La realizzazione della nuova tratta ferroviaria Messina-Palermo è la storia di centinaia di miliardi finiti nelle mani delle imprese mafiose siciliane, ma è anche la storia di una serie di stragi, omicidi, lupare bianche che hanno insanguinato negli anni ’80 e ’90 i comuni di Barcellona, Terme Vigliatore e Milazzo. Una cruenta guerra tra le cosche per accaparrarsi subappalti e commesse, combattuta tra le complicità e le contiguità di ampi settori delle istituzioni dello Stato. Fiumi di denaro e di sangue che hanno rafforzato una delle più violente e moderne organizzazioni criminali d’Italia, la ‘famiglia’ di Barcellona Pozzo di Gotto.","strage di stato - strage di mafia
Cronaca di una strage annunciata
Sabato 20 luglio 2002. Ore diciotto e cinquantasei. L’Espresso ‘Freccia della Laguna’ proveniente da Palermo e diretto a Venezia transita dalla stazione di Rometta Marea. Improvvisamente il locomotore esce dalle rotaie, compie un giro di 180 gradi e urta violentemente le strutture laterali del ponticello sul sottostante torrente Formica. Il resto del convoglio si stacca dalla motrice e dopo alcuni istanti va a schiantarsi sul casello ferroviario. Il boato è enorme. L’edificio, disabitato, viene sventrato in due parti. Le ultime carrozze proseguono la loro corsa per inerzia; finalmente si fermano sui binari. Una delle due rotaie si è deformata parzialmente bloccando il moto delle vetture (
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Urla di terrore ed agghiaccianti gemiti di dolore si alzano dalle carrozze accartocciatesi. I primi passeggeri si fanno spazio tra le lamiere, qualcuno si getta dai finestrini sfidando il burrone antistante. Lo scenario è apocalittico: maschere di sangue, corpi lacerati, arti a brandelli. I soccorritori fanno il primo bilancio della tragedia. Un bollettino di guerra. Otto i morti: uno dei due macchinisti, un anziano pensionato, un impiegato comunale, una giovane emigrata in Germania e quattro cittadini marocchini, due uomini e due donne. Quarantasette i feriti, alcuni gravissimi, e più di un centinaio di passeggeri illesi, che avranno per sempre scolpite nell’anima, le immagini di morte di quella terribile sera d’estate siciliana.
Sessantatré giorni dopo il disastro ferroviario di Rometta, la Procura della Repubblica di Messina ha emesso otto informazioni di garanzia. I reati ipotizzati sono gravissimi: si va dal disastro ferroviario all’omicidio e alle lesioni colpose aggravate. Secondo i consulenti nominati dalla pubblica accusa, la causa del disastro sarebbe da ricercare nel giunto provvisorio sistemato sul binario sul quale non sarebbero state compiute le dovute verifiche. Quel giunto, su cui per fatalità si era bloccata la corsa della carrozza di coda, sarebbe stato “sostenuto da due e non da quattro morsetti come richiesto dalle norme di sicurezza”, secondo quanto indicato dal prof. Giorgio Diana, direttore del Dipartimento di meccanica del Politecnico di Milano, perito nominato dalla Procura.
Era stato lo stesso prof. Diana, dopo un primo sopralluogo alla stazione di Rometta a dichiarare: “Un giunto staffato, maldestramente applicato, ha causato la tragedia. Esso non è stato fissato a regola d’arte”. Nella perizia si accennerebbe a particolari “problemi nello scartamento”, cioè nella distanza tra le due rotaie, che nel punto dell’incidente non corrisponderebbe ai parametri previsti dalle norme vigenti. Eppure su quella tratta ferroviaria erano stati eseguiti da poco, i lavori di manutenzione e risanamento dei binari. “Manutenzione compiuta con i piedi”, hanno commentato a caldo gli investigatori. Una manutenzione comunque sospetta e tormentata: secondo alcune indiscrezioni stampa, i lavori erano stati considerati conclusi dai dirigenti della RFI (Rete Ferroviaria Italiana), quaranta giorni prima, ma nella realtà erano ancora in corso al momento della strage per “gli ultimi ritocchi” (
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Un incidente dettato dall’incuria, dal pressappochismo, dalla logica del profitto che sacrifica diritti e sicurezza, l’ennesima tragedia di una cultura neoliberista che punta alla completa privatizzazione del sistema ferroviario italiano e allo smantellamento della rete nel Mezzogiorno. Tragedia per versi simile alle stragi che hanno insanguinato la Gran Bretagna dopo la controriforma ‘tacheriana’ che ha regalato a banche e faccendieri l’intero sistema di trasporto ferroviario, e che oggi, sotto la pressione del tracollo finanziario, ritorna nelle mani dello Stato. Tragedia, quella siciliana, che poteva benissimo essere evitata se solo si fosse dato ascolto a chi aveva segnalato le tante “anomalie” sui binari della Messina-Palermo, primo fra tutti l’altro macchinista della ‘Freccia della Laguna’, sopravvissuto al deragliamento, che nei giorni precedenti aveva notificato alle Ferrovie l’incompletezza dei lavori di manutenzione. Una strage che si sarebbe potuta ripetere, se nel mese di agosto alcuni automobilisti non avessero denunciato ai Carabinieri, la mancanza di altri bulloni sulle staffe delle rotaie della tratta Milazzo-Messina, cinque chilometri ad ovest dalla stazione di Rometta Marea, tra la strada di San Pier Marina e il ponte Niceto (
[3]).
Una nuova, ennesima, terribile strage di Stato, in cui come sempre non mancano i misteri, le presenze inquietanti, i tentativi di inquinare le prove e depistare le indagini. Sarebbe emerso ad esempio che, subito dopo il deragliamento, mentre i primi soccorritori portavano aiuto ai sopravvissuti, qualcuno aveva cercato di rimettere a posto il giunto difettoso. Inspiegabilmente le forze dell’ordine non avevano transennato la zona per limitare l’accesso ai soli addetti ai soccorsi. Estranei, curiosi e finanche borseggiatori-sciacalli avevano libero movimento tra le lamiere e i binari (
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Chi, perché, per conto di chi, aveva interesse a depistare da subito le indagini? E’ uno dei quesiti a cui i magistrati dovranno dare una risposta. Le possibili cause dell’incidente e le presunte responsabilità di chi era stato chiamato alla manutenzione dei binari è solo uno dei capitoli dell’inchiesta della Procura di Messina. Dietro la strage di Rometta Marea, infatti, ci sarebbe anche una nuova storia di corruzioni e collusioni, di appalti e tangenti, sorta all’ombra delle grandi commesse delle ferrovie italiane (
[5]). Una storia che in Sicilia non poteva non avere la sua appendice di piccoli-grandi interessi della criminalità organizzata. Strage di Stato, ma anche Strage di Mafia, l’hanno opportunamente definita i coraggiosi giornalisti de La città di Barcellona e dell’agenzia IMG Press di Messina. Una storia di cui necessariamente deve esserne descritto il contesto. Perché in Sicilia “si è consumata la solita storia di mafia e appalti, di negligenze e collusioni, di omertà e di inutili proteste” (
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I lavori alle ferrovie siciliane sono Cosa nostra
Sei destinatari dei provvedimenti dei magistrati che indagano sulla tragedia della ‘Freccia della Laguna’ sono dipendenti di Rfi (Rete Ferroviaria Italiana), una delle mille aziende sorte dal processo di smembramento e privatizzazione delle ex Ferrovie dello Stato. Si tratta di Carmelo D’Arrigo, operaio specializzato del tronco di Milazzo, Salvatore Piccolo, operaio tecnico dello stesso tronco, Roberto Giannetto, ispettore aggiunto dell’Ufficio territoriale di Catania e direttore dei lavori, Filippo Bardaro, capo settore tecnico che avrebbe dovuto controllare e collaudare i giunti, Antonino Conti Nibali, responsabile della struttura organizzativa della Unità territoriale di Catania, Salvatore Scaffidi, capo tecnico sovrintendente della tratta Rometta-Marea. A loro spettava il monitoraggio e la valutazione dei lavori di adeguamento dei binari ferroviari.
Ci sono poi altri due indagati, Oscar Esposito, amministratore unico del consorzio d’imprese che si è aggiudicato l’appalto dei lavori di manutenzione e soprattutto, direttore dei lavori della Esposito S.p.A. di Caserta, società capofila; ed il geometra Michele Pagliaro, responsabile per conto della ditta Esposito del cantiere di risanamento. Due milioni e quattrocento mila euro è il valore della commessa affidata dalla Rfi al consorzio d’imprese. Un consorzio campano-siculo, dove oltre alla Esposito S.p.A., compaiono due piccole aziende di Palermo e la Lavorfer di Corleone, società il cui amministratore è tale Stefano Alfano nipote del più famoso Michelangelo Alfano, considerato uno dei maggiori esponenti della mafia siciliana, per decenni incontrastato signore degli appalti delle pulizie delle vetture delle Ferrovie dello Stato nell’isola.
Quando nel gennaio del 2000 il Tribunale di Messina aveva emesso il provvedimento di sequestro dei beni dell’imprenditore originario di Bagheria, non aveva tenuto conto della segnalazione della Questura che riteneva nell’orbita di Michelangelo Alfano anche le tre società intestate al nipote Stefano ([7]). Tra esse appunto la Lavorfer di Corleone, ditta che due anni più tardi sarebbe entrata nel consorzio per la manutenzione di un tronco della linea ferroviaria Messina-Palermo. Una ‘leggerezza’ imperdonabile, considerando poi il fatto che nel marzo 2002, la Divisione anticrimine della Questura di Messina, avrebbe accertato ancora una volta gli inscindibili legami societari tra Michelangelo Alfano e il nipote Stefano, ponendo sotto sequestro altre due aziende con sede a Bagheria formalmente sotto la titolarità di quest’ultimo, la Megabound S.r.l., operante nel settore della telefonia, ed una ditta individuale immobiliare ([8]). a Mafia, pertanto, avrebbe messo le mani nell’affare risanamento dei binari siciliani. E ancora una volta a fare da ‘ambasciatore’ col mondo delle ferrovie italiane, l’imprenditore Michelangelo Alfano, già presidente del Messina calcio, condannato per associazione mafiosa nel maxiprocesso di Palermo contro le maggiori cosche di Cosa nostra. Il suo incontrastato monopolio nella gestione degli appalti di pulizia delle carrozze ferroviarie in Sicilia si è realizzato nonostante fossero stati accertati processualmente i suoi legami di amicizia e di affari con il boss messinese Domenico Cavò, poi assassinato, braccio destro dello storico padrino Gaetano Costa. Proprio Alfano avrebbe nominato il Cavò referente delle cosche palermitane a Messina. Nel passato dell’imprenditore di Bagheria c’erano poi altri particolari inquietanti: un mandato di cattura per favoreggiamento personale del ricercato Antonino Scaduto emesso il 18 febbraio 1974, e la storia di un’auto posseduta da Michelangelo Alfano, una grossa Bmw, notata a S. Cipriano d’Aversa nel 1981 sotto l’abitazione del latitante Antonio Bardellino, all’epoca uno dei capi camorristi della ‘Nuova Famiglia’, vicino al vecchio boss del barcellonese Pino Chiofalo ([9]).
Latitante dal 1984 al 1987 a seguito di un nuovo mandato di cattura emesso dai Giudici Istruttori di Palermo, Michelangelo Alfano ricompare pubblicamente dopo la sopravvenuta revoca del provvedimento restrittivo. La sua società continua ad ottenere l’affidamento da parte delle FF.SS. nonostante il racconto fatto alla Commissione parlamentare antimafia dal grande pentito di mafia Antonio Calderone sui baci scambiati con “i mafiosi della famiglia Alfano che avevano in appalto la pulizia dei vagoni delle ferrovie” durante le loro visite a Catania ed il rinvio a giudizio con l’accusa di essere il mandante del tentato omicidio delgiornalista sportivo Mino Licordari, avvenuto a Messina il 20 giugno 1987.
