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6.8.24

Sevval Ilayda Tarhan,la donna cancellata che ha vinto l'argento con Yusuf Dikec ., Le Olimpiadi di Parigi sono state molto pubblicizzate come “le più sostenibili di sempre”, ma un evento così grande può essere davvero sostenibile per l'ambiente?,


 
da  Team Commando 4 h Lui l’hanno visto praticamente tutti.Lui è il tiratore turco che si è presentato alla gara del Giochi olimpici con la magliettina non stirata, nessuna attrezzatura speciale, le mani in tasca e ha vinto l’argento.
Da quel momento Yusuf Dikec è diventato un meme globale.
Ma c’è un fatto che dovete sapere.
Yusuf Dikec ha vinto l’argento con la collega Sevval Ilayda Tarhan, tiratrice di 24 anni.
Nella narrazione prevalente è stato raccontato come unico vincitore dell’argento. Invece c’era anche lei.
Stessa maglietta, stessa posa, stessa mano in tasca.
Dikec è sempre stato un ottimo tiratore ma per arrivare sul podio olimpico c’è voluta lei (nella gara individuale, Tarhan è arrivata 7°, Dikec 13°)


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 da  ilpost.it  
Le Olimpiadi di Parigi sono state molto pubblicizzate come “le più sostenibili di sempre”, ma un evento così grande può essere davvero sostenibile per l'ambiente?




Negli anni in cui sono state pianificate e organizzate, le Olimpiadi di Parigi hanno molto promosso il proprio proposito di mettere in piedi un grande evento sportivo contenendone l’impatto ambientale. In particolare l’organizzazione si è impegnata a dimezzare le emissioni di gas serra causate da tutte le attività legate ai Giochi rispetto a quelle delle edizioni di Londra 2012 e di Rio de Janeiro 2016, che secondo le stime ammontarono all’equivalente di 3,3 e 3,6 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2). Più o meno le emissioni annuali di un piccolo paese come Malta.
Le Olimpiadi sono in corso e i dati ufficiali e completi sulle emissioni saranno diffusi in autunno, ma uno studio indipendente di quanto fatto negli anni di preparazione c’è già. Dice che la strategia per contenere le emissioni è «lodevole», ma anche «incompleta», che manca di trasparenza e non è stata comunicata con la chiarezza necessaria per farne comprendere i limiti, soprattutto nei primi tempi, quando era stata promossa in modo ingannevole, ad esempio dicendo che i Giochi di Parigi sarebbero stati «i primi con un impatto positivo sul clima». L’analisi tuttavia mette anche in discussione l’idea che qualsiasi Olimpiade, per come le concepiamo oggi, possa essere “sostenibile”.
Il solo fatto di radunare in una città decine di migliaia di persone che lavorano per i Giochi e di attirarne milioni per assistervi rende i grandi eventi sportivi incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi del 2015. La stessa organizzazione delle Olimpiadi di quest’anno ha stimato che più del 45 per cento delle emissioni prodotte saranno dovute al trasporto e all’alloggio degli atleti e degli spettatori.
Lo studio sulla strategia per il clima delle Olimpiadi di Parigi è stato pubblicato ad aprile ed è stato realizzato da Carbon Market Watch, un’organizzazione di ricerca non profit specializzata che riceve finanziamenti dall’Unione Europea, e dall’associazione francese Éclaircies, che analizza questioni legate all’ambiente per aiutare la collettività a capirle. Per quanto riguarda gli aspetti positivi, hanno riconosciuto alla strategia di sostenibilità delle Olimpiadi di quest’anno tre meriti. Il primo, in sostanza, è il fatto che esista una strategia.
Le Olimpiadi di Parigi sono le prime per cui sia stato fissato un obiettivo di emissioni massime (equivalente a 1,58 milioni di tonnellate di CO2) da rispettare e per cui conseguentemente sia stato elaborato un piano per contenerle. La parte più significativa di tale piano è la decisione di non costruire molte nuove infrastrutture per ospitare i Giochi e di privilegiare materiali da costruzione che comportano basse emissioni, come il legno. È una scelta che ha permesso anche un risparmio economico e che secondo la strategia dell’organizzazione consentirebbe di produrre solo un terzo del budget di emissioni fissato per le infrastrutture. È questo il secondo merito riconosciuto all’organizzazione di Parigi 2024 da Carbon Market Watch ed Éclaircies, sebbene non manchi qualche perplessità.
Il 95 per cento degli spazi usati per i Giochi esisteva già oppure è una struttura temporanea che poi sarà smontata, ha detto l’organizzazione. Gli unici edifici che sono stati costruiti per l’occasione sono il Villaggio Olimpico, che ora ospita gli atleti, l’Aquatics Centre, dove si fanno le gare di nuoto artistico, pallanuoto e tuffi, una struttura per l’arrampicata e una che ospita i giornalisti nelle ore di lavoro. Tutti continueranno a essere utilizzati dopo la fine delle Olimpiadi, secondo i piani. In particolare, il Villaggio Olimpico diventerà un complesso di case e uffici e l’Aquatics Centre diventerà un impianto sportivo per il dipartimento Senna-Saint-Denis, a nord di Parigi. Sul tetto dell’Aquatics Centre sono inoltre stati installati dei pannelli fotovoltaici, grazie a cui la struttura è indipendente a livello energetico.



