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9.4.19

La vita nonostante tutto La sfida delle sorelle Pinna, stelle del ballo nell'oscurità






Ecco perché non reagisco e ormai non ci faccio più caso quando ridono di me o con me delle mie problematiche di salute e fisiche   su  cui   non  mi  dilungo  perchè   credo  che     voi  che mi seguite   qui  sul blog  e   sui miei  social    già  conoscete     . Infatti ( nonostante alcuni mi s'adirano ) mi definisco  guasto o da rottamare . C'è gente , come le protagoniste della storia che trovate sotto che ha problemi più bravi dei miei  e che (almeno fin ora  poi in un futuro con l'avanzamento e scoperta di nuove cure e nuove tecnologie chissà) non si possono curare . Non so  che  altro dire  \  aggiungere     se  non  lasciarvi alla lettura  d  questa  bellissima  storia   presa  dalla  consueta  rubrica  dedicata    a storie  simili  del lunedì  della  nuova  Sardegna


  la  nuova  sardegna  08 aprile 2019


Roberta, cieca dall’età di 8 anni, fa coppia con Eleonora nella danza paralimpica. «Grazie a questa disciplina abbiamo una grande intesa anche nella vita reale»
                                            di Manolo Cattari



SASSARI
A una piace la musica pop e all’altra quella folk sarda. Una è disordinata e l’altra superordinata, e guai se le sposti le cose. Una è bruna e riccia, l’altra bionda e liscia. Una per spostarsi vede con gli occhi e l’altra con le mani e i suoni. E quando ballano sono una cosa sola. Le sorelle Pinna sono così simili da essere scambiate per gemelle e allo stesso tempo diversissime come solo due sorelle possono essere. Quando parlano ricordano i gemelli Pinco Panco e Panco Pinco di “Alice nel paese delle meraviglie”: si completano nel raccontarsi. «Mi fa ridere quando cerca di fare la ruota, mi rendo conto di come la fa dal rumore. Un giorno cadrà faccia a terra facendola» racconta ridendo Roberta, alla quale replica Eleonora: «Sì, sì, io sono la tua cavia e tanto poi, quando sbagliamo, Cristina se la prende con me».



Roberta ed Eleonora sono di Oschiri, la prima ha 23 anni e la seconda 20. Iniziano a fare danza seguendo una passione di Eleonora e attualmente sono due stelle della danza paralimpica sarda e non solo. Roberta è cieca da quando aveva 8 anni e con la sorella fanno parte di un duo della DanceOzieri Academy. Allenate da Cristina Resta, portano i colori della Sardegna in giro per l’Italia e raccontano la loro vita nelle scuole. Perché la loro è la storia di due sorelle che fanno squadra nell’affrontare una difficoltà, investendo un sacco di energie, spalleggiandosi e fondamentalmente volendosi bene. «Anche se Eleonora quando si chiude in bagno ci mette una vita cantando sotto la doccia» appunterebbe Roberta.
Non sono poche le sfide che hanno dovuto affrontare: dalle esperienze di esclusione a scuola, con Roberta che veniva ogni tanto parcheggiata qua e là ed Eleonora in prima linea a difenderla; ai soliti problemi dell'autonomia e dell’accessibilità in un territorio che, come tanti, poco si presta alla quotidianità in autosufficienza di un’adolescente non vedente: «Io a scuola volevo stare vicino alle altre, ma con alcune professoresse non c’era verso di farglielo capire che potevo benissimo stare con loro» racconta rassegnata Roberta.
La danza arriva proprio come scelta di uno sport che potesse potenziare le autonomie: «È utile per l’orientamento perché devi imparare a conoscere la direzione, sennò non puoi andare da sola» afferma Roberta. E per farlo il lavoro da fare è notevole perché bisogna pensare ad un modo nuovo di imparare. I classici specchi a parete su cui guardare e riguardare i movimenti fino alla nausea, sono inutili. La propriocezione diventa la chiave dell’apprendimento, cioè la sensazione del proprio corpo in uno spazio “sentito” più che visto. Per fare questo Roberta ha le idee chiare: «Mi aiuta immaginare una torta, da tagliare, così quando ad esempio devo ruotare di 45 gradi immagino di tagliare una fetta di torta».
Ma allo stesso tempo senza Eleonora il tutto sarebbe molto più difficile, come lei racconta: «Attraverso il tatto io la guido, con le spalle o con le braccia, per farle capire dove deve andare. Anche io ho dovuto imparare a come rapportarmi a lei, le prime volte mi sembrava di muovere una pedina. Ora balliamo e ci divertiamo insieme».
Anche in questa storia, come in quella di tanti atleti paralimpici, lo sport trascende il risultato per dare un nuovo orientamento alla propria vita: «Quando ballo non penso e allontano i pensieri brutti. Quelli che vengono con l’aver perso la vista e col senso di inutilità» dice Roberta.
Ma in questa vicenda in particolare, lo sport lega due sorelle e le rendi complici, per dirla con le parole di Eleonora: «È stata la danza a farci raggiungere questa intesa. Siamo più attaccate e più complici. Anche nella vita normale adesso lei mi cerca più come guida personale, cosa che, prima della danza, non c’era. Sa che si può fidare; prima c’erano solo mamma o babbo». E come ogni coppia che affronta delle prestazioni, anche loro hanno i propri trucchetti per caricarsi al meglio per le gare: «Tra le due lei è quella che si accontenta di più» racconta Eleonora: «Allora per caricarla le descrivo che sugli spalti ci sono un sacco di persone tra il pubblico e lei si concentra di più».
Le sorelle Pinna non sono nuove al mondo artistico-culturale, con i genitori Agnese e Angelo da anni girano la Sardegna seguendo e partecipando ai festival musicali. In attesa di preparare un musical continuano a diffondere, in giro per gare e scuole, la loro originalissima versione “vedo non vedo” di “Black or White” di Michael Jackson. 


16.2.17

la musica non è solo san remo .essere umano di valentina rubini e la risposta degli Hakuna Matata a Bello Figo

incuriosito da  questo articolo e  da questo video



Si intitola Essere Umano ed è la canzone rap di Valentina Rubini dedicata a tutti gli animali maltrattati e torturati dall’uomo e in particolare al cane Angelo che fu seviziato e ucciso da quattro ragazzi lo scorso giugno a Sangineto in provincia di CosenzaLa canzone è nata per ricordare Angelo e tutti gli animali che come lui sono vittime della violenza delluomo e ha avuto molto successo – spiega Alessandro Mosso, presidente dell’associazione Animalisti Onlus che ha finanziato la produzione del video – Così abbiamo deciso con Valentina di fare altri due video i cui proventi andranno a sostegno dei nostri progetti per i cani randagi.

Infatti  cercandola  in rete oltre  a questa  striminzita  biografia



Valentina Rubini (28 anni, Tortona ), rapper, autrice, attrice e attivista per i diritti animali nasce a Piazza Brembana (BG) , studia e si laurea a Milano presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore e si forma come attrice nella stessa città. Nel 2012 pubblica il libro "Ad occhi socchiusi" in cui si racconta attraverso la metafora della città in cui vive, sogna e sopravvive. 
Dal 2015 si ritira in una piccola città di provincia, dove viene a contatto con qualcosa che le cambia la vita: la lotta per i diritti animali. Amante da sempre dei fratelli non umani, Valentina inizia un percorso di consapevolezza profondo, diventa vegana e attivista. Unisce l'amore per le creature di questo pianeta al suo talento e porta avanti un progetto di musica e parole che spesso toccano temi importanti per la sensibilizzazione della massa.