A non turbare le coscienze dei massimi dirigenti siciliani delle FF.SS. neppure la clamorosa condanna a 4 anni (pena condonata), da parte del tribunale di Palermo al ‘processo maxiquater’, quello sul filone siciliano della cosiddetta Pizza Connection, i traffici di droga di Cosa nostra con gli Stati Uniti, intrecciatisi con la vicenda del falso rapimento del finanziere di Patti Michele Sindona, la torbida messinscena realizzata dalla massoneria della Camea e da alcuni affiliati alla vecchia mafia siciliana. Accanto al reo Michelangelo Alfano i personaggi più noti della criminalità organizzata: i figli di Gaetano Badalamenti, Leonardo e Vito; i due Giuseppe Greco omonimi figli dei padrini di Ciaculli Michele e Salvatore Greco; i boss napoletani Ciro Mazzarella, Angelo Nuvoletta e Salvatore Zaza, tutti notoriamente alleati dello scomparso Antonio Bardellino; i mafiosi Giuseppe ‘Piddu’ Madonia, Salvatore Scaduto e Salvatore Greco fratello del capomandamento di Bagheria Leonardo; l’imprenditore palermitano Salvatore Sbeglia, uomo d’onore della famiglia della Noce, finito poi sotto accusa per la strage di Capaci, ma alla fine assolto ([10]).
Per i magistrati siciliani, la forza politico-imprenditoriale di Michelangelo Alfano, deriva dalla sua qualità di vero e proprio ambasciatore degli interessi di Leonardo Greco, rappresentante storico della ‘famiglia’ di Bagheria, da sempre inserita nei grandi appalti pubblici e dell’edilizia privata dell’isola. Al boss Leonardo Greco ha fatto riferimento la società SICIS dei fratelli Bruno, anch’essi di Bagheria, che proprio a Messina ha edificato il complesso cooperativo Casa Nostra di Tremonti e il Complesso Peloritano a San Giovannello, entrambi al centro di importanti inchieste giudiziarie, compresa quella sul ‘buco’ del Banco di Sicilia con cui la SICIS di Bagheria risulterebbe esposta per svariati miliardi. Michelangelo Alfano sarebbe stato “il referente a Messina di Leonardo Greco” e ne avrebbe “curato dal 1979 gli interessi insieme con Domenico Cavò e quindi con Luigi Sparacio, nella realizzazione del complesso edilizio Casa Nostra di Tremonti”. “Per il complesso edilizio di Tremonti” secondo l’ex padrino Gaetano Costa, oggi collaboratore di giustizia “erano direttamente interessati Leoluca Bagarella, Luciano Liggio, Mariano Agate, Totò Riina, Leonardo Greco ed altri esponenti di Cosa Nostra, e vi sovrintendeva materialmente a Messina Tommaso Cannella sotto la supervisione di Michelangelo Alfano” ([11]).
Alfano però non è solo l’imprenditore delle ferrovie che fa da garante degli investimenti dei maggiori boss criminali. E’ anche l’uomo che sa muoversi bene nel mondo della politica siciliana e che sa tessere i necessari contatti con giudici e magistrati inquirenti. Per aggiustare processi, rivedere sentenze, depistare le inchieste e delegittimare collaboratori di giustizia e testimoni. Michelangelo Alfano è oggi uno dei principali imputati del cosiddetto processo ‘Witness’ in svolgimento a Catania, sulla ‘presunta’ attività di destabilizzazione giudiziaria attraverso il condizionamento di alcuni pentiti siciliani. Secondo l’accusa, l’imprenditore di Bagheria, in concorso con altre quattro persone, avrebbe indotto, con minacce e consegna di denaro, alcuni pentiti a rendere dichiarazioni false su delicate indagini anche grazie l’accondiscendenza di importanti magistrati, come l’ex PM della Direzione nazionale antimafia Giovanni Lembo e l’ex capo ufficio Gi del Tribunale di Messina Marcello Mondello. Insieme ad Alfano, a fare da collegamento tra mafia e magistratura, l’anziano boss di Villafranca Tirrena don Santo Sfameni, massone coperto ed imprenditore edile vicino a delicati settori istituzionali, amministratori della giustizia, ufficiali dei carabinieri Il procedimento ha avuto origine dagli esposti dell’avvocato messinese Ugo Colonna, legale di alcuni importanti collaboratori di giustizia, che aveva raccolto una serie di gravi anomalie nella gestione da parte del giudice Lembo del ‘pentito’ Luigi Sparacio, per anni incontrastato boss delle cosche messinesi, notoriamente legato a Michelangelo Alfano. Sparacio avrebbe goduto di un trattamento di favore particolare: libertà di movimento e di gestione dei suoi affari criminali, residenza protetta in una bella villa e la restituzione del patrimonio sequestrato, valore venti miliardi. In cambio, il falso pentito avrebbe esercitato pesanti pressioni su altri collaboratori di giustizia per ‘adeguare’ le loro dichiarazioni alle sue, badando a tenere fuori dalle indagini, la vera e propria cupola politico-imprenditoriale-mafiosa di Messina (Alfano, Sfameni, ecc.) e i loro maggiori protettori istituzionali ([12]).
La calata nel messinese dei Cavalieri dell’apocalisse mafiosa
“… nell’ambito del processo ‘Mare Nostrum’ è in corso l’accertamento che riguarda la gestione delle estorsioni finalizzate al controllo degli appalti e subappalti relativi al raddoppio della ferrovia nel tratto che va da Messina a Patti. Su questo rilevante “business criminale” si sviluppò un acuto conflitto tra due gruppi mafiosi…” ([13]).
Estate del 1992. Alla presenza del potente senatore democristiano Carmelo Santalco, già sindaco di Barcellona e sottosegretario di Stato ai Trasporti, vengono inaugurate la nuova tratta ferroviaria Milazzo-Barcellona e le due nuove stazioni delle città, che per la loro distanza dai centri abitati si riveleranno presto inutili e sovradimensionate. La tratta Milazzo-Barcellona fa parte del grande progetto di raddoppio dei binari della ferrovia Messina-Palermo, lenta ed obsoleta. Negli anni in cui i vertici delle FF.SS. lanciano il devastante programma dell’Alta Velocità, grande affare per le imprese di costruzioni e della classe politica di Tangentopoli, in Sicilia si viaggia a 40 chilometri all’ora. L’unica concessione ai passeggeri isolani è il raddoppio della linea compresa tra San Filippo del Mela–Terme Vigliatore–Patti e lo sventramento, senza un preventivo studio di impatto ambientale e l’adeguamento ai parametri europei in tema di sicurezza, delle colline dei Peloritani, per realizzare una lunga galleria tra Villafranca-Rometta e la stazione di Messina Centrale. Un progetto per oltre 1.800 miliardi di vecchie lire che viene affidato nel 1981 ad un raggruppamento d’imprese che vede capofila la Fratelli Costanzo di Catania, associate l’Ira Costruzioni del cavaliere Gaetano Graci, la Rizzani de Eccher di Udine, la Bontempo di Napoli ([14]).Le società catanesi sono presenti da tempo nella provincia di Messina, dove hanno concorso alla realizzazione di alcune tratte della mai completata Autostrada Messina-Palermo; nel capoluogo l’impresa Costanzo ha vinto l’appalto di 130 miliardi per le infrastrutture universitarie al Papardo, mentre l’Ira del cavaliere Graci ha ottenuto il primo lotto per il riammodernamento dello stadio di calcio ‘Giovanni Celeste’. In realtà ci si trova di fronte a due importanti società di costruzioni i cui titolari hanno conquistato la notorietà perché protagonisti delle maggiori inchieste sulle relazioni imprenditoria-mafia.
Il cavaliere Graci ha ottenuto il primo lotto per il riammodernamento dello stadio di calcio ‘Giovanni Celeste’. In realtà ci si trova di fronte a due importanti società di costruzioni i cui titolari hanno conquistato la notorietà perché protagonisti delle maggiori inchieste sulle relazioni imprenditoria-mafia.
I costruttori Giuseppe e Vincenzo Costanzo sono stati bollati di ‘contiguità’ con i boss etnei Nitto Santapaola, Antonino Calderone e Giuseppe Ferrera. “L’amicizia ed i rapporti con i Costanzo – ha raccontato il primo dei grandi collaboratori di giustizia catanesi, Antonino Calderone – li avevamo ereditati da mio zio Luigi Saitta, uno dei primi mafiosi di Catania, che li proteggeva sin dall’inizio della loro storia” ([15]). La loro azienda era solita servirsi dell’impresa di autotrasporti Avimec, di pertinenza di Giuseppe Ercolano, cognato di Santapaola; nella provincia di Trapani, invece, i fratelli Costanzo hanno potuto contare sui mezzi in mano ai boss Antonino e Salvatore Minore, anch’essi conosciuti grazie all’intermediazione di don Luigi Saitta. Non sono mancati poi i legami d’affare con affiliati alle famiglie palermitane di Cosa nostra, come Antonino Pipitone e Tommaso Cannella, quest’ultimo capomafia di Prizzi e vicino ai corleonesi ([16]).
I Costanzo, infine, avevano alle proprie dipendenze il mafioso mistrettese Pietro Rampulla, oggi all’ergastolo per essere stato l’artificiere della strage di Capaci, rappresentante di Nitto Santapaola nel mandamento di Caltagirone accanto al boss Francesco la Rocca. “Figlio di Rampulla Vito, noto mafioso e fratello di Sebastiano – si legge in un rapporto della Direzione Investigativa Antimafia del 1994 - Pietro ben presto si affiancò ai più noti mafiosi di Caltagirone, occupandosi ufficialmente di coltivazione di terreni ed allevamento di bestiame ma percependo, inoltre, compensi da imprese di costruzioni, fra cui quella dei noti fratelli Costanzo di Catania, per la guardiania dei cantieri edili (…). Oltre che mafioso il Rampulla vanta pregiudizi di natura politica. Nel corso degli studi presso l’Università di Messina collezionò una serie di denunce per occupazione di facoltà ed episodi di violenza nell’ambito di contestazioni studentesche sfociate in disordini e scontri con le Forze dell’Ordine. A tale periodo risale infatti la sua adesione ad Ordine Nuovo e la sua conoscenza con il barcellonese Cattafi Rosario, unitamente al quale fu denunciato e successivamente condannato per lesioni” ([17]). Un personaggio al centro degli intrecci criminalità organizzata-imprenditoria-neofascismo, Pietro Rampulla, che entra a pieno titolo nella stagione delle stragi e dell’attacco ai poteri dello Stato, scatenato da Cosa nostra nel 1992 ([18]).
E’ grazie alla “protezione” di importanti esponenti di Cosa nostra che gli imprenditori Costanzo ottengono vantaggi non indifferenti, il più importante dei quali è il cosiddetto “visto d’ingresso” per lavorare tranquillamente nelle zone della Sicilia (in particolare le province di Palermo e Trapani) tradizionalmente controllate da Cosa nostra. Protezioni ingombranti, che i fratelli Costanzo hanno ammesso pur sostenendo di esserne stati ‘vittima’, quasi una scelta “obbligata” per lavorare in tranquillità e non subire il peso estorsivo e ricattatorio della criminalità organizzata. “Non si è trattato di un compromesso “necessitato” – ha scritto tuttavia la Procura generale della Repubblica di Catania - bensì attuazione di una scelta consapevole e libera in vista dell’espansione dell’attività produttiva dell’azienda”. Per la procura etnea cioè, fin dagli anni ’70 l’impresa Costanzo si è avvalsa non soltanto dei tradizionali fattori della produzione - il capitale e il lavoro - “ma altresì di un elemento ulteriore – ossia la forza di intimidazione e di assoggettamento promanante da alcuni autorevoli esponenti mafiosi – per l’esplicazione dell’attività d’impresa, e, in particolare, per eliminare i rischi connessi alla acquisizione di nuovi appalti in ambiti territoriali diversi da quelli di tradizionale elezione”. Forza intimidatrice che i magistrati catanesi definiscono “organica e costante”, assurta essa stessa a “strumento d’impresa”, della quale i fratelli Costanzo si sarebbero avvalsi per decidere non solo “che cosa” produrre, ma anche “dove” produrre, in conformità ad una prerogativa (…) accordata solo alle imprese che di quelle protezioni mafiose godevano” ([19]).
Di non certo minore spessore i legami con la criminalità organizzata del cavaliere Gaetano Graci, recentemente scomparso dopo l’onta di un arresto per associazione mafiosa. Le imprese di Gaetano Graci hanno operato in stretto contatto con gli uomini di Nitto Santapaola che “risolveva tutti i problemi che nell’esercizio della sua attività imprenditoriale il Graci incontrava”. Secondo i magistrati etnei, quei “problemi” andavano “dalla esigenza di sistemare - con le persone con le quali aveva rapporti di lavoro – questioni sindacali, alle “lezioni” che occorreva infliggere ai clan contrapposti che ‘disturbavano’ con le loro ‘pretese’ la gestione dei lavori delle aziende del Graci, al bavaglio alla stampa che dava un’immagine dei clan e degli imprenditori non proprio esaltante” ([20]).