Parte dei pannelli fotovoltaici sul tetto dell’Aquatics Centre delle Olimpiadi di Parigi, il 28 dicembre 2023 a Saint-Denis (AP Photo/Lewis Joly)

La Société de livraison des ouvrages olympiques (SOLIDEO), l’impresa che ha costruito le nuove strutture, si era posta come obiettivo di emettere al massimo l’equivalente di 650 chili di anidride carbonica per metro quadrato, che sono meno della metà delle emissioni medie prodotte in Francia per costruire case e uffici. L’uso prioritario di materiali a basso impatto avrebbe dovuto consentirlo: finora però non sono state condivise pubblicamente abbastanza informazioni sui lavori per verificare in modo indipendente che l’obiettivo sia stato raggiunto, quindi Carbon Market Watch ed Éclaircies non hanno potuto esprimersi in merito.
La stima complessiva delle emissioni andrà comunque rivista perché il progetto del Villaggio Olimpico non prevedeva un sistema di aria condizionata ma un sistema di raffrescamento geotermico, che però non è stato giudicato adeguato da molte delegazioni atletiche del mondo col risultato che l’organizzazione ha poi installato 2.500 condizionatori portatili.
Il terzo merito riconosciuto da Carbon Market Watch ed Éclaircies all’organizzazione delle Olimpiadi di Parigi è di aver concentrato i siti della maggior parte delle competizioni in un’area relativamente ristretta: l’80 per cento delle strutture usate per le gare si trova in un raggio di 10 chilometri intorno al Villaggio Olimpico e l’85 per cento degli atleti può raggiungere i siti delle competizioni in cui è coinvolto in meno di 30 minuti. Inoltre sia gli atleti sia una piccola parte delle persone che lavorano ai Giochi può spostarsi usando dei veicoli a basse emissioni messi a disposizione dall’organizzazione.
Le cose sarebbero andate ancora meglio se, come da progetto, fossero state completate alcune nuove linee di trasporto pubblico che avrebbero reso tutte le strutture delle gare a Parigi raggiungibili senza automobile.
Ci sono poi vari altri aspetti della strategia per contenere le emissioni delle Olimpiadi di Parigi che secondo Carbon Market Watch ed Éclaircies non sono soddisfacenti.
Il primo è che non è chiaro come mai l’organizzazione si sia posta l’obiettivo di dimezzare le emissioni rispetto alle edizioni di Londra e di Rio de Janeiro (che si stimano essere state le più inquinanti di sempre nella storia delle Olimpiadi) e se sia stato fatto un qualche calcolo legato agli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi. È inoltre più grave che non sia stato trovato un sistema trasparente per confrontare le emissioni di queste Olimpiadi con quelle delle Olimpiadi passate né che sia stato messo in piedi un sistema di monitoraggio delle emissioni nel tempo.
In aggiunta a tutto ciò, tolto il settore dell’edilizia, la strategia per il clima non si occupa in modo sufficiente del resto delle fonti di emissioni, che complessivamente sarebbero i due terzi del totale secondo la stessa organizzazione delle Olimpiadi.


Il Villaggio Olimpico di Parigi, il 23 luglio 2024 (AP Photo/Rebecca Blackwell)

È vero che sempre nell’ottica di ridurre le emissioni è stato deciso per esempio che più del 60 per cento del cibo servito al Villaggio Olimpico fosse vegetale; e che per realizzare molti oggetti usati nei Giochi sono stati usati materiali riciclati (medaglie comprese: è stato sfruttato ferro scartato dalla Torre Eiffel). Ma secondo l’analisi delle due organizzazioni esperte di ecologia non si sarebbe fatto abbastanza. L’organizzazione delle Olimpiadi ha imposto ai propri fornitori di rispettare dei criteri di «neutralità carbonica» per i prodotti e i servizi acquistati dai Giochi, ma non ne ha dato una definizione precisa: per questo non è possibile stabilire davvero l’impatto di tutti gli oggetti usati nel Villaggio Olimpico e nelle altre strutture.
La stessa espressione «neutralità carbonica», che indica la condizione in cui si emette nell’atmosfera una quantità di gas serra pari a quella che si riesce ad assorbire, è ritenuta sensata solo quando si considerano le emissioni annuali di un paese o del mondo e per questo non dovrebbe essere usata in riferimento a prodotti, servizi o eventi. Lo dicono anche le linee guida del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) per ridurre l’impatto ambientale dei Giochi. Per questo usarla in altri contesti è considerata una forma di “greenwashing”, cioè di marketing che presenta in modo ingannevole un prodotto come positivo per l’ambiente o il clima.
Carbon Market Watch ed Éclaircies hanno anche segnalato che le aziende sponsor delle Olimpiadi non sono state selezionate tenendo conto delle iniziative per ridurre il loro impatto sul clima. Uno dei partner è ArcelorMittal, il grande gruppo produttore di acciaio, uno dei materiali a cui si devono più emissioni. «L’assenza di criteri relativi al clima per selezionare gli sponsor è un’occasione mancata per influenzare le grandi aziende», hanno scritto nella loro analisi.
Un altro grosso limite della strategia climatica delle Olimpiadi di Parigi è che non ha previsto un modo efficace per ridurre l’impatto dei numerosissimi viaggi aerei necessari per fare arrivare gli atleti e altri lavoratori a Parigi (o nella Polinesia francese per le gare di surf), per non parlare dei turisti. L’organizzazione aveva detto che avrebbe «incoraggiato, raccomandato o invitato» i visitatori a raggiungere Parigi in treno, ma senza dare ulteriori dettagli e senza impegnarsi con iniziative più impegnative.
Infine anche per quanto riguarda il consumo di energia elettrica c’è una pecca nella strategia per il clima delle Olimpiadi. L’organizzazione ha detto che tutta l’energia che sarà usata durante i Giochi è stata prodotta con fonti rinnovabili, ma senza specificare bene in che senso.
«Alimentata con il 100% di energia da fonti rinnovabili» infatti può voler dire cose diverse. Di solito quest’espressione si usa per indicare che sono state acquistate delle garanzie d’origine (GO), cioè dei certificati che provano che una certa quantità di energia da fonti rinnovabili è stata immessa nella rete elettrica: un fornitore può vendere sia energia prodotta direttamente con fonti fossili che “energia pulita” comprando queste garanzie d’origine. Ma le GO non garantiscono che l’acquisto di questa energia abbia stimolato una produzione di energia da fonti rinnovabili che altrimenti non sarebbe avvenuta. Il discorso è diverso se l’energia è acquistata da aziende che producono in proprio energia da fonti rinnovabili. Per sapere esattamente che energia viene usata a Parigi servirebbe una maggiore trasparenza da parte dell’organizzazione dei Giochi.
Al di là di queste valutazioni secondo Carbon Market Watch ed Éclaircies, ma anche secondo vari altri esperti di questioni ecologiche che criticano le Olimpiadi (come lo studioso statunitense Jules Boykoff, per cui i Giochi di Parigi sono «una lezione di greenwashing»), è lo stesso concetto che c’è dietro a essere poco sostenibile. Questi critici propongono di provare a ripensare i grandi eventi sportivi internazionali, mettendo in discussione l’idea di organizzarli in un’unica città o quasi, e considerando invece di distribuire le gare in vari paesi per ridurre i viaggi aerei necessari. Per farlo in modo equo si potrebbe ideare un sistema di sorteggio per evitare che gli sport più seguiti siano ospitati sempre dagli stessi paesi.
In alternativa si potrebbe pensare di organizzarli sempre nelle stesse tre o quattro città, in modo da usare sempre le stesse infrastrutture. Questo potrebbe limitare l’accessibilità ai Giochi in quanto pubblico per gran parte della popolazione mondiale, ma del resto già oggi per i paesi con meno risorse economiche è difficile prendere in considerazione l’idea di ospitare le Olimpiadi.
Tornando a Parigi, l’organizzazione è comunque consapevole che la strategia per il clima poteva essere migliore. «Volevamo dimostrare che un altro modello era possibile e creare un lascito per altri grandi eventi sportivi», ha detto Georgina Grenon, direttrice “dell’eccellenza ambientale” per le Olimpiadi di quest’anno: «Non sosteniamo di essere perfetti, ma vogliamo mostrare che le cose si possono fare in modo diverso rispetto al passato».