Infatti in  questo suo  scritto   dove   scrive


Valentina Rubini
 Vorremmo che questa piccola iniziativa, attraverso un mezzo leggero come la musica, possa dare ancora più voce a coloro che stanno chiedendo una legge che punisca severamente i crimini e i maltrattamenti contro gli animali come Angelo, il randagio divenuto simbolo di questa lotta.
Dedico questo pezzo a tutti quelli che si fanno un culo così tutti i giorni per rendere giustizia alla vita, animale umana o non umana che sia. Siamo in un momento delicato di passaggio e seminare i frutti di un mondo un pochino migliore di questo, oggi, non è facile. Non importa se non vedremo i frutti della nostra lotta, qualcuno li vedrà. E a differenza di quello che si pensa, non si tratta più di essere animalisti, vegani, attivisti o non esserlo. Si tratta di scegliere di cambiare radicalmente rotta, "sacrificando" un pezzo del nostro orticello per difendere il lato più debole, siano animali, bambini, donne, ultimi degli ultimi. Si tratta di fare qualcosa di totalmente gratuito per chi non può ringraziarti, di cambiare prospettiva e passare da una visione antropocentrica (che ci ha distrutti) a una eCocentrica (che può salvarci). Voglio dedicare questa canzone a tutti gli attivisti che hanno le pezze al culo ma sono sempre lì per una causa più forte di loro.. questa è una canzonetta, voi siete il futuro. Ciao.
  


mi fanno credere che la sua scelta vegana sia coerente e non modaiola

La  seconda  è questa



26.10.16

l'obesità si può tenere sotto controllo e sconfiggere senza medicine Il racconto di un 31enne che superava i due quintali: «Nessun intervento, in 8 anni ho ripreso in mano la mia vita»

Precisazione    doverosa 
A  chi  avendo  letto   il mio precedente  post   :   come   curare e  tenere  a  bada   senza  farmaci  (  se  non in casi  gravissimi ed estremi  )   la depressione afferma    che  sono  un  ciarlatano ,  un complottista  ,  populista   e menate  simili  rispondo  che    :    sono uno   che crede  , ed  ha  provato    e lo fa  continuamente  ,   che certi  problemi   si   combattono  o s'attenuano(  cioè non vuol  dir e  che    non bisogna  usare  i farmaci   ma usarli   nei  casi meno  gravi    ed   estremi   senza  farmaci   ma  con una  semplice  analisi  e auto  analisi   psicologica  . Infatti 
un  abuso  ed  un uso  scriteriato  di  farmaci   non fa bene  e creano gravi effetti collaterali ed   assuefazione ed    dipendenza  ,  tant'è che   molti parlano  di  droghe  legalizzate   . Inoltre  è scientificamente  provato  che  certi problemi   di salute  hanno  un origine  psicologica   e  come tale  si  può  risolvere  o  quanto meno integrarla  , ovviamente   nei casi  più gravi ,  con i  farmaci  .
Introduzione  all'articolo
Ai  vecchi lettori e  fans  che mi dicono  che  ho  abbandonato  il parlare  di me  , il  mio   personale    questa  storia  è la mia  risposta  . Infatti   anch'io  soffro di problemi legati al cibo : colite  , reflusso  gastro esofageo   (  ed  è grazie  alla lotta   fatta  di cadute  e  ricadute  che   non sono arrivato  ai livelli  del protagonista  della storia  sotto  riportata  ) , ed  in particolare  fame  nervosa   . Ecco quindi  che  come  ci è  riuscito  lui  ,  ci posso  riuscire  ion almeno a tenerla  sotto controllo ed  evitare   di colmare  i  miei  vuoti  , le mie delusioni  ,  le  batoste  e  gli urti  che ricevo dalla  vita  , ecc    facendo  come ha  fatto lui    ed accettando il rischio di cadere  e  di   dover  rincominciare da  capo .  Ma  ora  basta  annoiarvi  .ed eccovi la  sua  storia


  da http://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2016/10/26

 la storia
«Rischiavo di morire, ho perso 120 chili» Palestro. Il racconto di un 31enne che superava i due quintali: «Nessun intervento, in 8 anni ho ripreso in mano la mia vita»




PALESTRO. Ha perso 120 chili in otto anni. Dai 23 ai 31 anni è passato da 215 chili, distribuiti su un metro e 70 centimetri d'altezza, ai 95 attuali. Riccardo Silva fa il cuoco e vive a Palestro, dove è cresciuto ed è molto conosciuto. A 23 anni ha deciso di cambiare la sua vita. «Ho fatto tutto da solo, senza ricorrere a interventi chirurgici – spiega il giovane di Palestro – I medici mi hanno solo aiutato con una terapia farmacologica per la cura della tiroide, che aveva delle disfunzioni: per questo sono stato ricoverato in una clinica a Piancavallo, località nel territorio di Oggebbio, in provincia di Verbania. Quando sono entrato in clinica i medici sono stati chiari: mi hanno detto che se fossi andato avanti così non sarei vissuto a lungo». Riccardo Silva era arrivato a vestire la taglia 78 di pantaloni, ora è tornato ad una più onesta 54 di taglia: «Ho preso in mano la mia vita. Ho deciso di migliorarla in questi anni ed i risultati ora si stanno vedendo, anche se ho ancora molto lavoro da fare per perdere altri chili – sottolinea il 31enne di Palestro –. Adesso ricorrerò anche alla chirurgia, ma solo per la sistemazione della pelle in eccesso, che è rimasta in seguito al dimagrimento: sono in lista d'attesa per l'intervento». La cura alla tiroide è stata fatta durante quattro ricoveri, nel 2008, 2011, 2015 e 2016, nella clinica di Piancavallo: trenta giorni di ricovero ogni volta in cui Riccardo veniva seguito dai medici nel suo percorso. Ma qual è stato il segreto di questo dimagrimento che ha del miracoloso? «Davvero niente di particolare, ho solo seguito la classica dieta mediterranea: non ho utilizzato nessuna dieta miracolosa di quelle di cui si sente tanto parlare in giro – spiega Riccardo –. Ho iniziato con la nostra dieta tradizionale, quindi mangiando pasta, pesce, carne, frutta e verdura in dosi giuste: prima dovevo assumere 2400 calorie al giorno, poi la quantità di calorie è scesa ma ho comunque un'alimentazione equilibrata e che mi sazia: non mi sento come uno che fa una dieta restrittiva, una di quelle con tante privazioni. Tutto questo è stato abbinato ad attività fisica: vado in palestra a Robbio, dove faccio corsa, cyclette. Ora sto iniziando a tonificare anche la massa muscolare con gli attrezzi della sala pesi. La cura della tiroide, abbinata alla dieta mediterranea e alla palestra mi hanno salvato, ma più di tutto serve in questi casi cambiare mentalità: è quello che fa la differenza». Ma com'era stato possibile arrivare a pesare oltre 200 chili ed avere la taglia 78 di pantaloni? «Avevo una dieta sregolata: fast food, aperitivi e cibo fuori pasto in continuazione – risponde il 31enne di Palestro – Uno stile di vita che mi stava rovinando. Ora, dopo un lungo percorso, posso dire che la mia vita è cambiata in meglio: la forza di volontà è stata quella che mi ha permesso di farcela da solo». Ma in questi anni com'è cambiata la sua vita? «È cambiata totalmente. Prima non potevo prendere i vestiti che volevo ed ora sì: e questo è solo un primo esempio – risponde Riccardo –. Ogni incombenza della vita quotidiana era diventata un problema: dal fare le scale o anche solo prendere la bicicletta per fare un giro in paese. Ora invece riesco a fare tutto: faccio anche 40 chilometri in bicicletta e d'estate faccio faticose passeggiate in alta montagna, tutte cose che mi sarei sognato un tempo. Comunque ho ancora molto da fare, voglio arrivare a 80 chili».