“I rapporti tra Graci e l’organizzazione di Santapaola – continuano i magistrati catanesi - risultano essere di natura tale che, da un lato, si istituisce tra i due soggetti uno scambio continuo di utilità; dall’altro si verifica, in alcune circostanze, una piena coincidenza tra gli interessi dell’organizzazione criminale e quelli dell’imprenditore”. Stando ai pentiti, Nitto Santapaola, Giuseppe ed Aldo Ercolano erano di casa negli uffici del cavaliere Graci e del genero Dino Aiello, e quest’ultimo avrebbe perfino tenuto i collegamenti diretti con i boss durante la loro latitanza ([21]). Con il boss, Gaetano Graci avrebbe perfino partecipato a battute di caccia “in epoca immediatamente precedente all’inizio della sua latitanza”.
Numerosi poi i membri dei clan che sono stati subappaltatori e fornitori delle aziende di Graci; tra essi spiccano i nomi di Giuseppe Cremona di Gela (poi assassinato) e di Giuseppe ‘Piddu’ Madonia di Vallelunga (Caltanissetta); un cognato del Madonia stesso era l’amministratore della grande azienda agricola del cavaliere catanese. E tra le relazioni ‘eccellenti’, sparse da una parte all’altra dell’oceano Atlantico, oltre ai maggiori esponenti della massoneria ‘coperta’ e ‘deviata’, il boss italo americano Joseph Macaluso, il finanziere messinese Michele Sindona e il Gran Maestro della P2 Licio Gelli. Graci non avrebbe lesinato il suo intervento per ‘aggiustare’ processi a favore degli affiliati delle cosche. Un caso, per lo meno, sarebbe avvenuto a Messina, in occasione del processo di Antonio Santapaola, fratello di Nitto, e Salvatore Tuccio, accusati dell’omicidio di Giuseppe Sicali, piccolo estortore che aveva avanzato delle richieste di pizzo nei cantieri messinesi della ditta Costanzo. Dino Aiello, genero di Graci, avrebbe interessato un legale etneo “amico del presidente del tribunale peloritano, che conosceva bene”. Nino Santapaola e Salvatore Tuccio furono assolti per insufficienza di prove per l’omicidio Sicali, con sentenza del 1° aprile 1981 della Corte d’Assise di Messina. “Benedetto Santapaola ebbe a festeggiare tale evento nell’azienda agricola di Misterbianco di proprietà del cavaliere Graci”, ha raccontato ai giudici il pentito Salvatore Castelli ([22])
Estorsioni, bombe ed assassinii all’ombra dei lavori della ferrovia Messina-Palermo
Le convergenze e le contiguità criminali delle grandi imprese chiamate alla realizzazione del raddoppio ferroviario Milazzo-Barcellona non potevano non avere dirette conseguenze nell’esecuzione dei lavori nel territorio investito dall’imponente flusso di denaro. Il doppio binario divenne così il grande affare delle cosche locali, tra le più ‘impermeabili’ e violente dell’intera Sicilia. Il considerevole movimento di denaro generò grandi aspettative innanzitutto tra le imprese di autotrasporti, lavorazione di inerti e calcestruzzo, movimento terra, “quali quelle dei fratelli Benenati, Mirabile, Siracusa, Torre, Di Paola ed altre minori”, tutte gravitanti in ambito mafioso ([23]). Ma i lavori per la nuova tratta ferroviaria divennero innanzitutto la principale causa del lungo conflitto che si scatenò nell’hinterland barcellonese a partire dalla metà degli anni ’80.
“Dal 1986 – si legge nella relazione della Commissione parlamentare antimafia, in visita nella città del Longano nel 1993 - la città di Barcellona diventa teatro di una sanguinosa guerra tra le cosche in conseguenza dell’enorme flusso di denaro pubblico riversatosi nella zona a seguito degli appalti per la costruzione delle stazioni ferroviarie di Milazzo e Barcellona e per il raddoppio della linea ferroviaria Messina-Palermo. Nell’assenza di una puntuale vigilanza sull’esecuzione delle opere e sul rispetto della normativa vigente la mafia ha cercato di accaparrarsi le forniture di materiali e di costruzione, i valori in subappalto, ecc.”.Una guerra terribile, senza esclusione di colpi, segnata da attentati dinamitardi, stragi, casi di lupara bianca. Le vittime sono state torturate, arse vive nei copertoni d’auto, fatte a pezzi e disperse nei greti dei torrenti. Una guerra che in meno di quindici anni ha contato oltre un centinaio di morti, più ventisette casi di lupara bianca. Ad essi vanno aggiunti i dodici morti ammazzati del vicino comune di Milazzo.
A fronteggiarsi in questa lotta per l’accumulazione di capitali, la gestione delle estorsioni e il controllo degli appalti e subappalti del raddoppio ferroviario, da una parte il clan di Giuseppe Chiofalo, boss storico di Terme Vigliatore, appoggiato dai ‘cursoti’ di Catania e dal clan Bontempo Scavo di Tortorici; dall’altra la ‘famiglia’ di Carmelo Milone sostenuta da Nitto Santapaola, Giuseppe Pulvirenti ‘u malpassotu’ e dai tortoriciani di Galati Giordano Orlando. Al clan Milone, vincente, spetterà l’assoluto dominio del territorio e la non facile gestione del “processo di assestamento interno”. Dal conflitto emergerà inoltre la nuova figura dominante nel panorama criminale della provincia di Messina: Giuseppe Gullotti, detto ‘l’avvocato’, dalle malcelate simpatie di estrema destra e dalle notorie frequentazioni dei salotti buoni della città del Longano, ‘compare d’anello’ di quel Rosario Cattafi, ex vicesegretario del Fuan, identificato accanto a Pietro Rampulla nelle scorribande neofasciste nell’Università.Secondo il boss Angelo Epaminonda, negli anni ’80 Rosario Cattafi avrebbe gestito per conto del clan Santapaola la scalata al casinò di Saint Vincent. Condannato a 11 anni per la vicenda dell’autoparco della mafia di via Salomone a Milano, il barcellonese è stato poi “graziato” da una sentenza della Cassazione che ha annullato il processo per incompetenza territoriale. Rosario Cattafi è stato coinvolto e poi prosciolto nell’inchiesta sui cosiddetti ‘Sistemi Criminali’ e in quella su un vasto traffico d’armi a Paesi sottoposti ad embargo internazionale ([24]). “Dalle indagini condotte dalla Procura di Milano” – si legge nel rapporto della DIA del 1994 - emergevano, inoltre, non meglio chiariti rapporti tra Cattafi e presunti appartenenti ai Servizi Segreti. Le investigazioni consentirono di accertare la sua veste di mediatore di armi che venivano reperite in Svizzera” ([25]). Un ulteriore tassello per comprendere la portata destabilizzante di un’organizzazione criminal-imprenditrice sviluppatasi con gli appalti delle Ferrovie.
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La lotta per l’egemonia mafiosa sugli appalti
Grazie alle dichiarazioni rese agli inquirenti dall’ex capo della mafia di Terme Vigliatore, Giuseppe ‘Pino’ Chiofalo, oggi collaboratore di giustizia, è stato possibile fornire una prima lettura sull’evoluzione della sanguinosa guerra di mafia che si è sviluppata attorno al grande affare del ‘doppio binario’. Cresciuto accanto allo zio Fortunato Trifirò, rappresentante della ’ndrangheta calabrese a Barcellona, Chiofalo matura la convinzione di poter costituire una propria organizzazione criminale autonoma (il Corpo di società attiva), per arginare lo strapotere nel territorio messinese orientale delle cosche catanesi, le quali monopolizzavano le attività estorsive, senza tenere in debito conto gli ‘uomini d’onore locali’. In pochi anni, Chiofalo riesce ad affiliare gente ovunque, nel messinese, a Palermo e perfino in Campania, dove aveva trascorso un lungo periodo di detenzione accanto a notevoli esponenti camorristici. Ed è proprio il clan Chiofalo ad inaugurare la lunga stagione di sangue: la sera del 30 novembre del 1986 scompare Girolamo Petretta, uomo di punta della mafia barcellonese, “già inserito nel clan Rugolo-Coppolino, nonché amico di Rosario Pio Cattafi” ([26]). Per volere dello stesso Chiofalo, di Petretta non si troveranno mai più i resti mortali, incendiati subito dopo l’uccisione nei pressi del greto del fiume di Mazzarrà.
E’ sempre Chiofalo a spiegare le reali motivazioni dell’assassinio dell’anziano boss: “Costui amava sottrarre per la sua organizzazione un certo quid al prezzo, inferiore a quello di mercato, che l’impresa madre pagava alle imprese locali. Con tale sistema avveniva che la grossa impresa pagava un prezzo inferiore a quello di mercato e inoltre non era gravata da nessun pizzo che invece veniva corrisposto dalle imprese locali. La nostra intenzione era che la grande impresa corrispondesse agli operatori locali i prezzi di mercato e a noi, questi ultimi, versassero una parte di quel maggior introito che in tal modo riuscivano ad ottenere. Inoltre era mia intenzione fare in modo che le grandi imprese subappaltassero alle imprese locali l’intero lotto che esse si erano aggiudicate e non come facevano prima, soltanto quei lavori del lotto meno vantaggiosi” ([27]).Linguaggio forse un po’ contorto, ma che ha il pregio di non creare fraintendimenti di sorta. Nel caso della costruzione del tratto ferroviario che va da Milazzo sino a Terme Vigliatore, la grossa impresa di cui il collaboratore di giustizia racconta è incarnata dal consorzio Costanzo-Graci. Il quid sottratto al prezzo totale dell’appalto è la tangente da versare alla famiglia mafiosa del posto. Infine, le imprese locali corrispondono a tutte quelle realtà imprenditoriali legate alla medesima famiglia mafiosa, già taglieggiate dal racket delle estorsioni e alle quali vengono cedute le opere in subappalto ([28]).La scomparsa di Girolamo Petretta segna il punto di rottura di ogni possibile dialogo tra le cosche. Uno dopo l’altro cadono alcuni dei personaggi chiave della storia criminale del clan etneo. E’ Pino Chiofalo a riferire la modalità e i contenuti di quell’incontro: “Il rappresentante di Santapaola venne condotto a casa mia. Costui, chiarendo il motivo della sua venuta, riferì che i personaggi di cui era il portavoce intendevano avviare, con me, una trattativa che riguardava il modo come consentire alle imprese Costanzo e Graci la serena prosecuzione dei lavori per la realizzazione del doppio binario ferroviario. Le imprese in questione erano sotto la loro protezione ed era quindi loro interesse quello di tutelarle anche in aree diverse della loro zona d’influenza”. Longano: Francesco Rugolo, suocero di Giuseppe Gullotti, Franco Luigi Iannello, Natale Gambino, Antonino Mazza, Nicolò Bivacqua, Carmelo Pagano. Per frenare l’ecatombe e ridurre la pressione militare di Pino Chiofalo, sono disponibili a scendere a patti i boss catanesi Nitto Santapaola e Giuseppe Pulvirenti. Viene inviato nel barcellonese l’affiliato Salvatore Conti, una delle menti economiche
Le richieste del padrino di Terme Vigliatore sono però esorbitanti: Chiofalo pretende subito il 3%, circa sei miliardi di lire, del valore della commessa (200 miliardi) assegnata ai fratelli Costanzo e a Gaetano Graci. Poi chiede piena autonomia per assegnare alle imprese ‘amiche’ subappalti e forniture per i nuovi lotti della rete ferroviaria che l’Ira Costruzioni deve iniziare a realizzare tra Terme Vigliatore e Barcellona. Per quanto riguarda invece il resto dei lavori ancora d’appaltare e quelli relativi a qualsiasi altra opera pubblica nella provincia, Pino Chiofalo rivendica che il suo gruppo era riuscito ad organizzare, attraverso un consorzio di ditte locali, “una entità tecnico-operativa in grado di sopportare brillantemente il peso di tutte quelle opere complementari all’opera madre” pretendendone la cessione in subappalto “senza alcuna condizione”. Il consorzio a cui avevano aderito le imprese nelle mani di Chiofalo, doveva cioè “abbracciare l’intero carico di lavoro connesso ad opere pubbliche e private”, senza più l’intermediazione dei rappresentanti locali del clan Santapaola. Su questo punto, il boss di Terme Vigliatore, si dichiara inflessibile: “Approfittai della circostanza per chiarire a Conti la linea d’intesa che avevo stabilito con le ditte aderenti al consorzio. Prima erano obbligate a versare a Girolamo Petretta, ai rappresentanti delle imprese Costanzo e Graci, ai mafiosi catanesi e a Salvatore Conti che forniva il cemento alle due grosse imprese per conto di Santapaola, la somma di 700 lire per ogni metro cubo di materiale estratto e trasportato nell’ambito della realizzazione della grande opera ferroviaria. Da quel momento in poi imposi che tale denaro continuassero a corrisponderlo non più ai suddetti ma alle casse comuni del nostro gruppo. Le 700 lire, le imprese locali, le sottraevano dalla somma complessiva che Costanzo e Graci loro attribuivano su un prezzo già di per sé inferiore a quello di mercato”.
