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8.3.25

DIARIO DI BORDO SPECIALE 8 MARZO parte 1 ANNO Ⅲ .Storie didonne Silvia Baldussu, la pilota delle Poste «Non esistono lavori per solo uomini» Romana con radici nell'isola, 48 anni, due figli, è primo ufficiale su Bocing 737 ., Grazia Pinna in campo nel 1979: «Sono stata la prima ad arbitrare in Italia» ., I dimenticati dell’arte: storia di Luisa Giaconi ( 1870-1908 ), la poetessa silenziosa ., Cinque straordinarie donne per ragionare sull’8 marzo “Womeness” ocumentario in onda su Sky

  canzone  suggerita     
Pane  e rose  -  Casa  del vento

 Visto    che  è  un   po' difficile  per  me  uomo,  che  pur  combattendo  anche interiormente   il proprio sessimo \  maschilismo  e   riportando post    contro ua  cultura  misogina  e sessista   perchè le  done siano trattate meglio,  parlare  \  scrvere un pensiero   compiuto e non retorico   \ banale sulla  giornata  del 8 marzo   che in realtà dovrebbe essere  tutto l'anno non  solo una  giornata  ,  raccontero   delle  storie prese  dalla rete  . Più  precisamnte     da  la nuova   sardegna    e     dalla  già citata  su  queste  pagine  della  rivista   arttribune 
una piattaforma di contenuti e servizi dedicata all’arte e alla cultura contemporanea, nata nel 2011 grazie all’esperienza decennale nel campo dell’editoria, del giornalismo e delle nuove tecnologie.





Grazia Pinna in campo nel 1979: «Sono stata la prima ad arbitrare in Italia»



Cagliari
 «Se credi che il mio arbitraggio non vada bene, il fischietto prendilo tu». Grazia Pinna, 81 anni, natali a Carloforte e fiorentina d’adozione «per amore», quarantasei anni fa è diventata così la prima donna arbitro d’Italia. «Negli anni Settanta ero presidente della squadra che aveva appena disputato la partita di un torneo dilettantistico della Uisp. La provocazione del direttore di gara, seduto al tavolino del mio bar a Campi Bisenzio, non mi spaventò. Andai all’Unione italiana sport per tutti, mi iscrissi al corso per arbitri, e dopo un anno ero sul campo di Firenze a dirigere la mia prima partita, in mezzo agli uomini che quel giorno me ne dissero di tutti i colori».
Correva l’anno 1979, la notizia, per l’epoca, era sensazionale: «Arrivarono duecento giornalisti da tutta la provincia. Mi chiamavano l’arbitro col rossetto». Il primo fischio d’inizio partita, al femminile, fu quella domenica al “Barco” di Firenze, per Castello–Fiorenza. Divisa nera, pantaloncini che lasciavano ammirare le gambe più sexy della domenica, moneta verso il cielo, palla al centro: «Tutto è iniziato quando il direttore di gara di una partita dove giocava la mia squadra mi lanciò la sfida perché gli contestai un rigore. Mi disse “fallo tu visto che sei tanto brava”. E io non persi tempo». Grazia Pinna, che vive ancora a Firenze, al contrario della sorella gemella Vittoria che ha sempre vissuto a Cagliari, non nega di esserne stata molto orgogliosa: «La Figc non accettava donne, le porte erano chiuse, mentre alla Uisp si potevano fare i corsi». La prima volta in campo? «Una grande emozione, era un avvenimento per tutti, soprattutto per i giornalisti che si precipitarono allo stadio per scrivere di me. I primi minuti sono stati terribili, avevo paura di condizionare la partita, poi credo di essere entrata perfettamente nel ruolo».Non sono mancati pregiudizi e scorrettezze: «Uno spettatore mi insultò dicendomi che come donna potevo essere brava soltanto a letto. Mi girai, lo guardai dritto negli occhi e gli dissi “sì può darsi, ma certamente non con te”. L’ispettore mi disse che era vietato replicare al pubblico, però ormai era andata». Sotto la pioggia e sotto la neve, la bella Grazia non si tirava indietro: «Mai. Quando mi chiamavano ero sempre pronta a partire. Devo dire che sono stata sempre molto severa, anche se i giocatori non si sono mai lamentati. Piuttosto il pubblico sì, dagli spalti sentivo spesso borbottare». I cronisti sportivi erano tutti a bordo campo: «Quel giorno si dimenticarono di darmi penna e cartellino, dunque scordai di segnare il primo gol. La partita si concluse due a uno, ma io ero talmente stordita dall’emozione che non mi resi conto quale squadra vinse». “L’arbitro col fondotinta”, “l’arbitro col rossetto”: «I titoli dei giornali erano spesso così, io però non mi sono mai offesa, anzi, in partita portavo anche i gioielli».La passione per il calcio l’ha sempre avuta fin da ragazzina: «Il mio idolo era ovviamente il grande Gigi Riva, ma seguivo anche l’arbitraggio di Sergio Gonella. Io ho portato in campo la mia sensibilità, insegnando ai ragazzi la sportività di una stretta di mano a fine partita. E quando entravano in campo dicevo loro di salutare il pubblico». La celebrità le ha fatto arrivare lettere di ammiratori da tutto il mondo, oltre che dall’Italia: «Mi scrissero perfino dal Messico. Volevano sposarmi, ma anche se all’epoca ero vedova non mi interessava».Fra i corteggiatori avvocati e professori: «Qualcuno mi mandò il biglietto aereo per raggiungerlo». Le donne arbitro? «Se oggi sono importanti, anche a livello internazionale, forse un pochino lo devono al mio coraggio di indossare i pantaloncini corti e fischiare qualche rigore. Avrei voluto tanto arbitrare in Serie A, ma all’epoca le porte erano blindate, non ci volevano». Ora che le donne arbitro scendono in tutti i campi di Serie A e non solo e sono numerose anche in Sardegna, Grazia Pinna è felice: «Quando iniziai avevo 36 anni. Non vorrei essere presuntuosa, penso che sia un po’ anche merito mio: sono stata la prima in Italia».
                                      (ilenia mura)


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I dimenticati dell’arte: storia di Luisa Giaconi, (1870-1908)
la poetessa silenziosa Originaria di Firenze, morì solo a 38 anni. La sua poesia, che affascinava Dino Campana, attende ancora di essere riscoperta. Anche dagli editori


