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1.3.12

Lucio Dalla, la vita che finisce

Come mi son sentita povera, non appena mi è giunta la notizia della morte di Lucio Dalla. Quasi vicina a quel fatidico 4 marzo. È solo il primo.

Morte? Impossibile. Uno scherzo del web, abbiamo subito ipotizzato, ormai assuefatti alla banalizzazione d’un evento divenuto anch’esso liquido, evanescente, irreale. “È la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto”, cantava Lucio in quello che è considerato il suo capolavoro assoluto, Caruso. La tragedia contemporanea consiste appunto in questo: nel non pensarci poi tanto. Ma la morte giunge, radicalmente grave, incredibilmente volatile: prende e rapisce, lasciandoci dentro un pesante vuoto. Il vuoto del rammarico, del rimpianto. Dell’inafferrabile.

Ma Lucio era così cattolico. E da cattolico, per lui, non era la morte a giungere, ma la vita a finire; e, come il suo Caruso, non ci pensava poi tanto perché aveva molto amato. Perché la vita naturalmente e ovviamente finiva, e finisce così, per tutti noi, per ognuno di noi.

Abbiamo eluso una verità così semplice? Colpa nostra.

Era immenso, questo piccolo-grande uomo. E lo dico senza retorica alcuna. Da quanti secoli mi manca? Gli chiedo scusa, scusa per non aver assimilato del tutto quel suo messaggio di vita che finisce, ciclica, spontanea, profumata d’erba, di mare.

Lucio Dalla era un meticcio marino. Non si capiva bene da quale parte iniziasse, o finisse, il suo corpo basso e stortignaccolo. Un mozzo irsuto? Un Querelle italiano? Un avventore di bar di provincia? Tutto questo, e molto di più. Un periferico che come nessuno aveva saputo scrutare la mia Milano. Quella degli anni ’70, truce e concitata, di Corso Buenos Ayres. Odiava quella frenesia da calibro 9, il bolognese Lucio, e lo urlava, lo digrignava anzi, sempre con un lampo di ferrigna ironia, ma sapeva anche accarezzare così bene, e delicatamente, la città nuda e tentacolare: “Milano lontana dal cielo, tra la vita e la morte continua il tuo mistero”.

Ancora mare, profondo, ovviamente. Quella sì, era la sua traversata biblica. Con qualche accento disperato, degno d’un moderno Giobbe: “Frattanto un mistico, forse un aviatore, inventò la commozione, che li mise d’accordo tutti, i belli con i brutti, con qualche danno per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare”. Insomma: la religione ci ha lasciati più inguaiati di prima, quando si è istituzionalizzata. E chi ne ha fatto le spese è sempre stato il povero diavolo. Lo stesso concetto nell’altro suo eroe marino, Ulisse: “Mi sono immaginato la protesta d’un marinaio: senta signor Ulisse, lei parte, va, conquista mondi, seduce le donne più belle, e quando si trova nei guai, tracchete! Ecco un dio che la salva. I suoi sbagli, però, siamo noi a pagarli, noi non protetti da nessuna divinità, noi che abbiamo solo una casa e una moglie e un misero stipendio”. Con queste parole, una volta, Dalla spiegò la genesi di Itaca, con quel magnifico coro “fuori sincrono” maschile e pure femminile; coro di mondine e di operaie, perché Itaca era la metafora, anche, della violenza del potere sulla classe oppressa; forse, persino del capitalista illuminato. Come nell’”orazion picciola” dell’Ulisse dantesco, infatti, alla fine anche il marinaio di Lucio resta sedotto dal fascino ambiguo dell’eloquio itacense: “Anche la paura in fondo, mi dà sempre un gusto strano: se ci fosse ancora mondo sono pronto, dove andiamo”.

Mi è impossibile elencare tutte le canzoni di Lucio che hanno segnato il mio cuore. Sono davvero tante. Troppe. Oggi, un Dalla sarebbe improponibile, ed è un pessimo segnale. Ha amato, dicevamo all’inizio: proprio per tutte le perle disseminate in questo lungo e fulmineo cammino. Non riesco ad ascoltarlo, adesso. Le lacrime mi chiudono la gola. Un brano però, quello sì, è pianto per eccellenza, è puro vento. Lo vedo nelle varie tonalità del blu, dal celeste all’oltremare. Mare, ancora una volta. O meglio, La casa in riva al mare. Una sola, bianca, sotto un sole greco, e quel prigioniero che sogna la donna, lo vedo relegato in uno stambugio levantino, anch’esso chiaro, ma d’un silenzio di calce, spoglio, vano. Che aspetta, aspetta, inutilmente e disperatamente, con un certo sorriso sciocco, baluginato, sotto palpebre vetrose. E poi lo sai, che… fu solo in mezzo al blu. Morto il prigioniero con un’allegria (Quale allegria?) azzurra d’illusione, ma forse ambiguamente rappacificato, accarezzato da un’ala di misericordia. La voce di Lucio è anch’essa leggera mentre lo racconta, quasi buttata lì, fischiettata in semitono. Era una vita che finiva, nel peggiore dei modi, perché non c’eravamo accorti che era quella d’un uomo. Voglia di ribellione. Di dignità. Ci ha insegnato questo e molto altro, Lucio Dalla. Malasorte, il perderti così.


29.2.12

Liberate Rossella Urru!



Rossella Urru, 29 anni, volontaria italiana e rappresentate del Comitato Internazionale Sviluppo dei popoli (CISP), operava in Algeria, nei campi profughi Saharawi, per portare aiuto alla popolazione, in particolare ai bambini. Nella notte tra il 22 e 23 ottobre 2011, mentre cenava con alcuni colleghi spagnoli (Ainhoa Fernandez de Rincon dell'Associazione amici del popolo Saharawi e Enric Gonyalons, dell'organizzazione Mundobat) è stata prelevata da terroristi islamisti e di lei si son perse le tracce. Oggi, 29 febbraio, i blogger si dànno appuntamento sul web per ricordare Rossella e altri nostri connazionali rapiti: Maria Sandra Mariani, Giovanni Lo Porto, Franco Molinara, Valerio Longo, Letterio La Maestra, Agostino Musumeci, Valentino Longo, Daniele Grasso e Carmelo Sortino [lista delle adesioni nel blog di Sabrina Ancarola, http://sabrinaancarola.blogspot.com/]. Chiediamo di supportare l'iniziativa condividendo e commentando i post in rete oggi e pubblicando una foto di Rossella sui rispettivi blog, sul profilo di Facebook ecc.

"Ci sono donne straordinarie che non fanno niente per essere notate e con grande cuore donano la propria vita agli altri. Manteniamo viva l'attenzione su Rossella Urru. I media non lo fanno, sensibilizziamo il governo, spetta a noi!"

(Sabrina Ancarola)

2.2.12

Aria di neve

(Foto di Cosimo Palazzo) 

È una Milano antica, una Milano da neve, da tazzinetta benefica, quella che vediamo in questi giorni. Una Milano che ascolta il suo cuore, che il cuore lo porge in Mano. Una Milano lenta, uggiosa, bianca, ingolfata. Ma pure così nuova, multicolore, brulicante di volti e storie. È la Milano dei "mezzanini" delle metropolitane, trasformati dal Comune in luoghi di accoglienza per senzatetto e poveri di ogni provenienza. È una Milano con tratti da reduce, paziente nella ricostruzione. Il calore nel gelo. I poveri espongono sé stessi, rallentano la frenesia delle mattine, ci mettono di fronte al nostro sorriso. È una Milano quasi da preghiera, solidale nel dolore. Linda.




2.11.11

Ingrata patria...


Nessun ricordo ufficiale per il volontario sardo-ligure che ha donato la vita per salvarne altre


Per Lui, SANDRO USAI, nessuna diretta televisiva... solo: Sul coperchio un mazzo di piccole orchidee e le lacrime della moglie Elena, che non ha abbandonato un istante la bara... è quello che capita spesso ai "veri eroi"...

(Domenico Savino)

8.9.11

Un vescovo-madre

Dopo nove anni di episcopato, il card. Tettamanzi lascia la Cattedra ambrosiana





A Bresso, dietro il Parco Rivolta, al confine con la strada, si trova uno spazio vuoto, in marmo bianco, circondato da un cancelletto. Un rettangolo dalle linee severe eppur addolcite dalle dimensioni domestiche, dal colore stesso, candido, certo, ma tenue, e leggermente venato di rosa. È un limite sospeso, che presto sarà occupato da un monumento. Ai caduti? alle donne del Risorgimento? Ancora lo ignoriamo.






Tettamanzi festeggiato dai fedeli della Valbiandino. Sotto: con Madre Maria Vittoria Longhitano, parroca della Chiesa veterocattolica ambrosiana; in basso: in mezzo ai Rom del Triboniano.