                                    Sandro Barberis

1.2.14

Le foibe, l’esilio, la congiura del silenzio e simone cristicchi

 approfondimenti   (    dei  miei precedenti   post  con una buona  scorta  di link  )  


Proprio mentre inizia  queste  post  mi metto a canticchiare  questa  canzone di Cristicchi  di cui   ho  preferito ,  salvare il video   con  dowloadhelper ( opzione di  mozzila  firex  fox  )  visto :   la bellezza  delle immagini  ivi  riportate   ma  soprattutto  perché  a  volte  le immagini dicono  più di mile parole 


 canzone che  sta  facendo  (   e farà discutere )   come   come potete notare  nel  video  qua sotto  



Sbaglia   certo come dicono  questi storici http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2013/11/Fahrenheit-CRISTICCHI.mp3  ma   almeno  ne parla   e  fa  si che  tali eventi non cadano  nel dimenticatoio  e    nei commenti    al post sul sito canzoni contro la guerra ( in cui trovate  ulteriori  link  e news per  chi volesse  approfondire  tale  argomento  )  perchè la memoria   fiera  ed indigesta   tratta  da una vicenda  vera  quella del magazzino18

Quest'anno a  differenza  degli altri anni  , invece  d'annoiarvi  con il  soliti post  nozionistici , ma  soprattutto non avendo  
nè tempo  , nè forza   per  evitare  di farmi venire le lacrime  come   gli altri anni  voglio  ricordare  tali eventi lasciando  la parola  ai sopravvissuti  o  quanto meno   nel caso degli esuli  ai discendenti  .   attraverso queste pagine  http://digilander.libero.it/lefoibe/testimonianze.htm e  gli articoli sotto 

riporto qui   degli   articoli interessanti   il  primo è     tratto da  www.televideorai.it ( ora http://www.rainews.it ) del  10\2\2013

di Paola Scaramozzino
 
“Quanto imbarazzo quando facendo delle pratiche mi chiedevano dove ero nata. A Pola rispondevo e automaticamente compariva sul computer dell’impiegato una striscia rossa che evidenziava un errore. Pola, ora si chiama Pula ed è in Croazia, fa parte delle città che alla fine della II Guerra mondiale e dopo il trattato del 1947 sono state cedute alla ex Jugoslavia. E’ come dire che io non sono più italiana”.
Così ci racconta Anna Maria Mori,foto a sinistra, giornalista, scrittrice, figlia di esuli Istriani che a questo argomento aveva dedicato già nel 1993 un documentario, ”Istria 1943-1993: cinquant'anni di solitudine” e poi “Istria, il diritto alla memoria” del 1997, entrambi trasmessi su Raiuno. Ci ospita nella sua casa, a due passi dal centro di Roma.
“Per anni ho cercato di rimuovere quella che è stata una tragedia familiare che ci ha allontanato da Pola e dal posto dove era nata mia madre , Lussinpiccolo, una località oggi della Croazia, situata sull’Isola chiamata dei Capitani perché c’era una scuola per capitani di lungo corso della marina mercantile. Mio padre non era istriano ma di Firenze, eppure si sentiva di appartenere a quel posto. Dopo l’esodo mia madre non ha fatto che piangere, non si è mai rassegnata”. E come lei chissà quanti altri profughi si sono portati nel cuore il grande dolore della perdita non solo di una casa, di un territorio , ma di un’identità. Ci sono dolori che ti invadono il cuore ma anche la testa, il corpo e così deve esser accaduto alla madre dell’autrice che racconta la storia della sua famiglia nel libro “Nata in Istria”, pubblicato nel 2006 dalla Rizzoli e uscito in questi giorni nell’ edizione tascabile Bur.
Quando si è saputo delle Foibe? “ E’ accaduto come per i campi di concentramento nazisti, all’inizio gli ebrei stessi non ne parlavano . Dopo il trattato e con l’occupazione dei 45 giorni di Trieste, i titini nelle strade urlavano con gli imbuti perché non c’erano i megafoni, “Italiani fascisti andatevene” perché per loro tutti appartenevano a quell'ideologia e non era proprio così. Poi la gente scompariva di notte. Uomini, donne, bambini. All'inizio forse non si poteva neanche immaginare che le persone venissero gettate nelle foibe. E’ stata una pulizia etnica simile a quella perpetuata nei confronti degli ebrei anche se di dimensioni diverse.




Un orrore evidente con i ritrovamenti dei poveri resti nelle fosse Carsiche. Quante persone sono state trucidate? Si può fare solo una stima, 10 mila forse. Chissà. Ad un cero punto si è capito che era in pericolo la vita di tutti e solo da Pola sono partiti in 30 mila verso l’Italia che ha accolto i profughi malissimo.

La sinistra li considerava tutti fascisti e temeva che, testimoni del regime comunista di Tito, potessero raccontare che quello non era il “Paese avanzato” che i comunisti italiani tanto declamavano. Gli esuli sono stati abbandonati e criminalizzati. La destra li ha in qualche modo difesi e allora anche coloro che non erano fascisti, alla fine lo sono diventati. Una situazione imbarazzante anche per il governo di De Gasperi che non si espresse per non rompere gli equilibri con la Jugoslavia che aveva tagliato i rapporti con l’ Unione Sovietica. Una situazione davvero complessa ”.
Istituire la Giornata del Ricordo si può considerare un risarcimento morale per gli esuli e per le vittime delle foibe?“Diciamo di sì, viene riconosciuto un fatto negato per 50 anni. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso parole durissime sul silenzio che c’è stato e che ha riguardato anche l’eccidio di Porzus, dove partigiani rossi uccisero partigiani bianchi. Fra questi Francesco de Gregori, zio e omonimo del cantautore e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. Diciamo che tutte le storie dell’Adriatico Orientale sono state in parte taciute”.
Che si prova a ritornare sui posti dove si è nati e cresciuti e sapere che non sono più tuoi?
“La tua Terra è un po’ come tua madre. C’è un’ appartenenza reciproca, profonda, la si sente dentro. Non è solo per il posto fisico, ma per tutto: odori, sapori, paesaggi. E poi per come sono fatte le case, i tetti a punta, l’architettura austroungarica. E c’è il mare. A Roma ci vivo da decenni , è una città bellissima, ma non è la mia. Mi sento fuori posto. Sempre”.
La Storia, le foibe: fra il 1943 e il 1947 sono fatti precipitare vivi e morti, quasi diecimila italiani.La tragedia delle foibe si svolge in due tempi. Una prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell'armistizio dell’ 8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano e poi gettano nelle foibe, le cavità carsiche profonde anche 200 metri, circa un migliaio di persone. La seconda fase che è quella più cruenta avviene nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberal democratici, socialisti, uomini di chiesa, oltre 40 sacerdoti, donne, anziani e bambini. È un massacro che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947 quando viene fissato il confine fra l' Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce.
Nel febbraio del 1947 l'Italia ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l' Istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia una grande accoglienza né dalla sinistra, né dalla destra e dallo stesso governo di De Gasperi.
I profughi
Le foto datate 1947 più che le parole possono descrivere la disperazione di uomini, donne, bambini, interi gruppi familiari e anziani costretti a lasciare quella che era la loro patria per un’altra Italia che provata dalla guerra, non desiderava altre bocche da sfamare. Al dottor Marino Micich , figlio di esuli dalmati, direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume, Segretario generale della Società di Studi Fiumani, presidente dell’Associazione per la Cultura Fiumana Istriana e dalmata nel Lazio, chiediamo se c’è stato un risarcimento per tanto dolore. “Quando si parla di vite umane non ci può essere alcun risarcimento. Il riconoscimento della “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio di ogni anno, è stato un passo avanti notevole dopo che per 50 anni si è negata la tragedia delle foibe e degli esuli”.
fermo  immagine del video  (  riportato  sopra  )  di https://www.youtube.com/user/fronterusso 

In Campidoglio è stato firmato proprio alcuni giorni fa un protocollo d’intesa per la nascita della “Casa del Ricordo”, a via San Teodoro a Roma.