Per guadagnarsi da vivere copiava le opere degli artisti del passato, mentre in segreto scriveva liriche intense e appassionate nella Firenze di fine Ottocento, che piacevano a Dino Campana
Schiva e riservata, Luisa Giaconi (1870-1908) era nata in una famiglia aristocratica ma non agiata.Il padre Carlo discendeva dalla nobiltà sassone ed aveva sposato Emma Guarducci, ma era un semplice insegnante di matematica, che si spostava in diverse città italiane per il suo lavoro. Soltanto alla sua morte Luisa poté tornare nella natia Firenze, dove terminò i suoi studi all’Accademia di Belle Arti. Dopo il diploma trascorreva le sue giornate nei musei fiorentini a copiare i capolavori, mentre affinava la sua sensibilità poetica, anche grazie all’amicizia con il suo vicino di casa Enrico Nencioni, critico letterario ed esperto di letteratura inglese. Erano “taciturne giornate”, come le aveva definite il suo caro amico Angiolo Orvieto, fondatore della rivista Il Marzocco, dove uscirono i suoi primi versi a partire dal 1899, a seguito della delusione causata dal fallimento della casa editrice Paggi, dove Luisa aveva a lungo sperato di pubblicare le sue poesie.
Nello stesso anno la Giaconi iniziò una relazione amorosa con il giornalista e professore di letteratura inglese Giuseppe Saverio Gargàno, che collaborava con la stessa rivista. “L’interesse di Giaconi”, scrive Nicolò Bindi, “sta nell’invisibile, nel tentativo di rappresentare ciò che l’occhio, o l’orecchio, può arrivare ad intuire, ma non a vedere o sentire concretamente. Da qui, il legame con la dimensione onirica, chimerica, nel desiderio di un’altra dimensione priva dei dolori e del rumore tipici della modernità”. I suoi componimenti, di evidente matrice simbolista, risentono di letture variegate, che vanno da Dante a Leopardi fino all’ Ecclesiaste, con un interesse spiccato per la filosofia di Schopenhauer. Tra i suoi pochi ammiratori spicca Dino Campana, colpito da versi come “Li autunni non furon che eterne primavere velate di pianto; e la vita fu sogno e l’amore fu sogno, e parvero sogni le luci delli astri, e la dolcezza dei fiori, ed il tempo, e la morte. Poi che noi siamo sogni”. Tra le poesie più note di Giaconi figura Dianora: Campana lo propose al suo editore, che lo inserì per errore in una raccolta del poeta.  

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   sempre  dalla  stessa  fonte  


Cinque straordinarie donne per ragionare sull’8 marzo

“Womeness”, in onda in prima visione su Sky Arte sabato 8 marzo, è il docu-film che descrive cinque influenti donne del nostro tempo a partire dal tema del corpo, inteso come “catalizzatore di accadimenti”


                                    Setsuko Klossowska de Rola con Yvonne Sci


Sono la scrittrice Dacia Maraini, la politica e attivista per i diritti civili Emma Bonino, l’artista verbo visiva Tomaso Binga, la pittrice e scultrice giapponese (moglie del pittore Balthus) Setsuko Klossowska de Rola e la compositrice e cantante iraniana (in esilio) Sussan Deyhim le cinque protagoniste di Womeness, il docu-film in onda – in prima visione – su Sky Arte sabato 8 marzo. In occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne, Sky Arte propone dunque la terza opera scritta e diretta dall’attrice e regista Yvonne Sciò, che prosegue così il proprio itinerario alla scoperta dell’universo femminile.Su Sky Arte una prima visione al femminile per l’8 marzoLe voci scelte appartengono a quelle di “cinque donne autentiche, diverse per nazionalità, estrazione e vissuto, ma uguali nel sentire” spiega la regista, motivando la selezione compiuta per Womeness. “Mi piaceva, in particolare, l’idea che le loro parole, a distanza, fluissero in un unico filo conduttore del racconto. Da una parte Dacia Maraini, Tomaso Binga ed Emma Bonino raccontano sé stesse, la loro infanzia e

Emma Bonino con Yvonne Sciò
le loro conquiste, che hanno intriso gli ultimi sessant’anni della nostra storia recente, e tirano le somme della condizione femminile nell’Italia che è stata gettando uno sguardo verso quella che sarà” prosegue Sciò. 
In relazione, infine, alle due presenze internazionali, la regista afferma: “Sussan Deyhim, cantante e performer iraniana, mi racconta quei momenti drammatici della rivoluzione in Iran e dell’impossibilita di poter tornare nel suo Paese, in quanto donna ed artista, e apre al ricordo della sua collaborazione con Shirin Neshat e Richard Horowitz, suo compagno e Golden Globe awarded scomparso durante la post produzione del film.” Con Setsuko Klossowska de Rola, Sciò raggiunge Villa Medici, a Roma, alla ricerca delle tracce del tempo trascorso dall’artista in quella storica sede: “sono poi infinitamente grata a Setsuko di avermi regalato il racconto della sua vita e della sua rivoluzione silenziosa fatta da giovanissima seguendo in Italia, contro ogni pregiudizio, il pittore Balthus” conclude la regista.
I contenuti del sito di Sky Arte sono curati da Artribune. Scoprite a questo link tutte le novità di palinsesto e le news che arricchiscono il portale.  






7.3.25

Il padre di Sofia De Barros: «Mia figlia è morta di leucodistrofia metacromatica (Mld) ma il suo sangue è servito al test di diagnosi precoce: tutte le regioni lo adottino»

 Sofia De Barros aveva otto anni quando ha perso la sua battaglia contro la leucodistrofia metacromatica (Mld). Prima che se ne andasse, i loro genitori Guido e Caterina, hanno donato per la ricerca le gocce di sangue della figlia malata, pur sapendo che il gesto non l’avrebbe fatta guarire.
Signor De Barros, perché quelle gocce di sangue erano importanti?
«Per fare in modo che nessun altro bambino morisse di questa malattia. Grazie a quelle gocce donate da noi e altre famiglie con bimbi affetti da Mld, è stato messo a punto un
test per la diagnosi precoce di questa patologia neurodegenerativa finanziato al Meyer da Voa Voa! Amici di Sofia, l'associazione da noi fondata nel 2013».
Così si è arrivati in Toscana alla possibilità di diagnosi precoce?
«Esattamente, in Toscana si è arrivati alla possibilità di una diagnosi precoce che fa la differenza tra la vita e la morte: per la Mld esiste una terapia efficace, ma solo se iniziata prima della comparsa dei sintomi. Il progetto, finanziato sempre da VoaVoa, vede coinvolti la Regione Toscana, l’ospedale Meyer con il Laboratorio di Screening Neonatale e la struttura di Malattie metaboliche».
Adesso questa malattia è tornata alla ribalta con il caso di Gioia.«Lei è una bambina dell’Emilia Romagna a cui non è stato possibile fare una diagnosi precoce visto che la sanità della Regione non si è dotata di questa possibilità. Il progetto pilota per la diagnosi precoce non è un obbligo dei governi sanitari delle Regioni. È una sperimentazione che viene lasciata all’iniziativa del governo sanitario regionale di ciascuna regione».
Cosa significa non dotarsi di questo test?
«Non dotarsi di questo test a mio avviso costituisce una omissione di soccorso, visto che si sa che, nel caso nasca un bambino o una bambina con quella patologia, esiste una cura che è in grado di salvare il piccolo a patto che venga somministrata prima della comparsa dei sintomi».
Quindi si potrebbero salvare vite?
«Si potrebbero salvare numerose vite ma si sceglie di fatto di non farlo, e complice di questa omissione di soccorso è l’idea che questa patologia sia molto rara e che capiti a soltanto a poche decine di bambini, ma in questo modo si costringono a sofferenza atroci decine di bambini e decine di famiglie che si vedono perdere davanti agli occhi i propri figli e le proprie figlie».
Lei è amareggiato per questo?
«Ogni volta purtroppo bisogna arrivare al morto per tornare a sensibilizzare sul tema. Mi pare un atteggiamento agnostico restare ad aspettare che altre regioni facciano la sperimentazione. Se incrociamo le braccia noi, cade il silenzio su questa patologia, e invece bisogna parlarne perché si possono salvare vite attraverso progetti di screening che non hanno certamente costi proibitivi».
Qual è la sua speranza?
«La mia speranza è che l’Emilia Romagna, e poi tutte le altre regioni italiane, seguano l’esempio virtuoso di Toscana e Lombardia, adottando direttamente lo screening o attivando quanto prima un progetto pilota. A dicembre abbiamo inviato una lettera aperta al Presidente De Pascale, ripresa dalla stampa e oggetto di un’interrogazione regionale. A oggi, purtroppo, non abbiamo ricevuto alcuna risposta, nonostante la nostra disponibilità a sostenere economicamente l’avvio del programma».