Mentre, ieri, costeggiavo quell’opera in divenire, ricordavo l’ingresso a Milano del cardinale Tettamanzi, la difficile eredità che si accingeva a raccogliere. Ricordo quella partenza a piedi da Renate, la sua città natale, immersa nella Brianza lussureggiante e devota: terra di parroci, di oratori, di processioni. All’epoca, il prelato aveva già sessantotto anni e mi venne spontaneo compiangerlo un po’: “Poveretto, che fatica”. Ma non alludevo solo al disagio fisico. Era il peso morale che, in realtà, mi spaventava. Tettamanzi arrivava a dirigere la diocesi più grande d’Europa, retta fino ad allora dal “monumento” Carlo Maria Martini. So che quest’ultimo non amerebbe esser definito così; l’aura sepolcrale e fredda che comunemente associamo a tale vocabolo non rende giustizia a un principe della Chiesa dimostratosi pastore attento e solerte, vivo, “prossimo”. Eppure, pensando a Martini, viene quasi spontaneo. Nel senso migliore. Lo era per il tratto solenne, asciutto, grave e lieve della persona e dell’apostolato. Per il misticismo lombardo ed essenziale, lui nato ad Alessandria. Ripenso a Martini e vedo una marcia trionfale. Guardo Tettamanzi e lo associo al trotterellare un po’ ansioso del curato di campagna, che chiede permesso quando varca la soglia di casa. Una presenza familiare, anche troppo. Al punto, quasi, di non badarvi. Ma senza la quale ci si sente persi. Perché quella presenza lavora, è indispensabile. Se, come hanno scritto nel loro saluto i preti bressesi, il vescovo è anche madre, Tettamanzi è stato sicuramente una madre: operosa, ma discreta. Una che c’è sempre stata, e che al momento giusto appare come un’epifania. Tettamanzi e la fatica. Un’altra caratteristica che lo associa alle madri. Non solo gli toccava subentrare a Martini. Ma entrava in una Milano livida, frastornata, rancorosa e impaurita. A ridosso dell’11 settembre. Il senso dell’accoglienza nei confronti dello straniero, tipicamente meneghino, si era eclissato. L’altro, il diverso era ormai solo un nemico, di un’altra razza, addirittura d’una diversa umanità o – ciò ch’è peggio – di nessuna. La politica alimentava questo ritorno alla barbarie, anzi, lo ergeva a valore; altri brianzoli, di corta veduta e di fragile fede, brandivano crocifissi di legno per bastonare i crocifissi della società. E qualche vescovo, nemmeno tanto copertamente, li benediceva.


Erano i tempi dello scontro di civiltà, di Oriana Fallaci che dalla terza pagina del “Corriere” scagliava truculente invettive contro il nemico islamico. E qualcuna ne toccò proprio a lui, al nuovo arcivescovo, appena questi individui, che non mancavano di professarsi ad ogni occasione atei devoti (un assurdo logico prima che linguistico), realizzarono che non stava dalla loro parte.

Il parroco di campagna, erede d’una lunga tradizione di solido cattolicesimo, iniziò subito con la ricerca del dialogo con i musulmani e gli immigrati in genere. Innanzi tutto, con Dio. Tettamanzi era ed è uomo di preghiera, un mistico anch’egli, non di folgoranti lumi, ma della quotidianità, come la protagonista della dramma perduta. Ma non per questo meno profondo e, oseremmo dire, voraginoso. La preghiera è azione e Tettamanzi l’aveva compreso bene. La preghiera gli permise di vedere non in un’astratta entità, ma nella vita di ognuno, il volto di Dio. Fermo nella fede, non temeva quella degli altri, che anzi sentiva parte integrante della propria. Fu solo, disperatamente solo. Lo amavano le associazioni, non solo cattoliche; lo stimavano e vi erano affezionati i credenti di altre fedi e confessioni: penso non solo ai protestanti, ma pure alla piccola e nuova (per Milano) realtà veterocattolica, la cui presbitera è stata ricevuta in diverse occasioni dall’arcivescovo e ha concelebrato con altri ministri nel corso della settimana per l’unità dei cristiani. Ma la politica trionfante e aggressiva, e i potenti fondamentalisti lombardi, nutrivano per lui un odio inestinguibile. Cristianisti ringhiosi e sguaiati giunsero ad appioppargli l’epiteto, per loro sommamente ingiurioso, di “imam” quando auspicò la costruzione d’una moschea e d’un centro culturale islamico. La giunta comunale del tempo, dietro i sorrisi di circostanza, si guardò bene dall’ascoltarlo. In anni di sgomberi di campi rom, egli era lì, in mezzo a loro, a celebrare la Messa di Natale. Poi venne il caso Englaro. E nuove solitudini e amarezze per il nostro cardinale. Egli non approvava la decisione del papà di Eluana. Ma non gli uscì una parola di condanna nell’omelia ch’egli dedicò, pastoralmente, al senso dell’esistenza umana, e al termine della quale esortò, ancora una volta, alla preghiera. O meglio, alla contemplazione. Al tabernacolo. Ai cristianisti, analfabeti dei più elementari dettami del Vangelo, parve una posizione rinunciataria; e ignoravano che solo la dimensione contemplativa della vita (come, non casualmente, s’intitolava la prima lettera pastorale del predecessore Martini) può permettere ai nostri atti un respiro vasto, un segno che si configge e resta cristallino: roccia, guida.

Tettamanzi era un moralista, curava la pastorale familiare. Come un altro grande lombardo, Angelo Roncalli divenuto poi Giovanni XXIII, aveva in mente le riunioni umane delle sue valli, i padri, le madri, i nonni e la numerosa prole. L’amava; e, per questo, vedeva la famiglia includente. Lui, che considerava il divorzio una grande ferita per la società ancor prima che per la persona, fu il primo a pubblicare una toccante lettera indirizzata a chi aveva perduto quella felicità. E a chi, come pastore, avrebbe dovuto accoglierlo. I divorziati risposati – amava ripetere – non devono sentirsi fuori della Chiesa. In fatto di dottrina era intransigente, ma se le parrocchie hanno cominciato una pastorale per le famiglie disunite, lo si deve soprattutto a lui.

La felice intuizione della Chiesa “famiglia cellula della società” per Tettamanzi non rimase lettera morta o, peggio, occasione per inefficaci e perbenistici strali contro gli “irregolari”. Capì che la famiglia non poteva esser difesa solo a parole. Che molte si disfacevano, o non si componevano proprio, per una crisi sociale che si allungava nel nostro “ricco” mondo. Mentre qualche governante allegrone assicurava per l’Italia fiumi di latte e montagne di marzapane, Tettamanzi nel 2008 scriveva: “In questo Natale già segnato dalle prime ondate di una grave crisi economica, un interrogativo mi tormenta: io, come Arcivescovo di Milano, cosa posso fare? Noi, come Chiesa ambrosiana, cosa possiamo fare?”. Io-Noi. Se Martini si trovò ad operare in tempi di edonismo nascente, a Tettamanzi toccò un’altra fatica, quella di fronteggiare l’egotismo deflagrato, ormai in agonia, e perciò ancor più feroce e invasivo. L’Io, anzi l’Ego tanto celebrato, non poteva esistere senza il Noi, privo cioè di relazione. “Non è bene che l’uomo sia solo”: non per sé, ma nemmeno per il mondo ch’egli ha costruito a sua immagine. E l’uomo diuturno fu colto, questa volta, dall’illuminazione rovente, quel Fondo Famiglia-Lavoro che, destinato a famiglie e singoli colpiti dalla crisi economica, ha finora messo a disposizione quasi tredici milioni di euro e che continuerà a operare fino al 31 dicembre prossimo.

Due giorni fa, l’ultimo affondo: sulla questione morale. “In politica – ha denunciato – dai tempi di Tangentopoli non è cambiato nulla”. Troppo, decisamente, per certe orecchie foderate. “Non vedono l’ora che arrivi ‘quel’ giorno, i grandi elettori meneghini del centrodestra – ha scritto qualche mese fa una rivista on line. – aspettano con ansia il pensionamento, per raggiunti limiti d’età, di un vescovo mai vissuto come la propria guida spirituale. Mugugnarono quando Dionigi Tettamanzi aprì il Duomo, durante una messa dell’Epifania, alle comunità straniere in nome della multiculturalità, si irrigidirono quando prese le difese delle associazioni laiche e cristiane a sostegno dei diritti civili delle popolazioni romanì contro gli sgomberi e non nascondono tutta la loro irritazione ogni volta che il porporato alza la voce contro il degrado della politica”. Ora “quel” giorno è arrivato, Tettamanzi verrà sostituito dal vescovo ciellino Scola. Ma non ci s’illuda: la lezione di Tettamanzi non andrà perduta, perché s’innerva nella grande tradizione ambrosiana, di Ambrogio, di Carlo Borromeo, il quale, come si sa, fece un po’ di tutto: dalle scuole per ragazze povere ed ex-prostitute, alle case per l’infanzia, agli ospizi per i poveri. E bastonò i potenti.


Io, comunque, preferisco associarlo a un vescovo ancor più remoto, che già nel nome, con lui, condivideva la sollecitudine e la fatica: Materno, oggi ricordato da una chiesa e una piazza in Lambrate, periferia della città, angolo della storia. Respiro di Dio.



30.5.11

Nord

Amministrative: il centrosinistra vince quasi dappertutto


E' anche centro, anche Sud. Napoli, per esempio. Però lasciatemelo godere, adesso, il Nord. Lasciatemi amare Milano. Il "mio" Milano (al maschile, come usava tra gli antichi abitanti).