 Sì, un altro riconoscimento per tutte quelle persone che hanno dovuto lasciare, case, attività, affetti, ricordi. L’esodo che fu di 350 mila persone iniziò nel 1945 e si può affermare che si concluse negli anni ’50. Nel 1947, subito dopo la firma del trattato di Parigi, ci fu il numero più massiccio di profughi. Partivano con le loro poche cose imbarcandosi sulle navi verso l’Italia che li accolse malissimo. Erano considerati cittadini di serie B e la loro tragedia imbarazzava sia la destra che la sinistra che l’allora governo democristiano di De Gasperi. Si è preferito ignorarli per decenni. Addirittura ci furono manifestazioni ostili al passaggio dei treni dei profughi come quello avvenuto alla stazione di Bologna il 17 febbraio 1947: Un treno che trasporta un folto gruppo di esuli sbarcati il giorno precedente ad Ancona rimase bloccato per ore sui binari da una protesta dei ferrovieri bolognesi, che non permettono lo svolgimento di nessuna operazione di soccorso e di approvvigionamento, costringendo così il convoglio a proseguire per Parma dove furono poi soccorsi”.
Sono stati 109 i campi profughi sparsi in tutta Italia e per il 70% situati al Nord che hanno accolto gli esuli che con il tempo si sono integrati nel tessuto sociale. Ma la ferita del loro passato è rimasta a lungo aperta proprio perché per decenni gli è stato negato il riconoscimento della tragedia vissuta. A Roma esiste ancora oggi il villaggio Giuliano-Dalmata nato da una vecchia fabbrica dismessa nella zona dell’ Eur. “E’ il quartiere 31 della Capitale – ci dice Micich- e comprende la zona della Cecchignola e Fonte Meravigliosa. Non dobbiamo dimenticare che gli esuli non erano tutti triestini, dalmati o fiumani. Fra di loro anche calabresi e siciliani che erano andati in quelle zone per lavorare. C’è poi un numero imprecisato di persone che non rientrarono proprio in Italia ed emigrarono in America e in Australia”.
C’è stato mai un compenso economico per gli esuli?“Un minimo di 7,8 mila euro che è davvero niente se si pensa che con tutto ciò che hanno lasciato nei territori diventati poi Jugoslavi si sono pagati i debiti di guerra. Comunque con il Giorno del Ricordo è stato restituito a molti almeno la dignità e soprattutto non si è dimenticata la grande tragedia delle foibe”.
Un silenzio durato quasi 50 anni. Ne parliamo con lo storico Giovanni Sabbatucci. Un silenzio ingombrante e pesante come un macigno quello che è calato per quasi 50 anni sulle foibe e sui profughi giuliano dalmata . “I motivi sono diversi – spiega il professore Sabbatucci - il primo è psicologico: si usciva dalla sconfitta di una guerra e si volevano lasciare alle spalle tutte le tragedie legate ad essa. Si guardava avanti. Poi il momento era difficile e altre bocche da sfamare, erano 350 mila i profughi dell’Istria e della Dalmazia, non erano certo ben accette. Inoltre c’erano ragioni i ideologiche e di Governo”.
Si può dire che le Foibe imbarazzavano sia la destra che la sinistra?“Sì, se per questo anche la stessa classe dirigente democristiana con a capo De Gasperi, preferì tacere sia sulle Foibe che sui profughi considerati cittadini di serie B. I comunisti temevano da parte loro che gli esuli potessero raccontare che il territorio da dove erano fuggiti non era assolutamente il “paradiso comunista” che tanto si declamava . I neofascisti, dall’altra parte, non erano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della II Guerra mondiale nei territori istriani dato che fra il 1943 e il 1945 erano sotto l'occupazione nazista, in pratica annessi al Reich tedesco”.
“ È una ferita ancora aperta “perché è stata ignorata per molto tempo e solo da poco è iniziata l’elaborazione”, sostiene il professore Sabbatucci. L’addio dalle proprie case e dai loro paesi, la cattiva accoglienza in Patria, i rifugi nelle caserme, in baracche, in villaggi nati in campi sportivi. Stanze divise con cartoni e coperte usate come tende. Uomini e donne separati in alloggi diversi, famiglie smembrate. I profughi hanno pagato più di altri la sconfitta della guerra. Con la legge del 2004, il Parlamento italiano decreta il 10 febbraio come “La giornata del ricordo” delle vittime delle foibe.


il secondo  da    (  dove  nel  player  a destra     trovate  anche degli extra )  http://www.ilgiornaleoff.it/audio-interview/le-foibe-una-pagina-strappata-ai-libri-di-storia/



( ... ) 


Sylos Labini: in questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con Magazzino 18, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?
Cristicchi: Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza.
Sylos Labini: è una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?
Cristicchi: lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso.

Sylos Labini: non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…
Cristicchi: da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente.
Sylos Labini: la tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto Ti regalerò una rosa. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?
Cristicchi: probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento.
Sylos Labini: che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?
Cristicchi: non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto.
Sylos Labini: tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF ?
Cristicchi: il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di Magazzino 18, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso.


l'ultimo , sempre  un altra intervista  a  Simone  Cristicchi     di http://www.lavocedinewyork.com/



C'è voluto un cantante per ridare la parola all'indicibile della nostra storia

di Elisabetta De Dominis


[3 Nov 2013 | 0 Comments | 5534 views]

Simone Cristicchi porta in scena Magazzino 18, la tragedia dell'esodo di 350 mila italiani dall'Istria e la Dalmazia. Lo abbiamo intervistato: "Mi piacerebbe arrivare in America"
La nostra origine indicibile ha trovato parola. Indicibile per noi che ne siamo stati privati, indicibile per chi ci ha scacciato e per chi ci ha accolto. Indicibile infine perché questi soggetti agenti hanno fatto di noi oggetti, merce di scambio, guadagno.Dopo 70 lunghi anni, e quante generazioni, finalmente qualcuno ha visto, ha capito, ha parlato. Un cantante, Simone Cristicchi si è fatto cantore, ha errato nel nostro èthos e ha portato in scena la tragedia dell’esodo di 350 mila italiani dell’Istria e della Dalmazia. Il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Politeama Rossetti ha inaugurato la stagione con la produzione del Magazzino 18.Diretto da Antonio Calenda, questo ‘musical-civile’, di cui sono autori Simone Cristicchi e lo storico Jan Bernas, racconta quello che è avvenuto al confine orientale alla fine della Seconda guerra mondiale. Lo scopre uno sprovveduto archivista romano, inviato dal ministero a redigere un inventario del magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, dove gli esuli, destinati ad essere accolti in angusti campi profughi in Italia o in procinto di partire per l’America, lasciavano in deposito i loro mobili e oggetti, sperando di rientrarne in possesso nel futuro. Poco a poco, rinchiuso lì dentro, percepirà lo ‘spirito delle masserizie’ che gli narrerà fatti pubblici e sofferenze private.
Ma com’è venuta a Cristicchi questa idea?
“Stavo girando per l’Italia - ci spiega Simone Cristicchi - per una ricerca sulla memoria degli anziani, che poi è diventato un libro: Mio nonno è morto in guerra (Mondadori), quando a Trieste ho incontrato Piero Del Bello, direttore dell’IRCI (Istituto regionale per la cultura istriana), e grazie a lui sono potuto entrare nel magazzino 18 inaccessibile al pubblico. Ho percepito immediatamente la grandezza di questa storia e mi ha stupito che non fosse conosciuta in Italia, che questo magazzino non fosse un museo.  Quando sono uscito, ho sentito che tutti quei mobili mi avevano parlato. Ecco, mi è stata regalata questa sedia, guardi sotto la seduta c’è il nome del proprietario: Ferdinando Biasiol e io ho promesso di raccontare. Da quel momento ho iniziato la ricerca sull’esodo insieme a Jan Bernas, che ha scritto Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani  (Ugo Mursia editore). Ho letto una trentina di testi, sono andato a parlare con tanti esuli e in Istria con i rimasti. Ho lavorato un anno e mezzo sul testo e la stesura delle canzoni. Quella che si chiama proprio Magazzino 18 è visionabile su You Tube”.
Quante pressioni politiche ha avuto?
Simone Cristicchi in una scena di "Magazzino 18"

