdo nel fare tante cose e tiro avanti. A volte mi dicono di prendere un cane. Ma un cane no, non lo voglio, perché dovrei badarci e non ce la faccio. E poi, proprio sola non sono: vede, loro stanno sempre con me, mi vengono sempre dietro queste due bestioline», dice riferendosi a dei gatti.
Lo so che tali articoli potranno sembrare ovvi e scontati , ma in una regione del sud o centro italia , dopve l'interno si spopola a scapito delle dei grossi centri delle coste o s'emigra tali notizie \ storie sono importanti .
da la nuova sardegna 18\10\2024
La piccola Landhe Yuèstata partorita incasa ed è diventata la 123esima abitante del paese Sui tetti di Semestene ritorna la cicogna dopo 57 anni di attesa Giovedì scorso è nata in casa la piccola Landhe Yu Dal 2010 nel paese solo 4bambini e nessun parto domestico La sindaca: «Ogni nuovo arrivo rappresenta perla comunità un dono prezioso . È la vita che sboccia»
Semestene Si chiama LandheYue già il suono sta per raccontare una storia, che mette insieme la Sardegna con l'oriente più estremo, Cina e Mongolia.Se poi si aggiunge che la bimba è nata inuno dei paesi più piccoli della Sardegna e che lo ha fatto non in una fredda stanza di ospedale, ma fra le mura di casa sua, 57 anni dopo l’ultimo parto domestico nel paese,la storia si fa ancora più in teressante. La piccola è diventata la 123esima abitante di Semestene, piccolissimo comune del Meliogu, il 10 ottobre alle 10 di sera.I genitori sono Antonio Sotgiu, semestenese, e Jean Se-Jing, nata negli Stati Uniti e di origini sino-mongole. Il nome della bimba mette insieme il sardo landhe, ghianda, con un omaggio ai nonni materni
una veduta del piccolo centro del Meilogu
che furono storici cineasti cinesi. A dare la notizia dell'arrivo della piccola Landhe Yu sono stati proprio i due genitori, che hanno affisso sul balcone di casa, nel quartiere di Cantara Jana, un cartello con su scritto semplicemente:“Est nada”. Antonio e Jean si sono conobbero durante un progetto di agroecologia e arte e decisero di vivere nel piccolo paesino, ponendosi fin da subito l’obiettivo del parto in casa.«Lagravidanza di Jean è stata seguita e monitorata dai servizi ospedalieri — spiega il marito, ma durante tutto il periodo abbiamo ricevuto l'’accompagnamento di due ostetriche straordinarie, Viola Usai e Silvia Collu, che da anni lavorano in tutta l'isola per assistere le famiglie di genitori che vogliono far nascere i propri figli in casa. A loro va tutta la nostra riconoscenza». Tra professionisti e neo genitori si è creato subito un legame strettissimo, come racconta Viola Usai: «Ci siamo conosciuti a Oristano, la scorsa primavera. Ho raccontato a loro di me e di come lavoro con le coppie insieme alla mia collega Silvia Collu. Ho spiegato che seguiamo un percorso fatto inizialmente di incontri mensili che poi si fanno più frequenti. Creiamo un rapporto di fiducia reciproca, conosciamo le famiglie e le case dove avvengono i parti. Da quell'incontro Jean e Antonio sono andati via con il desiderio più forte di voler vivere a casa la nascita della loro bimba. Daliè iniziato il percorso con Silvia, fatto di incontri periodico fino all'alba del 10 ottobre, quando mamma Jean e la piccola Landhe Yu hanno iniziato il loro viaggio insieme, seguendo il ritmo delle contrazioni che, come onde, hanno accompagnato dolcemente questa bimba su questa ter ra, avvolte e coccolate dalle braccia, dalle mani, dalle parole e dall'emozione di babbo Antonio fino alle 22, quando èatterrata fra le nostre mani». A gioire con la famiglia è l'intero paese rappresentato dalla sindaca Antonella Buda: «Ogni nuova nascita rappresenta perla comunità undono prezioso. È la vita chesboccia, fonte di speranza e promessa di futuro. Landhe Yu arriva nella nostra piccola comunità a distanza di un anno dall’ultima nascita». Nel piccolo centro del Meilogu, le nasci tesono eventi speciali: «Andando a ritroso, dopo il gioioso evento del 2023, dobbiamo arrivare al 2021 per trovare un nuovo nato, poi il 2015 e infine al 2012. Però oggi con altrettanta gioia salutiamo e diamo il benvenuto alla piccola Landhe Yu. A nome dell'amministrazione comunale e della comunità di Semestene auguro a lei e ai suoi genitori una vita lunga e felice, circondata dall'affetto dei suoi cari». Le reazioni: «Siamo felicissimi, è il simbolo della rinascita»
Un uomo sulla quarantina, in evidente silenzio stampa, intento a fumare una sigaretta sui gradini di casa, alla domanda se avessesaputo della
bella notizia risponde con un lapidario cenno affermativo con il capo . Un'altra signora, evidentemente informata sui fatti, liquida la questione con un ieratico: «Eja, già lo sappiamo!».