Lasciatemelo amare da oriunda. Da una che ci è piovuta a caso, e non sa come. Mica facile, da amare, questo Milano. Lasciatemelo amare con le sue guglie d'oro antico, carolingio, squillante e rasserenato. Oro di guazza e di cieli meno ingombri.

Adesso lasciatemelo solo amare. Forse per la prima volta, da quando ero bambina, accompagnata da mio padre in piazza Duomo a comprare il settimanale "Il Milanese" e a sostare al Camparino. Io ero scura e mediterranea, poi ne sono seguiti altri, più scuri e mediterranei di me.

Sarebbe sbagliato affermare che "ha vinto Pisapia". E, forse, nemmeno (solo) la sinistra, com'è accaduto a Napoli e altrove. Un pochino, abbiamo vinto noi. Un pochino. L'inizio. Laura, Roberto P., Miriam, Rita, Giovanna e tanti altri, quel programma l'hanno stilato insieme, per la prima volta hanno assaggiato quella democrazia partecipativa propugnata per anni dagli umanisti.
Nell'elaborazione grafica, la Madonnina "arancione", colore dei sostenitori di Pisapia in questa tornata elettorale.

Nell'elaborazione grafica, la Madonnina "arancione", colore dei sostenitori di Pisapia in questa tornata elettorale.

Hanno già vinto, perché un barlume d'arcobaleno è per noi fierezza e vento. Ci ha commosso, Giovanna, la scorsa settimana, quando l'abbiamo udita affermare: "Per me Pisapia è anche una persona buona. La bontà non dovrebbe essere una categoria politica. Ma non mi vergogno a menzionarla. Perché in tutti questi anni, siamo stati governati dalla cattiveria". Cattiveria verso le minoranze, i diritti civili, i deboli, gli sconfitti, ma anche e soprattutto, semplicemente, i cittadini onesti. Nella legalità, nel rapporto con gli altri, nella diuturna resistenza nei confronti del "libero mercato" spersonalizzante e inumano.

Hanno vinto, con noi, Gina, Roberto, Luz: amici vissuti solo nella speranza, amici scomparsi nella fede, aspettando un domani che non hanno fatto in tempo a vedere. Amici che hanno lasciato i loro corpi in un(a) Milano all'apparenza distratta, affaccendata e indifferente; amici annoverati tra i mille morti giovani, catalogati da una fredda burocrazia. Corpi sepolti, ma anime salve, che hanno creduto senza aver veduto.

Mi piace vedere Pisapia a Niguarda (cfr. la sottostante foto). Abito nelle immediate vicinanze di questa periferia. Proprio alle spalle del neosindaco si staglia la lapide di un'altra Gina: la Galeotti Bianchi, partigiana, femminista, nome di battaglia Lia. Poco più in là ha sede un teatro popolare, ricordo dei tempi in cui la cultura andava alla ricerca dei poveri, li prendeva a braccetto, li accomodava sulle panche di legno e... forniva loro gli strumenti per raccontar/si.

Anche questo è Nord. Qui noi viviamo. Qui, ci apprestiamo non al potere, ma alla voce.

12.5.11

Nelle mani DI DIO...

Il 15 e 16 maggio, a Milano, si terranno le elezioni amministrative. Tra i redattori del "manifesto dei cittadini" fatto redigere dal candidato Sindaco Giuliano Pisapia ad associazioni, gruppi, partiti e singole donne e uomini figura anche la giovane ricercatrice precaria Laura Di Dio, umanista, candidata al Consiglio comunale assieme ad altri amici, in corsa per il Consiglio di zona. La lotta potrebbe sembrare impari, data la feroce e dispendiosa campagna elettorale di Berlusconi, ma giungere al ballottaggio costituirebbe già un ottimo risultato. Tra i sostenitori dell'avv. Pisapia tutti i rappresentanto della Milano migliore, da Roberto Vecchioni (che terrà un concerto di chiusura venerdì 13 in piazza Duomo) a Benedetta Tobagi, figlia di Walter, agli eredi Ambrosoli, Rossa, Bachelet, vittime del terrorismo negli anni '70, a don Andrea Gallo e moltissimi altri. In bocca al lupo, futuro, in bocca al lupo, Laura.




Milano vive in questi giorni uno straordinario momento di rinascita e speranza: dopo vent’anni di governo della destra, finalmente, con Giuliano Pisapia c’è la concreta possibilità di voltare pagina e di lasciarsi alle spalle razzismo, affarismo, tagli ai servizi sociali e l’arrogante convinzione che il denaro può comprare tutto, anche le persone. Come umanisti ci riconosciamo nei punti cardine del programma di Pisapia – diritti, lotta al precariato, difesa dei beni comuni, partecipazione dei cittadini – e pensiamo di poter contribuire al rinnovamento di Milano portando il nostro patrimonio di ventennale lavoro nei quartieri a favore della nonviolenza, della non discriminazione, del dialogo tra le culture e della democrazia partecipativa.


PERCHE' VOTARE LAURA

E’ donna, giovane (26 anni) e preparata: laureata in Comunicazione politica e sociale, da dieci anni porta avanti attività di volontariato per la tutela dei diritti umani e il dialogo tra le diverse realtà culturali presenti in città.



Precaria, rappresenta la “generazione clandestina”, esclusa dai diritti e privata del futuro e può portare in Consiglio Comunale le esigenze e le aspirazioni dei giovani.



GLI IMPEGNI DI LAURA PER MILANO



DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA



- Modifica dello Statuto comunale per introdurre consultazioni e referendum vincolanti su temi comunali e di zona.
- Conferimento di maggiori poteri ai Consigli di Zona.
- Verifica periodica dell’operato degli eletti da parte degli elettori.


EDUCAZIONE

- Aumento del numero delle Scuole Materne e degli Asili Nido comunali, fino a soddisfare la domanda, a costi proporzionati al reddito e con tendenza graduale verso la gratuità.
- Assunzione di tutto il personale comunale precario.
- Gestione diretta delle Scuole Materne e degli Asili Nido, senza appalti a cooperative ed enti privati.
- Riapertura delle scuole civiche comunali.
- Manutenzione tempestiva degli edifici scolastici.


AMBIENTE E MOBILITÀ

- Impegno a contrastare la privatizzazione del servizio idrico.
- Potenziamento dei mezzi pubblici, anche in orari notturni, per decongestionare il traffico e ridurre l’inquinamento dell'aria.
- Creazione di piste ciclabili protette che partano a raggiera dal centro a arrivino in tutti i quartieri.

GIOVANI

- Creazione di un organo comunale di controllo dell’utilizzo indiscriminato degli stage da parte delle aziende.
- Creazione di un fondo agevolato e di spazi idonei per il sostegno alla microimprenditoria giovanile.
- Sostegno agli spazi che permettono aggregazione e offrono cultura.
- Assegnazione di alloggi comunali, anche in condivisione, a prezzi accessibili.




IMMIGRAZIONE

- Utilizzo dei fondi UE per le reali necessità delle comunità Rom e moratoria degli sgomberi dei campi.
- Sostegno all’inserimento lavorativo e sociale di rifugiati e richiedenti asilo.
- Istituzione di una Consulta Comunale dei migranti.
- Diritto di voto alle elezioni e ai referendum comunali.
- Rifiuto da parte del Comune di ospitare un Centro di Identificazione ed Espulsione come l’attuale Corelli e creazione di strutture di reale accoglienza.




NON DISCRIMINAZIONE E NONVIOLENZA


- Istituzione di un Registro Comunale delle Coppie di Fatto eterosessuali e omosessuali ed equiparazione dei loro diritti a quelli delle coppie coniugate per quanto concerne i servizi comunali.
- Patrocinio al Gay Pride e alle iniziative per la Giornata mondiale contro l'Omofobia (17 maggio). - Costituzione a livello comunale e di zona di un Osservatorio per la nonviolenza, che svolga compiti di prevenzione e denuncia, fornisca sostegno alle vittime di ogni forma di violenza e discriminazione e lavori in rete con le scuole e le associazioni operanti sul territorio per promuovere la cultura della nonviolenza.


Una pagina con indicazioni per votare e riferimenti: www.facebook.com/LauraDiDioXPisapia

17.3.11

Giovine Italia


"Esce di mano a lui che la vagheggia/prima che sia, a guisa di fanciulla/che piangendo e ridendo pargoleggia,/l'anima semplicetta che sa nulla,/salvo che, mossa da lieto fattore,/volentier torna a ciò che la trastulla" (Purg., XVI).