3.3.25

diario di bordo n 106 anno III chi lo dice che influenzer sono truffatori il caso di Max Maiorino, il calzolaio influencer: «Stavo per chiudere bottega ..... >> ., Iannaccone, l'avvocato collezionista: «Comprai due Banksy ma non sapevo chi fosse» ., Da cardiologo in Italia guadagnavo 2800 euro al mese e non mi facevano operare. A Lione adesso dirigo una clinica» ., Bambino di 5 anni sparisce da casa, genitori in panico. Ritrovato dai nonni, aveva preso la metro da solo per andare da loro

 Corriere della sera  tramite  msn.it

Max Maiorino, il calzolaio influencer: «Stavo per chiudere bottega, ora mi chiamano le griffe e mi arrivano scarpe da riparare da Stati Uniti e Sudamerica»



Maximiliano Maiorino ha ricavato i suoi studios in un angolo del magazzino dove stanno impilate borse tanto griffate quanto bisognose di manutenzione, scarpe etichettate con codici di arrivo scritti a mano, attrezzi del mestiere. Tra colori, pelli, forbici e spazzole spuntano l’ombrello per la luce e aste per lo smartphone. Nome di battaglia «calzolaiomax», 34 anni, è l’alfiere degli artigiani che sui social hanno portato il mestiere. E, lì, l’hanno salvato. «Ricevo almeno dieci pacchi al giorno: merce da riparare inviata da chi mi ha conosciuto sul web. Altri clienti vengono al bancone. Se ripenso a quattro anni fa, quando dalla porta del negozio non entrava nessuno...». Oggi Forbes l’ha scelto come caso esemplare di imprenditoria decollata grazie alla Rete e le griffe se lo contendono come ospiti agli eventi della Fashion Week milanese.

Torniamo a Saronno. Filo strada, su via Cavour, l’insegna «Maiorino calzolaio» incornicia una vetrina che è la quintessenza dell’arte del riparare: scarpe nuove e rimesse a nuovo. Al piano interrato, giù da una scala ripida, la medesima arte finisce in video che macinano cuoricini - e clienti - in Brasile come in Svizzera, in Italia e negli Usa. L’artigiano Max («Con la x proprio all'anagrafe») facendo l’artigiano totalizza numeri da influencer: 400 mila follower su TikTok, 320 mila su Instagram, milioni di visualizzazioni per filmati in cui ripara o personalizza.

Il primo video?

«Nel 2015, su Youtube. Aggiustavo calzature e non l’ha guardato un’anima: evidentemente non era il momento».

Poi?

«Nel 2020 TikTok era pieno di gente che ballava. Ci ho riprovato: taglia, apri, incolla. Una ragazza mi aveva portato un paio di scarpe sportive di Alexander McQueen, molto in voga, a cui si era rotta la tomaia. Punto impossibile, danno in genere considerato irrecuperabile. A me sono venute bene. Le visualizzazioni del filmato sono schizzate a 300 mila, hanno iniziato ad arrivare messaggi: è capitato pure a me, posso inviarti le scarpe? Avevo svoltato».

Perché prima era al palo.

«Quando ho aperto il mio primo negozio c’erano poco lavoro e pochi clienti. Per giorni incassavo zero. Tuttavia nella calzoleria ci credevo, sapevo di essere bravo e ripetevo: troverò l’idea giusta».

Quindi cosa ha fatto?

«Per non soccombere mi sono messo a lavorare per mantenere il mio lavoro. Dovevo comprare i macchinari e pagare l’affitto quindi ho fatto il barman, il cameriere, il corriere».

Il calzolaio, in teoria, non è un lavoro che i giovani come lei sognano di fare.

«Era calzolaio il mio trisavolo. Da nonno Marino, padre di mio padre Salvatore, ho carpito i primi segreti: da piccolo pasticciavo nel suo negozio, sempre a Saronno. Nonno è mancato nel 1998, papà nel frattempo aveva lasciato per dedicarsi all’edilizia. Quando nel 2008 è arrivata la crisi abbiamo deciso: torniamo calzolai. I vecchi macchinari erano in garage».

È dipendente dell’attività di famiglia?

«No, ho aperto la mia partita Iva a 22 anni. Conviviamo nello stesso spazio ma le attività sono separate; loro fanno il lavoro più classico, curano gli articoli dei saronnesi, io gestisco gli ordini dal web».

Si è fatto conoscere eseguendo miracoli su pezzi griffatissimi: tutto vero o c’è il trucco?

«Vero. L’articolo ha un proprietario e se sbaglio non solo non torna, ma lo scrive anche nei commenti. Aggiustare oggetti di qualità - con il second hand, la sensibilità ecologica, i prezzi in salita - oggi ha mercato. Fino a quattro anni fa ti prendevano per matto: “Piuttosto butto e ricompro”».

Ma lei ci credeva già allora.

«Nel 2017 mi sono staccato dal negozio di Saronno e ne ho aperto uno da solo a Gorla Minore: non battevo chiodo. Per tentare di allargare il giro ho aperto anche a Solaro: pure peggio. Arriva il Covid, li ho chiusi entrambi e sono rientrato a Saronno: nessuno pensava ad aggiustare le scarpe, anche perché nessuno le consumava».

Disastro.

«Avevo chiesto un prestito di 20 mila euro alla banca e mi ritrovavo con i debiti».

Non ha mollato.

«Anche mentre stavo lì a fissare la porta pensavo che avrei prima o poi trovato il modo di farmi valere. Ci ho sempre creduto. Confesso che non è stato facile: quando mi chiedevano “cosa fai?” e io rispondevo “il calzolaio” mi guardavano con un misto di choc e compassione. Anche i miei amici, all’inizio, tenevano a precisare: “Calzolaio, sì, ma fa scarpe sue, fa cose pazzesche”. E io: “Ragazzi, mica mi vergogno di ciò che faccio”. Oppure provate voi a dire: “Investi su di me, apro un negozio in cui riparo”. Vi lascio immaginare le risposte. In momenti così devi davvero credere in te, tanto».

Come ha affinato la tecnica?

«Con papà. Poi faccio tante prove, mi esercito, studio».