Ci pensa, la guida alpina (non autoctona) Marco Corti, che possiede una casa a Semestene e passa diversi periodi dell’anno in
paese, a riaccenderel’entusiasmo: « Finalmente! Siamo contentissimi e speriamo che sia indice che qualcosa sta cambiando. Noi ci
mettiamo del nostro, abbiamo organizzato da poco una tre giorni dedicata alle esplorazioni, e alla visione di documentari sul conspe-
leologi e docenti universitari e in conclusione una cena offerta a base di polenta taragna, c'è stata grande partecipazione. Questo
paese merita tanto». Ed eeffettivamente il paese merita: pulito, accogliente e decorato dai bellissimi murales di Pina Monne, che sve-
lano un'anima vagamente artistica del luogo. Inoltre il piccolo centro è dotato di un’area camper, un anfiteatro e una piscina comunale Quella che non è presente invece, è la linea telefonica e figurarsi quella internet. Mancanze che riportano agli anni in cui era nata in casal’ultima semestenese, esclusa Landhe Yu. E alla guida aplina Marco Corti fa coro l'indispensabile cicerone Enzo Piu, gestore del bar: «Nel paese ultimamente ci sono tanti eventi culturali e non solo, una delle ultime serate di karoke del mio locale ha visto la partecipazione di 120 persone. Inoltre abbiamo ospitato la presentazione del libro di Vindice Lecis “L’Alternos-il romanzo della sarda rivoluzione”».
Il bar, come in tutti i piccoli paesi, è il perno sociale su cui ruota tutta la vitalità del paese: «Semestene si trova in una via di mezzo,adappena 6chilometri dalla 131, dunque riusciamo ad intercettare tutti i ragazzi dei paesi, è fondamentale che in qualche modo ci incontri e nonsi perda la voglia di incontrarsi, punto a far diventare il locale un centrosociale, è l’unico modo. Il paese è stato infatti fortemente colpito dallo spopolamento, e dagli anni '60 a oggi si è passati dai circa 600 abitanti ai poco più
di 120, enon tutti sono residenti, però resistiamo» conclude Enzo Piu.
Ma
N.B scusate ma ho oco tempo per estrapolare il testo dal pdf
sempre sullo stesso tema è la storia riportatami via watsapp dall'amico Emiliano Morrone di san giovanni in fiore piccolo paese della calabria
da Emiliano Morrone
Buongiorno per tutto il giorno. Sul Corriere della Calabria è appena uscita la storia di Leonardo Barberio, chef di San Giovanni in Fiore che ha studiato e lavorato fuori regione, dall'Inghilterra al Trentino, con il desiderio di aprire un ristorante a casa sua. Il suo sogno si è infine realizzato: il giovane ha comprato e ripreso un locale nel centro storico della città silana, nel suggestivo quartiere "Curtigliu". Dopo tanti sacrifici e anni di emigrazione, questo ragazzo è rientrato e ci ha raccontato la sua scelta, i suoi obiettivi. È una storia di volontà, tenacia, passione per il mestiere. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria
la lente di emiliano
«Era il momento di tornare a casa e di mettermi in gioco»
Lo chef Leonardo Barberio: «Per me il ritorno era rimasto un pallino fisso, non avevo mai dubitato delle mie intenzioni né perduto la meta del Sud»
Pubblicato il: 18/10/2024 – 10:25 Emiliano Morrone
«Ero rimasto con soli 1000 euro, avevo speso tutti i risparmi per aprire un ristorante a casa mia, il sogno della vita». Occhi vivi, volto disteso, lo chef Leonardo Barberio, trentaseienne, sorride e si racconta mentre sorseggia un caffè cremoso in un locale à la page di San Giovanni in Fiore, di cui è originario. Da adolescente, Leonardo aveva lavorato in diverse cucine del Crotonese, per guadagnare i soldi necessari allo studio e all’aggiornamento continuo; a conoscere indirizzi, culture e orizzonti della gastronomia; ad acquisire le basi idonee a lanciarsi nella ristorazione in proprio. Sacrifici, consapevolezza, visione. E la «doppia sfida personale»: viaggiare in modo da formarsi bene e poi rientrare nella propria terra per contribuire alla crescita collettiva con una cucina originale di qualità, successo, richiamo. Diplomato all’istituto alberghiero di Soverato, nel 2007 il giovane parte per Coventry, in Inghilterra, insieme al suo amico Cristian, altro sangiovannese. È un’occasione d’oro per impratichirsi, perfezionare la lingua anglosassone, incrementare le entrate e capire le abitudini degli inglesi: ai fornelli, a tavola, nel quotidiano. Nel 2009 Leonardo si iscrive all’Alma, scuola internazionale di Cucina italiana ubicata nel palazzo ducale di Colorno (Parma) e a lungo diretta dal grande Gualtiero Marchesi. Lì il ragazzo impara che ogni piatto si crea, come diceva Marchesi, «partendo dal perché» e comprende l’importanza delle materie prime per il palato e il benessere del cliente. Poi si concentra sugli impasti, tra i fondamenti della cucina, e ne sperimenta regole e segreti, affascinato dalle loro alchimie.