“Ho avuto
suggerimenti da schieramenti diversi, non pressioni politiche. Fino all’ultimo giorno mi sono sentito libero di tagliare, ritoccare. Ho fatto leggere ad alcuni il testo in anteprima, non per accontentare tutti, ma per ricevere consigli. Mi pare di essere riuscito nell’intento: è un testo equilibrato che dà voce all’emotività della memoria. Avevo già fatto quattro spettacoli teatrali, ma non mi era mai capitato di interpretare personaggi in maniera così viscerale, forse perché il teatro italiano è un teatro di parola. Per me è stato un onore poter lavorare con una persona di sensibilità come il regista Antonio Calenda che ha ideato questo nuova forma di teatro: il musical mescolato al teatro civile. Vorrei utilizzare questo format per altre storie”.
E’ vero che questo spettacolo è stato rifiutato dai più grandi teatri di prosa italiani: da Milano a Torino, da Firenze a Napoli…?
“Sì, temevano che fosse un testo fascista, poi quando hanno saputo che la rappresentazione è imparziale e di grande impatto emotivo, hanno capito che vuole superare i conflitti. Mi piacerebbe portarla in giro per l’Italia anche l’anno prossimo. Magari arrivare in America… Intanto a dicembre sarò in Istria (Croazia). Vorrei ascoltare e dare più spazio anche ad altre storie, quelle dei rimasti.  Un giorno a Montona d’Istria ho visto alla finestra una signora anziana e ancora bellissima. Ha sentito che parlavo l’italiano e mi ha chiesto: “Siete dei nostri?” Mi sono avvicinato e le ho fatto delle domande: si è chiusa nel silenzio e le sono venute le lacrime agli occhi”.
I vecchi di là hanno ancora paura. Come se ci fosse ancora il comunismo che si serviva dei delatori per prelevare e infoibare anche i civili, anche i vecchi, le donne, i bambini. Ora ci sono moltissimi italiani in Croazia, allora sembrava non ne fosse rimasto neppure uno. Certo qualcuno si è mimetizzato: è rimasto nella sua terra rinnegando la sua origine. Soprattutto gli anziani non ce la facevano a lasciare la loro vita: sono morti pochi anni dopo di inedia, di stenti, di dispiacere. Eppure dal 1991, con l’indipendenza, in Croazia l’Italia s’è desta. Nei cuori o nelle tasche dei rimasti? Per 9 milioni di euro l’anno si può dire di essere pure italiani…Si può andare indietro negli anni e cercare di capire come tutto questo odio etnico sia iniziato. L’Austria è stata la grande responsabile della nascita dell’odio razziale per paura dell’autodeterminazione dei popoli dell’impero. Ha fatto la riforma agraria, ha dato le terre a slavi importati sulle coste dall’interno, poi – curiosamente - si è dissolta per mano slava. L’Italia è stata trascinata nella Prima guerra mondiale con la promessa di annettersi le italianissime Istria e Dalmazia. Ha vinto ma non ha saputo negoziare quanto le spettava. Il nuovo regno di Serbi, Croati e Sloveni si è preso quasi tutto, a parte un po’ d’Istria e Zara, ha chiuso le scuole italiane, ha fatto la riforma agraria e ha depauperato i proprietari terrieri. I fascisti in Italia hanno iniziato a italianizzare i nomi della minoranza slava e a privarla delle terre che coltivava. Ma questo non può giustificare le foibe del secondo dopoguerra. Nel frattempo i croati e sloveni hanno scoperto di pagare tasse doppie rispetto ai serbi. Vi risparmio la storia complicatissima del regno di Jugoslavia, dove tutti erano contro tutti armati… Arriviamo verso la fine della Seconda guerra mondiale. E’ l’estate del ’41: gli ustascia, fascisti croati, hanno un grande campo di concentramento a Jasenovac , a sud est di Zagabria, un altro sull’isola di Pago dove fanno esecuzioni di massa per tutta l’estate. Ma oggi sloveni e croati ricordano solo quello di Arbe (Rab), allestito nel ’42 dagli italiani in riva al mare, che era un campo di raccolta di famiglie di partigiani sloveni e di ebrei. Purtroppo avvenne un’esondazione e parecchi detenuti morirono: erano denutriti, malati e non sapevano nuotare. Cristicchi ha portato in scena una bambina che legge una lettera e dice che gli italiani non le davano da mangiare. Nessuno gli ha detto che morivano di fame anche i civili: non c’era da mangiare sull’isola nel ’42. E come si può scordare il campo di concentramento comunista di Goli Otok dove, dopo la guerra, finivano tutti prigionieri politici ai lavori forzati?Ognuno può raccontare la sua storia come vuole, come gli piace apparire, ma la verità è una sola: l’odio etnico è stato solo un comodo movente, quello che ha mosso ad uccidere e depredare  - a guerra finita -  però è stato l’odio di classe. E’ stata la grande occasione di diventare ricchi e sistemarsi senza fatica. Migliaia di persone sono state trucidate e infoibate per impadronirsi delle loro proprietà. Anche l’ultima guerra, che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia, è stata solo una guerra economica, perché Belgrado gestiva la ricchezza di tutta la federazione.Le colpe sono da ambo le parti, vuole dire questo spettacolo, certo, ma la reazione comunista slava non è stata proporzionata all’offesa fascista italiana. Calenda ha detto che bisogna superare. Sono d’accordo. Ma finora questo è stato chiesto solo agli esuli dell’Istria e ai profughi dalla Dalmazia, quest’ultimi non hanno neppure un magazzino 18 perché sono scappati con i soli vestiti che avevano addosso… Però il sindaco di Arbe qualche anno fa mi disse che ha un magazzino colmo di bei mobili antichi e che vorrebbe fare un museo. Lì andarono per le spicce: impiccarono indifferentemente i possidenti italiani e croati ai pali della luce lungo il porto e saccheggiarono le loro case.Eppure la vergogna di chi ha agito è diventata la vergogna di chi ha subito, a cui è stata ascritta la colpa di aver lasciato la propria terra, non perché in quella terra si moriva, ma perché erano fascisti. Non per salvare la propria cultura, la propria etica, i propri valori, ma perché indegni di vivere in una terra liberata da veri comunisti, che avrebbero fatto una società socialmente giusta. Si è visto. Ancora oggi in Croazia l’ufficio delle confische discrimina se sei di origine italiana o croata, salvo poi non restituirti niente neppure se sei croato perché lì – stranamente - il possesso equivale alla proprietà. Li abbiamo accolti in Europa prima di assicurarci che rispettassero le norme comuni, che ci fosse certezza del diritto.Cristicchi in questo spettacolo è stato esule, ha sentito dentro di sé la sofferenza e l’ha fatta emergere in un racconto accorato ed empatico. Ha legato il suo pubblico con il pathos e il logos, emozione e parola, e - come dicevo all’inizio - ha attraversato il nostro èthos. Che ha un significato più profondo della parola ‘etica’ come regola di comportamento, la quale ne è solo una conseguenza. Nell’antica Grecia significava dimora, patria, terra dell’uomo, il posto da vivere dove tornare dopo aver conosciuto se stesso. Un’esperienza spirituale indicibile che conduceva alla consapevolezza. Un arrivo che era un ritorno nella terra dei padri, le cui norme di vita erano la tua etica e la tua casa, dovunque fossi.Gli esuli e i profughi fisicamente non sono tornati, ma il loro èthos l’hanno portato con sé e non tornerà se non saranno riaccolti.Casa, patria è dove sei accolto. Altri costumi e abitudini di vita albergano di là. La consapevolezza dell’esodo è ancora indicibile, non perché non sia stata narrata da Cristicchi, ma perché a noi non è dato tornare: rappresentiamo la colpa vivente di una grande ingiustizia che essi vogliono dimenticare di aver commesso. Basterebbe aprire le braccia, ma temono la forza del nostro èthos.