Che scuole ha fatto?

«Ho iniziato a studiare da geometra, non era cosa mia. Insisto: impegnatevi in ciò in cui credete, che non è uguale per tutti. Se la vostra strada è studiare studiate forte, se è un lavoro, lavorate forte. Dopo il primo contenuto diventato virale ogni giorno, compleanno e Natale inclusi, ho postato contenuti. L’algoritmo ha premiato, i contatti sono cresciuti e anche gli ordini. Caricavo la lavorazione di una scarpa X e per una settimana arrivavano solo richieste per scarpe del marchio X».

Il suo video più visto?

«Il salvataggio della ciabattina Hermès masticata dal cane è arrivaoa a 14 milioni».

Quindi per una settimana solo Hermès.

«No, solo oggetti masticati da cani».

Oggi per le mani le passano accessori anche ultra-costosi.

«Per me una scarpa griffata o una che non lo è sono uguali: stessa cura. Il calzolaio prima era un ciabattino, ora lo vedono come artista. C’è chi invia articoli nuovi e chiede di cambiargli il colore: se avviene su una scarpa da mille euro all’esterno la percepiscono come una missione “rischiosa” e attira curiosità».

Quanto costa mediamente un intervento?

«La sneakers da lavare e incollare da 20 euro, se è da rifare dai 100 ai 300. Al cliente viene riconsegnata in circa tre settimane».

Cosa è impossibile da fare?

«Dato che produco scarpe da zero, potenzialmente ricostruirle anche solo da una stringa. Però se un lavoro non vale la pena lo dico».

L’intervento più strano che le hanno chiesto?

«In una borsa Bentley inviata dalla Svizzera hanno voluto ricavare la cuccia del cane».

Lavora molto con l’estero?

«Ho clienti in Sudamerica, negli Usa. Qualcuno in Italia per le vacanze viene di persona a Saronno con i pacchi».

Pubblicità tradizionale ne ha mai fatta?

«Mai».

Qualche griffe l’ha cercata?

«C’è un accordo di riservatezza: posso dire che c’è chi ha apprezzato le riparazioni».

Maiorino, è un influencer.

«Ho richieste per pubblicizzare marchi esterni. Qualche collaborazione l’ho avviata».

Quanto prende a post?

«A post non saprei, direi che ogni collaborazione vale più o meno 2 mila euro. Dico molti no. Anche perché non ho molto tempo».

Quante ore lavora?

«All’inizio 14-15 ore al giorno. Mi alzavo, facevo colazione col telefono in mano, rispondevo a chi mi contattava, poi via in negozio, riparazioni e video, pranzo con il telefono, ancora in negozio fino alle 19.30, video da postare, richieste a cui rispondere. Stavo impazzendo. L’anno scorso ho frenato: dopo le 19.30 niente telefono».

La sua fidanzata sopporta questi ritmi?

«Fare questa vita in passato non ha aiutato».

Ha qualcuno che la aiuta con i social?

«Sono precisino: voglio sempre le cose a modo mio quindi mi arrangio. Quando mi vedeva con il cellulare, papà diceva: lascia il telefono, c’è da lavorare. Poi hanno cominciato ad arrivare i pacchi. E ora è lui che mette tutti in guardia: se filma non disturbate!».

Qualche numero della sua società?

«È una Srls, fondata a dicembre di due anni fa. Oggi ho quattro dipendenti. Collabora con me mio fratello Mattia».

Fatturato?

«Mi limito a dire che oggi sto bene».

Qualche sfizio che si è levato?

«Reinvesto tutto nei progetti della società».

Dove vive?

«A Saronno, in affitto. Anche il negozio da 180 metri quadri lo è».

Insomma, il suo lavoro adesso sognano di farlo anche altri giovani?

«Ricevo proposte di ragazzi che vogliono lavorare per me o si informano: interesse che prima non esisteva».

Altro che vergognarsi.

«L’altro giorno uno mi ha scritto: vorrei venire a lavorare da te anche gratis, vorrei imparare».

L’ha cercata anche Forbes per raccontare la sua storia imprenditoriale.

«Ma sa che cosa ha fatto la differenza? La Chioccina, la benemerenza civica dei saronnesi: un sacco di gente qui si congratula per quella. L’ha ritirata mamma Roberta per me, io ero all’estero: era emozionatissima. Il web è importante, ma certe cose non hanno prezzo».


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Le gioie e i dolori, le speranze, le angosce, i peccati e gli entusiasmi: i meandri dell’animo umano che in tutte le sue sfaccettature, anche le più intime — ma non per questo inconfessabili — si confrontano con il mondo, sono l’obiettivo di Giuseppe Iannaccone nella ricerca, accurata ed appassionata, di opere per la sua collezione di arte moderna e contemporanea, una delle più importanti al mondo, la prima tra le raccolte private ad essere ospitata con 140 pezzi dal 7 marzo al 4 maggio nelle sale del Palazzo Reale a Milano.
Tra i più importati avvocati penalisti del diritto d’impresa, Iannaccone ha raccolto oltre 400 opere che ha esposto in tutto il mondo. Non un ammassare compulsivo, ma una cernita meditata e convinta. «La mia è una raccolta passionale legata a quello che l’uomo ha dentro in relazione alle realtà sociali. Attraverso l’arte, mi rispecchio nel mondo in cui vivo», spiega. «Sono attratto dall’arte nella sua libertà, dall’artista che non ha paletti culturali ed espressivi», aggiunge. E infatti, in una sezione altrettanto ricca ed importate della collezione, anche se non esposta, a coloro che, inquadrati nell’arte ufficiale del fascismo, celebravano il regime preferisce gli altri che «raccontavano i postriboli e la sofferenza della guerra».
In questo percorso ad un certo punto ha scoperto di aver acquistato negli anni, inconsapevolmente, molti più artisti neri, donne, omosessuali: «Mi sono reso conto che nelle loro opere c’è una espressività esplosiva, una novità dovuta forse al fatto che questi gruppi, che hanno taciuto tanto nella storia dell’arte, oggi hanno una capacità di esprimersi che mi colpisce particolarmente».
Un’opera ha diversi piani di lettura? Filosofico, psicologico o solamente estetico? La risposta è ad ampio spettro: «Credo che le vere opere d’arte abbiano molteplici letture in grado di mandare diversi messaggi che poi ciascuno coglie in funzione della propria sensibilità. Per quanto mi riguarda, mi pongo il problema dell’emozione che provo io. Alla fine potrei pensare di provare le stesse cose che prova l’artista, ma non è affatto detto che sia così».A chiedergli perché mai un avvocato penalista senta la necessità di andare a cercare altre sensazioni, come se non gli bastassero quelle che gli arrivano dalla professione, la risposta che si ha è molto socratica: «Credo che nessuno possa avere la presunzione di conoscere tutto, di conoscere il mondo. Fino a quando avrò l’ultimo respiro cercherò sempre di scoprire qualcosa di nuovo».
E allora, come scegliere un quadro evitando di prendere un bidone? «È evidente che una certa sensibilità è indispensabile, ma poi ci vuole cultura. Bisogna essere educati per avere le chiavi di lettura dell’opera». Non nasconde di aver sbagliato in passato, ma con gli anni e il crescere dell’esperienza ha affinato il tiro. Ha ospitato mostre di dieci artisti giovanissimi nel suo grande studio in Piazza San Babila, Iannaccone può ragionevolmente essere considerato un mecenate lungimirante, perché molti giovani su cui ha investito la propria reputazione, ed i propri denari visto che acquisita sempre anche come forma di incoraggiamento verso chi è alle prime armi, poi si sono rivelati dei grandi artisti, uno tra tutti Banksy, del quale presenta due sculture. «Meravigliose, le comprai fra i primissimi quando non sapevo nemmeno chi fosse. C’era un importante gallerista inglese che me lo aveva sconsigliato, diceva “questo è un randagio che va a rovinare i muri nelle periferie di Londra”. Oggi non mi potrei permettere di acquistarle. A me il denaro non interessa, non che non gli dia importanza, ma acquisto un’opera e la tengo per ciò che provo, non per quanto vale», mette in chiaro.
Esibizionismo? Narcisismo? La ragione di far conoscere a tutti la propria collezione, Giuseppe Iannaccone la ricollega alla sua inveterata passione, che vorrebbe accomunasse tutti i collezionisti: «Faccio una mostra di arte contemporanea, curata da Daniele Fenaroli con l’ importantissima consulenza di Vincenzo de Bellis, il quale coordina le maggiori fiere d’arte del mondo, per dimostrare quanto è bello amare l’arte ed invitare i cittadini allo studio dell’arte. Voglio dire ai milanesi che l’arte contemporanea è meravigliosa. Ci saranno opere che non è facile vedere in Italia e a Milano, dove non c’è ancora un museo di arte contemporanea».
Nato 69 anni fa ad Avellino in una famiglia piccolo-borghese arrivata a Milano negli anni Settanta, è sempre rimasto legato alla sua Campania, ma come la stragrande maggioranza di chi riesce ad affermarsi all’ombra del Duomo è riconoscente a Milano. «Questa mostra è diversa da tutte le altre che ho fatto in Italia e all’estero; perché questa è una mostra del Comune di Milano e per questo ringrazio il sindaco Beppe Sala, l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi e il direttore Domenico Piraina, poi perché la sento come un reciproco riconoscimento tra me e la città che adoro ed alla quale sono e sarò sempre grato per la sua generosità».