Lo chef Leonardo Barberio
Il percorso
Leonardo completa il percorso all’Alma e, data la reputazione della scuola, subito viene chiamato nell’area del Garda: dalla storica Bardolino all’incantevole Sirmione e oltre. Dopo trova posto a Verona e più avanti in varie località del Trentino-Alto Adige. «Avevo alle spalle – precisa lo chef – 14 stagioni estive e otto invernali: una fatica immane perché gli orari dell’estate erano quasi ininterrotti e dovevi essere efficiente ed efficace ogni giorno. Era il momento di tornare a casa, di costruire il mio futuro a San Giovanni in Fiore, di mettermi in gioco, di portare nella mia comunità tutto il bagaglio personale di saperi, sapori, idee e motivazioni legato alla mia progettualità. Per me il ritorno era rimasto un pallino fisso, non avevo mai dubitato delle mie intenzioni né perduto la meta del Sud». Sentire queste parole fa effetto, soprattutto davanti all’incertezza del presente, allo spopolamento delle aree interne, ai giudizi prevalenti sulla Calabria; in cui, va riconosciuto, in genere si preferisce l’assistenza pubblica all’intraprendenza privata. Nel 2015 Leonardo era rimasto colpito da un ristorantino che affaccia sull’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore, dove aveva cenato con amici. Gli era piaciuta la posizione, l’odore di antico del quartiere “Curtigliu” – a forma di spirale come il Draco magnus et rufus di Gioacchino da Fiore – e delle mura del locale, già oggetto di ristrutturazione. Nel 2019, lo chef avvia la trattativa per comprare l’immobile e la licenza. A febbraio 2020 conclude l’accordo, poi arrivano il Covid e lo stop forzato. Pertanto, con un investimento di circa 100mila euro, il giovane riattrezza la cucina e realizza un forno di sua progettazione per proporre la pizza contemporanea, che, spiega, «si basa su nuovi sistemi di impasto e, per quanto mi riguarda, sulla selezione e lavorazione delle farine». Tuttavia, Leonardo deve attendere il Primo maggio 2021, per iniziare l’attività. «Non c’era data migliore per festeggiare il valore del lavoro», commenta. Era ancora il periodo delle mascherine, dei timori, dei cibi da asporto. «Ma – ricorda il ragazzo – avevo una fila interminabile, all’esterno, per la leggerezza, la fragranza, la digeribilità e la bontà della mia pizza».
La valorizzazione del territorio
Da allora, lo chef – anche grazie al laboratorio ricavato di fronte al suo ristorante – crea abbinamenti con prodotti del territorio, punta sul biologico, prepara tortellini, tortelloni, ravioli e raviolacci ripieni di selvaggina, carne di struzzo, ricotta di capra e porcini, funghi disidratati e
fermentati. Ancora, Leonardo inventa particolari farciture delle pizze, prosegue la ricerca sugli impasti, parte spesso per frequentare corsi specifici e ha pronto il «”forno verde” con gli ortaggi della zona, coltivati secondo la tradizione contadina del luogo». Il suo piatto forte è però «il padellino», ispirato dai consigli della nonna Barbara, che gli aveva descritto una pietanza tipica degli abitanti di Lorica, in cui l’anziana viveva in mezzo alla natura. «L’ho ricreata – chiarisce lo chef – impastando farine di ceci e grano, tassativamente biologiche. La cottura avviene poi al vapore, all’interno di un tegamino. È un lievitato alternativo che condisco intanto con porcini, culatta di suino nero, scaglie di tartufo, una mousse di pecorino e una riduzione di basilico. Ho battezzato le sue versioni principali con i nomi “Da dove veniamo” e “Ricordo di infanzia”, per ribadire che il futuro dipende dal passato».