14.11.13

dall'italia all'estero e dall'estero in italia le storie di Lara Manganaro

Sfogliando  con curiosità  www.americaoggi.info   ho trovato quest'altro  sito   da  cui riporto due  articoli interessanti

da  http://www.lavocedinewyork.com/

SFIDA NEW YORK

Sono originaria di Varese, al momento di casa a New York prima di tornare a Rimini dove vivo…per ora. Ho lavorato in
televisione e nella carta stampata. Laureata in Scienze politiche e con un Master in Pnl e Neurosemantica sono giornalista e life coach. Da qui ho ideato la nuova figura di life journalist un connubio tra la creativitá e la capacitá di raccolta delle informazioni del giornalista e l’umanitá e positivitá del life coach per aiutare le persone a raggiungere i propri obiettivi ad affrontare positivamente i cambiamenti. Così una volta arrivata a New York ho creato il mio blog lifejournalistblog.com dove parlo di life style, coaching, benessere ma soprattutto racconto la storia degli italiani, e non solo, che hanno realizzato il loro sogno di vivere nella Big Apple superando ostacoli e difficoltà. Ma come hanno fatto? Me lo sono chiesta più volte allora sono andata a cercare le risposte





La scienziata che qui ha imparato a non giudicare gli altri


Lara Manganaro, biologa molecolare, è ricercatrice del virus Hiv al Mount Sinai Hospital, : "Mi manca tantissimo l'Italia, ma tutti dovrebbero uscirne per un periodo, aiuta ad aumentare l'elasticità mentale"
                                                                    Lara Manganaro a Washington Square

Una passione per la ricerca scientifica e una vita di studi. L'amore per la scienza sbocciato da bambina per poi crescere sui banchi del liceo e il sogno di diventare uno scienziato l’ha portata a New York.
“Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in se genialità, magia e forza. Comincia ora”. Johann Wolfgang Göethe



Lei è Lara Manganaro originaria della provincia di Udine. Dopo la laurea in Biotecnologie mediche ed un dottorato in biologia molecolare vola a New York con in tasca una borsa di studio per il The Mount Sinai Hospital uno dei più antichi e grandi ospedali didattici degli Stati Uniti. Qui è ricercatrice del virus Hiv o Aids. Prima di lavorare a Microbiologia ha lavorato un anno nel dipartimento di Immunologia, poi ha deciso di cambiare perchè il primo amore non si scorda mai. “Ho sempre avuto una grande passione per i virus e in particolar modo per l’Hiv, che è stato anche il mio argomento di ricerca durante il dottorato in Italia. Hiv è un virus talmente affascinante che anche dopo tanti anni non mi annoia!”


Lara vive col marito, anche lui ricercatore, nella Big Apple ormai da 4 anni. Ci siamo incontrate nel parchetto di fianco alla fermata della subway sulla 72st per poi recarci ad un caffè lì vicino ed iniziare a raccontarci. Lara inizia a parlarmi del suo percorso professionale puntando l’accento sul fatto che andare all’estero è una tappa obbligata se vuoi fare ricerca: “Tutti i miei colleghi di laboratorio più ‘anziani’ di me se ne sono andati dopo la fine del dottorato. Quindi ho sempre saputo che se avessi volute continuare a fare ricerca, prima o poi, avrei lasciato l’Italia. Gli USA sono molto competitivi nel mio campo quindi erano la mia prima opzione. Purtroppo il mio primo
impatto con l’America mi ha lasciato molto delusa. Nel 2006 sono andata ad Atlanta per un congresso. Era la prima volta che vedevo l’America. Ero piena di aspettative e Atlanta l’ho trovata molto triste. Quindi mi sono detta ‘io in USA non ci vado’. Così ho cominciato a considerare laboratori a Londra. Poi nel 2007 sono venuta a NY durante il viaggio di nozze. Io e mio marito ci siamo innamorati della città. Ho pensato che NY era un posto dove potevo vivere”. E così è stato. Lara dopo la laurea in Biotecnologie Mediche presso l’Università di Trieste è entrata nel programma di Dottorato in Biologia Molecolare della Scuola Normale Superiore di Pisa continuando a svolgere la sua attività di ricerca a Trieste all’ICGEB (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology) da qui ha poi ottenuto la borsa di studio per svolgere ricerca negli States.
“Lasciare l’Italia è stato difficile. In aeroporto ho pianto tantissimo! Ma quando sono arrivata a NY tutto era elettrizzante. Mi sono sentita subito a casa”. Nonostante si sentisse a casa, i primi mesi non sono mancate le difficoltà. Parlava solo l’inglese scientifico quindi quando si discuteva di Dna, protein, molecole etc., non aveva problemi. L’inglese “da tutti i giorni” era più complicato. “Potevo tranquillamente parlare di DNA e proteine ma non sapevo come intavolare una conversazione su film, musica o qualsiasi altra cosa che non fosse scienza. Dopo un po’ di mesi impari e tutto fila liscio. I primi mesi a NY me li ricordo bellissimi, tutto era nuovo, emozionante, mi sembrava di essere in un film. Ogni tanto ancora adesso”.
L’ostacolo della lingua rendeva complicato anche le cose più stupide come pagare le bollette, il contratto d’affitto e capire cosa la gente diceva, soprattutto al telefono! “Essere in due rende tutto piu’ semplice. Ci si aiuta a vicenda. Iniziare un nuova vita insieme alla persona che ami è una bellissima esperienza”. Dopo i primi mesi le cose iniziano a migliorare e anche la lingua inglese diventa sempre più familiare.Lasciando l’Italia è potuta crescere professionalmente grazie alle opportunità che offre la città. “A NY hai la possibilita’ di conoscere molte più persone, di andare piu spesso a congressi per presentare il tuo lavoro e partecipare a seminari di scienziati molto importanti che raramente passano per l’Italia”. 
“Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma”.
 Bruce Chatwin
Lara consiglia a tutti di uscire dall’Italia, anche solo per un breve periodo. Aiuta ad aumentare l’elasticita’ mentale e capire quali sono le cose importanti. Nonostante viva da 4 anni a NY, l’Italia le manca sempre “L’Italia è il mio paese e penso che sia il paese più bello del mondo anche se ha un sacco di problemi. Quando te ne vai ti accorgi di quanto è bella e ti manca”.
Nei momenti di maliconia o tristezza Lara per tirarsi su di morale parla con il marito oppure esce con i suoi amici o li chiama su Skype se sono fuori NY. “Non ho mai pensato di tornare indietro, non avrebbe senso. Ho passato mesi a concentrarmi sul problema. Poi quando non mi piaceva più il lavoro che svolgevo ho iniziato a cercarne un altro per trovare la soluzione. Vivere a NY può sembrare complicato perchè è molto cara e frenetica. Ti devi spostare sempre in metro. Per fare qualcosa con i tuoi amici devi organizzarti settimane prima perchè sono tutti molto impegnati. Ma allo stesso tempo è difficile che tu ti senta uno straniero a NY, lo sono tutti. Ed inoltre la trovo molto “europea” come città. Credo che per un italiano sia piu facile vivere a NY che ad Atlanta!” 
“Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”. Gandhi
New York l’ha cambiata. L’ha resa una persona più forte e indipendente. Poi le ha insegnato a non giudicare: “Credo che la cosa principale che ho imparato è di non giudicare gli altri. Allo stesso tempo mi sento piu libera perchè gli altri non giudicheranno me. Credo che qui a NY nessuno ha veramente tempo di preoccuparsi di cosa fanno gli altri, nel bene e nel male”.
In future lei e suo marito vorrebbero tornare in Europa perchè NY è una citta troppo cara per crescere dei figli: “Vorrei tornare in Europa. L’Italia sarebbe il mio sogno, ma Francia, Germania e Inghilterra vanno bene”. 
Lifejournalistblog.com