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«Da cardiologo in Italia guadagnavo 2800 euro al mese e non mi facevano operare. A Lione adesso dirigo una clinica»



«In Italia da giovane medico guadagnavo 2.800 euro al mese e non mi facevano operare, perché dovevo sgomitare tra primari che assumono parenti e direttori sanitari scelti dai partiti. In Francia invece mi hanno offerto più del doppio del mio stipendio per specializzarmi nel mio settore e ora dirigo una clinica privata, la settima del Paese per l’ablazione cardiaca».
Nel 2014 Carlo Quaglia, cardiologo torinese, all’epoca quarantenne, sentendosi impantanato nella sanità pubblica italiana ha detto basta e ha deciso di fare le valigie. Per seguire la stessa strada che negli ultimi vent’anni ha portato all’estero circa 180 mila professionisti italiani, 131 mila medici (10 mila in Francia) e 50 mila infermieri; una fuga di talenti che creato non poche carenze di organico.
«Io volevo solo operare. All’epoca la mia specialità non era presente in Piemonte. Mi sono quindi trasferito a in Lombardia, ma ho dovuto confrontarmi con un sistema complesso dove nepotismo partiti determinavano le carriere. Una notte, ero di turno al pronto soccorso, ho inviato di getto un curriculum a un primario di un Ospedale di Lione. Il mattino dopo ero già in Francia per il colloquio. Da lì è cominciata la mia storia».Quaglia ha costruito la sua carriera prima nel sistema pubblico e poi nel privato. Prima al Centre Hospitalier de Roanne, dipartimento della Loira, e poi di nuovo a Lione. «In Francia il sistema dei rimborsi è equo e trasparente. La politica non mette bocca sulle scelte dei direttori, perché questi sono selezionati dal Sistema delle Grandes Ècoles. E un manager che lascia un buco in genere viene allontanato non premiato. Così i medici possono crescere». E qui spiega la vera ragione del suo addio all’Italia: «Si va all’estero non per la prospettiva di guadagnare di più, anche se il primo stipendio, 6.700 euro era più del doppio di quanto guadagnavo in Italia, ma per lavorare meglio. Nel mio caso non riuscivo proprio a operare nella mia specialità. La gavetta spesso si traduce nel vedere avanzare persone poco competenti. E questo è avvilente sopratutto dopo tanti anni di studio».Dopo l’esperienza nel pubblico in Francia Quaglia ha deciso di mettersi in proprio. E ha costituito il Polyclinique de Lyon Nord insieme con altri camici bianchi italiani come lui. «Le cose procedono molte bene. Siamo la settima clinica di Francia specializzata in questa tecnica cardiologica — spiega Quaglia .—E infatti stiamo assumendo: tanti curriculum ci arrivano dall’Italia. I nostri medici sono bravissimi, peccato poi che il sistema li fa fuggire». Quaglia torna spesso a Torino, «vengo a trovare mio padre», ma di rientrare in Italia non ci pensa proprio. «Non c’è offerta che possa convincermi a rientrare».

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Bambino di 5 anni sparisce da casa, genitori in panico. Ritrovato dai nonni, aveva preso la metro da solo per andare da loro

CERNUSCO SUL NAVIGLIO - Quindici minuti di terrore per una mamma e un papà del Milanese che questa mattina, 2 marzo, hanno temuto il peggio per il loro bambino di 5 anni. I due genitori hanno chiamato il 112 per denunciare che il figlio era scomparso dalla loro casa a Cernusco sul Naviglio.

Subito i carabinieri di Pioltello hanno iniziato le ricerche e hanno suggerito alla mamma di controllare con i parenti. Sono stati i nonni del piccolo a far rientrare l'allarme quando, visto il piccolo arrivare verso casa loro, hanno chiamato i genitori e messo fine all'incubo.Il piccolo era uscito di casa senza essere visto, è andato a piedi alla fermata della metro verde, è salito su un treno diretto a Gessate ed è sceso due fermate più avanti, a Cassina de' Pecchi, proprio dove vivono i nonni.

28.2.25

diario di bordo n 106 anno III - Vince una gara di 166 km… e viene squalificato per le scarpe ! ., Cronaca Naviga In dialisi da 50 anni, il caso a Prato L'ospedale: 'Esempio di tenacia e modello di assistenza., Lea uccisa a 10 anni da un Suv guidato da un ubriaco, i suoi organi salvano 5 bambini. Il guidatore indagato per omicidio stradale

  tra  una  pausa   e  l'altra      fra   le  attivitù  del  comitato   classe76   per  la  festa     cittadina  i  sant  isidoro che   si  tiene  a  settembre    e  la  sei  giorni  di carnevale (  foto a  destra   la  locandina del nostro  evento   per  questo  carnevale )   ecco  a  voi     questo numero   de diario  di  bordo. Le stotrie     sono tratte  dal il  portale msn.it  

Atletica Live

Vince una gara di 166 km… e viene squalificato per le scarpe!