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quando uno  sport  dipenmde  dal mare  

Difficilmente si trova uno sport che dipenda così tanto da un singolo fattore incontrollabile, come il surf dipende dal mare. I surfisti si sfidano uno contro uno in round di mezz'ora (35 minuti nelle finali) in cui possono prendere tutte le onde che vogliono, avendo una volta a testa la priorità per scegliere l'onda migliore, e i giudici danno loro dei punteggi sulla base di varie cose che riescono a fare dentro e sopra l'onda. E se l'onda non arriva? Eh.

Il francese Kauli Vaast (M. Haffey/Getty Images)


È successo ieri al brasiliano Gabriel Medina, tre volte campione del mondo e tra i favoritissimi di queste Olimpiadi (è quello di questa foto), che durante la sua semifinale è riuscito a prendere in mezz'ora un'onda soltanto, e non particolarmente buona. Ha perso senza poterci fare niente. Subito dopo è iniziata la prima semifinale femminile e le onde sono tornate. Se la gara di Medina si fosse tenuta qualche minuto più tardi, è probabile che sarebbe finita in modo diverso. Alla fine Medina ha comunque vinto il bronzo nella finale per il terzo posto.
Seguire le gare di surf a queste Olimpiadi – a Tahiti, uno dei posti migliori al mondo per surfare – è stato particolare, come assistere a un rituale collettivo in cui si invocano il mare e l'onda. I telecronisti hanno detto di continuo cose come «serve che il mare ti dia qualcosa», o «il mare non ne vuole sapere». E quando proprio non ne vuole sapere, può succedere che hai guardato per mezz'ora due persone ferme su una tavola in mezzo al mare. Tutta questa attesa però rende allo stesso tempo esaltante il momento in cui l'onda arriva veramente: sempre che una balena non interferisca con la gara  ( vedere  mio  post precedente  per  il  video )  Il surf di Parigi 2024 si è concluso stanotte: ha vinto il francese Kauli Vaast nel maschile e la statunitense Caroline Marks nel femminile.



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Olimpiadi: i Paesi con una sola medaglia d'oro in assoluto.  chi sono i loro eroi!


Mentre grandi nazioni come gli Stati Uniti o la Cina, per citarne un paio, accumulano centinaia di medaglie d'oro, alcuni Paesi si distinguono per avere un unico trionfo olimpico. Questi straordinari atleti hanno reso orgogliosa la loro nazione, conquistando l'oro e mettendo il loro Paese sulla mappa dei vincitori ai Giochi OlimpiciSiete curiosi di conoscere questi momenti storici e i campioni che li hanno resi possibili? Scoprite le storie affascinanti degli eroi che hanno portato a casa l'unica medaglia d'oro del loro Paese!  N.b  per  no appensatire   troppo il post ne  ho  scelto  due   ( le alòtre le trovate Stars Insider  )  

1) Il nuotatore Joseph Schooling fece la Storia a Rio 2016. Non solo vinse la prima e unica medaglia d'oro di Singapore, ma lo fece battendo Michael Phelps nei 100m farfalla !




La vittoria non ha portato però alcun astio tra i due olimpionici. "Non c'è mai stato nessun sfottò. Mi piacerebbe vederlo a Singapore. È semplicemente un bravo ragazzo", disse Schooling di Phelps.


2) La Siria ha un totale di quattro medaglie olimpiche, ma i Giochi del 1996 ad Atlanta sono particolarmente speciali per questo Paese per via dell'oro dell'eptatleta Ghada Shouaa.



Dopo essere salita sul podio, Shouaa 


è diventata la migliore eptatleta del mondo per due anni consecutivi ed è considerata una delle migliori atlete arabe di tutti i tempi.





11.6.19

I segreti delle onde della Sardegna svelati da Andrea Bianchi fotografo surfista

  da  La nuova  sardegna  del 10\6\2019

I segreti delle onde della Sardegna svelati dal fotografo surfista Gli scatti di un 35enne di Oristano selezionati dalle riviste sportive più prestigiose. È il professionista con il maggior numero di pubblicazioni nel Mediterraneo


                                         di Claudio Zoccheddu


 

SASSARI. L’obiettivo di un surfista è trovare l’onda perfetta per poi domarla sopra una tavola. Non è facile, ovviamente, ma loro ci provano comunque. Poi c’è qualcuno che alza l’asticella e che al sogno di gettarsi dentro al tubo - il tunnel formato dalla cresta che si chiude sull’onda - aggiunge un difficoltà: fotografarlo. Ma non per confezionare uno scatto qualsiasi, uno di quelli buoni al massimo per Instagram, piuttosto per ricavare un’immagine destinata a fare il giro del mondo.Andrea Bianchi, oristanese 35enne, ha scelto di mixare le sue due passioni, surf e fotografia, riuscendo anche a inventarsi un lavoro. Adesso è un fotografo professionista, le sue foto hanno già fatto il giro del mondo e sono state pubblicate da prestigiose riviste specializzate: «Il 28 giugno uscirà l’annuario del surf europeo – spiega Andrea – che includerà alcune delle mie foto di surf nel Mediterraneo. A dicembre dello scorso anno sono stato inserito nelle 20 session memorabili del 2018 da “Wavelenght”. Sempre a dicembre sono diventato collaboratore per The Inertia, uno dei network di surf più importanti del mondo. Prime Surfing, nell’edizione di agosto pubblicherà un mio portfolio e una bella intervista. Poi c’è un altro portfolio che riguarda le mie foto a pellicola e uscirà a breve su Damp la rivista italiana».