  La  seconda    storia  sempre  dallo stesso  sito    riguarda il  percorso inverso  

Quella ragazza italo-canadese che amava tanto l'Italia...


[14 Nov 2013 | 0 Comments | 182 views]


Escono le nuove statistiche AIRE (Anagrafe Italiani Residenti Estero), che confermano l'allarmante fuga dei giovani soprattutto dalle regioni Settentrionali. Leggendo i dati, ci viene in mente una storia emblematica



La tabella indica in migliaia gli italiani iscritti all'AIRE: nel 2012 i cittadini italiani residenti ufficialmente all'estero erano 4 milioni e 341 mila

Uno spaccato inedito -per certi versi sorprendente - della nuova emigrazione professionale italiana: le nuove statistiche Aire (Anagrafe Italiani Residenti Estero) sui 20-40enni in uscita dall'Italia nel 2011 certificano il sorpasso delle regioni del Nord Italia su quelle del Sud, almeno per quanto riguarda le "forze fresche" che emigrano. La crisi sembra dunque incentivare soprattutto la fuga dei giovani settentrionali, residenti nelle zone più produttive. Un segnale allarmante.
Le statistiche ufficiali pero' non

10.9.12

Un fabbro chiamato Francesca, i segreti di un lavoro da uomo la storia di francesca frau

Il ferro è un elemento ricco di fascino e magia, dall’aspetto duro e freddo, all’apparenza grezzo e semplice. Negli anni, grazie alla maestria di sapienti artigiani nascevano opere capaci di evocare eleganza e bellezza stimolando la creatività di chi le lavorava. Da qui anche la mia passione, portandomi alla scelta di seguire le orme di mio padre, intraprendendo un mestiere antico che non ha mai perso il suo fascino  (  da   http://www.francescafrau.it/  )
 

 