Buon compleanno, Italia. Giovine Italia. Sei ancora come quella fanciulletta descritta da Marco Lombardo. Sei "un'anima semplicetta che sa nulla", e che "di picciol bene in pria sente sapore", smarrendosi poi, come nel giardino dell'Eden dopo il peccato di conoscenza. Così, d'improvviso, prima ancora di diventare adulta, ti sei ritrovata vecchia, stanca, spogliata e sterile. "Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?". Hai la Costituzione più bella del mondo, e per quella fame inesperta di vitalità diffusa e infantile permetti pure che la dileggino. E ne ridi, o te ne disinteressi esausta. I tuoi sono i peccati dell'inesperienza e dell'accidia, eppure la tua storia è antica. Culla d'Europa, si diceva con qualche ridondanza. Ma sei restata in culla. Hai accettato di farti violentare da oppressioni, dittature, atarassia e ti sei ninnata in quello stato di soggezione in cui ti ha mantenuto la gerarchia ecclesiastica. Ventre molle d'eterna madre, per una figlia mai svezzata. Italia che oggi vorremmo tornare a definire patria; vocabolo scrostato dagli orpelli nazionalistici e reazionari in cui l'aveva confinato il fascismo e scandito - assieme al celebre Inno del giovane Mameli - nei cori di chi, oggi, si batte per salvare lo Stato di diritto, l'eguaglianza delle leggi, la parità tra i cittadini. Italia che, per questo, sarebbe molto più Matria, e se lo fosse, oggi, ci troveremmo in un grembo adulto, cosmopolita, fecondo. E l'avevano compreso non solo le grandi figure di Garibaldi, Cavour e Mazzini, ma le stesse protagoniste di quegli anni, ancora integre per la scoperta: Anita Garibaldi Ribeiro , prima rivoluzionaria che moglie dell'Eroe. Prima brasiliana che italiana, e per questo, più fortemente nostra. L'unica donna tumulata nel Gianicolo, emblema dell'Indipendenza, è un'extracomunitaria, consorte di un uomo forse troppo vasto per un mondo solo: gliene occorsero, in effetti, addirittura due. Italia terra d'oppressi e perciò in prima fila accanto agli oppressi di tutti i tempi: lo affermava Mazzini e oggi quell'Italia dovrebbe stare accanto ai rivoluzionari arabi e a tutti i popoli che si battono per la democrazia. Non stupisce che a quest'idea di nazione, ma non di nazionalismo, siano del tutto estranee la sindachessa di Milano Moratti e la sua alleata Lega, che l'altro ieri ha preferito rimanere alla buvette mentre in Consiglio comunale, si eseguiva l'Inno di Mameli; mentre la cosiddetta prima cittadina si esibiva dalla sgallettata Barbara D'Urso, a Pomeriggio Cinque, ballando una sfrenata Waka waka. A quest'ultimo personaggio non dedichiamo una riga in più. La sua stretta e particolaristica visione, del resto, è arcitaliana, anzi, italiota: di quell'altra Italia che si rifiuta di crescere, di quell'Italia pargoletta, ineducata, afasica, di quell'Italia levantina e pigra, malgrado si fregi di sano realismo padano. L'Italia adulta, invece, è ancora accennata. In Anita, ma anche in Cristina Trivulzio di Belgiojoso , femminista, politica, scrittrice, e in un uomo, quel Salvatore Morelli , mazziniano, che condivideva col suo maestro, l'insegnante che amava la chitarra, l'idea che una nazione non può essere davvero libera senza il contributo delle donne.

Buon compleanno, Italia. Sei un disegno incompiuto che vorremmo, anzi vogliamo, completare già qui, ora, in questa vita.



N. B.
: Nelle foto di questo servizio, alcuni momenti della mostra Italia Donna, realizzata dall'associazione Riciclando e ospitata a Bresso (Milano), nei locali dell'ex-ghiacciaia.





(Pubblicato anche da
MenteCritica)

23.2.11

Mio padre, da giovane

Il restauro di Miracolo a Milano non è solo una bella notizia. E' la restituzione di un'infanzia, un viaggio a ritroso in una sarabanda di specchi, insegne, cieli sabiani in cui s'accendono parole, smaglianti bianco e nero densi di luce e gioia. E' un ritorno a scabri arenili e a corpi accesi nel rovente sole dei tardi anni Quaranta. E' uno sguardo nelle nostre origini, uno scrutare nel segreto, nell'inviolabile. Perché in quel film, così antico e fulgente e straccione, ho visto mio padre.

Anch'egli, come tanti, si trovava perso in quel marasma di ragazzetti dalle ginocchia sparute, che salutavano i poveri saliti al cielo a cavallo d'una scopa. Sopra il cielo finalmente vasto, e brilluccicante, in vortici e turbini di giocosa beatitudine.

Chissà cosa pensava, allora. Niente; si lasciava trascinare sotto il suo baschetto floscio. Le baracche milanesi erano del tutto simili a quelle romane. Lui non abitava lì. Viveva, o meglio passava, in via Angelo Mosso, tra Gorla e Turro, già allora ferrigna di ringhiere, ma comunque abitazione, conquistata chissà come. Mio padre, bambino, vi volteggiava. Ogni tanto. Non so se amasse le penombre lise della cucina e dell'acquaio. Ma era così aereo. Come quei poveri sulle scope, mio padre era, in realtà, nato sulla strada e in strada trovava la sua famiglia di compagni, o di monelletti, con nomi che avrebbero fatto la felicità di Gadda, o d'un Pasolini in trasferta: il Marietto, il Demi Demi, e, più di tutti, il Boia Faust di Chicago. Coi quali, un giorno, condivise il ritrovamento d'una banconota da mille lire, nei pressi d'una pasticceria. I cui profumi dolci s'erano limitati ad assaporare. Leccandosi le labbra secche e sporche. Quel giorno non cacciarono le lucertole né fecero rissa coi compagni, né sostarono al cinema ABC per giocare brutti tiri a qualche rancido "culatun". S'ingozzarono, invece, di paste, incuranti e avidi e materici e sgangherati, bambini per sempre, pervasi d'un'irrefrenabile allegria di naufragi, ebbri per un domani che si credeva prossimo, e tattile.



13.2.11

Ci siamo!

Nota. Per un improvviso problema alla pagina web, il testo, i link e quasi tutti i video di questo post sono andati perduti. Mi limito, pertanto, a riportare l'appello dei collettivi femminili del Nord Milano per l'importante manifestazione di oggi, a favore della dignità delle donne, che si svolgerà in tutte le piazze italiane e anche straniere. La delegazione umanista non mancherà all'appuntamento.




In Italia la maggioranza delle donne lavora fuori o dentro casa, crea ricchezza, cerca un lavoro (e una su due non ci riesce), studia, si sacrifica per affermarsi nella professione che si è scelta, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, pccupandosi di figli, mariti, genitori anziani. Tante sono impegnate nella vita pubblica, in tutti i partiti, nei sindacati, nelle imprese, nelle associazioni e nel volontariato allo scopo di rendere più civile, più ricca e accogliente la società in cui vivono. Hanno considerazione e rispetto di sé, della libertà e della dignità femminile ottenute con il contributo di tante generazioni di donne che - va ricordato nel 150° dell'Unità d'Italia - hanno costruito la nazione democratica.

Questa ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali, televisioni, pubblicità. E ciò non è più tollerabile.

Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di raggiungere mète scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici. Questa mentalità e i comportamenti che ne derivno stanno inquinando la convivenza sociale e l'immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione. Così, senza quasi rendercene conto, abbiamo superato la soglia della decenza.
Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni.
Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale.
Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando? E' il tempo per dimostrare amicizia verso le donne. Lo chiedono anche, fra le tantissime aderenti famose, suor Rita Giarretta e Ouejdane Mejri, ricercatrice tunisina da anni in Italia, che assicura: "Anche le donne immigrate manifesteranno con le italiane" .
In verità, una risposta degli uomini, tardiva, insufficiente, è comunque arrivata, come dimostra l'appello "al maschile" di "Repubblica" : ma la loro voce è ancora flebile, e, prossimamente, ne analizzeremo le cause.
appuntamento per le/i milanesi è in piazza Castello alle ore 14.30. Sappiamo fin d'ora che saremo numerosissime/i.

9.1.11

Bella e perduta

"Guarda Nissa". Così mi spiegava nonna Santina ogni volta che a Sanremo, al termine di corso Imperatrice, c'imbattevamo nel monumento a Garibaldi. Non si trattava d'un refuso, "Nissa" era proprio l'antico nome della città che aveva dato i natali all'eroe, e che l'aveva inscritto nel destino: all'anagrafe del 1807 Peppino Garibaldi era infatti stato registrato come cittadino francese, per un complicato rito di cessioni e riacquisizioni attorno alle località portuali e frontaliere. Già straniero in patria, quindi, colui che sarebbe entrato nel mito, anzi, nell'agiografia civile e civica, uno dei rari "santi laici" del nostro Paese. Non poteva, d'altronde, andar diversamente per chi sarebbe stato definito "eroe dei Due Mondi". Ma avrò modo in seguito di analizzare più approfonditamente la sua figura. Adesso, a pochi giorni dall'inizio delle celebrazioni per il 150° dell'Unità d'Italia, voglio soffermarmi su quel monumento, capolavoro Art nouveau realizzato nel 1908 da Leonardo Bistolfi. Che Garibaldi "guardasse Nissa" non mi sentivo di metterlo in discussione; mia nonna ne era troppo convinta, e lo pronunciava con quel tono di ruvida reverenza tipica dei liguri. Ciò nonostante a me pareva che gli occhi fossero rivolti piuttosto a est, sulla spianata baia sanremese di cui, nel 1860, Garibaldi era divenuto cittadino onorario, e più in generale sulla penisola italiana, ormai quasi compiuta, e abbracciata con un sospiro smagato. C'è una gravità rodiniana nel monumento di Bistolfi, che ritrae un Garibaldi ormai anziano, ancor ritto e fiero, ma realistico e quasi espressionista nelle massicce e tozze gambe da marinaio, elevato e però già sofferente, artritico, remoto. Ai suoi piedi, i grossi piedi, sei bassorilievi scandiscono i momenti più alti della sua vicenda umana e nazionale; l'eroe non vi compare mai, sostituito dai compagni d'armi o piuttosto da quelle divinità femminili e decadenti che avrebbero abbellito l'arte ufficiale del giovane Stato italiano, nato monarchia contro la volontà di Peppino. La maestria di Bistolfi ha saputo cogliere l'intimità dell'uomo d'azione, la corporeità e la ricchezza del suo pensiero, quel rammarico per chi e cosa avremmo potuto diventare, e non siamo stati, mirabilmente spiegato da Piero Gobetti. Garibaldi il marinaio, il mazziniano "eretico" ("La mia idea di democrazia diverge da quella di Mazzini, essendo io socialista", ebbe a dire al termine della sua vita, nel corso di una delle numerose schermaglie politiche che contrapposero i due uomini), il massone, il libertador ma anche l'operaio per Antonio Meucci, Garibaldi mitizzato all'inverosimile in quel capolavoro di blasfemia popolare che recitava: "Figli d'Italia, se asciugar volete/di Venezia e di Roma il lungo pianto/poco v'importi se non canta il prete:/queste son le candele e questo è il santo". E l'epigrafe compariva sotto una stampa dove l'eroe era raffigurato su un altare, con tanto di aureola, e contornato da ceri-baionette. Troppo? Decisamente troppo. Ma vi facevano da contrappunto il massacro di Bronte e quel racconto, atroce e bestiale, di Luigi Pirandello, L'altro figlio, dove per colpa dei soldati di "Canebardo" a una madre in gramaglie nere spettava una sorte spaventosa... Unici graffi terrosi che quel mondo primordiale e assetato di viscerale giustizia subirà, scaraventato fuori da qualsiasi storia, condannato a una fissità plebea e furibonda.