Gli impegni, insomma, non mancano. E nemmeno il lavoro. Quello che manca, perlomeno a chi non conosce Andrea, è il pregresso. Perché non ci si improvvisa fotografi, nonostante chi abita i social network possa anche essere indotto a credere il contrario: «La mia passione per la fotografia si è accesa quando mio padre mi ha regalato una macchina fotografica. Ero piccolo ma ne subivo il fascino». L’approccio, però, non era stato semplice: «La mia prima macchina fotografica scattava su pellicola, con le difficoltà che ne derivano».Per fortuna Andrea non si è arreso e quando la rivoluzione digitale ha messo in saccoccia anche i 100 e passa anni di fotografia “chimica”, la sua passione si è riaccesa: «Per un neofita il digitale è di gran lunga più semplice, sia da imparare sia da gestire – spiega – e allora ho iniziato con i ritratti». Ma c’era qualcos’altro che stava per travolgere Andrea. Qualcosa che ha il gusto salmastro dell’acqua di mare e la forza indomabile della natura. In una parola: surf. «Ho scoperto questo fantastico sport e ci ho trasferito la mia passione per la fotografia». Una scelta azzeccata che ha permesso ad Andrea di affinare la tecnica allegando ai suoi portfolio non solo i ritratti ma anche gli scatti realizzati in mare. Le occasioni di immortalare onde e surfisti, poi, non gli sono mai mancate: «Faccio surf sempre, ogni volta che posso. È questo il collante che tiene unita la baracca– spiega il fotografo –, e chi frequenta Capo Mannu e la Penisola del Sinis sa benissimo che le onde di queste parti sono particolarmente belle e puntuali».


La missione di far conoscere gli “spot” alternativi con le sue foto, sposata da riviste e appassionati sempre alla ricerca di nuovi scenari, ha permesso ad Andrea Bianchi di spiegare con l’arte della fotografia che anche il Mediterraneo è una grande e bellissima “surf area” tutta da scoprire per i cacciatori di onde non residenti. A dargli una mano ci potrebbe pensare il suo primo libro fotografico, “1096 giorni a Capo Mannu”, praticamente un piccolo cult che mette in fila i migliori spot della Sardegna, dal cagliaritano al sassarese, partendo proprio dalla Mecca del surf dei quattro mori, il Sinis. «E dimostra – aggiunge Andrea – come soprattutto la costa ovest della Sardegna possa contare su condizioni oceaniche per quanto riguarda la frequenza delle onde surfabili e la loro qualità. Da queste parti si può fare surf su ottime onde per 200 giorni all’anno. Un’enormità se si considera che alle Hawaii si sesce in mare al massimo 250 giorni all’anno».
Ma non è solo costa Ovest, anzi: «Capita poi di trovare mareggiate che impressionano anche i professionisti. Poco tempo fa una sciroccata che ha investito il sud Sardegna ha formato onde che hanno sorpreso anche alcuni surfisti professionisti portoghesi». Gente che magari entra in acqua a Nazarè, un paesino dell’Estremadura portoghese famoso in tutto il mondo per le grandi onde che si infrangono sulla costa. Per fortuna a documentare questi e altri momenti ci ha pensato proprio Andrea Bianchi che ora è pronto a pubblicare il suo secondo libro “Luxury clochard” che uscirà entro la prossima estate e racconterà i protagonisti del surf nel Mediterraneo e la loro vita, spesso bella e invidiabile ma sempre molto poco agiata.




Tra i progetti futuri, invece, prende sempre più quota un viaggio alla scoperta delle mete europee del surf, ovviamente quelle poco conosciute o tutte da scoprire: «Sarebbe noioso parlare di quello che conoscono tutti, come le solite Hawaii, Bali o l’Australia. Mi affascina la Galizia, quasi sconosciuta a livello internazionale ma molto frequentata dagli spagnoli. E magari l’Islanda». Per rendere più coinvolgenti i suoi scatti, poi, il fotografo di Oristano ha deciso di ritornare alle origini alternando il digitale alla pellicola e ottenendo scatti che sembrano arrivare dal passato. Un po’ come il surf, una disciplina antica praticata dai polinesiani già quattro secoli fa (ma forse molto prima) che ancora affascina migliaia di sportivi sparsi in tutto il mondo.

22.4.19

Nascono ad Alghero le nuove tavole da surf eco-friendly e con un’anima in sughero


da  https://www.galluranews.org/


innovazione, sostenibilità ambientale, performance: la rivoluzione del surf si chiama Alterego e parte da Alghero, in Sardegna.



Le tavole prodotte nella Riviera del Corallo sono pronte a segnare una linea di demarcazione tra passato e futuro. Finalmente il rispetto per la natura e la massima resa sportiva.L’obiettivo di Alterego è uno: realizzare un prodotto ad alta tecnologia, costruito su misura ed ecosostenibile. Nasce così in Sardegna, in una fabbrica di Alghero, una tavola da surf che impiega il sughero e i materiali più avanzati e a chilometro zero. Il risultato? Una tavola pronta a cavalcare le onde, che garantisce flessibilità e performance, ma con al suo interno un’anima green.