Verso la definitiva rottura con il clan Santapaola
La trattativa è estenuante e travagliata. Chiofalo rifiuta la proposta dell’ingegnere Gori della ditta Graci che in cambio della “pace” nei cantieri delle imprese catanesi è disponibile a garantire la somma complessiva di dieci miliardi di lire. “Ciò – spiega Chiofalo – sarebbe stato fatto attraverso una intelligente manipolazione delle varie fatture riguardanti il ferro, il cemento, i prefabbricati, il movimento terra e quant’altro affluiva nel cantiere Graci. Egli pensava di dilatare sulla carta le spese di acquisto di detti materiali facendo rifluire nelle casse comuni del nostro gruppo il di più che l’impresa catanese in forza delle fatture avrebbe liquidato rispetto ai costi effettivamente affrontati”. Fu lo stesso ingegnere Gori a spiegare al boss che il costo di previsione dei lavori da appaltare era stato gonfiato a dismisura in base ad accordi tra le imprese Graci e Costanzo, grossi esponenti politici ed alti funzionari della Cassa del Mezzogiorno, “in modo da consentire così non soltanto cospicui guadagni alle imprese ma anche la distrazione di notevoli somme a favore di politici, amministratori e potere mafioso”.
Di fronte alla fermezza di Chiofalo, i catanesi chiedono tempo per raggiungere un accordo sull’entità delle somme di denaro che avrebbero dovuto ottenere dalle imprese Costanzo e Graci. “Mi fecero capire – ha raccontato Chiofalo - che in quel momento Santapaola aveva bisogno di Costanzo e di Graci e non poteva influire su di loro per indurli a pagare la tangente richiesta. Ciò perché doveva svolgersi a Messina un processo a carico di Nino Santapaola, fratello di Nitto, per il quale gli stessi Carmelo Costanzo e Gaetano Graci si stavano interessando per fare in modo che egli venisse assolto”. Secondo il pentito, i due costruttori erano riusciti ad “influenzare” i giudici messinesi Cucchiara e La Torre, e “si erano addirittura rivolti, in particolare il Costanzo, all’onorevole Andreotti perché spiegasse al riguardo tutta la sua influenza sul procuratore dott. Fiorentino che essi sapevano essere a lui molto legato”.
Per comprovare tuttavia la disponibilità del clan catanese a venire incontro alle richieste di Chiofalo, Santapaola decide di inviare la somma di 400 milioni di lire. Il denaro fu consegnato da Salvatore Conti in occasione di un pranzo presso un noto ristorante di Fiumara di Naso, presenti i maggiori esponenti della criminalità della zona nebroidea. “Costituiva un ‘omaggio’ per la comprensione da me dimostratagli e per la piega che avevano preso i nostri accordi” ha raccontato Pino Chiofalo. “Nel ringraziarmi per aver rinunciato alla tangente che avrebbe dovuto corrispondermi Costanzo, mi assicurava che di lì a poco tempo mi sarebbe stata corrisposta la tangente dovutami da Graci, impresa cara più che a Santapaola agli Ercolano, che seppur non sarebbe stata pari al 3% dell’ammontare dei lavori, vista la mia disponibilità ad una riduzione, comunque non sarebbe stata inferiore ad un miliardo e mezzo”.
Chiofalo non si fida però degli interlocutori e sospetta che i boss catanesi stiano ordendo una trappola con il clan dei barcellonesi per eliminarlo. Nell’ottobre 1987, mentre l’accordo sulle somme da corrispondere per i lavori del doppio binario appare congelato, la ‘famiglia’ di Terme Vigliatore stringe un’alleanza con i rappresentanti del clan etneo dei ‘cursoti’, ormai in rotta con il boss Nitto Santapaola. Durante un incontro tenutosi a Patti con gli affiliati catanesi Mario Nicotra, Orazio Scaravilli e Gaetano Porzio, Chiofalo e i ‘cursoti’ decidono di lanciare una stagione di fuoco contro i loro avversari. “Decidemmo di procedere ad un’azione violenta che avesse la forza di bloccare i cantieri del Costanzo e del Graci. Intendevamo poi stravolgere i quadri economici del Santapaola, convinti che solo così ne avremmo determinato la quasi esautorazione. Intendevamo infatti uccidere sia il Costanzo, sia il Graci, leader delle unità economiche che conferivano forza al Santapaola e possibilità di legittimo accesso ai grandi appalti guadagnati attraverso la correità dei politici”.
In attesa del momento propizio per assassinare i due costruttori, i chiofaliani decidono di inviare un messaggio inequivocabile alle due imprese impegnate nella realizzazione della ferrovia. Il 12 dicembre 1987, due squadre armate raggiungono i cantieri della Fratelli Costanzo a Barcellona e dell’Ira Costruzioni a Terme Vigliatore. “Nel primo sequestrammo il guardiano e demmo alle fiamme alcune strutture, provocando notevolissimi danni. Nel cantiere di Graci, tentammo di arrecare il danno attraverso l’uso delle ruspe. Tali manovre attirarono l’attenzione di una guardia giurata. Per frenare la sua azione, ordinai che al suo indirizzo venissero esplosi alcuni colpi a titolo intimidatorio. Per meglio evidenziare la nostra azione intimidatrice nei confronti del Graci, esplodemmo numerosi colpi d’arma da fuoco sui mezzi esistenti”.
La caduta degli Dei
Gli attentati incendiari ai cantieri delle imprese catanesi sembrano aver raggiunto il loro scopo. Nitto Santapaola fa sapere attraverso Francesco Mangion di aderire alle richieste di Chiofalo e invia un primo acconto di 50 milioni ed una seconda tranche da 500. Chiofalo però non si accontenta e decide di eliminare gli imprenditori che concorrono alla gestione delle opere per il secondo binario e che non mostrano segnali di volersi piegare al nuovo ‘dominus’.
Cade così, il 14 dicembre, sotto il piombo del clan di Terme Vigliatore, il cavaliere del lavoro Francesco Gitto, il primo degli ‘intoccabili’, personaggio-cerniera tra criminalità locale, imprenditoria ed istituzioni. Costruttore, titolare di negozi di abbigliamento a Barcellona, Milazzo e Trapani, presidente della squadra locale della Nuova Igea Calcio, Francesco Gitto è descritto dallo stesso Chiofalo come un autorevole amico di esponenti della massoneria e di politici, magistrati, poliziotti, ufficiali dei carabinieri. A questi ultimi, Gitto ha persino affittato lo stabile che ancora oggi ospita gli uffici della stazione di Barcellona. “La parte che Gitto rappresentava aveva stabilito un’intesa completa con il potere politico di cui i referenti massimi erano il sen. Carmelo Santalco, l’on. Saverio D’Aquino, allora sottosegretario all’interno, e il sen. Giulio Andreotti. Detti personaggi erano i veri tutori delle grandi imprese catanesi che anche per loro tramite erano riuscite ad acquisire i grandi appalti di opere pubbliche e, per quel che riguardava Barcellona, quello del raddoppio ferroviario. Decisi allora l’eliminazione di Gitto”. Nello stesso giorno dell’assassinio di Gitto e del braccio destro Natale Lavorini, vengono assassinati altri due personaggi vicini al clan barcellonese, Saverio Squadrito e il figlio Giuseppe, quest’ultimo proprietario di un’impresa di bitumi impegnata in importanti opere pubbliche. Per le forze dell’ordine, che avevano assistito per troppo tempo impotenti alla carneficina umana, è stato superato ogni limite. L’ordine è quello di fermare la furia omicida di Pino Chiofalo. Viene scatenata una vera e propria caccia all’uomo, alcuni degli uomini d’onore legati al boss sono avvicinati per ottenerne la collaborazione. Viene infine ordita una trappola per arrestare il mafioso di Terme Vigliatore. Egli viene catturato in un blitz nella cittadina di Pellaro (Reggio Calabria), il 27 dicembre del 1987, appena tredici giorni dopo la morte di Gitto. Con lui finiscono in manette i due esponenti dei ‘cursoti’ di Catania, Mario Nicotra e Gaetano Porzio, che saranno poi uccisi subito dopo la loro scarcerazione.
