10.9.12

Un fabbro chiamato Francesca, i segreti di un lavoro da uomo la storia di francesca frau

Il ferro è un elemento ricco di fascino e magia, dall’aspetto duro e freddo, all’apparenza grezzo e semplice. Negli anni, grazie alla maestria di sapienti artigiani nascevano opere capaci di evocare eleganza e bellezza stimolando la creatività di chi le lavorava. Da qui anche la mia passione, portandomi alla scelta di seguire le orme di mio padre, intraprendendo un mestiere antico che non ha mai perso il suo fascino  (  da   http://www.francescafrau.it/  )
 

 


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 ecco dall'Unione sarda di 9\09\2012 l'intervista a Francesca Frau
di GIORGIO PISANO  ( pisano@unionesarda.it  )
uno dei  suoi lavori che
Sull'asse Bergamo-Torino ci sono, ammesso che si possa dire così, le università del ramo: gigantesche officine dove il mestiere, se hai talento e buona volontà, lo impari davvero. Francesca Frau ha sempre sognato di varcare la soglia di uno di questi centri di perfezionamento. Giusto un corso di sei mesi, quello che - per altre professioni - si chiama master. Non l'ha potuto fare per una ragione stretta stretta: non può lasciare la sua, di officina, manco per un giorno. Chi si occuperebbe dei clienti, della carpenteria, dei pezzi d'arredamento? E se anche si trovasse un sostituto, ci riuscirebbe a forgiare certe rifiniture con la precisione e la grazia d'una mano femminile ?
Francesca, che ha trentadue anni e la testa piena di cose concrete, fa il fabbro. Probabilmente è l'unica in Italia. Nel settore ce ne sono più di trecento operative in tutte le province ma solo lei svolge anche la parte manuale, solo lei insomma fa il fabbro davvero.Mani sottili e lievi, attraversate sui palmi da un labirinto di vene che segnalano il carattere forte e deciso, è una ragazza minuta dagli occhi scuri e molto profondi, sorriso aperto e coinvolgente. L'esatto opposto di come ci immaginiamo un fabbro, salvo qualche piccola bruciatura sulle braccia, inevitabile per chi batte il ferro a temperature che oscillano tra i 900 e i milletrecento gradi. Fa impressione vederla in assetto da combattimento: scarpe anti-infortunio, maschera protettiva con schermo interno che permette di vedere nitidamente il campo operativo mentre le scintille zampillano dappertutto, grembiulone di cuoio e guanti spessi. Se scopre il viso e copre i capelli sollevando la maschera, sembra uno strano robot dagli occhi enormi.
Perché lo fa? Perché le piace, perché questo è quello che voleva nella vita. Da bambina spiava suo padre nella fucina sotto casa, a Serrenti, proprio a ridosso della dorsale che unisce Cagliari a Sassari. Pochi ci crederanno ma il suo primo disegno alle elementari raffigura quella che a lei pareva un'officina con annessa scrivania. Ultima di tre figli, si è diplomata geometra, ha annusato Scienze Politiche ma neppure sei mesi dopo - durante il solito pranzo di famiglia - ha gelato tutti: babbo, io voglio fare il fabbro.
Nel 2004 suo padre Mario, che oggi ha 64 anni, è andato in pensione e le ha ceduto la ditta. Francesca, che fa tutto da sola (acquisti e lavorazione materiali), l'ha ripescato più tardi come collaboratore «perché a far niente si ammalava, in un anno è finito tre volte in ospedale. Appena rimesso piede in officina, è tornato sano».
Dice che il suo è un mestiere che «nessuno vuole più fare e poi nelle botteghe non ti prendono ad imparare». Lei ci è riuscita vivendo incollata al padre, apprendista e instancabile stregone che memorizzava saldature e forgiature con una passione che è rimasta intatta nel tempo. Ora che è diventata addirittura titolare, non si sente affatto arrivata. Dice d'essere appena agli inizi e avere ancora molto da imparare. Nel frattempo partecipa a fiere e rassegne, s'impegna - quasi fosse uno studio matto e disperatissimo - ad affinare una tecnica che sfiora l'arte.