Immaginate di correre per quasi 12 ore, spingendo il vostro corpo oltre ogni limite, e di tagliare il traguardo per primi in una gara massacrante come le 100 miglia degli Stati Uniti, una corsa di 166 chilometri disputata a Henderson, Nevada, il 14 febbraio 2025.
È quello che ha fatto Rajpaul Pannu, (  foto  sotto al  centro  )  ultracorridore californiano sponsorizzato da Hoka, fermando il cronometro a 11 ore, 52 minuti e 46 secondi. Ma la sua vittoria è

durata meno di un giorno: Pannu è stato infatti squalificato per aver indossato scarpe non conformi al regolamento, le Hoka Skyward X, dando il via a una controversia che ha diviso il mondo del running.
Pannu, 33 anni, insegnante di matematica a Denver e non professionista a tempo pieno, ha dominato la gara organizzata da Aravaipa Running e dalla USATF (la federazione statunitense di atletica leggera), finendo con oltre un’ora e mezza di vantaggio sul secondo classificato, Cody Poskin. Il suo tempo non solo ha rappresentato il record personale, ma lo ha collocato come la seconda miglior prestazione statunitense di sempre sulla distanza delle 100 miglia, a poco più di 33 minuti dal primato di Zach Bitter (11:19:13).
Tuttavia, il giorno successivo, un’email della USATF lo ha informato della squalifica: le sue Hoka Skyward X, con un’altezza della suola di 48 millimetri al tallone e 43 millimetri nell’avampiede, superavano il limite massimo fissato a 40 millimetri imposto da World Athletics nel 2020 per le gare su strada.
La vittoria è stata così assegnata a Poskin, che ha chiuso in 13:26:03, mentre il risultato di Pannu è stato “declassato” nella categoria “open race”, privandolo del titolo nazionale e del premio di 1.200 dollari. Gli organizzatori hanno giustificato la decisione su Instagram: “Riconosciamo la prestazione incredibile di Rajpaul, ma come Campionato Nazionale siamo tenuti a rispettare le regole per garantire equità a tutti i partecipanti.”
Pannu non ha cercato scuse, ma ha voluto spiegare l’accaduto. Sul suo profilo Instagram, ha dichiarato: “Non avevo intenzione di infrangere le regole. Pensavo che le Skyward X fossero scarpe da allenamento, troppo pesanti per essere considerate ‘superscarpe’ da gara.” L’atleta aveva testato le scarpe solo il giorno prima della corsa, durante una breve run di 1,5 miglia documentata su Strava, dopo aver sviluppato vesciche e intorpidimento alle dita usando le sue abituali Hoka Rocket X2 (conformi al regolamento) in un allenamento di 50 km a fine gennaio. “Ho scelto il comfort rispetto alla velocità,” ha detto a Runner’s World, notando anche un recupero fisico più rapido post-gara grazie all’ammortizzazione extra.
Curiosamente, nessuno sul posto – né i giudici né i concorrenti – ha sollevato obiezioni durante la gara. La protesta è arrivata da uno spettatore che seguiva la diretta streaming, un dettaglio che ha alimentato il dibattito sulla crescente influenza della tecnologia e del pubblico virtuale nel controllo delle competizioni. Secondo Pannu, l’unico riferimento alle sue scarpe durante la corsa è stato quando un ufficiale USATF ha chiesto al suo team se fossero in commercio (un altro requisito delle regole), ricevendo risposta affermativa.
Le Hoka Skyward X, descritte da GearJunkie come “scarpe da allenamento con un’imponente suola da 48 millimetri che cattura l’attenzione degli amanti delle calzature ammortizzate,” non sono progettate per la pura velocità come le “super shoes” da gara. Pesano 320 grammi contro i 236 delle Rocket X2, e Hoka le promuove come ideali per “chilometri facili” e comfort quotidiano. Pannu ha sostenuto che non offrano un vantaggio prestazionale significativo, ma che l’ammortizzazione extra abbia ridotto la fatica percepita, un aspetto cruciale in una gara di endurance.
Le norme di World Athletics, introdotte per bilanciare tecnologia e talento, hanno però un limite chiaro: 40 millimetri. E le Skyward X, con i loro 8 millimetri di troppo al tallone, sono finite nel mirino. Esperti come Theo Kahler di Runner’s World sottolineano che anche piccole differenze nell’altezza della suola possono influire sull’assorbimento degli impatti e sulla propulsione, offrendo un vantaggio teorico su distanze così lunghe.
La squalifica ha suscitato ovviamente reazioni contrastanti. Alcuni, come riportato da Canadian Running Magazine, apprezzano la rigidità delle regole per garantire parità; altri, tra i fan sui social, la considerano eccessiva per un errore non intenzionale. Pannu, che si allena da solo senza un allenatore, ha scelto di non fare appello, pur avendone avuto l’opportunità. “Non seguo da vicino gli sviluppi tecnologici delle scarpe,” ha ammesso, suggerendo che un controllo pre-gara, come avviene nelle migliori maratone o nelle competizioni universitarie, potrebbe evitare simili situazioni.

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Ansa


Da 50 anni è in trattamento emodialitico sostitutivo, nel Centro dialisi dell'ospedale di Prato.L'uomo, oggi 66 anni, pensionato, originario di Firenze e residente a Prato, "ha iniziato questo difficile percorso terapeutico, perché affetto da una malattia renale che lo ha condotto alla terapia sostitutiva dialitica in pochi anni", spiega la Asl Toscana centro rendendo noto il suo caso.
Un esempio di tenacia e un modello di assistenza di cui siamo orgogliosi. 50 anni di emodialisi: un traguardo straordinario di cura e determinazione", afferma Gesualdo Campolo, direttore della struttura di nefrologia e dialisi dell'ospedale pratese: il paziente ha dimostrato "una forza straordinaria e una grande
capacità di adattamento".
In questi giorni i sanitari e 'gli Amici della Dialisi' hanno festeggiato il "notevole traguardo" raggiunto dal 66enne con grande affetto e con una targa con la frase, voluta dal paziente stesso: 'La vita è stata dura con me...ma Io lo sono stato di più con Lei'.
"Il paziente - spiega Campolo -, dopo due tentativi di trapianto renale, non andati a buon fine diversi anni fa, ha scelto di continuare a sottoporsi alla dialisi, affrontando con determinazione tre sedute settimanali per quattro ore ciascuna.
Un percorso che evidenzia non solo la sua eccezionale resilienza, ma anche l'elevato livello di assistenza e cura multidisciplinare garantito dal nostro team di nefrologi, infermieri, operatori sanitari e altri professionisti". Un risultato, evidenzia poi la Asl, che "sottolinea l'importanza di un approccio globale alla cura del paziente cronico, con risposte efficaci ai bisogni di salute, sia renali che extra-renali".
Il Centro di dialisi di Prato gestisce circa 180 pazienti sottoposti a trattamento emodialitico sostitutivo, con due turni giornalieri (mattino e pomeriggio) dal lunedì al sabato.
A tutt'oggi venti pazienti sono sottoposti a trattamento dialitico peritoneale domiciliare, seguiti da un team medico-infermieristico dedicato.
In fase di attivazione poi un progetto di 'dialisi peritoneale assistita': prevede l'impiego a domicilio di personale infermieristico per la gestione/trattamento di questi pazienti a casa.
Il progetto è già esecutivo e partirà tra qualche settimana, con l'addestramento alla dialisi peritoneale degli infermieri di famiglia presso il Centro dialisi pratese.Un'attività dialitica domiciliare, si spiega ancora, che "permetterà un incremento del numero di pazienti che si sottoporranno a tale terapia sostitutiva, rafforzando ancor più la nostra mission della 'domiciliarità delle cure'.