L'arresto di Chiofalo non segna tuttavia una tregua nella guerra per il controllo del territorio. Il boss ritrova in carcere i vecchi amici e fidelizza nuovi adepti, realizzando una sorta di centrale operativa in grado di coordinare la controffensiva. Il patto militare sottoscritto con i boss messinesi Mario Marchese e Giuseppe Leo permette di accrescere la potenza di fuoco contro gli avversari, in cambio del riconoscimento delle pretese dei clan peloritani sui proventi degli appalti del raddoppio della linea ferrata da eseguirsi nella tratta Rometta-Messina, finiti al consorzio Ferrofir di Roma delle imprese Astaldi, Dipenta e Impregilo-Fiat. Nel giro di poche settimane, con una determinazione pari o addirittura superiore a quella del Francesco Siracusa e Sebastiano Montagno Castagnolo, i costruttori edili Francesco e Benedetto Benenati, vero e proprio braccio economico dell’organizzazione Chiofalo, passati poi nelle file di Carmelo Milone ([29]). “I fratelli Benenati riuscivano a legalizzare il denaro proveniente dalle varie attività illecite cui il nostro gruppo dava vita” ha spiegato Pino Chiofalo. “Ciò riuscivano a fare in quanto titolari di un impianto di calcestruzzo e un’azienda per il movimento terra e trasporto primo anno di guerra, il clan di Chiofalo rilancia la campagna contro i barcellonesi e contro gli affiliati sospettati di tradimento. Il bilancio dei successivi mesi è ancora più tragico. Uno dopo l’altro, cadono altri personaggi ‘eccellenti’, primi fra tutti i commercianti Bartolo Milone e Luigi Sanò, gli affiliatiNel giro di poche settimane, con una determinazione pari o addirittura superiore a quella del primo anno di guerra, il clan di Chiofalo rilancia la campagna contro i barcellonesi e contro gli affiliati sospettati di tradimento. Il bilancio dei successivi mesi è ancora più tragico. Uno dopo l’altro, cadono altri personaggi ‘eccellenti’, primi fra tutti i commercianti Bartolo Milone e Luigi Sanò, gli affiliati Francesco Siracusa e Sebastiano Montagno Castagnolo, i costruttori edili Francesco e Benedetto Benenati, vero e proprio braccio economico dell’organizzazione Chiofalo, passati poi nelle file di Carmelo Milone ([29]). “I fratelli Benenati riuscivano a legalizzare il denaro proveniente dalle varie attività illecite cui il nostro gruppo dava vita” ha spiegato Pino Chiofalo. “Ciò riuscivano a fare in quanto titolari di un impianto di calcestruzzo e un’azienda per il movimento terra e trasporto di materiale edile. I due Benenati avevano ingrandito la loro azienda sfruttando i capitali del nostro gruppo e con lo steso denaro avevano realizzato i vari investimenti in beni immobili ed acquistato le costose attrezzature. Gli imprenditori della zona affidavano loro i lavori o ne richiedevano le prestazioni ben sapendo che il vero ispiratore di quella attività ero io. Questo sino al mio arresto, poiché in molti di noi nacque il dubbio che i due Benenati fossero stati i potenziali delatori. In uno dei colloqui con l’avvocato Benedetto Di Pietro decidemmo così la soppressione dei due infedeli fratelli”.Il 2 febbraio 1990 a cadere sotto i colpi dei barcellonesi è Giovanni Marchetta, assassinato all’interno del noto ristorante ‘La ruota’. Al Marchetta era stato assegnato da Chiofalo il compito di tenere aperta la trattativa con il clan rivale, forte del mandato che l’imprenditore aveva ottenuto nei primi mesi dell’87 da Nitto Santapaola per la fornitura di gasolio alle ditte impegnate nella costruzione del doppio binario. In realtà agli inizi dei lavori, la fornitura di carburante per tutti i mezzi della Fratelli Costanzo e dell’Ira Costruzioni era stata assegnata “attraverso la mediazione di Girolamo Petretta”, alla ditta individuale del professor Giuseppe Giambò, gestita con il cognato Ernesto Caruso e il genero Filippo La Spada. Un affare di circa 900 milioni al mese, che dopo l’eliminazione di Petretta e dei capi storici della criminalità barcellonese, era finito nelle mani di imprenditori contigui al clan Chiofalo. L’arresto del boss aveva mutato nuovamente i rapporti di forza e l’impresa Costanzo aveva deciso di non affidare più la commessa alla società Sacne, rappresentata a Barcellona da Giovanni Marchetta, preferendo nuovamente il Giambò, questa volta ‘protetto’ da Antonino Isgrò, tra i candidati più prestigiosi a guidare la mafia barcellonese, grazie all’alleanza sottoscritta con i “rappresentanti locali della potente mafia nissena, Luigi e Calogero Ilardo” ([30]).di materiale edile. I due Benenati avevano ingrandito la loro azienda sfruttando i capitali del nostro gruppo e con lo steso denaro avevano realizzato i vari investimenti in beni immobili ed acquistato le costose attrezzature. Gli imprenditori della zona affidavano loro i lavori o ne richiedevano le prestazioni ben sapendo che il vero ispiratore di quella attività ero io. Questo sino al mio arresto, poiché in molti di noi nacque il dubbio che i due Benenati fossero stati i potenziali delatori. In uno dei colloqui con l’avvocato Benedetto Di Pietro decidemmo così la soppressione dei due infedeli fratelli”.Il 2 febbraio 1990 a cadere sotto i colpi dei barcellonesi è Giovanni Marchetta, assassinato all’interno del noto ristorante ‘La ruota’. Al Marchetta era stato assegnato da Chiofalo il compito di tenere aperta la trattativa con il clan rivale, forte del mandato che l’imprenditore aveva ottenuto nei primi mesi dell’87 da Nitto Santapaola per la fornitura di gasolio alle ditte impegnate nella costruzione del doppio binario. In realtà agli inizi dei lavori, la fornitura di carburante per tutti i mezzi della Fratelli Costanzo e dell’Ira Costruzioni era stata assegnata “attraverso la mediazione di Girolamo Petretta”, alla ditta individuale del professor Giuseppe Giambò, gestita con il cognato Ernesto Caruso e il genero Filippo La Spada. Un affare di circa 900 milioni al mese, che dopo l’eliminazione di Petretta e dei capi storici della criminalità barcellonese, era finito nelle mani di imprenditori contigui al clan Chiofalo. L’arresto del boss aveva mutato nuovamente i rapporti di forza e l’impresa Costanzo aveva deciso di non affidare più la commessa alla società Sacne, rappresentata a Barcellona da Giovanni Marchetta, preferendo nuovamente il Giambò, questa volta ‘protetto’ da Antonino Isgrò, tra i candidati più prestigiosi a guidare la mafia barcellonese, grazie all’alleanza sottoscritta con i “rappresentanti locali della potente mafia nissena, Luigi e Calogero Ilardo” ([30]).
Il cambio dei fornitori di gasolio aveva fatto infuriare Chiofalo, che dal carcere ordina l’assassinio del professore Giambò. La risposta degli avversari non si fa attendere. Dieci giorni prima del suo omicidio, Giovanni Marchetta è avvicinato al Sebastian Bar di Barcellona dai mafiosi Giuseppe Gullotti, Filippo Barresi, Mario Calderone e Antonino Bellinvia. “Il Gullotti – ha rivelato Chiofalo - fece sì che il discorso cadesse sulla fornitura del gasolio alle imprese catanesi e locali. Disse che la realtà criminale barcellonese aveva subito delle radicali trasformazioni talché in quel panorama non vi era più spazio per il clan Chiofalo. Precisò che non era valsa a nulla l’eliminazione del professore Giuseppe Giambò, giacché la gestione della fornitura di gasolio sarebbe stata comunque di esclusiva pertinenza della mafia barcellonese. Era dunque consigliabile che il Marchetta abbandonasse l’idea di continuare a condurre quell’affare”. L’imprenditore espresse con rabbia il suo diniego, firmando la sua condanna a morte.
Il ruolo di Giovanni Marchetta nell’organizzazione Chiofalo era similare a quello ricoperto da Francesco Gitto all’interno del clan barcellonese. “A Marchetta – spiega Chiofalo - era stato affidato il compito di operare all’interno delle varie istituzioni statali per garantire al nostro gruppo protezione e facilitazioni. In tale ottica si collocavano eventuali favoritismi da parte di magistrati nei processi, conoscenze anticipate su progetti di servizio di organi di polizia e interventi su autorevoli politici che si intendeva avvicinare al nostro gruppo”. Giovanni Marchetta ricopriva l’incarico di concessionario Piaggio per la zona di Barcellona e Milazzo ed era persona notoriamente legata al maggiore esponente politico locale del tempo, il sen. Carmelo Santalco. Secondo una denuncia presentata dall’allora responsabile Piaggio di Messina, Francesco Luvarà, sarebbe stato proprio il senatore Santalco, “approfittando della sua posizione di membro della commissione legislativa incaricata di redigere il nuovo codice della strada” a fare ottenere dall’azienda del gruppo Fiat l’affidamento della concessionaria a Giovanni Marchetta, nonché a fare assumere un uomo della sua segreteria presso la stessa casa produttrice. Il Luvarà ha aggiunto di aver preso visione dal responsabile Piaggio per la Sicilia di una lettera di Carmelo Santalco indirizzata al sen. Umberto Agnelli, con la quale si raccomandava vivamente quella pratica. In seguito all’esposto fu aperta un’inchiesta da parte dei sostituti procuratori Angelo Giorgianni ed Olindo Canali, poi archiviata nel novembre del 1995.
imprenditori e trafficanti di morte
L’ecatombe proseguì per tutto il 1990. Neanche un mese dopo l’omicidio di Giovanni Marchetta, a cadere sotto il piombo del clan barcellonese è Antonio Marchetta, che aveva giurato di volersi vendicare contro i presunti responsabili della morte del fratello. Seguono una serie di attentati, falliti, del clan Chiofalo contro il leader del gruppo dei ‘mazzarroti’ Francesco Trifirò, e contro Salvatore Caravello, suo fedelissimo braccio destro. Il 5 maggio riesce invece l’agguato a Montalbano Elicona, contro l’imprenditore edile Francesco Pagano, impegnato nell’esecuzione di alcuni lavori per il doppio binario, e fratello di Carmelo Pagano, ucciso nell’87 all’inizio della guerra di mafia.
La notte del 16 giugno 1990 è la volta dell’anziano boss Carmelo Coppolino, commerciante di frutta e verdura di Terme Vigliatore, pienamente inserito nel contrabbando di tabacchi ed in affari con i boss del narcotraffico di Palermo, Francesco Marino Mannoia e Pino Savoca, ‘chimici’ della lavorazione di morfina. Grazie alle loro competenze, Coppolino aveva impiantato in un’abitazione di proprietà del cavaliere Francesco Gitto la prima raffineria di eroina della provincia di Messina. “A Barcellona abbiamo lavorato due partite di morfina, una di 40 chilogrammi ed una di 50 chilogrammi” ha raccontato ai giudici di Palermo Francesco Marino Mannoia. “Per questa lavorazione, era previsto un compenso di cinque milioni al chilo. Alla ‘famiglia’ di Brancaccio ho corrisposto la somma di 40 milioni; diversi milioni li diedi ad Ignazio Pullarà, quale contributo per le famiglie dei detenuti e perché li consegnasse in parte a Totò Riina”. Mannoia poi, fa una ‘rivelazione’ sull’identità di chi rappresentava nel messinese la storica ‘famiglia’ di Brancaccio. “Della famiglia di Giuseppe Di Maggio e successivamente di Pino Savoca, faceva parte Michelangelo Alfano. Lui addirittura un tempo aveva la squadra di calcio del Messina, poi si è comprato il Bagheria. Era una brava persona, qualche volta, insieme, alla fine degli anni ’70 abbiamo fatto qualche gita in motoscafo”.Carmelo Coppolino era anche uno dei più fedeli alleati del clan Santapaola; era stato lui a condurre da Pino Chiofalo, alla vigilia del Natale del 1986, il mafioso Salvatore Conti, per tentare un accordo a difesa degli interessi delle imprese e delle ‘famiglie’ catanesi impegnate nei lavori per il doppio binario ferroviario. Coppolino poi, secondo gli inquirenti, alla vigilia della sua scomparsa, si era incontrato ripetutamente con il maggiore boss etneo. A Nitto Santapaola era stato perfino fornito un comodo rifugio nel barcellonese, utilizzato fino al 1992, stavolta sotto la ‘protezione’ dell’emergente Giuseppe Gullotti. “Carmelo Coppolino – si legge in un’informativa dell’Arma dei Carabinieri - faceva parte, fino alla data della sua eliminazione, del ‘gotha’ mafioso barcellonese, ed era legatissimo a Benedetto Santapaola, Natale Santapaola, Pietro Rampulla e Luigi Ilardo, quest’ultimo ucciso da due killer in Catania il 10 maggio 1996, cugino del boss mafioso Giuseppe Madonia, detto ‘Piddu’, nonché figlio del noto boss mafioso Calogero Ilardo, uomo d’onore della famiglia di Vallelunga (Caltanissetta)” ([31]).Tredici giorni dopo la morte di Coppolino, cade sotto i colpi di un fucile caricato a pallettoni, Francesco Foti, appaltatore di contrada Acquaficara di Barcellona. Muoiono poi trucidati Antonino Tardi e Giuseppe Sottile. L’11 settembre il gruppo Chiofalo colpisce un altro obiettivo ‘eccellente’, il geometra Antonino Isgrò, in corsa per l’investitura a capo supremo della rinnovata cosca barcellonese. Anche Isgrò cade nell’ambito dello scontro per la spartizione degli appalti e della commesse per la ferrovia. Ha ricordato il collaboratore di giustizia Salvatore Marotta, ex rappresentante della cosca di Sant’Agata Militello: “Nino Isgrò era da tutti ritenuto un personaggio di grandi qualità organizzative e di intelligenza (...). Pippo Cipriano mi disse che l’Isgrò si era permesso di sottrarre al gruppo Chiofalo la fornitura di gasolio all’impresa che stava realizzando il doppio binario ferroviario a Barcellona. In questa lotta per il potere era morto Marchetta ed altri della sua famiglia e così, disse il Cipriano, era giusto che morisse anche l’Isgrò”.
I barcellonesi rispondono all’omicidio Isgrò con l’eliminazione di Enzo De Pasquale, Ciro Aprile, Domenico Bartolone (figlioccio di Giovanni Marchetta) e del geometra Giovanni Salamone, imprenditore edile e consigliere comunale repubblicano di Barcellona. Successivamente, tra il marzo e il luglio ’91, vengono messi a segno i colpi più eclatanti, quelli che segneranno la fine delle aspirazioni di leadership del boss di Terme Vigliatore: l’omicidio dell’avvocato Benedetto Di Pietro, vero e proprio ‘consigliere’ di Chiofalo, e quello del proprio figliolo, Lorenzo Chiofalo. la spirale di sangue e delle vendette incrociate subisce un’impennata senza una pur minima risposta delle forze dell’ordine: muoiono Giuseppe Trifirò, ritenuto da Chiofalo responsabile della morte del figlio; Antonino Mirabile, piccolo imprenditore edile; Antonino Pitì; Fortunato Trifirò; Domenico Micale; Antonino Marchetta, fratello di Giovanni ed Antonio, da poco rimesso in libertà dopo il proscioglimento dall’accusa di essere il responsabile dell’omicidio del prof. Giambò; Salvatore Caravello, già scampato alla morte in altri due agguati. A questo punto viene sancita la supremazia del clan Gullotti nella fascia tirrenica della provincia di Messina. Come segnalato dai ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) dei Carabinieri di Messina “permanendo l’assenza di Chiofalo”, la mafia del Longano poteva finalmente gestire in assoluta tranquillità e discrezione “l’appetitosa occasione del raddoppio della ferrovia Messina-Palermo e della costruzione delle nuove stazioni ferroviarie di Milazzo e Barcellona”. “Essa – prosegue l’informativa dei ROS - con sistemi operativi caratterizzati dalla saggia moderazione mafiosa, si intrometteva tra le ditte appaltatrici ed i loro committenti facendo leva sull’autorevolezza del proprio affermato prestigio e non su atti intimidatori eclatanti dai quali rifuggiva. (…) Tale organizzazione, in posizione di incontrastata egemonia, gestiva altresì l’illecito controllo di una attività economica che al tempo registrava, nell’area compresa tra Milazzo e Patti, un’intensa trasformazione urbanistica ed edilizia. Ciò soprattutto a causa della costruzione di numerosi insediamenti abitativi di tipo turistico, Portorosa, Edil Turist, ecc..” ([32]).