Fabbro: il bello qual è?
«Ogni volta che lavori un pezzo non sai mai fino in fondo che piega prenderà. Certo, tu l'idea ce l'hai in testa ma c'è sempre qualcosa che va per conto suo. C'è sempre una differenza tra la realtà e gli schizzi, tra il disegno che vorresti seguire con precisione e il ferro incandescente che si trasforma sotto le tue mani. Ogni lavoro è una sorpresa».
Il brutto?
«Mi sporco più che se facessi l'impiegata? Pazienza, basta lavarsi. Lavoro troppo pesante? Perché, la campagna invece è per signorine? L'unica cosa che devi mettere in conto è qualche ustioncina. Ma scompaiono rapidamente».
Crisi?
«Si sente, ma senza esagerare. Negli ipermarket specializzati ti vendono un cancello tutto compreso a 230 euro. Io, con quella cifra, riuscirei a coprire a malapena le spese di materiale. E la manodopera? L'importante comunque è sapere che un cancello da supermercato non è lo stesso che ti fa un fabbro».
Nessuno l'ha sconsigliata?
«Ci hanno provato ma è stato tempo perso. Conosco la mia indole, non potrei vivere buttata su un divano aspettando chissà cosa. Non riuscirei a stare davanti a un computer: sono sicura che dopo un po' lo stipendio mi servirebbe per pagare lo psicanalista».
Il paese mormora?
«Un tempo dicevano che era tutta una finta, che non lavoravo io ma mio padre. Ora spero si siano arresi, che abbiano capito. D'altra parte non ci muoio su queste cose: col paese lavoro poco, la mia clientela arriva dall'esterno. L'handicap, vero e serio, era un altro ma l'ho superato».
Sarebbe?
«Sono asmatica. Soltanto dopo un severo controllo medico sono stata autorizzata a fare quello che desideravo: il fabbro».
In famiglia?
«Mio fratello non era interessato, mia sorella vive lontanissima da questo mondo. La fissa, in casa, ce l'avevo io».
Cattiverie mai, neppure di rimbalzo?
«Fiera campionaria di Cagliari. Nello stand dove campeggiava il mio nome, due signore osservavano certi ricami in ferro battuto e commentavano sotto i miei occhi: e allora, cosa ci vuole a fare quelle scemenze? Morivo dalla voglia di dirglielo: prima di tutto, cara signora, ci vuole l'idea; dopo l'idea, la capacità di farlo, venga in officina e provi».
Ha intenzione di fare questo lavoro per tutta la vita?
«Se posso, sì. Guardo con orgoglio una mia nipotina che pare interessata: piccoli fabbri crescono. Vabbè, diciamola tutta: non faccio programmi a lunga scadenza, non sai mai come gireranno le cose domani. Diciamo che vivo alla giornata anche se non è esattamente così. Ho poche certezze: non passerò la mia vita abbracciata a un pc o in un ufficio, di questo sono sicura».
Che faccia fanno quando scoprono che il fabbro è donna?
«Qualcuno ha mostrato stupore, in senso positivo. Mi hanno detto che si vede il tocco femminile dietro l'armonia di certi pezzi. Io produco sia il moderno, che è squadrato e lineare, sia il classico, che è baroccheggiante».
Quante ce ne sono come lei?
«Grazie a Facebook ne ho scovato una in Spagna che forgia insieme al padre. Sembra un copia-e-incolla della mia storia».
Tornasse indietro?
«Niente passi indietro. Non ne farei. Sono timida ma so quello che voglio, so molto bene dove spero di arrivare. Non vivo di illusioni, sono cosciente che questo è un momento difficile per tutti. Ci sono fabbri che chiudono, la zincheria di Villacidro che riduce il personale, la cementeria di Samatzai che non se la passa benissimo. Perché dovrei star meglio io?»
Luogo comune dire che il suo è un lavoro poco femminile?
«Sarà ma è qualcosa che mi scivola addosso. Il ferro non è pesante: quando lo forgi diventa tenero come il burro. Forse pecco di superbia o forse conosco fino in fondo le mie potenzialità, ma mi pare senza senso sostenere che il fabbro debba essere un uomo per forza».
Per forza no, certo.