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Corriere Adriatico

Lea uccisa a 10 anni da un Suv guidato da un ubriaco, i suoi organi salvano 5 bambini. Il guidatore indagato per omicidio stradale

Il suo sorriso è stato spento a soli 10 anni, ma Lea Stevanovic continuerà a vivere attraverso i cinque bambini ai quali i suoi organi hanno permesso di continuare a sperare per un domani migliore. La decisione è stata presa dai genitori della piccola travolta e uccisa in un parcheggio da un Suv guidato da un uomo risultato ubriaco domenica 16 febbraio a Creazzo (Vicenza). Il funerale della piccola Lea si terrà sabato 1 marzo in Serbia, paese d'origine della famiglia che viveva ad Altavilla Vicentina. Per quel giorno però nel comune di residenza sarà lutto cittadino.
Omicidio stradale
Lea Stevanovic, che frequentava la quarta elementare, dopo l'incidente è rimasta ricoverata per tre giorni nel reparto di terapia intensiva pediatrica dell'ospedale San Bortolo di Vicenza. Poi il decesso a seguito dei traumi riportati. La tragedia ha scosso l'intera comunità, tanto che per giorni si sono susseguite veglie e preghiere per mostrare la vicinanza alla famiglia. Nel frattempo la Procura di Vicenza ha iscritto sul registro degli indagati per omicidio stradale aggravato l'automobilista 50enne vicentino che ha provocato l'incidente, risultato positivo all'alcoltest con un tasso alcolemico superiore a 1.5.

25.2.25

diario di bordo n 105 anno III . Rania zariri da popstar in olanda a clochard ad Avellino ., Salvi dalla fucilazione, piantano un albero: la storia del monumentale “Piopp de Ambrous” le medaglie olimpiche del 2024 sono patacche

Da popstar a senzatetto. È la storia incredibile e drammatica di Rania Zariri, una vera celebrità del mondo dello spettacolo in Olanda che ora vive per strada ad Avellino. Dopo la morte della madre, all'improvviso il buio, con problematiche psicologiche e depressive, condizioni che l’hanno portata a vivere per strada ora si è ritrovata a vivere senza fissa dimora a girovagare per l'Irpinia. Anche i suoi amici olandesi stanno lanciando appelli per salvare questa donna che anni fa era una stella nascente nello spettacolo.
La giovane donna, trentenne, trovandosi in una situazione di grave difficoltà e senza dimora, è stata soccorsa nei giorni scorsi dalla polizia municipale e dai servizi sociali del Comune di Avellino, che hanno tentato di offrirle un aiuto concreto. Nonostante l'impegno delle istituzioni, Rania ha rifiutato ogni forma di assistenza, dichiarando con fermezza «il desiderio di restare libera e di rivendicare il diritto all'autodeterminazione». La sindaca Laura Nargi ha avviato un dialogo con le autorità competenti e con l'azienda sanitaria locale per predisporre un piano di assistenza mirato. L'intento è quello di garantire a Rania un'accoglienza sicura in una struttura adeguata, dove potrebbe ricevere supporto sia dal punto di vista sociale che sanitario.
«Non siamo rimasti indifferenti di fronte a questa emergenza- ha dichiarato la sindaca - importante una risposta tempestiva e coordinata. L'obiettivo principale dell'amministrazione è sempre stato quello di offrire a Rania una via d'uscita dalla sua condizione di precarietà, coinvolgendo tutti gli enti preposti per costruire un percorso di recupero e reinserimento nella comunità». Ma Rania ha opposto un netto rifiuto all'assistenza proposta, dichiarando la volontà di non essere vincolata a strutture o programmi di recupero, ritenendo che la libertà personale debba prevalere su qualsiasi intervento esterno.
L'ex popstar ieri da Avellino si è incamminata ed è arrivata a Mercogliano, dove, questa notte, ha dormito sotto una pioggia battente. «Stiamo cercando di aiutare la giovane cantante olandese in difficoltà. Sono in contatto con l'ambasciata olandese-ha detto  il sindaco di Mercogliano, Vittorio D' Alessio- alla quale ho spiegato la situazione di Rania e sto ricevendo le giuste indicazioni. Intanto, è sul posto la psicologa Michela Bortugno dei nostri servizi sociali che sta tentando di dialogare con la ragazza. Abbiamo già ottenuto la disponibilità di una struttura sul territorio, nella quale poter ospitare Rania non solo per una doccia, ma un posto sicuro per consentirle un recupero psicofisico».
Per Rania si sta impegnando anche Francesco Emilio Borrelli, il parlamentare napoletano. «Faremo da tramite con l'ambasciata olandese affinché possa essere messa in contatto con la famiglia - ha detto Borrelli - la storia di Rania è la testimonianza di come ognuno di noi, nessuno escluso, possa vivere, a prescindere dalla condizioni di partenza, dallo stato sociale, dalla professione, dal successo, momenti drammatici e farsi sfuggire dalle mani il controllo della propria vita».«Rania Zeriri è a Mercogliano». È un nome che a molti potrebbe non dire nulla, ma in olanda Rania è una pop star molto famosa. La 39enne ora si trova ad Avellino, non su un palco o in qualche hotel di lusso, ma per strada, come clochard. Sono tantissimi gli appelli sui social che riguardano la giovane donna. Il sindaco Vittorio D'Alessio ha condiviso un post sulla sua pagina Facebook
Gli aiuti

«Sono in contatto con l'Ambasciata olandese»  afferma il sindaco «alla quale ho spiegato la situazione di Rania e sto ricevendo le giuste indicazioni. Intanto, è sul posto la psicologa Michela Bortugno afferente ai nostri servizi sociali che sta tentando di dialogare con la ragazza.Abbiamo già ottenuto la disponibilità di una struttura sul territorio, nella quale poter ospitare Rania non solo per una doccia, ma un posto sicuro per consentirle un recupero psicofisico».