La resa finale di Pino Chiofalo
Nonostante il raggiunto controllo mafioso del territorio barcellonese, anche il 1992 sarà segnato da una lunga serie di omicidi e di casi di lupara bianca, in buona parte giovani spacciatori e tossicodipendenti che tentano di farsi spazio nei dirompenti traffici di stupefacenti. L’ombra delle estorsioni nei lavori del doppio binario ricade però su uno dei più brutali omicidi che hanno segnato la recente storia criminale del Longano, quello dei giovani Giuseppe Pirri e Antonio Accetta, assassinati la notte del 20 gennaio, giorno della festa del patrono di Barcellona, San Sebastiano. I due ragazzi furono sequestrati, pestati a sangue e torturati, poi condotti all’interno del cimitero comunale, per essere infine giustiziati di fronte ad un altare. Secondo il pentito catanese Maurizio Avola, il duplice omicidio fu ordinato direttamente da Nitto Santapaola, dopo una richiesta estorsiva che Pirri e Accetta avrebbero fatto a danno degli imprenditori catanesi Graci e Costanzo che si stavano occupando della costruzione del doppio binario. “Il Graci ed il Costanzo – ha raccontato Avola - fecero presente ai vertici della famiglia, la situazione che si era verificata nel cantiere della ditta. Si decise quindi di dare una lezione ai due estortori che facevano parte del clan antagonista Chiofalo”.
Una lezione ‘simbolica’, eseguita davanti all’altare di un cimitero per chiarire a tutti che i due giovani avevano osato sfidare “persone al di sopra delle quali vi era solo Dio”, come hanno riferito altri collaboratori di giustizia barcellonesi, pur negandone la causale estorsiva. Santapaola e il nipote Aldo Ercolano, qualche tempo prima dell’omicidio Pirri-Accetta, avevano ordinato l’esecuzione di quattro affiliati al clan dei ‘cursoti’, Rosario Chillemi, Filippo Alesci Lo Presti e Salvatore Mirabile, rei, anch’essi, di aver chiesto il pagamento di tangenti a Costanzo, Graci e al costruttore Palmeri, impegnati nella realizzazione di grandi opere nel messinese. I tre giovani furono attirati con una scusa in una campagna catanese, dove furono strangolati. I loro corpi furono poi fatti incenerire all'interno di pile di copertoni cosparse di liquido infiammabile e poi incendiate ([33]).
A Pino Chiofalo, consapevole della propria sconfitta, non resta altro che decidere la resa e offrire la propria collaborazione agli inquirenti. Le sue dichiarazioni saranno determinanti per la realizzazione della prima vera grande operazione antimafia del messinese, la Mare Nostrum, che porterà a centinaia di arresti di boss e gregari e farà luce sulla gestione del sistema estorsivo delle grandi opere, prima fra tutte il raddoppio ferroviario. Resterà fuori dalle indagini, però, il cosiddetto ‘terzo livello’, la rete di contiguità e protezioni che rappresentanti delle forze dell’ordine, magistrati, uomini politici, grandi imprenditori, hanno assicurato e purtroppo continuano ad assicurare alla mafia del Longano.
Pino Chiofalo, da collaboratore di giustizia, farà ancora parlare di sé in merito ad una presunta trattativa con Marcello Dell’Utri per ritrattare alcune dichiarazioni che riguardavano il deputato di Forza Italia sotto processo a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’estate del 1997, alla vigilia dell’apertura del dibattimento, l’ex boss di Terme Vigliatore e Cosimo Cirfeta, collaboratore di giustizia pugliese, dichiarano ai magistrati che li interrogano che tre tra i principali pentiti che accusano Marcello Dell’Utri, hanno concordato tra di loro le versioni che inchioderebbero il politico berlusconiano. E’ sufficiente una breve indagine per verificare che Chiofalo e Cirfeta si sono inventati tutto, probabilmente in cambio di denaro e della promessa a rivedere le loro posizioni giudiziarie. Gli inquirenti accertano perfino che Pino Chiofalo era riuscito ad incontrarsi quattro volte con l’esponente di Forza Italia. Durante l’ultimo incontro, il 31 dicembre del 1998, gli agenti della DIA immortalano Marcello Dell’Utri mente consegna al pentito due regali per i figli. In un’altra foto compare l’autista di Dell’Utri mentre passa una borsa al collaboratore. Chiofalo ha sempre negato di aver ricevuto denaro, ammettendo solo i regali per i congiunti. “Dell’Utri mi promise i soldi” ha raccontato Chiofalo. “Mi disse: ‘Lei è ormai dentro questa vicenda fino al collo. Confermi le accuse di Cirfeta e io la farò ricco. Lei e la sua famiglia avrete sempre la riconoscenza mia, del dottor Berlusconi e di tutte le persone che ci vogliono bene’” ([34]).
I clan Madonia e Provenzano a Milazzo
Il cavaliere Gaetano Graci, beneficiava della possibilità di realizzare “tranquillamente” le sue attività di costruttore, fuori dalla provincia di Catania, “grazie a Nitto Santapaola e a Piddu Madonia”. E’ quanto affermato dai magistrati nella loro ordinanza di custodia cautelare nei confronti dell’imprenditore. Così, nel barcellonese, in vista dei lavori per il raddoppio binario, giungono gli emissari del clan etneo e uno dei luogotenenti più fidati della ‘famiglia’ nissena di Vallelunga, Luigi ‘Gino’ Ilardo, che abbiamo visto essere cugino di Giuseppe Madonia e stretto collaboratore degli scomparsi boss Carmelo Coppolino ed Antonino Isgrò. Ilardo ricopre il ruolo di vero e proprio ambasciatore del superlatitante Bernardo Provenzano, con il quale, meticolosamente, intrattiene una fitta corrispondenza per il controllo diretto degli appalti e dei subappalti. A cavallo tra gli anni ‘80 e ’90, i più cruenti della guerra di mafia, Gino Ilardo si impianta stabilmente a Milazzo insieme al fratello Giovanni. Quest’ultimo diventa capostazione presso la nuova stazione di Milazzo, per trasferirsi successivamente, sempre come capostazione, a Villafranca Tirrena ([35] gruppo – ricorda Pino Chiofalo - e fissare meglio la falsariga dell’intesa, essi organizzarono una riunione presso un ristorante di Milazzo alla cui gestione credo fossero stati interessati gli stessi due fratelli Ilardo. A tale riunione prese anche parte il ben noto boss nisseno Piddu Madonia, lo stesso Santapaola e, naturalmente esponenti ).I due fratelli Ilardo, d’intesa con il clan dei barcellonesi e i catanesi di Nitto Santapaola, creano a Milazzo un agguerrito gruppo criminale, denominato la ‘cupola’, assorbendo i maggiori malavitosi operanti nell’hinterland. “Per stabilire le linee programmatiche deldel gruppo barcellonese”. Qualche tempo dopo, sempre secondo l’allora boss di Terme Vigliatore, i fratelli Ilardo organizzarono un nuovo incontro, stavolta a San Piero Patti, a cui parteciparono Giuseppe Gullotti, i fratelli Ofria, Francesco Pagano e ancora una volta Nitto Santapaola. “La ragione di tali riunioni risiedeva nel fatto che quelle forze intendevano programmare le più opportune strategie per la gestione delle grandi opere pubbliche e private, come la centrale a carbone, la realizzazione del doppio binario e la stazione ferroviaria, la trasformazione di una parte del porticciolo, i lavori di urbanizzazione della città, ecc., di cui si prevedeva l’avvio nella fascia tirrenica compresa tra Milazzo e S. Stefano di Camastra. In particolare, andavano discusse le modalità di impianto nell’area di Montalbano Elicona, di una raffineria di eroina e la gestione di un vasto traffico di stupefacenti. L’intesa riguardava naturalmente il taglieggiamento della piccola e media imprenditoria”.
clan messinese di Giostra, Mario Marchese, tramite il bancario Salvatore Valenti, esponente di rilievo della vecchia mafia barcellonese e ben collegato a Cosa nostra palermitana e nissena. Valenti, indiziato di riciclaggio Gino Ilardo, relativamente alla protezione di carattere estorsivo delle imprese esecutrici dei lavori del raddoppio ferroviario Messina-Palermo, avvia i contatti con l’allora reggente deldel denaro sporco ed usura, vicino ad importanti ambienti finanziari ed assicurativi, fu poi assassinato nel febbraio del 1986 a Messina, da sicari vestiti con maschere di carnevale. “Era una mia vecchia conoscenza – ha riferito Mario Marchese - vicina agli uomini politici Giuseppe Merlino, Alfio Ziino e Santino Pagano, nonché ai boss Pietro Aglieri, Giuseppe La Mattina, Antonino Gargano, Nando Greco, Giuseppe Madonia, Pietro e Sebastiano Rampulla”.
Sempre a Milazzo, i fratelli Ilardo hanno tessuto relazioni d’affare con alcuni noti imprenditori locali, finalizzate principalmente alla gestione del traffico di droga e di banconote false. Quando nel novembre del 1998 scatterà in tutta la Sicilia la cosiddetta ‘Operazione Oriente’ contro la trama di protezioni e appoggi di cui ha goduto in tutti questi anni il latitante Bernardo Provenzano, le forze dell’ordine eseguono ben nove arresti nella cittadina tirrenica. In manette un imprenditore edile originario di Barcellona, Tommaso Catalfamo; un commerciante, Vincenzo Di Maria; il gestore del bar della nuova stazione ferroviaria di Milazzo, Francesco D’Angelo; ben tre gestori di locali di ritrovo e ristoranti, Francesco Doddo, Domenico Italiano e Francantonio Salamone; infine due cittadini originari di Palermo ma residenti a Milazzo, Giuseppe Lombardo, ‘affiliato’ alla famiglia nissena, e Antonino Bertè, quest’ultimo militare della Guardia di finanza ([36]). Per i magistrati era Doddo, a ricoprire un ruolo “assolutamente centrale” nelle relazioni Milazzo-Ilardo-Gela. “Da un lato egli avrebbe operato da collante tra il clan Madonia e gli acquirenti delle sostanze stupefacenti; dall’altro, avrebbe di fatto gestito il gruppo degli altri associati originari di Milazzo che lo hanno coadiuvato in questa attività”. In una telefonata intercettata al noto ristoratore milazzese, egli informava la moglie di avere incaricato Salamone “per acquistare a Palermo da falsari 500 milioni in banconote da 50.000 lire, che dovevano essere riciclati localmente” ([37]).