«Tutti i lavori che faceva mio padre oggi li faccio io. Per sollevare barre molto pesanti si adopera la gru, l'idea del fabbro tutto muscoli è ancorata al passato. Le nuove tecnologie sono entrate anche qui. Oggi si lavora col laser».
Ci si campa?
«Per il momento, sì. Pago le tasse e vivo di stipendio che, come in qualunque lavoro artigianale, varia da mese a mese. Il fatto è che oggi comprarsi la casa è un lusso, e dunque figurati se pensano agli arredi in ferro battuto. Ogni tanto mi presento a un concorso ma lo faccio per un automatismo, non perché ci creda».
Che genere di concorsi?
«L'ultimo era alle Poste. Dopo che l'ho dato e non sono stata ammessa ci ho pensato sopra: meno male, mi sarei ammalata. Ognuno fa la sua scelta. Ho amiche che sono partite e devo dire che anch'io per un po' ho pensato di trasferirmi a Roma».
Perché Roma?
«Per trovare un'occupazione coerente col diploma di geometra. Mia cugina, che è ragioniera, è poi partita davvero. Io non ce l'ho fatta a salire sull'aereo. Non posso farci nulla: sono attaccata alla mia terra, al mio mare».
Qual è il confine tra un'opera d'arte e un pezzo in ferro battuto?
«Non so se esista un confine. Per la Fiera del tappeto di Mogoro ho realizzato una lampada da pavimento che credo sia bella, valida. Dentro di me qualunque cosa faccia è un'opera d'arte perché so cosa ci ho messo dentro, so di averla fatta col cuore».
Con l'aiuto di ceramisti e vetrai, Francesca realizza lavori molto particolari. In officina sta sfreddando una collezione di pesciolini e conchiglie di mare. Altri pezzi, sicuramente più importanti, li tiene in una sorta di casotto-vetrina sopraelevato rispetto alla strada statale per colpire l'attenzione degli automobilisti che sfrecciano nei paraggi. Sono classici d'arredamento: basi per lampade, bastoni per tendaggi, fregi floreali, portacatini, oggetti da salotto e da bagno.
Pentimenti?
«Vuol dire chi me l'ha fatto fare? La differenza rispetto a tanti ragazzi della mia età è che io ho scelto di fare questo lavoro. Che m'impegna di solito nove-dieci ore al giorno, qualche volta cinque ma all'occasione arrivo a dodici. Sono davvero fortunata».
Fortunata?
«Ha idea di cosa facciano i giovani della mia generazione in paesi come questo? Niente. Alcuni dicono che non trovano lavoro, altri che sì, qualcosina c'è ma se ne ricaverebbe troppo poco. Quand'ero ragazzina andavo coi miei amici a fare la raccolta di pomodori: mi ci pagavo il campeggio per l'estate. Oggi la raccolta dei pomodori la coprono gli extracomunitari. E i ragazzi? Aspettano non so cosa al bar».
L'arrivo di una donna ha ridotto la clientela?
«No. Anzi, con gli anni sono riuscita a ingrandirla».
Ha perduto amicizie importanti?
«Neanche una ma debbo dire che ne ho sempre avuto pochissime. Il nostro vecchio gruppo, salvo quattro-cinque emigrati, non è mai cambiato. E d'estate, quando torna chi lavora fuori, siamo al gran completo: una quindicina».
Ha mai colto disprezzo?
«Quest'anno in Fiera. La moglie di un fabbro mi ha ispezionato come un medico, voleva vedere cicatrici nelle mani e nelle braccia. Secondo lei, era l'unica prova che facessi davvero lo stesso mestiere del marito».
Non ha paura di farsi male, rovinarsi?
«Durante la lavorazione tutto il corpo è a rischio. Se parte la lama di una troncatrice, puoi solo sperare nel miracolo. Io, comunque, non adopero smerigli pesanti perché la tecnologia mi consente di utilizzare il plasma. Babbo impiega ore e ore a tagliare una lamiera, operazione che si può fare oggi in pochi minuti».
Nel tempo libero?
«Sono profondamente normale. D'estate, mare; passeggio con le nipotine, lavoretti nell'orto di famiglia, cinema. Discoteca? Funziona fino ai diciott'anni, poi stufa: meglio il pub».
C'è qualcosa che non può fare?
«Perché sono una donna? Fino alla settimana scorsa, sì: non avevo mai tagliato col cannello a ossigeno lamiere molto spesse. Ci ho provato, è caduto anche quel tabù».

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