Emigrazione, volontà, ingegno, carisma
Pieno di stupore per la propria terra, Leonardo è aiutato da alcuni giovani, tra cui Desirée, ragazza salernitana innamorata della Sila; Luigi, cantautore ed ex cameraman della tv nazionale; Alessandro, che in località Serrisi si dedica, nel tempo libero, all’agricoltura di nicchia privilegiando la patata a pasta viola. Il gruppo è affiatato «e – sottolinea lo chef – partecipe degli sforzi incessanti per elevare la qualità del servizio, l’unico obiettivo di chi crede che il lavoro renda liberi». Leonardo ha una biografia di emigrazione, volontà, ingegno, carisma. Di amore per le radici. A San Giovanni in Fiore e dintorni è un periodo felice nel campo della ristorazione. Lo chef Antonio Biafora ha confermato la stella Michelin e ottenuto quella verde per l’impegno nella sostenibilità ambientale. Studio, cura dei dettagli, coraggio e determinazione si stanno imponendo in questo settore. Oggi esiste una marcata consapevolezza delle potenzialità turistiche e ricettive della Sila, favorita dalla competizione costruttiva tra giovani professionisti, che si stimano a vicenda e collaborano fra di loro. Vincenzo Ammirati, per esempio, è un pizzaiolo che si è fatto notare al Festival di Sanremo e Federica Greco, di cui avevamo scritto (leggi qui), è un’apprezzata pasticciera nel panorama italiano. Sono ragazzi che sognano lo sviluppo sostenibile del territorio, che lavorano per questa causa. Senza rumore, senza paura, senza complessi di inferiorità. (redazione@corrierecal.it)
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Buongiorno per tutto il giorno. Oggi su LA LENTE parliamo di giovani rientrati in Calabria dal Centro-Nord, di restanza, di promozione del patrimonio di natura e cultura della regione. Lo facciamo raccontando una bella iniziativa promossa a San Giovanni in Fiore dal gruppo "I spontanei". E chiediamo alla politica di ascoltare le istanze dei ragazzi che lavorano per mostrare una Calabria diversa. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria. Grazie per l'attenzione e cordiali saluti. Emiliano Morrone
«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere
Una serata organizzata da “I spontanei” a San Giovanni in Fiore ricca di spunti di riflessioni e belle storie di Calabria
Pubblicato il: 11/10/2024 – 6:38
di Emiliano Morrone
«Mamma Calabria» è il titolo di un libro di Alessandro Frontera e Danilo Verta appena discusso in profondità nella biblioteca comunale diSan Giovanni in Fiore, soprattutto grazie alle domande stimolanti della giornalista Maria Teresa Cortese. Già residente a Milano, Alessandro, l’autore del testo, è una guida ambientale escursionistica, un influencer rientrato in Calabria per promuovere natura, cultura e tradizioni della regione: dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino alla Sila, dalle Serre vibonesi all’Aspromonte.
L’appuntamento è stato promosso dall’associazione “I spontanei”, che da qualche anno propone incontri e dibattiti sull’esigenza di ridurre l’emigrazione giovanile, di creare impresa, lavoro e progresso partendo dai punti di forza e debolezza dell’area silana: suggestiva ma in parte isolata e sconnessa, bucolica ma ancora periferica, ispiratrice di slanci creativi ma in un contesto socioculturale alquanto condizionato da invidia, rassegnazione, attendismo, doppiezze, mancanza di coraggio. La Sila ha una storia di peso – dalle utopie di Gioacchino da Fiore alla Riforma agraria del ’47, dalla vecchia emigrazione operaia a quella intellettuale del presente –, oggi più che mai minata dal capitalismo dell’era digitale, che cancella le identità locali, uniforma storie, usanze e posizioni, struttura e impone il mercato assoluto delle merci. «Mamma Calabria» è anche il motivo comune degli interventi di quattro giovani che, durante la presentazione del volume di Frontera, hanno raccontato le loro storie di restanza oppure di rientro dal Centro-Nord nel periodo drammatico della pandemia. La mamma è per statuto naturale riferimento e rifugio, richiamo e modello; è la figura che, anche nella dimensione simbolica, alimenta, cura, compatisce; è il genitore che induce all’esperienza fuori dallo spazio domestico e intuisce i problemi, i bisogni della prole.