A partire dall’ottobre 1993, tre anni prima della sua morte, Gino Ilardo inizia a fornire una timida collaborazione di natura confidenziale al tenente Michele Riccio, in forza al ROS dei Carabinieri. Un contributo non certo secondario, che permette alle forze dell’ordine di individuare il rifugio della latitanza di Giuseppe Gullotti e quello dove si nascondeva il mafioso di Villafranca, Santo Sfameni, ricercato al tempo per un attentato eseguito ai danni di un docente universitario di Messina, il prof. Nello Pernice (maggio ’94). Ilardo fornisce inoltre elementi inquietanti sulle contiguità degli ambienti criminali barcellonesi con certi settori istituzionali. “In Barcellona Pozzo di Gotto, risultavano collusi con la mafia i sottufficiali dell’Arma maresciallo Bono, e il maresciallo Gatto, in servizio a Milazzo”, si legge nell’informativa del 1996 del tenente Riccio denominata ‘Grande Oriente’. “Questi erano strettamente collegati ad un insospettabile, il professore Giorgianni, nonché a tale Elio Marchetta, figlio del titolare della concessionaria Piaggio di Barcellona, ucciso per vicende di mafia, ed anche lui collegato ai predetti personaggi. (…). Il maresciallo dei CC Gatto, incaricato della gestione dei pentiti della provincia di Messina, sovente forniva informazioni o addirittura copia dei verbali a mafiosi interessati a conoscere la loro posizione giudiziaria tramite l’interdizione di un usuraio, tale Vincenzo Pergolizzi, notaio di Milazzo” ([38]).IL paese di Tortorici, i quali non avevano riconosciuto la supremazia di Nitto Santapaola. Nell’ambito di tale contrasto, alcuni uomini di Chiofalo, avevano fatto irruzione nei cantieri Ilardo fornisce importanti indicazioni per comprendere l’importanza dell’intervento del prof. Giorgianni e dei rappresentanti delle forze dell’ordine, in occasione dei lavori del raddoppio ferroviario. “Su richiesta dei mafiosi Coppolino, Girolamo Petretta e Nitto Santapaola, Giorgianni aveva aiutato i costruttori Graci e Costanzo, consentendo loro di impiantare sui suoi terreni i cantieri necessari alla realizzazione del secondo binario della linea ferroviaria Messina-Palermo. I suddetti sottufficiali dell’Arma, parallelamente, avevano tutelato il positivo svolgersi “degli affari”, anche alla luce della concorrenza violenta, che altro mafioso locale, Pino Chiofalo, ora collaboratore di giustizia, aveva scatenato con l’aiuto di altri mafiosi deldel Graci, mitragliando alcune betoniere ivi parcheggiate” ([39]). Sempre secondo Ilardo, oltre a Coppolino e Petretta, i contatti con il prof. Giorgianni, sarebbero stati tenuti dai mafiosi Francesco Rugolo e Franco Iannello. Due personaggi, questi ultimi, che le indagini avrebbero provato in stretti legami d’affari con l’imprenditore Vincenzo Pergolizzi proprio per la gestione dei subappalti del raddoppio ferroviario, grazie al ‘paravento’ della Edil.Perg. S.r.l., società con sede nel vicino municipio di Torregrotta.Pergolizzi, costruttore originario di Pace del Mela e residente a Milazzo, è stato arrestato nel dicembre 1999 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa; secondo gli investigatori, l’uomo avrebbe svolto per conto dei clan della zona tirrenica messinese (Gullotti-Sfameni-Sparacio) e per i Pillera-Cappello di Catania, il ruolo di “tutela e custodia in favore di alcuni latitanti, fornendo loro appartamenti come nascondigli e tutti i mezzi necessari per favorirne l’eventuale fuga”. In contatto con Luigi Ilardo ed altri affiliati al clan Madonia, Vincenzo Pergolizzi avrebbe esercitato il controllo usuraio ed estorsivo ai danni di commercianti milazzesi e barcellonesi; avrebbe inoltre assicurato, grazie alle sue influenti amicizie, “interventi in eventuali vicende giudiziarie” ([40]). Stando sempre alla Procura di Messina, Pergolizzi “vanta conoscenze e relazioni con soggetti rappresentanti le istituzioni”: militari dell’Arma dei carabinieri “che gli riferiscono di indagini in corso”; direttori dei lavori ed assessori comunali e provinciali “a cui è disposto regalare appartamenti”; alti funzionari degli istituti di credito di livello nazionale; un ex ministro ed alcuni parlamentari; finanche “persone probabilmente inserite nei servizi segreti” ([41]
Il luogotenente di Bernando Provenzano e Giuseppe Madonia, Luigi Ilardo, ha poi confidato ai ROS elementi relativi a presunti contatti tra alcuni politici messinesi e la criminalità organizzata ed ai rapporti mafia-grande imprenditoria. Tra i politici a lui noti come “vicini a Cosa Nostra”, Ilardo segnalava “il sen. Carmelo Santalco di Barcellona, Pippo Campione, ex presidente regionale dell’antimafia, l’on. Dino Madaudo, socialdemocratico, ex sottosegretario alla difesa, l’on. Saverio D’Aquino, ex sottosegretario agli interni, liberale” ([42]). Madaudo e D’Aquino, quest’ultimo recentemente scomparso, sono nomi noti nelle cronache giudiziarie sui rapporti mafia-politica. La ‘contiguità’ degli onorevoli Santalco e Campione è tutta ancora da provare. Per ciò che riguarda invece la gestione delle grandi opere nella provincia di Messina, Ilardo ha confermato di avere curato per conto di Leoluca Bagarella e della famiglia di Bagheria (quella di Leonardo Greco e del suo rappresentante in loco Michelangelo Alfano), le estorsioni a danno della Itinera di Alessandria e della Edilstrade di Forlì, società impegnate nella realizzazione di un lotto dell’autostrada Messina-Palermo, nel tratto Rocca di Caprileone-Cefalù ([43]).
Gli interessi del signor P3 & Soci
Proprio su questo appalto gestito dalla Itinera del costruttore Marcellino Gavio, secondo notizie stampa, vi era stata un’indagine da parte della Guardia di finanza, in merito ad un possibile ruolo di ‘favore’ interpretato dal faccendiere Pierfrancesco Pacini Battaglia e dal messinese Giuseppe D’Angiolino, già presidente di Italstrade e dal 1993 amministratore delegato dell’Anas ([44]). Dall’indagine non sarebbero emersi elementi di rilevanza penale. Va tuttavia sottolineato che su ipotetici contatti tra lo stratega dell’affare Alta Velocità ferroviaria, con personaggi di spessore criminale del messinese, sono state riempite pagine di verbali giudiziari.
Gico di Firenze il 17 ottobre 1992 presso l’Autoparco di Via Salomone a Milano, una delle maggiori basi operative di Cosa nostra nel nord Italia. Tra le carte sequestrate nell’autoparco i documenti su una partita di armi inviate a Paesi sotto embargo dal porto La Spezia all’interno di container utilizzati dall’imprenditore Ugo Sottomano, personaggio in stretto contatto con il gestore dell’autoparco, Giovanni Salesi. La triangolazione “vedeva protagonisti alcuni faccendieri di Messina” e alcuni dirigenti della La megainchiesta della Procura di La Spezia sul comitato d’affari creato da Pacini Battaglia, piduisti vecchi e nuovi ed importanti manager pubblici per la gestione di grandi opere ferroviarie e l’export internazionale di armi da guerra, aveva preso avvio dopo l’irruzione delOto Melara di La Spezia. “La svolta nell’inchiesta si registra quando i finanzieri si accorgono che il personaggio centrale delle rete di affari sporchi sulla quale stavano indagando era il banchiere Pacini Battaglia. E’ proprio indagando su di lui che l’inchiesta si allarga a dismisura, andando ad aprire altri due filoni: quello sugli appalti delle Ferrovie dello Stato per l’Alta Velocità e quello sulla corruzione dei magistrati” ([45]).
Per orientarsi sulla possibile identità dei “faccendieri di Messina” è opportuno riportare alcuni passi dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Pierfrancesco Pacini Battaglia ed alcuni dirigenti della Oto Melara, emesso dai magistrati di La Spezia nel settembre 1996: “A seguito delle indagini a carico di un’organizzazione criminale dedita al traffico di auto di grossa cilindrata (…), e al contrabbando di ingenti quantitativi di tabacchi lavorati esteri, venivano effettuate intercettazioni telefoniche, nell’ambito delle quali destava sospetto una conversazione avvenuta l’1 settembre 1993 tra Giuseppe Paolo Frisone (spedizioniere di La Spezia e uno dei principali organizzatori dei traffici di auto rubate) e Felice Dell’Eva. Nella circostanza il Frisone segnalava all’interlocutore le notizie diffuse quella sera stessa e riguardanti la cosiddetta “Operazione Arzente Isola”, diretta dall’Autorità Giudiziaria di Messina, concernente traffici internazionali di armi. La conversazione lasciava capire che il Frisone fosse implicato in qualche modo nel traffico in cui alle notizie televisive (…). Giova ricordare, inoltre, che la predetta attività investigativa aveva tratto origine da notizie informative secondo cui il sodalizio sarebbe stato impegnato in un vasto traffico di armi a cui avrebbero partecipato aziende italiane leader nel campo degli armamenti e soggetti appartenenti al sodalizio di stampo mafioso la cui base operativa principale era costituita dall’ormai famoso “Autoparco” di via Salomone a Milano” ([46]). A ricevere un avviso di garanzia l’1 settembre 1993, nell’ambito dell’inchiesta ‘Arzente Isola’, il barcellonese Rosario Cattafi, poi arrestato per le frequentazioni dell’autoparco di Milano, il ‘compare d’anello’ Filippo Battaglia, oggi imputato a Catania per un traffico di armi gestito accanto agli uomini del clan Santapaola e ad alcuni imprenditori vicini a Forza Italia, e il costruttore Saro Spadaro, anch’egli plurisospettato di frequentazioni mafiose e socio d’affari del cavaliere Gaetano Graci.
Stando al collaboratore di giustizia Maurizio Avola ([47] sen. Cesare Previti, messi in pericolo dalle indagini di Di Pietro”. Il progetto di attentato sarebbe stato discusso nel corso di una riunione tenuta in un hotel di Roma, alla presenza di due uomini d’onore ) le relazioni tra il faccendiere Pacini Battaglia e il barcellonese Rosario Cattafi sarebbero andate al di là dell’ipotizzata cogestione del traffico internazionale di armi. Deponendo al processo contro Marcello Dell’Utri, Avola ha riferito dell’intenzione di Cosa nostra, di assassinare nel 1992, l’allora magistrato Antonio Di Pietro per “fare un favore ai politici” e tutelare “gli interessi illeciti dell’on. Bettino Craxi e deldel vertice della famiglia catanese di Cosa nostra, Eugenio Galea e Aldo Ercolano, e di “soggetti esterni all’organizzazione mafiosa”. Avola fa al proposito due nomi: Rosario Cattafi, “appartenente ai servizi segreti” e il finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Va tuttavia detto che gli inquirenti non hanno raccolto le prove di quanto affermato dal collaboratore e che è in corso un procedimento penale originato dalle querele presentate contro Avola dal sen. Previti e da Pacini Battaglia ([48]). Cattafi, intanto, ha ottenuto recentemente l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati del Foro di Barcellona Pozzo di Gotto, nonostante la Cassazione abbia confermato la validità dell’ordinanza del Tribunale di Messina che ha imposto al neolegale la sorveglianza speciale e l'obbligo di soggiorno nella città del Longano ([49]).
Gallerie, conzorzi e imprese di mafia: l’affare Ferrofir-Peloritani
Il controllo estorsivo sui grandi lavori ferroviari è stato esercitato anche sulla tratta Messina-San Filippo del Mela, la cui progettazione e realizzazione è stata concessa nel 1984 dalle FF.SS. al Consorzio Ferrofir, costituito da alcune delle maggiori imprese del centro-nord Italia, l’Impregilo, l’Astaldi e la Di Penta. Lavori che sono stati sospesi ripetutamente per problemi di ordine finanziario e amministrativo, suddivisi in due lotti, il primo rappresentato dalla lunghissima galleria che collega la stazione centrale di Messina a Villafranca Tirrena (circa 13 chilometri scavati all’interno dei monti Peloritani); il secondo dalla tratta Villafranca-San Filippo, quella dove si è realizzato il disastro ferroviario dell’Espresso ‘Freccia della Laguna’, i cui lavori sono stati avviati solo nel 1997 dopo uno specifico decreto del governo che ha autorizzato lo sblocco del cantiere ([50]). Come abbiamo visto in precedenza, nel carcere di Gazzi fu sottoscritto un accordo tra Pino Chiofalo, Mario Marchese e Giuseppe Leo per la spartizione dei proventi derivanti dal ‘pizzo’ imposto alle imprese appaltatrici. Una fetta consistente delle estorsioni ai danni del Consorzio Ferrofir finì pure nelle casse del clan del rione Mangialupi, guidato da Salvatore Surace, oggi collaboratore di giustizia, come recentemente accertato in sede processuale dal Tribunale di Messina.