Alessandro Danese, general manager di Alterego
«Per noi la sostenibilità non è uno stile, ma una costante che è presente in tutti gli aspetti del nostro ciclo produttivo. La tavola sa surf viene creata da pani in Eps, il polistirene espanso sinterizzato, acquistato a Ottana. In azienda ricicliamo oltre l’ottanta per cento degli scarti di produzione. Ogni tavola viene quindi laminata con una bio-resina e la sua struttura portante, diciamo le sue fondamenta, sono costruite con il sughero. Materiale straordinario, duttile ed elastico, che viene comprato in Gallura».L’azienda ha sede nella zona industriale di Alghero, a una decina di minuti dalle spiagge della città e dalle onde del nord Sardegna.Un sogno diventato realtà nel 2017 grazie all'investimento dei fondatori della società Italian Waves e al contributo di Invitalia. 
Oggi nella factory Alterego si continua a fare ricerca, guidati da una mentalità ecologica e con l’obiettivo di produrre tavole veloci e stabili. E i riconoscimenti ufficiali sono già arrivati, l’azienda è stata infatti selezionata come finalista nella sezione Innovazione Blu del Premio Costa Smeralda 2019.


Impresa composta da giovani sardi

Il nostro team è composto da giovani sardi con delle solide esperienze professionali. La linea di produzione è diretta da Michele Piga, esperto di laminazione con un background professionale nel settore degli yacht. Le tavole da surfvengono testate in acqua continuamente da Giovanni Cossu, uno degli atleti più forti della Sardegna. Tra i tester anche Andrea Costa, giovane agonista ligure e il kitesurfer Fabrizio Piga. Questi ultimi due partecipano al campionato italiano. Una parte fondamentale della ricerca è stata affidata a Luca Oggiano, ingegnere che si divide tra la Norvegia e l’Australia. Non ci poniamo però confini e siamo in continuo movimento. Stringiamo e cerchiamo collaborazioni in Europa e nel mondo, dove i surfisti si contano a milioni. Infine, non nascondiamo che stiamo lavorando per poter offrire una tavola che sia al cento per cento riciclabile».Le tavole Alterego sono disponibili su misura dal sito internet alteregosurf.com e presto anche nei migliori surf shop e negozi specializzati d’Europa.



I propositi dell’azienda



«Puntiamo certamente ai surfisti italiani, ma soprattutto a quelli dell’oceano. Il nostro orizzonte è far crescere la factory vogliamo dimostrare che è possibile cambiare il modello produttivo delle tavole da surf, un mercato in costante espansione e che vale ogni anno di più. E far capire che abbandonare i materiali inquinanti e poco rispettosi dell’ambiente è possibile. Lo meritano i surfisti e lo meritano soprattutto il mare, l’oceano, le nostre spiagge e le nostre coste. I luoghi che i surfisti amano e frequentano intensamente, e che noi tutti abbiamo il dovere di preservare».

28.1.16

La California è qui: è pisano il re del surf Federico Nesti, 19 anni, è appena diventato campione italiano

Concludo per oggi le storie  se    ne volete altre  seguitemi  su : i  mie due  account   (   I II   )  e la  pagina di    facebook  o  twitter




La California è qui: è pisano il re del surf

Federico Nesti, 19 anni, è appena diventato campione italiano. Ha vinto la competizione nazionale nella categoria longboard: "Ho imparato grazie alla nonna che mi portava in spiaggia anche d’inverno"



TIRRENIA. «Il surf lo impari in acqua, le scuole non servono. Io non ne ho mai fatta una. Lo impari provando ad alzarti sulla tavola con le onde piccole e quelle più grandi. Ogni volta che vai sotto, magari bevi, ma poi risali in sella, è uno scatto, aggiungi una tacca alla tua confidenza con il mare e la sua natura. Io sono cresciuto così, guardando gli altri, e infilando fin da bambino il vialetto di sabbia fra la 46esima Brigata e il Lido del Carabiniere».
Federico Nesti  foto di GIAN PAOLO VANNI - gianpaolovanni1986@gmail.com
È sempre stato testardo e appassionato .Un vulcano con i riccioli biondi ossidati dal sole o mezzo bruciati dalla tramontana di gennaio. Fin da quando a undici anni costringeva la mamma e la nonna ad accompagnarlo in spiaggia, perché da solo non l'avrebbero lasciato andare. « Col freddo, il vento, la sabbia che ti gelava i piedi e magari ti portava i polmoni a un pelo dalla bronchite». E vabbè, Tirrenia non sarà stata né potrà mai essere Malibù, ma ora che c'è lui dietro a quegli spruzzi laggiù sembra un po' la California. Perchè da una settimana a Tirrenia ci vive un campione. Federico, 19 anni, ha un cognome legato alle auto, il padre ha una famosa concessionaria a Ospedaletto. Ma la sua vita romba altrove: ha appena ricevuto il titolo italiano 2015 nella categoria "longboard", la tavola lunga: 2.470 punti raccolti in tre gare fra Liguria, Lazio e Sardegna; 70 in più del secondo classificato, Fabrizio Gabrielli, una specie di mostro sacro della specialità, 520 sopra Marco Boscaglia, la medaglia di bronzo. «E pensare che ho provato con la long solo quest'anno». Per Federico è stato un ritorno alle origini, alle radici di questo sport scoperto da James Cook, che durante le sue esplorazioni per primo descrisse le imprese dei polinesiani che scivolavano sulle onde tenendosi in equilibrio su grandi tavole di legno, e poi esploso negli anni Sessanta fra Honolulu e Los Angeles come l'espressione meno libertaria e più libertina della rivoluzione culturale.  «La tavola lunga è la musica classica del surf, 
idem foto recedente   le altre  le trovate   qui http://bit.ly/1JJcN4a
un inno alla tradizione, quella corta la sua evoluzione, più radicale, progressista, nevrotica. Ma questo non significa che non serva tecnica. Se nella short dominano le manovre, la potenza dell’onda, i salti, la velocità, qui contano la cura, lo studio, l'estetica, la tensione verso il bello».
E infatti nei video con la longboard Federico monta in groppa alla risacca, asseconda il flusso con mosse morbide ed eleganti, cammina sulla tavola a passi misurati, leggeri; con la tavola corta scarta, si incunea, balza, sembra venir risucchiato da un gorgo e poi riemergerne un attimo dopo. «Sulla long si danza un valzer del surf». Così, se di solito il rock pesta duro quando fa da sottofondo ai ruggiti della short, qui suona più melodico e folk. Ma che rapporto c'è fra un surfista e la sua tavola? «Nessuno, la tavola è un legno, e ogni tanto devi anche spezzarlo. La sfida è il controllo. Una delle evoluzioni più premiate sulla long è mettersi girati con la punta dei piedi sulla punta della tavola».
Anche se per Federico non fa molta differenza. Per un pelo quest’anno non è schizzato in cima alla classifica della shortboard. «Il campionato lo ha vinto un outsider, ma solo perché delle tre gare della competizione, i migliori ne hanno disputata solo una». L’ultima, il Frozen open, a settembre. Marinedda bay, nord della Sardegna. «La tappa migliore, il livello più alto di tutti. Mi sono piazzato secondo dopo Leonardo Fioravanti, campione del mondo under 18. E ho superato per la seconda volta Roberto D’Amico, il migliore d’Italia». Alla fine ha chiuso il torneo al settimo posto.
Ecco le immagini dell’“Indotrip”, come Federico Nesti chiama il suo ultimo viaggio in Indonesia. “Sono stato via da casa un mese, il surf per me è una passione travolgente. A Giava camminavo per trenta minuti nella giungla, in un posto dove ci sono i dieci serpenti più velenosi del mondo come il King Cobra, pur di arrivare alle spiagge e surfare in una spiaggia incontaminata e bellissima, dove c’erano solo i pescatori indonesiani”, racconta il 19enne pisano appena diventato campione italiano di surf