Il monumento pare ancora sospirare, adesso. Chissà se avrebbe immaginato gli sberleffi dei leghisti e, prima ancora, dei ciellini, eredi di quei seguaci di Pio IX che l'eroe definì "un metro cubo di letame"? Già, perché a precedere la penosa paccottiglia padana sono venuti i meeting di Rimini in cui si cercava di riscrivere il Risorgimento rivalutando il brigantaggio in quanto "popolare e cristiano" ("il brigante Gasparone ama la mamma e la religgione"), con la stessa virulenza del reazionario Principe di Canosa. E confinando Garibaldi tra i terroristi atei e senzadio.

Il gesto provocatorio della signora Lucia Massarotto che per anni, a Venezia, ha esibito il tricolore sfidando i raduni leghisti.

Si aspettava tutto questo, Garibaldi? Secondo me sì. O almeno lo immaginava. Quel melanconico monumento testimonia la sofferenza d'un uomo che lottò, sì, per amore, un amore maturo (anziano), perciò deluso e imperfetto, largo, come quel suo sguardo verso oriente, protratto sulla lunga e sterminata penisola aurea e tremenda, donna infedele, amante mediocre, ma unica e irrinunciabile.







19.1.10

Buon compleanno


Oggi in tanti, a partire dai Presidenti della Repubblica e del Senato, sono impegnati a ricordare Bettino Craxi nel 10° anniversario della morte.
Questo blog vuole invece ricordare Paolo Borsellino, martire della legalità e della democrazia, che oggi avrebbe compiuto 70 anni (e Rocco Chinnici 85). Non oso chieder loro perdono per l'oblio degli italiani. Mi limito alla vergogna. Infelice quel Paese che ha bisogno d'eroi, ma disgraziato quel Paese che sceglie eroi sbagliati.

29.11.09

Il Crocifisso: braccia aperte per ogni uomo

Vi sottopongo un'altra interessante riflessione.

In queste settimane noi pastori siamo stati più volte interrovati da cristiani e non cristiani sulla vicenda del Crocifisso. In molti siamo stati toccati dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che ne proibisce l'esposizione nelle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e per salvaguardare il pluralismo educativo di una società democratica.

Ci pare opportuno offrire a tutti queste considerazioni:

- Condividiamo le parole dei nostri vescovi e di tutti coloro che hanno espresso amarezza e perplessità sulla sentenza che ha colpito il segno che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo. Con tale miopia come può l'Europa camminare?

- Facciamo nostro l'invito del Papa ai cristiani di avere coraggio nell'esprimere la propria fede, anche nelle forme pubbliche: troppe volte è pavido l'atteggiamento del cristiano ed insignificante la testimonianza di una fede che feconda tutti gli ambiti di vita.
Gerusalemme, via Dolorosa: un artigiano palestinese vende croci per la settimana della Passione.


- Ci sta a cuore domandare ai cristiani: questo segno del Crocifisso ha un senso vero per la tua fede, per la tua vita? Davvero richiama, appeso nelle nostre case o portato al collo, quella fiducia in Dio e quell'amore senza confini che sulla croce Gesù ci ha mostrato? Qui c'è la radice dell'identità del cristiano della quale, nella mitezza, siamo fieri.


- La rappresentazione della passione e della morte di Cristo, concentrata nel segno del Crocifisso, nei secoli è divenuta anche un simbolo umano, culturale, oltre che religioso. Il Crocifisso indica il prezzo pagato per creare pace, giustizia, fraternità, rispetto del valore di ogni persona. In questo senso non è offensivo né discriminatorio per nessuno ed è giustamente riconosciuto nel nostro ordinamento come un segno della nostra cultura, e non solo il segno confessionale della maggioranza degli italiani. Ecco il perché dell'opportunità dell'esposizione del Crocifisso nei luoghi pubblici ed istituzionali, in particolare nelle scuole: un segno a favore di tutti e mai contro qualcuno.

- La non cristiana Natalia Ginzburg scriveva nel 1988 in un articolo dal significativo titolo: Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano: "Il crocifisso non genera nessuna discriminazione, è l'immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino allora assente". E aggiungeva: "Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo".

- Per questo motivo non sono condivisibili dalla comunità cristiana atteggiamenti che fanno del Crocifisso un segno identitario brandito contro qualcuno: il Crocifisso non va strumentalizzato, né può essere usato in alcuna battaglia; né contro alcuna persona. Anche la storia lo ha insegnato. E' l'icona di chi alla violenza e all'ingiustizia risponde con parole di pace e gesti d'amore. Quelle braccia aperte sulla croce lo dicono più di molte parole.

- Eco perché difendendo il Crocifisso sui muri non si può restare indifferenti a quei "crocifissi" della vita (poveri, disoccupati, immigrati, disabili...) che esso tutti abbraccia: lui chiede a noi di fare altrettanto. Questo vale per tutti.

Affidiamo con amicizia queste parole alla riflessione dei cristiani e di chi non si riconosce in questa fede; crediamo infatti che il Crocifiso abbia la capacità non tanto di scaldare e dividere gli animi, quanto di stimolarli a guardare a Dio come al nostro miglior alleato e agli uomini come a fratelli di cui prendersi cura.
Fraternamente.


I preti del decanato di Bresso, Cormano, Cusano ("Informatore San Carlo", dicembre 2009)

2.11.09

Sul limitare

"Sono nata il 21 a primavera". E sullo straziante inganno di ieri, il crepuscolo di ieri, Alda Merini ha lasciato questo mondo. Perché ieri novembre ha voluto sorridere, inondando di sole la campagna lombarda. Non sembrava, non era, l'estate fredda dei morti, ma un tocco di rinascita. Questo clima così bislacco, che ormai muta pelle, e dipinge inquieti arcobaleni. E invece, semplicemente, lo spirito le stava preparando una casa degna. Una casa felice: debordante, come la felicità troppo invadente per quel fragile corpo. Quanto doveva arrabbiarsi, Alda Merini, nel sentir descrivere i matti come individui tristi. Lei lo era diventata, matta, dopo il primo parto, gravata dall'eccesso di vita che sentiva scoppiarle dentro. Il suo sguardo, infatti, non era né mesto né dolente. Era uno sguardo di gloria, di vette, di alture. Uno sguardo di viandante, di note orientali. Alda Merini ha segnato il limite di Dio. La vetta l'aveva ormai raggiunta, col passo cadenzato e placidamente sicuro. Dio stesso le aveva addobbato quel giorno. Aveva fatto confezionare per lei ingressi di Scritture sacre: l'eunuco redento di Isaia, il padrone di casa che invita storpi, ciechi, mendicanti, folli. Alda Merini ha affascinato i più grandi poeti, da Penna a Pasolini (anch'egli scomparso, o meglio rapinato, un 2 novembre di 34 anni fa), e non si negava agli artisti d'oggi: per lei hanno scritto Roberto Vecchioni e Giovanni Nuti, per lei ha cantato Milva. E nei ricordi di Cosimo, infermiere al San Paolo di Milano e una delle ultime persone ad averla vista viva, Alda era "una donna simpatica, solare, aperta alle battute". E confessava di essere innamorata di Renato Zero, "ah, che bell'uomo, - sospirava, - le sue canzoni sono davvero poesie".
Era il Dio dei diversi che aveva sempre cantato, impossibilitata a costringerlo dentro un rito, poiché Egli stesso era rito. Era il Dio escluso e degli esclusi, che in quel fatale giorno, in quello ieri, le lastricava la strada dorata delle nuvole di grano, degli anni miti. Ma era, anche, il Dio impotente di fronte al dramma dell'umanità. Ben consapevole della tragedia che il suo troppo amore, la sua squassante gelosia, avrebbe prodotto in noi, poveri naufraghi terrestri. Destinati, d'improvviso, a piagge vaste e deserte. Perché senza Alda Merini saremmo stati davvero tutti più orfani, defraudati.