In vista dell’assegnazione dei lavori ferroviari alle grandi imprese del centro-nord, si sarebbero attivati congiuntamente gli uomini dei clan barcellonesi, importanti esponenti politici locali ed i maggiori imprenditori della fascia tirrenica, alcuni dei quali con entrature massoniche ‘deviate’. Sul tavolo mafia-politica-imprenditoria per la gestione della tratta Messina-San Filippo del Mela, si è soffermato il pentito Angelo Siino, per anni ‘ministro delle opere pubbliche’ di Cosa nostra. Deponendo al processo ‘Mare Nostrum’ contro le cosche della fascia tirrenica messinese, Siino ha raccontato la vicenda in cui venne in contatto con l’on. Giuseppe Merlino, andreottiano, ex sindaco di Messina, poi passato a guidare importanti assessorati regionali. “Fu organizzato un pranzo in un ristorante a Capo Milazzo, dove in effetti ci fu una dimostrazione esponenziale di potenza da parte di tutti, per farmi vedere che erano molto ben organizzati. Venni invitato da Iannello e lì trovai i fratelli Torre Antonio e Angelo, quest’ultimo anche massone aderente alla Camea. C’erano l’onorevole Merlino che si occupava della gestione degli appalti pubblici in provincia di Messina, qualche altro personaggio minore, l’imprenditore milazzese Oliva, Santo Sfameni di Villafranca Tirrena. In questa circostanza parlammo di un consorzio denominato Ferrofir, che doveva occuparsi della costruzione di alcune gallerie. A tali opere era interessato l’imprenditore barcellonese Gitto, ma l’uomo che doveva occuparsi dell’intera gestione dell’affare doveva essere Giovanni Sindoni” ([51]).Grazie alla deposizione di Siino, fa la sua comparsa tra i possibili ‘signori della ferrovia’, il nome di un personaggio ritenuto da tutti ‘intoccabile’, l’imprenditore barcellonese Sindoni, a capo di una delle maggiori aziende siciliane di trasformazione agrumaria. Definito da Maurizio Avola, “l’uomo più importante per Cosa nostra nella provincia tirrenica messinese”, Giovanni Sindoni e il figlio Emanuele hanno operato nel settore delle opere pubbliche accanto a Giovanni Salamone, l’ex consigliere comunale repubblicano di Barcellona assassinato in un agguato mafioso il 12 gennaio del 1991. Ex socio della Nuova Igea Calcio, Giovanni Sindoni vanta precedenti penali per omicidio colposo, abusivismo edilizio ed associazione per delinquere; nei primi anni ’80 è stato coinvolto in una megainchiesta sulle truffe agrumarie a danno della CEE, accanto all’ex sindaco di Bagheria Michelangelo Aiello e al boss Leonardo Greco, riportando una condanna a otto mesi di reclusione ([52]). Il collaboratore di giustizia Angelo Siino non fornisce ulteriori particolari per chiarire l’effettivo ruolo di Giovanni Sindoni nell’affaire doppio binario. Si sofferma invece sul costruttore Gitto che sarebbe stato interessato alla realizzazione di alcune gallerie della Messina-San Filippo. “Praticamente Gitto era un grosso contoterzista, cioè era uno che faceva lavori per conto terzi. Non faceva lavori edili, ma si occupava di lavori stradali. E poi in effetti era quello che manipolava la maggior parte dei lavori sull’autostrada Palermo-Messina e a causa di questo gli successe che gli ammazzarono un parente. Mi pare che lo stesso si chiamasse pure Gitto, gestiva un negozio a Barcellona Pozzo di Gotto ed era parente col governatore Cuomo. E effettivamente questo signore insieme con questo Sindoni mi era stato detto che era un interessato alla gestione, addirittura che da lì a poco questo Gitto sarebbe stato in grado di poter gestire direttamente i lavori della Palermo-Messina. (...) In effetti poi fu quello che fece la maggior parte dei lavori autostradali, e debbo dire anche che ha avuto questo problema, gli fu ammazzato questo parente che prese le sue difese. Che i due Gitto erano imparentati io l’ho saputo da Nino Isgrò o da Matteo Blandi, malavitoso di Caronia...”.Secondo Siino, cioè, la morte del cavaliere Francesco Gitto sarebbe stata determinata dalla sua discesa in campo a difesa del “parente costruttore”, interessato a mettere il sigillo sulle maggiori opere pubbliche della provincia. Dichiarazioni tutte da provare, certamente. Ci sarebbe tuttavia un primo riscontro: ben undici lotti della costruenda autostrada Messina-Palermo, tra Caronia, Acquedolci e Sant’Agata di Militello, sono stati assegnati ad una azienda di costruzioni con sede nel comune di Falcone, la CEC – Civil Engineering Company del cavaliere-ingegnere Carmelo Gitto. Sempre alla CEC, il Comune di Messina ha recentemente appaltato un lotto degli svincoli autostradali di Giostra-Annunziata. Una vera e propria leadership in campo regionale a cui però non sono mancati importanti riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale: alla società di Carmelo Gitto si è rivolto perfino il governo d’Israele per la costruzione di una galleria strategica per il processo di colonizzazione dei territori occupati della Cisgiordania ([53]).
Per l’esecuzione dei lavori autostradali, l’ingegnere Gitto sarebbe stato sottoposto all’immancabile carico estorsivo delle organizzazioni criminali della fascia tirrenica. Lo ha raccontato il collaboratore Salvatore Marotta: “Durante un incontro a Falcone in un villino che credo fosse di proprietà dello stesso Gitto, è stata pattuita e concordata l’estorsione a carico della ditta Cogei e della ditta Gitto. Fu il mistrettese Matteo Blandi che riscuoteva le tangenti delle diverse imprese che in quel momento operavano nella zona a fissare un incontro per stabilire quanto la Cogei avrebbe dovuto corrispondere al nostro gruppo. Alla riunione prendemmo parte io, il geometra Nino Isgrò di Barcellona, Pino Oieni, mio figlio Calogero, Matteo Blandi, Giuseppe Miragliotta, Masino Florio e Michele Adorno. Per conto della Cogei presero invece parte Domenico Gitto, titolare della omonima impresa ([54]), ed il geometra Siracusano. Il Gitto personalmente aveva chiesto a tutti quelli che avrebbero dovuto partecipare alla riunione di non portare armi. Lui stesso infatti avrebbe garantito un ordinato svolgimento della discussione. Con questo egli intendeva anche prevenire un eventuale danno alla sua immagine che invece avrebbe provocato una visita da parte delle forze dell’ordine...”.
Marotta ricorda con precisione l’ammontare del pizzo che fu imposto alle imprese. “Il costo dei lavori che la Cogei stava eseguendo si aggirava sui 20 miliardi o poco più. Secondo consuetudine l’impresa avrebbe dovuto pagare una percentuale non inferiore al 2 per cento. Il Gitto però ricordando che anch’egli avrebbe dovuto versare la sua quota parte, propose una diminuzione della cifra che così venne stabilita in complessivi 350 milioni. Il Gitto, invece, essendo impegnato nello stesso lavoro, quale subappaltante, per l’opera di sbancamento e movimento terra si impegnò a versare la cifra di 2 milioni e mezzo da corrispondere ogni fine mese per tutto il periodo della durata dei lavori. La Cogei invece avrebbe dovuto corrispondere la cifra stabilita nella misura di 50 milioni al mese. Venne anche stabilito che i soldi avrebbero dovuto essere prelevati nel cantiere di Gitto che si incaricava a corrispondere ciò che era dovuto dall’impresa e la sua stessa quota parte. L’Isgrò ha partecipato alla riunione anche per tutelare l’interesse dell’impresa Gitto, da sempre sotto la protezione esclusiva della mafia barcellonese”.
contro i clan mafiosi della provincia di Messina, il denaro precedentemente concordato con il clan Marotta per i lotti 22 e 22 bis dei lavori autostradali, fu interamente versato dalla e dalla Sempre secondo Giovanni Marotta, fu proprio l’estorsione ai danni dell’impresa Gitto a causare la definitiva rottura tra il suo clan di Sant’Agata Militello e l’anziano boss nebroideo Giovanni Tamburello. Quest’ultimo decretò la morte di Matteo Blandi che si era guadagnato tra l’altro anche un subappalto nei cantieri autostradali della Cogei del Gruppo Rendo. “Fui raggiunto a Sant’Agata dal Tamburello – ha aggiunto Marotta. “Egli mi disse minacciosamente che non aveva mandato il denaro di cui all’accordo con la Cogei giacché la quota a me spettante l’aveva utilizzata per assoldare i killer che egli aveva incaricato per uccidere il Blandi”. Secondo gli inquirenti che hanno redatto l’informativa Mare NostrumCogeiGitto al boss Tamburello.
Altri 200 milioni furono richiesti ai costruttori di Falcone dal gruppo criminale vicino a Iannello. “Alcune telefonate a scopo estorsivo furono fatte alla vittima” ha raccontato il collaboratore tortoriciano Francesco Galati Rando. “Iannello in particolare disse che essendo il Gitto insensibile alle richieste telefoniche, era meritevole di una lezione che doveva essere quella del danneggiamento di autovetture o di edifici attraverso l’esplosione di colpi d’arma da fuoco”. Nel 1990 un attentato incendiario distrusse parzialmente il cantiere di Olivieri dell’ingegnere Carmelo Gitto.
Cave e discariche l’ennesima risorsa dei clan barcellonesi
Ma sul contesto storico-criminale in cui è maturata la strage dell’Espresso ‘Freccia della Laguna’ ricadono altre gravi ombre. Quelle della cosiddetta “ecomafia”, degli enormi disastri ambientali e delle irrimediabili lacerazioni del territorio collinare dei Peloritani, originati dai lavori per la realizzazione del raddoppio ferroviario. “Dove sono finiti i milioni di metri cubi di terra argillosa estratta lungo gli undici chilometri di quella galleria che congiunge Messina con la città di Villafranca?” Ha domandato al Presidente della Commissione parlamentare antimafia l’on. Nichi Vendola del Partito della Rifondazione Comunista, nei giorni successivi alla tragedia di Rometta. “Sono finiti forse in mare? E chi ha lucrato le somme che lo Stato, pagando circa otto mila lire al metro cubo, ha erogato per smaltire ciò che non è stato smaltito? E ancora: da dove si è estratta la terra per costruire il rilevato ferroviario nel tratto Rometta-Bercellona? Forse dal greto di ciascuno dei tre torrenti che insistono su quel territorio? E che dissesto idrogeologico si è determinato? E come mai una intera galleria, appena completata al prezzo di svariati miliardi, crolla, un anno fa, nella indifferenza generale? Quella galleria, a due passi da dove si è realizzato l’attuale disastro ferroviario, era già un monito ed un emblema dei rischi legati al contenuto criminale ed anti-ambientale di un progetto che in trent’anni ha dissipato risorse e vite senza edificare il secondo binario”.nel suo intervento, Vendola ha chiesto di conoscere quali siano state le ditte che hanno operato nell’area, attraverso il “nolo a freddo”, nella movimentazione terre. “Chi, nei fatti e non solo con nomi di copertura – aggiunge Vendola - ha eseguito gli sbancamenti, l’apertura di nuove cave, la perforazione dei rilievi montuosi? E si può sapere se quelle cave siano state a loro volta riempite con materiali da discarica, con rifiuti tossici e nocivi? E quali siano le ditte che hanno assicurato le forniture di gasolio ai mezzi che hanno eseguito i suddetti lavori?”. Il parlamentare ha lanciato infine una stoccata contro i vertici che hanno guidato sino a quattro anni fa la Procura di Messina, ‘rei’ di non avere esercitato l’azione penale nei confronti dei gruppi criminali che soppiantarono l’egemonia del clan Chiofalo nel controllo degli appalti. “Parliamo di nomi pesanti della mafia della Sicilia orientale: Giuseppe Gullotti, Giovanni Sindoni, Santo Sfameni, Michelangelo Alfano, Salvatore Di Salvo, tutti membri della famiglia catanese di Nitto Santapaola…” ([55]).
Le vittime della strage dell’Espresso ‘Freccia della Laguna” – Rometta Marea – 20 luglio 2002
Ali Abdelhakim, 33 anni, nato ad El Gara, Marocco Hanja Abdelhakim, Marocco Miloudi Abdelhakim, 75 anni, nato ad El Maaiz, Marocco Placido Caruso, 76 anni, originario di Milazzo, residente a Messina Fatima Fauhreddine, 59 anni, Marocco Stefano La Malfa, 51 anni, impiegato comunale di Milazzo Giuseppina Mammana, 22 anni, siciliana residente in Germania Saverio Nania, anni 43, macchinista di San Filippo del Mela |