La giovane, infatti, «Dopo la morte della madre ha sviluppato psicosi e depressione, condizioni che l’hanno portata a vivere per strada ora si è ritrovata a vivere senza fissa dimora ad 
Avellino. Ora, la sua famiglia la sta cercando in Olanda».Secondo gli ultimi aggiornamenti, come condiviso sui social di Francesco Emilio Borrelli, i soccorritori assieme al sindaco Di Mercogliano hanno convinto oggi Rania, per la prima volta, ad accettare aiuti e cure.
Chi è Rania Zeriri
Rania Zeriri è una cantante olandese, nata il 6 gennaio 1986 a Enschede, nei Paesi Bassi. Cresciuta in una famiglia mista, ha studiato spagnolo in Spagna e ha lavorato nel settore dell'animazione turistica, iniziando a cantare in alberghi. Ha guadagnato notorietà partecipando alla quinta edizione del talent show tedesco "Deutschland sucht den Superstar" (DSDS), dove si è classificata quinta.
La sua carriera musicale è decollata dopo il programma, con la pubblicazione del suo singolo di debutto "Crying Undercover" nel 2008. Rania ha anche affrontato controversie durante la sua partecipazione al DSDS, inclusa un'accusa di uso di droghe, che ha respinto pubblicamente. Oltre alla musica, ha studiato al Conservatorio di Enschede e lavora come reporter per un'emittente locale.

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Salvi dalla fucilazione, piantano un albero: la storia del monumentale “Piopp de Ambrous

da mbnews

Varedo. Sono 207 gli alberi monumentali presenti in Brianza. Giganti verdi custodi non solo di maestosità e bellezza, ma anche di storie lontane. E tra questi, c’è un albero in particolare che è testimone di un periodo storico importante per tutti noi: quello della


Seconda guerra mondiale. Si tratta del Pioppo di Varedo, “nato” nel 1946 come simbolo di libertà. I protagonisti di questa incredibile storia sono Carlo e Ambrogio, due fratelli. A raccontarci del loro pioppo è Saro Sciuto dellAssociazione RAMI che ha raccolto la testimonianza di Ambrogio.
Il Piopp de Ambrous: l’albero simbolo di libertà

“La famiglia di Carlo e Ambrogio vive accanto alla Villa Bagatti, quartier generale dei nazisti in quel di Varedo. Visto l’orientamento politico non in contraddizione con gli obiettivi nazi-fascisti, sono ben conosciuti dal luogotenente locale, e la vicinanza tra i due edifici è talmente esigua da permettere al piccolo Ambrogio di poter guardare perfino nell’aia della storica villa, costruita nel secolo precedente”, spiega Sciuto. L’inizio di questa storia, però, risale al 10 luglio 1943.“Ambrogio ha soli 3 anni e 3 mesi: dalla radio un severo quanto speranzoso annuncio recita che gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Il piccolo Ambrogio è accanto al luogotenente e non dimenticherà mai l’espressione del nazista che esclama per ben tre volte un rassegnato: ‘Non va bene, non va bene, non va bene'”.
La guerra e quel pioppo di Varedo piantato per dire “grazie”

Da quell’estate del ’43, i ricordi di Ambrogio fanno un salto fino al 1945: i nazisti sono costretti alla resa e hanno ormai raccattato i loro averi, pronti per imboccare, a una certa altezza, la statale dei Giovi.
“A partenza imminente, un facinoroso antifascista sbuca da un bar e spara, ferendo mortalmente un tale Otto, che muore sul colpo. Il suo corpo resterà nel cimitero di Varedo per oltre 70 anni. La rappresaglia è praticamente immediata: vengono presi in ostaggio dai soldati sette uomini, tra i quali Carlo e suo fratello, pronti per essere giustiziati. Ma la regola nazista dice che devono essere dieci i condannati a morte per ogni singolo tedesco ucciso. Si cercano gli altri tre, ma in giro tutti si sono dileguati come potevano”, racconta ancora Saro Sciuto, che ha raccolto la testimonianza dell’anziano brianzolo.“Nel frattempo, il caporale tedesco riconosce in mezzo al gruppo Carlo e suo fratello e ordina che queste due persone non vengano giustiziate. Si cercano così inutilmente altri cinque uomini, che furbescamente si erano dileguati in vari nascondigli, chissà dove. La rappresaglia non viene eseguita e il capo ordina che per tre giorni nessuno si facesse vedere in giro e per nessun motivo. L’invito, però, non viene colto da tutti e alcuni curiosi vengono uccisi da infallibili cecchini. La guerra è finita”, conclude.
Come ringraziamento alla vita per essere stati risparmiati, nel 1946, quando Ambrogio ha solo 6 anni, i due fratelli mettono a dimora nel loro campo di Varedo due pioppi, uno accanto all’altro.
Tra i 207 alberi monumentali in Brianza, anche il Pioppo di Varedo

Di quei due pioppi, oggi ne è sopravvissuto solo uno. Ha 80 anni e misura ben 4 metri di circonferenza. Un gigante verde che custodisce un pezzo di storia davvero importante e sicuramente molti ricordi. Ambrogio accanto al suo pioppo. Foto di Saro Sciuto“Un albero della libertà? – conclude Sciuto – Ambrogio non lo reputa tale, perché il belligerante lustro ad Ambrogio non ha portato, tutto sommato, dolore, ma il contrario”.


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Mostra lo stato della medaglia d’oro vinta a Parigi 2024, non sa cosa fare: “È da restituire?”

 da  fanpage


Ancora una volta si torna a discutere delle medaglie degli ultimi Giochi di Parigi. Un altro atleta si è lamentato e non poco per le condizioni del prestigioso cimelio vinto alle ultime paralimpiadi. Si tratta di Hunter Woodhall, che ha conquistato l'oro nella prova dei 400 metri T62 maschili. A soli cinque mesi dal successo, in un video suo social, il classe 1999 americano ha posto ai suoi followers una domanda sulla fine da far fare alla

medaglia.
Woodhall ha mostrato a tutti le condizioni della sua medaglia. In realtà il problema non è il premio vero e proprio, ma il laccio che lo tiene legato che si è quasi completamente tagliato. Per questo il campione olimpico nel video ha spiegato: "Ho bisogno del vostro parere su una questione. Come avrete visto, ho strappato accidentalmente il nastro della mia medaglia di Parigi. Mi sono rivolto agli organizzatori e hanno detto che avrebbero riparato il nastro. L'unico problema è che non puoi rimuoverlo senza rovinare la medaglia, quindi ho due opzioni".L'atleta può seguire solo due strade a questo punto: "O tengo la medaglia originale e aggiusto il nastro cucendolo e quindi possono tenere il tutto con ammaccature e colpi. Oppure posso rispedire indietro la medaglia e loro possono inviarmene una nuova con un nastrino fisso. In questo caso però sarà una medaglia diversa. Non riusciamo proprio a decidere". 
Molto combattutto dunque Woodhall che si unisce al coro dei campioni olimpici e paralimpici che hanno avuto a che fare con problemi alle loro medaglie. Sono circa 100 gli atleti che hanno restituito i loro cimeli, alcuni di questi a causa di danni e ruggine. Una situazione che ha alimentato il dibattito sulla qualità dei premi, non proprio di primissimo livello. Infatti secondo la stampa francese, la dirigenza dell'azienda produttrice delle medaglie è stata tagliata fuori dal comitato olimpico. I problemi sono sorti proprio a causa della mancanza di tempo nella realizzazione delle stesse che ha portato ad un'accelerata nei test.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...