Dio incatenato dal nostro destino di finitezza, che lui pure ha prodotto, è lo stesso Dio della leggenda ebraica, turbato dalle preghiere del suo popolo per l'imminente morte di Mosè, il primo dei suoi viandanti: "'O Signore e Dio nostro, noi amiamo il corpo puro e santo di Mosè e ti supplichiamo di lasciarlo in vita'. Allora Dio portò Mosè su un monte alto, lo fece distendere a terra, gli susurrò di chiudere gli occhi e, in quell'istante, accostò le labbra alle sue, e gli rapì l'anima. Poi Dio pianse'". Anche oggi, sul limitare dei santi e dei morti, il cielo si è oscurato. Dio ha trasportato Alda nella sua primavera, e oggi le sue lacrime ci domandano perdono per averla nascosta ai nostri sguardi.

29.10.09

Il serpente antico

L'ultima ingiuria, adesso, sarebbe definirla "donna con le palle". L'ultimo, estremo affronto del paganesimo sessista a Roberta Serdoz e, con lei, a tutto il genere femminile.

Negarne l'alterità, quindi la ragion d'essere. "Donna con le palle": cioè coraggiosa, nobile, forte, determinata, razionale. Cioè, maschio. Una donna che dimostra le qualità elencate, secondo la vulgata pagano-sessista, non può appartenere a sé e al suo sesso. Sesso viene da "secare", dividere, e il sesso femminile, per il paganesimo sessista, è di per sé divisione, mancanza. Peggio: nullità.

Il paganesimo sessista procede per sottrazione, poiché teorizza l'esistenza d'un solo vero sesso, quello maschile. Il quale però, contrariamente all'etimologia del vocabolo, è esaltato a paradigma assoluto, parabola suprema, e divinizzata, dell'intera umanità. Relativo che diventa totalità.

Per il paganesimo sessista nessuna donna possiede pertanto qualità positive, né i suoi comportamenti possono essere presi a modello. Se ciò avviene, è perché essa ha rinunciato alla sua femminilità-inesistenza per riempirsi e significarsi (travestirsi?) del divino maschile. "Donna con le palle", quindi: fatta uomo.

Roberta sta reagendo con una dignità che sfiora l'eroismo allo scandalo che ha travolto il marito. Il marito? Lei stessa, in realtà, e, ancor prima di lei, le figlie dei due, in particolare la più piccola, che a otto anni ha visto infrangersi contro il turpe muro d'un'umanità brutta, dentro e fuori, l'idolo paterno destinato a diventare, soltanto e naturalmente, l'uomo più amato.

Roberta reagisce restando al suo posto, continuando a lavorare, intenzionata a non abbandonare il consorte. Il più debole è lui, s'è detto da più parti, il più bisognoso d'aiuto, ed ecco accalcarsi attorno al pover'uomo schiere di psicologi, monaci, amici, politici, anime pie, tuttologi e professionisti della lotta alle discriminazioni. Militanti gay hanno espresso la loro vicinanza all'ex-governatore del Lazio e denunciato l'"imperante clima di transfobia e omofobia"; ma nei confronti di Roberta e delle bambine nemmeno una parola.

Tanto, è una "donna con le palle"! E' tenace, resisterà. Più probabilmente, di lei non s'è curato nessuno.

Nessuno si domanda quanto dolore, quale immane catastrofe psicologica si nascondano dietro il volto deciso, il sorriso franco e commovente di Roberta. Al paganesimo sessista importa solo l'apparenza, la lacrima esibita, la parodia della sofferenza. In una parola: la sceneggiata. Viviamo o no, nel gran teatro del mondo?

Soprattutto Roberta e le figlie, in questo momento, necessitano dell'aiuto maggiore. Ne hanno bisogno, anzi, diritto, proprio perché non lo invocano. Perché sono le più umiliate, le più negate. E, si badi bene: l'intenzione di chi scrive non è nemmeno quella di demolire Marrazzo e le sue personali miserie. Che, come dice la parola stessa, in senso stretto meritano soltanto commiserazione. Piero Marrazzo non è più colpevole d'un Cosimo Mele che va a mignotte e coca dopo aver sfilato al Family Day, né d'un Sircana che s'intrattiene - anche lui - con una trans sul marciapiede della capitale, né, naturalmente, di "utilizzatori finali" (elencare tutti i link a questo proposito sarebbe impossibile...) che non solo gozzovigliano con prostitute e minorenni (parola di moglie), ma se ne vantano pure, non sognandosi di dimettersi, bensì elevando a valore il loro degradato stile di vita.

L'uomo Marrazzo risponde soltanto alla sua coscienza (del presidente Marrazzo ci occuperemo più avanti). La donna Roberta Serdoz rappresenta tutte noi.

Tra i tanti commenti che hanno riempito le pagine dei quotidiani in questi giorni, ne ho trovati tre degni di nota, firmati rispettivamente da Giulia Bongiorno e Marina Terragni ("Corriere della Sera").

"Di fronte a un tradimento, qualunque tradimento, si tende a ritenere che una donna abbia una sola alternativa: tutelare la propria dignità chiudendo il rapporto, oppure custodire l'unità familiare e la sua immagine", annota Bongiorno. Ma quest'ultimo caso - la salvaguardia delle apparenze e il dovere coniugale - è la tipica scelta coatta delle donne sottomesse e tradizionaliste; non certo di Roberta Serdoz che invece, libera ed emancipata, svolge anche una solida professione di giornalista e conduce una vita sua. Nulla di più logico, quindi, dell'abbandono del tetto coniugale. Ma non accade: "Perché lei ha deciso, in piena libertà, che in questo frangente la priorità non è lei stessa. E così ha compiuto una vera scelta di emancipazione: si è emancipata persino dal bisogno di dimostrare la propria dignità. Ci ha rinunciato, sapendo di non esserci costretta", conclude la presidente della commissione Giustizia.

Ci troviamo di fronte a un passaggio fondamentale. Da sempre, e anche in questa particolare situazione, i sacerdoti del paganesimo sessista agitano lo spettro della femmina diabolica, il cui sesso è contemporaneamente nullificato e tenebroso, la cui natura è inesistente ma pericolosa, imperfetta ma temibile. Ancora qualche giorno fa, il cardinale Antonelli ha tuonato contro il femminismo che, assieme a gay, neomarxisti e addirittura "ambientalisti estremi" (?!?), insidierebbero la sacertà della Famiglia Tradizionale (E anche il suo Papa, spalancando scandalosamente le porte agli anglicani più retrivi e intolleranti - gesto empio reputato, da osservatori accecati e storditi,"Corriere" in primis, addirittura ecumenico... -, si muove nella stessa direzione.)

Secondo Antonelli, Ratzinger e gli alfieri del paganesimo sessista, unico compito della donna, per la sua natura incompiuta e peccaminosa, è stare asservita all'uomo, subire le sue prepotenze senza lagnarsi mai, partorire con dolore, ché questo è lo scotto da pagare per averlo strappato all'Eden. Poiché la donna non si può eliminare, come pure sarebbe desiderabile secondo tale visione, la si deve tenere a bada, negarle una propria e individuale personalità, la quale, se affermata, costituirebbe necessariamente un contro-valore rispetto all'Ordine Costituito, maschile. In questa prospettiva il femminismo, che al contrario esalta la diversità-ricchezza delle donne e si batte per la loro affermazione indipendentemente da chiunque, non può che risultare eretico e perverso, foriero di sovvertimenti e di divisioni.


La vicenda di Roberta Serdoz smaschera, ancora una volta, la menzogna di queste tesi. Roberta resta accanto al marito non perché deve farlo, ma perché lo vuole; e lo vuole seguendo una sua libera scelta, ascoltando il suo cuore, valutandolo, rispettandolo. E' vero: le donne amano vivere in relazione. Ma non perché non abbiano valore in sé; bensì perché valorizzano gli altri e loro stesse attraverso una spontanea auto-donazione. Gli uomini sono manichei; le donne in tale ottica, forzando il concetto, più "naturalmente" cristiane.

E, sempre in tale ottica, il femminismo aiuta la famiglia (certo, anche quella tradizionale mitizzata dal card. Antonelli), e non la insidia affatto. Tantomeno la distrugge.

Gli uomini non l'hanno ancora compreso, né sono stati in grado di fornire una risposta altrettanto valida al femminismo. L'hanno dapprima combattuto, poi irriso, infine subìto, ma mai sfruttato come occasione di crescita anche per loro.