Ha cominciato a 6 anni, "il Nesti". Aveva una tavoletta in polistirolo che usano tutti i bambini d’estate e su cui si va distesi. «Io provavo a salirci in piedi. L'anno dopo il babbo me ne fece trovare una vera». Il sogno. «Alle medie è diventata una passione travolgente. E così ho cominciato a tuffarmi anche d’inverno. In fondo, Tirrenia e Marina sono posti in cui si passano le giornate all’aperto, anche col freddo. E il mare è un’attrazione. Se ci nasci non ne puoi fare a meno». Sul litorale pisano il surf è cresciuto anche un po' intorno a lui e alla ciurma degli amici. «Eravamo in cinque o sei, ora la crew conta 75 persone». Alcuni sono i suoi compagni di viaggio.
Grazie al suo talento, Federico è diventato un globetrotter delle onde. Le coste europee più famose se l’è girate tutte. Santander, Fuerteventura, Biarritz, Hossegor. Canarie, Spagna, Francia. È appena tornato dall'Indotrip, come chiama il viaggio in Indonesia. È stato via da casa un mese e a marzo se ne andrà due settimane in Portogallo. «Ma non sempre c'è bisogno di andare fuori per salire sulla cresta giusta, anche in Italia si surfa che è una meraviglia: Toscana, Sardegna, Liguria, Puglia, Sicilia, le isole hanno luoghi e baie spettacolari». Parte dei suoi viaggi li finanzia grazie agli sponsor, anche se con il «surf ancora non riesco a mantenermi». Gran parte della vita però la passa all'estero. E la scuola? «Dalla seconda superiore, quando questo sport è diventato una cosa seria, sui banchi passavo solo tre mesi: ho dovuto prendere il diploma da ragioniere come privatista».
È così. Per questo ragazzo il mare è tutto. Coltiva il surf con precisione e costanza maniacali. Affina la sua tecnica come se dovesse scolpirla. «Quando non sono in acqua ad allenarmi, guardo i video dei più forti del mondo. Scruto ogni dettaglio, in che momento il surfista si alza sulla curva dell’onda, come ruota le braccia, a che punto del tubo gira la testa, come si piega sulle gambe prima di un salto. Me li sparo al rallentatore anche cento volte, mi metto in camera, in piedi, come uno scemo, e li ripeto finché quei movimenti non li ho memorizzati e non me li sento addosso». Questo sport nella testa di chi lo pratica è anche una sfida costante con i superman della disciplina. Ogni baia un point break, un punto di rottura, una cresta levigata su cui corre il confine fra i propri limiti e quelli della leggenda.
«È chiaro, si va sempre a caccia dell'onda perfetta, del gesto puro. E non c'è esperienza più bella di sentire il feeling con l'onda, lei che ti spinge e tu che ci galoppi sopra. A Java, camminavo per trenta minuti nella giungla, in un posto dove ci sono i dieci serpenti più velenosi del mondo come il King Cobra, pur di arrivare alle spiagge e surfare con i brividi addosso per le pinne di squalo che ogni tanto sfilavano come ombre sotto il pelo dell'acqua». Ma è così, ogni surfista cerca il proprio mercoledì da leoni, il ruggito alto quattro piani con cui giocarsi la gloria.




Ovvio, la geografia è quindi mitografia: il sogno sono l'America, i coralli e i fondali delle Hawaii. «Poi oh - chiude Federico - Se il mare è giù di tono, si sa, le spiagge sono un bel posto e il surf ha pochi ingredienti ma essenziali: un falò, lo sfrigolìo della risacca, i tramonti nello specchio dell’acqua, musica, amici e bikini. Nugoli di bikini; per i quali ogni tanto rinunci volentieri anche a qualche ruggito».




23.12.12

Il talassemico salvato da una terapia non autorizzataL'altro Natale e il farmaco che non c'era

Sulle note della canzone  vivere la vita  di Mannarino dall'unione sarda ( eccetto la foto visto che l'edizione free online non ha più le foto e avaxhome è stato chiuso ci si arrangia come si può ) del 23\12\2012  e   http://www.surfers.it/sardegna/buggerru/atleta/intervista_emanuele_billai.html  da    cui  ho preso la foto   sotto riportata



Come fa con onde, cadute e batoste, così fa raccontandoti le storie di chi lo ha nel cuore: l'insegnamnto è sottile e palese a chi è pronto per coglierlo; non ha bisogno di passare attraverso interpretazioni e spiegazioni...
Lele si sente arrivare da lontano: la sua voce squillante e allegra è inconfondibile. Non disdegna alcuna mareggiata, dalle più attive e grosse alle scadute dove quasi devi spingere la tavola per partire. Quando non ci sono onde, lo trovi a fare pesca sub nel sotto costa intorno a Buggerru ... o lo vedi sfrecciare dietro alla sua barchetta, con la tavola sotto i piedi, nello sport che ha ribattezzato "manettone".