Così, la metafora «mamma Calabria» è valsa a inquadrare, a chiarire il legame di ciascuno degli intervenuti con i luoghi delle origini: forte, continuo, vitale; capace di riaccendere la luce della speranza in un clima oltremodo tormentato, di riaprire il campo delle possibilità, di sostituire le illusioni con le motivazioni personali. Si tratta di quattro ragazzi che provengono da esperienze diverse ma affini: Anna Stefanizzi ha inventato il Cammino dei monaci florensi; come “Esperiandanti”, Luigi Candalise mostra su prenotazione i posti della Sila, in bici, a piedi, a cavallo; Ivan Ariella organizza festival d’arte e richiamo; Maria Costanza Barberio porta, con il collettivo “Fiori florensi”, la ludopedagogia nelle piazze e nelle istituzioni, fra bambini e rispettive famiglie. Questi giovani hanno più di 30 anni e meno di 40, indole ambientalista, una dote d’idealismo proveniente dal loro vissuto nel mondo analogico, una robusta volontà di ritagliarsi spazi autonomi in Calabria, intanto professionali e sociali. Sono giovani che parlano un linguaggio poetico fuori del tempo; che leggono romanzi intramontabili, diari di viaggio e saggi sulla conservazione della memoria; che con video, post e immagini evocative sanno comunicare le loro attività e trasmettere emozioni, divulgare buone pratiche ed esempi positivi. E sono giovani che, come accade altrove nel pianeta, rivendicano le ragioni della propria terra, cercano di collegare la tipicità locale con l’universalità umana, chiedono ascolto alla politica e impegno per la sostenibilità, l’eguaglianza, i diritti irrinunciabili. «Facciamo politica con il gioco, abituando i bimbi alla libertà di espressione e di giudizio», ha detto Maria Costanza. «La Calabria ha tre Parchi nazionali e uno regionale, noi dobbiamo credere nelle nostre radici, nelle nostre potenzialità», ha osservato Luigi, che ha aggiunto: «Da fuori iniziano a guardarci con altri occhi». Ciò perché diversi giovani calabresi hanno espresso talento e capacità; perché da un pezzo la narrazione dominante, ferma al tragico, a lamenti e semplificazioni di comodo, è contrastata da racconti di vicende edificanti, che iniziano a piacere, a diffondersi, a generare interesse, apprezzamento, consenso. «Per restare in questa terra, ognuno deve fare un cammino dentro di sé», ha osservato Luigi, che ha sottolineato: «Il 30 per cento della biodiversità europea è nelle nostre montagne. Se devo fare dei sacrifici, preferisco farli a casa mia». «Siamo quello che camminiamo», ha chiosato Anna. Stefano “Intour” Straface – che a Torino insegnava nella scuola pubblica e ha scelto di rientrare per promuovere via social eventi e prodotti calabresi – ha infine posto l’accento sulla «necessità che gli imprenditori siano formati per capire quanto valga l’impatto nel web, quanto esso sia utile a lavorare in tutti i mesi dell’anno e non soltanto d’estate o nelle vacanze di Natale». È un altro tema che merita ampia riflessione nelle sedi della politica, in parte assente rispetto alle istanze di giovani che lavorano con la cultura, l’arte e gli strumenti tecnologici.
Nelle parole di questi ragazzi c’è molto da cogliere e raccogliere, ma il punto è che la politica, non tutta, non ne comprende la complessità, la finalità, l’utilità. Però, ha obiettato il fotografo e regista Emilio Arnone, instancabile sperimentatore di linguaggi artistici d’avanguardia, «bisogna smetterla con impostazioni sfacciatamente celebrative, serve equilibrio e uno sguardo d’insieme». È sempre l’autenticità, secondo l’intellettuale, che fa la differenza. Insomma, ovunque ci sono storie illuminanti, quindi bisogna stare attenti a non cedere, come capita sui social, a lusinghe facili, «all’apologetica d’ufficio» di certa pubblicistica. Diventa difficile costruire reti di collaborazione, se non ci sono basi e contenuti comuni, hanno concluso Alessandro, Anna, Luigi, Ivan e Maria Costanza. E spetta alla politica, che dovrebbe affinare lo sguardo e ampliare gli orizzonti, favorire il compito e la collaborazione dei ragazzi che raccontano l’altra Calabria, quella della bellezza, delle tradizioni, del grande patrimonio culturale e ambientale. (redazione@corrierecal.it)