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 ecco dall'Unione sarda di 9\09\2012 l'intervista a Francesca Frau
di GIORGIO PISANO  ( pisano@unionesarda.it  )
uno dei  suoi lavori che
Sull'asse Bergamo-Torino ci sono, ammesso che si possa dire così, le università del ramo: gigantesche officine dove il mestiere, se hai talento e buona volontà, lo impari davvero. Francesca Frau ha sempre sognato di varcare la soglia di uno di questi centri di perfezionamento. Giusto un corso di sei mesi, quello che - per altre professioni - si chiama master. Non l'ha potuto fare per una ragione stretta stretta: non può lasciare la sua, di officina, manco per un giorno. Chi si occuperebbe dei clienti, della carpenteria, dei pezzi d'arredamento? E se anche si trovasse un sostituto, ci riuscirebbe a forgiare certe rifiniture con la precisione e la grazia d'una mano femminile ?
Francesca, che ha trentadue anni e la testa piena di cose concrete, fa il fabbro. Probabilmente è l'unica in Italia. Nel settore ce ne sono più di trecento operative in tutte le province ma solo lei svolge anche la parte manuale, solo lei insomma fa il fabbro davvero.Mani sottili e lievi, attraversate sui palmi da un labirinto di vene che segnalano il carattere forte e deciso, è una ragazza minuta dagli occhi scuri e molto profondi, sorriso aperto e coinvolgente. L'esatto opposto di come ci immaginiamo un fabbro, salvo qualche piccola bruciatura sulle braccia, inevitabile per chi batte il ferro a temperature che oscillano tra i 900 e i milletrecento gradi. Fa impressione vederla in assetto da combattimento: scarpe anti-infortunio, maschera protettiva con schermo interno che permette di vedere nitidamente il campo operativo mentre le scintille zampillano dappertutto, grembiulone di cuoio e guanti spessi. Se scopre il viso e copre i capelli sollevando la maschera, sembra uno strano robot dagli occhi enormi.
Perché lo fa? Perché le piace, perché questo è quello che voleva nella vita. Da bambina spiava suo padre nella fucina sotto casa, a Serrenti, proprio a ridosso della dorsale che unisce Cagliari a Sassari. Pochi ci crederanno ma il suo primo disegno alle elementari raffigura quella che a lei pareva un'officina con annessa scrivania. Ultima di tre figli, si è diplomata geometra, ha annusato Scienze Politiche ma neppure sei mesi dopo - durante il solito pranzo di famiglia - ha gelato tutti: babbo, io voglio fare il fabbro.
Nel 2004 suo padre Mario, che oggi ha 64 anni, è andato in pensione e le ha ceduto la ditta. Francesca, che fa tutto da sola (acquisti e lavorazione materiali), l'ha ripescato più tardi come collaboratore «perché a far niente si ammalava, in un anno è finito tre volte in ospedale. Appena rimesso piede in officina, è tornato sano».
Dice che il suo è un mestiere che «nessuno vuole più fare e poi nelle botteghe non ti prendono ad imparare». Lei ci è riuscita vivendo incollata al padre, apprendista e instancabile stregone che memorizzava saldature e forgiature con una passione che è rimasta intatta nel tempo. Ora che è diventata addirittura titolare, non si sente affatto arrivata. Dice d'essere appena agli inizi e avere ancora molto da imparare. Nel frattempo partecipa a fiere e rassegne, s'impegna - quasi fosse uno studio matto e disperatissimo - ad affinare una tecnica che sfiora l'arte.
Fabbro: il bello qual è?
«Ogni volta che lavori un pezzo non sai mai fino in fondo che piega prenderà. Certo, tu l'idea ce l'hai in testa ma c'è sempre qualcosa che va per conto suo. C'è sempre una differenza tra la realtà e gli schizzi, tra il disegno che vorresti seguire con precisione e il ferro incandescente che si trasforma sotto le tue mani. Ogni lavoro è una sorpresa».
Il brutto?
«Mi sporco più che se facessi l'impiegata? Pazienza, basta lavarsi. Lavoro troppo pesante? Perché, la campagna invece è per signorine? L'unica cosa che devi mettere in conto è qualche ustioncina. Ma scompaiono rapidamente».
Crisi?
«Si sente, ma senza esagerare. Negli ipermarket specializzati ti vendono un cancello tutto compreso a 230 euro. Io, con quella cifra, riuscirei a coprire a malapena le spese di materiale. E la manodopera? L'importante comunque è sapere che un cancello da supermercato non è lo stesso che ti fa un fabbro».
Nessuno l'ha sconsigliata?
«Ci hanno provato ma è stato tempo perso. Conosco la mia indole, non potrei vivere buttata su un divano aspettando chissà cosa. Non riuscirei a stare davanti a un computer: sono sicura che dopo un po' lo stipendio mi servirebbe per pagare lo psicanalista».
Il paese mormora?
«Un tempo dicevano che era tutta una finta, che non lavoravo io ma mio padre. Ora spero si siano arresi, che abbiano capito. D'altra parte non ci muoio su queste cose: col paese lavoro poco, la mia clientela arriva dall'esterno. L'handicap, vero e serio, era un altro ma l'ho superato».
Sarebbe?
«Sono asmatica. Soltanto dopo un severo controllo medico sono stata autorizzata a fare quello che desideravo: il fabbro».
In famiglia?
«Mio fratello non era interessato, mia sorella vive lontanissima da questo mondo. La fissa, in casa, ce l'avevo io».
Cattiverie mai, neppure di rimbalzo?
«Fiera campionaria di Cagliari. Nello stand dove campeggiava il mio nome, due signore osservavano certi ricami in ferro battuto e commentavano sotto i miei occhi: e allora, cosa ci vuole a fare quelle scemenze? Morivo dalla voglia di dirglielo: prima di tutto, cara signora, ci vuole l'idea; dopo l'idea, la capacità di farlo, venga in officina e provi».
Ha intenzione di fare questo lavoro per tutta la vita?
«Se posso, sì. Guardo con orgoglio una mia nipotina che pare interessata: piccoli fabbri crescono. Vabbè, diciamola tutta: non faccio programmi a lunga scadenza, non sai mai come gireranno le cose domani. Diciamo che vivo alla giornata anche se non è esattamente così. Ho poche certezze: non passerò la mia vita abbracciata a un pc o in un ufficio, di questo sono sicura».
Che faccia fanno quando scoprono che il fabbro è donna?
«Qualcuno ha mostrato stupore, in senso positivo. Mi hanno detto che si vede il tocco femminile dietro l'armonia di certi pezzi. Io produco sia il moderno, che è squadrato e lineare, sia il classico, che è baroccheggiante».
Quante ce ne sono come lei?
«Grazie a Facebook ne ho scovato una in Spagna che forgia insieme al padre. Sembra un copia-e-incolla della mia storia».
Tornasse indietro?
«Niente passi indietro. Non ne farei. Sono timida ma so quello che voglio, so molto bene dove spero di arrivare. Non vivo di illusioni, sono cosciente che questo è un momento difficile per tutti. Ci sono fabbri che chiudono, la zincheria di Villacidro che riduce il personale, la cementeria di Samatzai che non se la passa benissimo. Perché dovrei star meglio io?»
Luogo comune dire che il suo è un lavoro poco femminile?
«Sarà ma è qualcosa che mi scivola addosso. Il ferro non è pesante: quando lo forgi diventa tenero come il burro. Forse pecco di superbia o forse conosco fino in fondo le mie potenzialità, ma mi pare senza senso sostenere che il fabbro debba essere un uomo per forza».
Per forza no, certo.
«Tutti i lavori che faceva mio padre oggi li faccio io. Per sollevare barre molto pesanti si adopera la gru, l'idea del fabbro tutto muscoli è ancorata al passato. Le nuove tecnologie sono entrate anche qui. Oggi si lavora col laser».
Ci si campa?
«Per il momento, sì. Pago le tasse e vivo di stipendio che, come in qualunque lavoro artigianale, varia da mese a mese. Il fatto è che oggi comprarsi la casa è un lusso, e dunque figurati se pensano agli arredi in ferro battuto. Ogni tanto mi presento a un concorso ma lo faccio per un automatismo, non perché ci creda».
Che genere di concorsi?
«L'ultimo era alle Poste. Dopo che l'ho dato e non sono stata ammessa ci ho pensato sopra: meno male, mi sarei ammalata. Ognuno fa la sua scelta. Ho amiche che sono partite e devo dire che anch'io per un po' ho pensato di trasferirmi a Roma».
Perché Roma?
«Per trovare un'occupazione coerente col diploma di geometra. Mia cugina, che è ragioniera, è poi partita davvero. Io non ce l'ho fatta a salire sull'aereo. Non posso farci nulla: sono attaccata alla mia terra, al mio mare».
Qual è il confine tra un'opera d'arte e un pezzo in ferro battuto?
«Non so se esista un confine. Per la Fiera del tappeto di Mogoro ho realizzato una lampada da pavimento che credo sia bella, valida. Dentro di me qualunque cosa faccia è un'opera d'arte perché so cosa ci ho messo dentro, so di averla fatta col cuore».
Con l'aiuto di ceramisti e vetrai, Francesca realizza lavori molto particolari. In officina sta sfreddando una collezione di pesciolini e conchiglie di mare. Altri pezzi, sicuramente più importanti, li tiene in una sorta di casotto-vetrina sopraelevato rispetto alla strada statale per colpire l'attenzione degli automobilisti che sfrecciano nei paraggi. Sono classici d'arredamento: basi per lampade, bastoni per tendaggi, fregi floreali, portacatini, oggetti da salotto e da bagno.
Pentimenti?
«Vuol dire chi me l'ha fatto fare? La differenza rispetto a tanti ragazzi della mia età è che io ho scelto di fare questo lavoro. Che m'impegna di solito nove-dieci ore al giorno, qualche volta cinque ma all'occasione arrivo a dodici. Sono davvero fortunata».
Fortunata?
«Ha idea di cosa facciano i giovani della mia generazione in paesi come questo? Niente. Alcuni dicono che non trovano lavoro, altri che sì, qualcosina c'è ma se ne ricaverebbe troppo poco. Quand'ero ragazzina andavo coi miei amici a fare la raccolta di pomodori: mi ci pagavo il campeggio per l'estate. Oggi la raccolta dei pomodori la coprono gli extracomunitari. E i ragazzi? Aspettano non so cosa al bar».
L'arrivo di una donna ha ridotto la clientela?
«No. Anzi, con gli anni sono riuscita a ingrandirla».
Ha perduto amicizie importanti?
«Neanche una ma debbo dire che ne ho sempre avuto pochissime. Il nostro vecchio gruppo, salvo quattro-cinque emigrati, non è mai cambiato. E d'estate, quando torna chi lavora fuori, siamo al gran completo: una quindicina».
Ha mai colto disprezzo?
«Quest'anno in Fiera. La moglie di un fabbro mi ha ispezionato come un medico, voleva vedere cicatrici nelle mani e nelle braccia. Secondo lei, era l'unica prova che facessi davvero lo stesso mestiere del marito».
Non ha paura di farsi male, rovinarsi?
«Durante la lavorazione tutto il corpo è a rischio. Se parte la lama di una troncatrice, puoi solo sperare nel miracolo. Io, comunque, non adopero smerigli pesanti perché la tecnologia mi consente di utilizzare il plasma. Babbo impiega ore e ore a tagliare una lamiera, operazione che si può fare oggi in pochi minuti».
Nel tempo libero?
«Sono profondamente normale. D'estate, mare; passeggio con le nipotine, lavoretti nell'orto di famiglia, cinema. Discoteca? Funziona fino ai diciott'anni, poi stufa: meglio il pub».
C'è qualcosa che non può fare?
«Perché sono una donna? Fino alla settimana scorsa, sì: non avevo mai tagliato col cannello a ossigeno lamiere molto spesse. Ci ho provato, è caduto anche quel tabù».

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