Lele vuoi raccontarci cosa è successo nel 2002?

Dalla nascita sono affetto da una malattia ereditaria: la talassemia. I miei globuli rossi sono diversi, e non compiono il proprio dovere: devo sottopormi periodicamente a trasfusioni, che hanno come conseguenza un accumulo di ferro negli organi. Esistono dei farmaci che ci aiutano a smaltire il ferro, ma arriva un certo punto in cui questi diventano inefficaci...a me è capitato nel 2002... ho avuto un gravissimo scompenso cardiaco, per il quale ho dovuto passare mesi in ospedale. L'unica speranza per me era ricevere un cuore nuovo...ci sono stati dei momenti di grande sconforto, in cui continuavo a sfogliare riviste di surf nella convinzione che cavalcare un' onda sarebbe stato solo un ricordo. Poi la medicina ha compiuto un piccolo miracolo: hanno deciso di sperimentare con me un nuovo cocktail di farmaci che in 3 (lunghissimi) anni è riuscito a normalizzare il mio cuore.


Come è cambiato il tuo rapporto con il mare durante gli anni di convalescenza?

Non riuscivo proprio a guardare le onde...e quando sapevo che si poteva surfare cercavo di stare a casa. In fondo però speravo, ed ero convinto, di poter tornare in acqua...credo sia questo pensiero la molla ad avermi spinto a curarmi sempre nel miglior modo possibile, anche seguendo una dieta rigorosa (il mangiare dopo il surf è una delle mie più grandi passioni).
[.... ]  continua   nel sito  sopra  riportato