Pertanto l'esortazione a "pensarci un po' su", che si legge nel contributo di Marina Terragni, può e deve essere accolta soprattutto dagli uomini; viceversa, frasi come "Dispensatrici di bellezza e di gioia, le donne hanno rinunciato per sempre a questa prerogativa divina... Valgono questo prezzo, i loro strepitosi guadagni?", rischiano di suonare terribilmente ambigue e fuorvianti. Come se l'attuale distorsione maschile sia imputabile, ancora una volta, al femminismo aggressivo ed emancipatore. Terragni continua così: "Mi scrive, straordinariamente sincero, un lettore sul blog: 'Il vero unico desiderio è vivere momenti di bel cameratismo con altri maschi... Anche il travestito, ama esclusivamente il mondo maschile e ritiene che la sua missione sia dare amore ad altri maschi, di cui comprende le sofferenze profonde che nessuna donna potrebbe lenire' [...]. Molti maschi regrediscono a un consolatorio 'tra uomini'. Un mondo a cui le donne non hanno accesso; solo maschere di donne, come sulle scene del teatro medievale; solo pseudo-donne, a misura di un immaginario semplificato e un po' autistico. Un'omosessualità spirituale e culturale che può contemplare anche un passaggio strettamente sessuale". Qui emerge un'altra e, se possibile, più complessa questione, che le analisi attuali, sia per effettiva mancanza di basi culturali, sia per timore d'infrangere il "politically correct", non affrontano mai del tutto. Ci ha provato Umberto Galimberti, che non a caso è stato in malafede accusato, di omofobia, transfobia ecc. ecc.

Poniamoci, innanzi tutto, una domanda. La regressione menzionata da Terragni e Galimberti, e che quest'ultima sembra attribuire all'autonomia e alla libertà femminili, è realmente una malattia contemporanea? In parte, senza dubbio, sì.
Abbiamo accennato all'uomo Marrazzo. Ma il governatore Marrazzo è altra cosa. L'ozio d'un potere molle e sfatto arriva a sfigurare i luoghi più evocativi, sacri e (perché no?) nobilmente "paterni" in cui si riconosce la comunità (Marrazzo consumava i suoi piaceri in via Gradoli, memoria storica del rapimento Moro, B. riceveva la sue cortigiane a palazzo Grazioli; e i carabinieri corrotti e ricattatori, privi di volto e d'anima, hanno persino abdicato alla loro storica ragion d'essere). La mercificazione del corpo; la (in)cultura del qui e ora; l'impotenza da Basso Impero o, meglio da Impero (del) Basso, anatomicamente inteso; il ripiegamento su sé stessi; la serra riscaldata della compagnia d'un proprio simile, anziché la sfida ma anche l'entusiasmo di mettersi in gioco con qualcuno opposto a te; tutto quanto è tipico del nostro tempo. Quanto all'"omosessualità culturale e spirituale" denunciata da Terragni, e che ha ben poco da spartire con l'effettiva condizione vissuta da alcuni uomini e donne, sarebbe più appropriato definirla, con Luce Irigaray, "uomosessualità". Conta relativamente poco, infatti, il sesso dell'altro, perché conta poco l'altro. Conta la sessualità dell'uno, o il suo degrado, la sua insaziabilità e, al tempo stesso, la folle ricerca di piaceri tanto più proibiti quanto più facilmente "degradabili". La donna è accettata solo come prostituta, poiché merce in vendita, sottomessa per contratto. Ma la trans va oltre, donando all'uomosessuale l'illusione d'un potere assoluto, che nemmeno la prostituta donna, per quanto assoggettata, ormai accetta più. Lo scambio non è mai alla pari e non si crea nessuna vera relazione, ma una masturbazione a due (o a più), un moltiplicarsi di specchi che riproducono un'unica immagine.

E' contro questa cultura che si scagliarono san Paolo e Dante. I quali, non per nulla, additavano il vizio in personaggi di alto livello sociale, politico e culturale; nei potenti dell'epoca. E il potere è prevaricazione.

Eccoci tornati, quindi, al punto di partenza. Il disfacimento è senz'altro un "segno dei tempi"; diciamolo senza tema, un rifiuto dell'altro che è anche un rifiuto del totalmente altro: Dio. Una forma di idolatria che però, contrariamente a quanto afferma Galimberti, non è ancora la più grave delle regressioni. Già se ne profila una peggiore, dopo il mercimonio di entrambi i sessi e il prevalere dell'uno sull'altro: la pedofilia. La soglia d'attenzione rispetto all'abuso del minore si sta pericolosamente abbassando. Personaggi noti, spettacoli, giornali e persino annunci pubblicitari veicolano messaggi sempre più espliciti, a cui ci si sta quasi abituando. E niente più della pedofilia dà sfogo al delirio d'onnipotenza e di sottomissione, una "prova di forza" ottenibile senza alcuno sforzo ai danni di un individuo per sua natura debole e non formato. La pedofilia, dunque, è il punto d'arrivo e costituisce un arretramento verso la bestialità.

E' un segno dei tempi. Ma è anche un segno senza tempo; un serpente antico. La tentazione primordiale. Perché fin qui non si è parlato di sesso, ma di violenza, blasfemia, dominio, superbia. Violenza e superbia che, nel corso della storia, si sono manifestate in diverse forme, ma che hanno un'unica origine.

Questi sono i frutti del paganesimo sessista; questo è il risultato del rifiuto del dialogo, della sottomissione forzata d'una metà del genere umano, spesso benedetta persino da rappresentanti della religione (non a caso, uomini). E' fenomeno recente? E' colpa delle femministe? Degli omosessuali? Dei marxisti? Degli ambientalisti? O non è, piuttosto, colpa di tutti noi, quando puttaneggiamo, in misura maggiore o minore, con l'ingiustizia, la soverchieria e il potere?

25.10.09

Carlo delle città

 


 

Don Gnocchi era l'infanzia. Non l'infanzia mutilata, lacera e macilenta. L'infanzia, e basta. La mia, innanzi tutto, perché la sua figura mi ha accompagnata fin dai testi scolastici. Perché la via a lui dedicata, a Bresso, sorge sul limitare della grande metropoli, nella periferia ancora disadorna, brulla e ingrigita. Perché le immagini che lo ritraggono, già circonfuso di un'aura sfuggente, hanno qualcosa di fanciullesco. Lo sguardo. Completamente libero, trasparente, senza sopraccigli, sconfinato sulla fronte spaziosa e infinita.
 


L'infanzia dunque, e, conseguentemente, l'interezza. Nulla di dolciastro, di patetico, di limitato nell'operosità di questo prete lombardo, sottile come un giunco. Se oggi siamo giunti alla consapevolezza che il bambino è persona completa e intatta, lo dobbiamo in gran parte a lui. Non si limitava ad accogliere, come testimonia Vincenzo Russo che, prima di diventare uno stimato professionista, è stato ospite del sacerdote. Lui voleva davvero che gli ultimi fossero i primi; non soltanto spiritualmente, ma effettivamente. Quel termine, "mutilatini", mi ha sempre impressionata, perché il diminutivo non riusciva ad attenuare l'immane tragedia d'una realtà che nulla concedeva al lezioso o al libresco. Quel termine ci diceva: esiste il dolore innocente, esistono individui sfregiati da un odio insensato e brutale, esistono e il loro grido si perde nel silenzio, anche in quello di Dio. E quindi non solo gli storpiati dalla guerra, ma gli svantaggiati di ogni tipo, disabili, emarginati. Bambini. Si torna sempre lì. Il bambino è l'emarginato per eccellenza, anche quando cresce forte, accudito e sano. Perché è basso, indifeso, barcollante. Ed ecco il motivo per cui pure noi, figli o ex-figli del benessere, non fatichiamo a identificarci in quelle fotografie d'infanti stecchiti, di calzoni corti cui spuntano incerti arti di cerbiatto, o rami d'inverno. E' la nostra vita che biascica, che spunta nuda e sola in un mondo impietoso.Don Carlo ha dimostrato che per loro, per noi, in quell'istante più isolato della nostra vita, c'è qualcosa. Dio? Il rispetto, innanzi tutto. Rammenta don Giovanni Barbareschi, prete partigiano, incarcerato per la sua attività antifascista, per anni stretto collaboratore del card. Martini: "Una delle frasi più belle che don Gnocchi mi disse prima di morire? 'Il primo atto di fede che un essere umano deve fare non è in Dio ma nella sua libertà di uomo, perché anche la libertà di uomo è un atto di fede'. E qui è tutto don Carlo".


Don Barbareschi rievoca le ultime ore di vita di Carlo Gnocchi alla comunità comunità pastorale San Martino in Lambrate - SS. Nome di Maria.

 

 

 



Ho voluto intitolare questo ricordo "Carlo delle città", non solo "dei mutilatini" o "dei bambini", proprio per questo suo essere "tutto" a partire dal "niente". Dalla città, vuota. La città teatro di guerre, sia materiali, sia interiori: le guerre dell'incomunicabilità, dell'angoscia e della solitudine. La città come luogo dell'assenza di Dio. La città disposta a tributare un omaggio formale ai profeti che la solcano, ma che ignora le concrete domande dei figli (oggi, le mamme della scuola intestata a don Carlo diserteranno la cerimonia di beatificazione, prevista per le ore 10 in Duomo, in segno di protesta contro i tagli del Ministero, che ha lasciato a casa 15 delle 60 maestre provocando seri disagi agli alunni, disabili gravi). Carlo, nome fatale per gli ambrosiani, non venga dunque vanificato su un altare, ma continui a percorrere queste vie. Se vogliamo che le nostre Ninive d'oggi conoscano ancora un respiro di speranza.

Daniela Tuscano

Carlo delle città


Don Gnocchi era l'infanzia. Non l'infanzia mutilata, lacera e macilenta. L'infanzia, e basta. La mia, innanzi tutto, perché la sua figura mi ha accompagnata fin dai testi scolastici. Perché la via a lui dedicata, a Bresso, sorge sul limitare della grande metropoli, nella periferia ancora disadorna, brulla e ingrigita. Perché le immagini che lo ritraggono, già circonfuso di un'aura sfuggente, hanno qualcosa di fanciullesco. Lo sguardo. Completamente libero, trasparente, senza sopraccigli, sconfinato sulla fronte spaziosa e infinita.
L'infanzia dunque, e, conseguentemente, l'interezza. Nulla di dolciastro, di patetico, di limitato nell'operosità di questo prete lombardo, sottile come un giunco. Se oggi siamo giunti alla consapevolezza che il bambino è persona completa e intatta, lo dobbiamo in gran parte a lui. Non si limitava ad accogliere, come testimonia Vincenzo Russo che, prima di diventare uno stimato professionista, è stato ospite del sacerdote. Lui voleva davvero che gli ultimi fossero i primi; non soltanto spiritualmente, ma effettivamente. Quel termine, "mutilatini", mi ha sempre impressionata, perché il diminutivo non riusciva ad attenuare l'immane tragedia d'una realtà che nulla concedeva al lezioso o al libresco. Quel termine ci diceva: esiste il dolore innocente, esistono individui sfregiati da un odio insensato e brutale, esistono e il loro grido si perde nel silenzio, anche in quello di Dio. E quindi non solo gli storpiati dalla guerra, ma gli svantaggiati di ogni tipo, disabili, emarginati. Bambini. Si torna sempre lì. Il bambino è l'emarginato per eccellenza, anche quando cresce forte, accudito e sano. Perché è basso, indifeso, barcollante. Ed ecco il motivo per cui pure noi, figli o ex-figli del benessere, non fatichiamo a identificarci in quelle fotografie d'infanti stecchiti, di calzoni corti cui spuntano incerti arti di cerbiatto, o rami d'inverno. E' la nostra vita che biascica, che spunta nuda e sola in un mondo impietoso.
Don Carlo ha dimostrato che per loro, per noi, in quell'istante più isolato della nostra vita, c'è qualcosa. Dio? Il rispetto, innanzi tutto. Rammenta don Giovanni Barbareschi, prete partigiano, incarcerato per la sua attività antifascista, per anni stretto collaboratore del card. Martini: "Una delle frasi più belle che don Gnocchi mi disse prima di morire? 'Il primo atto di fede che un essere umano deve fare non è in Dio ma nella sua libertà di uomo, perché anche la libertà di uomo è un atto di fede'. E qui è tutto don Carlo".
Don Barbareschi rievoca le ultime ore di vita di Carlo Gnocchi alla comunità comunità pastorale San Martino in Lambrate - SS. Nome di Maria.
Ho voluto intitolare questo ricordo "Carlo delle città", non solo "dei mutilatini" o "dei bambini", proprio per questo suo essere "tutto" a partire dal "niente". Dalla città, vuota. La città teatro di guerre, sia materiali, sia interiori: le guerre dell'incomunicabilità, dell'angoscia e della solitudine. La città come luogo dell'assenza di Dio. La città disposta a tributare un omaggio formale ai profeti che la solcano, ma che ignora le concrete domande dei figli (oggi, le mamme della scuola intestata a don Carlo diserteranno la cerimonia di beatificazione, prevista per le ore 10 in Duomo, in segno di protesta contro i tagli del Ministero, che ha lasciato a casa 15 delle 60 maestre provocando seri disagi agli alunni, disabili gravi). Carlo, nome fatale per gli ambrosiani, non venga dunque vanificato su un altare, ma continui a percorrere queste vie. Se vogliamo che le nostre Ninive d'oggi conoscano ancora un respiro di speranza.

21.10.09

Pat Patfoort a Milano, tre giorni dedicati alla nonviolenza

 


 

Dopo qualche anno di assenza l’antropologa belga, e mediatrice a livello internazionale nel campo della Trasformazione e della Gestione Nonviolenta del Conflitto, torna a Milano per presentarci e farci sperimentare il suo metodo.

L’iniziativa è promossa nel contesto della Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza che sta attraversando il globo. Il 16 ottobre 2009 Pat Patfoort interviene insieme a Sofia Donato, Piero Giorgi e Federico Fioretto alla conferenza COSTRUIRE LA NONVIOLENZA, educare alla pace e alla risoluzione nonviolenta dei conflitti nell’auditorium di viale Cà Granda a Niguarda. Pat ci spiega che la violenza, a tutti i livelli, si manifesta quando un punto di vista prevale sull’altro, nel sistema che lei definisce: “maggiore-minore”. E’ una condizione abituale e la maggior parte delle nostre risposte ricadono quasi inconsapevolmente in questo meccanismo. Piero Giorgi, laureato in biologia e co-fondatore del corso di laurea sulla pace presso l’Università del Queensland, in Australia, aggiunge: "“Non è esagerato affermare che ogni azione violenta, anche a livello individuale, contribuisce a creare quel 'brodino'” che alimenta le guerre e i conflitti planetari. Federico Fioretto, altro relatore della conferenza, presenta l’insegnamento di Vinoba Bhave e la proposta politica di Gandhi: conquistare una democrazia reale attraverso una rete di cittadini pienamente responsabili. Educare alla Nonviolenza richiede l’adozione di uno stile di vita complesso e coerente. Insieme a Giorgi, Fioretto promuove il progetto Neotopia (www.neotopia.it) per la costruzione di una società libera dalla violenza. Sofia Donato, volontaria de La Comunità per lo sviluppo umano, ci racconta la sua esperienza come docente di corsi nonviolenti nelle scuole primarie. Il primo passo è praticare con i bimbi la regola d’oro: “Tratta gli altri come vuoi essere trattato”, il principio alla base di tutte le religioni e ideale di coerenza per il filosofo umanista argentino Silo.


Il 17 e 18 ottobre si svolge a Bresso [con il patrocinio del consiglio d zona 9 e del Comune] il seminario Difendersi senza aggredire. Al percorso di formazione partecipano 25 persone provenienti da diverse città. Oltre ai volontari del Movimento Umanista e delle associazioni Paciamoci e Marse ci sono genitori, psicologi e insegnanti. Pat Patfoort ci accompagna con le parole, l’interscambio e gli esercizi verso la sperimentazione del modello equivalente, un atteggiamento nonviolento che presuppone l’ascolto e la comprensione dell’altro e la ricerca di una soluzione alternativa al: “IO ho ragione, tu hai torto”. Un approccio per molti aspetti rivoluzionario perché mira a considerare le motivazioni profonde (fondamenti) di qualsiasi parte sullo stesso piano, non importa se, chi si confronta, è una moglie separata, un capo di stato o un assassino.Pat ha lavorato in molte situazioni di conflitto radicato (es. nei Balcani, in Cecenia, in Ruanda, musulmani moderati/fondamentalisti) o nella mediazione familiare o con i detenuti. Ovunque ha utilizzato il suo metodo per trovare una soluzione costruttiva, che va al di là delle ragioni superficiali, delle rivalse o delle vendette.


Traducevo simultaneamente dal francese. Attenzione al minuto 2.18...


Il seminario è un’occasione preziosa di incontro e scambio di esperienze; i partecipanti ritornano nel loro quotidiano consapevoli che l’atteggiamento nonviolento non significa essere passivi ma andare verso gli altri cercando una comprensione profonda e la vera riconciliazione.


 

 

Daniele Quattrocchi (www.webmov.org)




N. B.: Il presidente Napolitano manda il suo augurio agli organizzatori della Marcia Mondiale.



La Marcia prosegue il suo cammino anche nei luoghi più lontani e impervi (dopo le Filippine, Hiroshima e Nagasaki, Corea del Nord e del Sud, i nostri amici sono giunti in Israele, dove, in una scuola, hanno incontrato ragazzi israeliani e palestinesi; presto sarà la volta dell'Africa, e chissà che non riescano a toccare anche il martoriato Sudan, dove i fondamentalisti hanno crocifisso sette cristiani...). E l'affetto, la simpatia e i sostenitori aumentano giorno dopo giorno, anzi, ora dopo ora. Dieci giorni fa a Cristiano Chiesa-Bini, di Mondo Senza Guerre, è stata recapitata la seguente lettera:


Roma, 8 ottobre 2009


Gentile dott. Chiesa-Bini,


desidero ringraziarla per le cortesi informazioni relative alla Marcia Mondiale per la pace e nonviolenza promossa dall'associazione Mondo senza guerre. La Marcia costituisce un'iniziativa dall'alto valore simbolico e morale a favore di principi fondamentali per il futuro dell'umanità.


A nome del Presidente della Repubblica desidero inviarle, con sentimenti di viva partecipazione, i èiù sentiti auguri per il prosieguo della manifestazione.


Colgo l'occasione, gentile dott. Chiesa-Bini, per porgerle i miei saluti più cordiali. Mi creda


Ambasciatore Rocco Antonio Cangelosi (il link originale qui)



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...