  Adesso  l'articolo dell'unione
di pisano@unionesarda.it

L'altro Natale di Lele Billai, 36 anni, ex pescatore di Buggerru, cade alla fine di primavera. Ed è esattamente quel giorno di dieci anni fa che è riuscito «a uscire dall'ospedale Brotzu di Cagliari passando dall'ingresso principale anziché, come previsto, dall'obitorio ». Talassemico*,il cuore soffocato dal ferro, era stato inserito disperatamente in lista-trapianto.
Gli restavano pochi giorni di vita quando ha accettato di prendere un farmaco sperimentale, non autorizzato e (soprattutto) non completamente testato. Com'è finita? Depennato dalla lista-trapianto, oggi va a caccia grossa e fa surf da onda.La casa dove si festeggiano due Natali anziché uno soltanto è un nido d'aquila sospeso sul mare di Buggerru. Sta in cima al paese, proprio davanti a uno scenario da cartolina. Lele Billai (Emanuele solo per l'anagrafe), 36 anni, ha una lunga coda di cavallo che scioglie esclusivamente quando fa surf. Surf da onda: difficilissimo e travolgente. La sua sarebbe una storia qualunque non fosse per un piccolo dettaglio: Lele è talassemico. Vista l'età, sarebbe dovuto comparire da un pezzo sui necrologi del giornale. Invece no, è andato oltre. Ha superato la morte, come dice lui, grazie a un miracoloso dono di Natale arrivato inaspettatamente a giugno.Anno 2002. Accompagnato dal padre, arriva in ospedale a Cagliari: sta male, non ha neanche la forza di fare qualche passo. L'anemia mediterranea gli ha riempito il cuore di ferro trasformandolo in una sorta di palla che riesce molto debolmente a pulsare. Ha il diametro del ventricolo sinistro, che è la principale pompa del cuore, di circa settanta millimetri (anziché 55), l'indice di contrattilità al 25 per cento (anziché al 65). Le condizioni generali sono disperate e ripetono un destino scritto migliaia di volte: Lele sta per morire, ha abbondantemente superato quella che il vocabolario medico chiamaaspettativa di vita .Ricoverato nel reparto di Cardiologia del Brotzu (diretto da Maurizio Porcu), viene inserito in fretta e furia nella lista dei pazienti che hanno bisogno di un trapianto di cuore. Il tempo intanto stringe e la situazione precipita: al padre spiegano che sarà difficile farlo sopravvivere più di qualche giorno. Quando tutto sembra perduto, uno dei medici propone di giocare una carta disperata: e se si provasse a somministrare il deferiprone? C'è un ma: il deferiprone è un farmaco in fase di sperimentazione, non ha completato i test clinici, soprattutto non è ancora autorizzato ad andare in commercio. Segue un giro concitato di telefonate per ottenere un benestare, sia pure informale. D'altra parte c'è ben poco da perdere: il malato è agli sgoccioli, potrebbe andarsene da un momento all'altro. Esattamente come è accaduto a tanti talassemici come lui.Com'è finita vuol essere lui a raccontarlo. Quel che si può dire è che sei mesi più tardi la Risonanza magnetica rivela che nel suo cuore il ferro è in evidente diminuzione. Sa di essersi salvato grazie a una decisione, come dire?, illegale. Il deferiprone era, come spiegano in gergo, off label: insomma, non ancora benedetto dal Comitato ministeriale per i farmaci. E dunque inutilizzabile. In teoria.Licenza media, Lele parla un italiano ricco ed elegante conquistato con una passione per la lettura che non rilascia diplomi. Per ben due volte, si fa tradire dall'emozione, la voce gli si spezza in gola. «Chiedo scusa, ogni volta che penso alla mia storia mi sento travolgere». Ha campato facendo il pescatore fino a quando la talassemia e una trasfusione tossica non gli hanno imposto di fermarsi. Nel vaevieni infinito da un ospedale all'altro, avrebbe dovuto aspettare la morte nel silenzio e nell'anonimato simile a quello di tanti suoi compagni di calvario. Scompenso cardiaco, avrebbero scritto come mille altre volte nel certificato di avvenuto decesso. Quest'estate, per dire com'è passato dall'inferno al paradiso, ha salvato un turista francese che rischiava di annegare. Lotta dura, nel maestrale in tempesta, ma alla fine ce l'ha fatta. «Sono diventato un'altra persona».
Cosa vuol dire nascere talassemici?
«Significa che appena vieni al mondo ti devi abituare all'idea dell'ospedale, anzi degli ospedali. Devi sottoporti, colpa dei globuli rossi malati, a continue trasfusioni di sangue: è l'unico modo per rigenerarli».
Pendolare casa-ospedale-casa già da bambino.
«Ti abitui rapidamente a questa condizione. Conosci altri talassemici, gente come te, e quindi diciamo che la vivi come una cosa quasi normale. Il difficile arriva quando cresci, soprattutto nell'adolescenza».
Perché, che succede?
«Si comincia ad avere i primi approcci con le ragazze e il mondo diventa improvvisamente più complicato».
Facile cadere nella depressione.
«A me non è successo. La mia fortuna è avere una famiglia, un padre soprattutto e sopra tutti, che mi ha sempre incitato a vivere la vita più normalmente possibile: leggere, guardarsi intorno, lavorare, insomma fare quello che fanno tutti gli altri senza sentirmi mai un disabile».
Perfidie.
«Tante ma se hai la famiglia giusta alle spalle, riesci a neutralizzarle. È capitato con qualche ragazza».
Più difficile innamorarsi?
«No, questo no. Succedeva invece che, frequentando con una certa insistenza una coetanea, i genitori facessero presente - col garbo che l'ipocrisia sociale impone - che in ogni caso non poteva esserci futuro».
Non era cosa, insomma.
«Esatto. Ma non me l'hanno mai sbattuto in faccia in modo così brutale. Ho sempre incassato senza soffrirne eccessivamente e lasciando lo sconforto per qualcosa che valesse davvero la pena. Avevo altro da pensare».
Per esempio?
«L'ospedale. È diventata, esente Imu, la mia seconda casa. Nella migliore delle ipotesi ci andavo, e ci vado, quattro volte al mese: due per i prelievi di sangue e altre due per le trasfusioni. Te le raccomando, le trasfusioni».
Non servono?
«Servono eccome. Ma quando il sangue che ti trasfondono è infetto ti becchi, come il sottoscritto, pure l'epatite C».
A tu per tu con la morte.
«Un talassemico se la porta dentro. Sapevo che raramente si riesce ad andare oltre i trent'anni, dunque ho messo in conto tutto».
Tutto, cosa?
«Che avrei vissuto poco, che pian piano l'eccesso di ferro mi avrebbe ucciso, che i miei amici talassemici (a forza di incontrarci abbiamo imparato a volerci bene) avrebbero fatto la mia stessa fine. Era un destino segnato, il nostro. Io, poi, potevo vantare un'esperienza come pochi».
Da che punto di vista?
«Della morte. Non è della morte che stavamo parlando? La mia famiglia è stata sterminata dall'anemia mediterranea: cinque zii uccisi dalla talassemia. Con un precedente così, non potevo certo mettermi grilli per la testa. Peggio, illudermi, sperare. Ho scelto una strategia diversa: reagire».
Reagire come?
«Sembrerà ridicolo ma mi sono fatto l'idea che la talassemia era un guerriero da sconfiggere. Tutto qui. Il problema era solo quello di trovare il coraggio per farlo. Sono convinto che la forza di volontà abbia un peso enorme in una guarigione. Sennò, quando il trapianto di cuore m'ha preso in contropiede, mi sarei sentito finito con troppo anticipo».
Invece?
«Quando mio padre mi ha portato in Cardiologia all'ospedale Brotzu di Cagliari stavo bruciando gli ultimi minuti: troppo ferro nel cuore, impossibile sopravvivere. Faticavo per andare dal letto al bagno, non avevo la forza di muovermi».
Però niente resa.
«Certo che no. Mio padre si è ben guardato dal riferirmi quello che gli avevano detto i medici. Vedrai, qualcosa succederà, mi incoraggiava. Non immaginava che ero in grado di leggergli lo sguardo. Mi rendo conto che non è semplice stare a guardare un figlio che muore a nemmeno 26 anni. Poco importa sapere da prima, da molto prima, che era tutto prevedibile».
Al trapianto non c'era alternativa?
«Purtroppo no. Anzi: si pensava proprio di no. Fino a quando non hanno sperimentato sulla mia pelle un farmaco non ancora autorizzato».
Vi hanno informato?
«Certo. Ma c'era poco da scegliere: mi restava pochissimo da vivere. Roba di giorni, anche se a me non avevano detto nulla».
Quando ha intuito che quel farmaco funzionava?
«Non saprei dire con precisione, ho vissuto giorni piuttosto confusi. Ricordo tuttavia d'essermi accorto che a un tratto il respiro era un po' più lungo, più consistente del solito. Sul momento non ero in grado di valutare l'importanza di questo segnale. Posso dire soltanto che mi sentivo leggermente meglio, stavo uscendo pian piano dal ruolo del quasi-morto. Ma di questo, in fondo, ero sicuro».
Sicuro di che?
«Sapevo di non voler morire. Sapevo d'essere un cadavere in lista d'attesa ma sono sempre stato convinto che in qualche modo da quella lista sarei uscito. Non avevo proprio voglia di andarmene all'altro mondo. È bellissima, la vita».
Quando ha capito d'essere salvo?
«La faccia di mio padre, che teneva i contatti con i medici, era una specie di inconsapevole bollettino-meteo. Passano le settimane e io mi accorgo di respirare sempre meglio. Dopo qualche mese, il cardiologo mi informa che ero stato depennato dall'elenco dei pazienti in attesa di trapianto».
E lei?
«Giuro, non ho afferrato fino in fondo tutto quello che mi ha detto. Ero troppo felice per concentrarmi. Dopo la talassemia, dopo l'epatite C mi stavano comunicando che avevo finalmente vinto una battaglia. Battaglia che, per quanto mi constava, doveva invece essere l'ultima. Un film che avevo visto troppe volte».
Dove?
«Nel passaparola tra di noi, noi talassemici voglio dire. Capitava che non vedevi una delle solite facce agli appuntamenti per le trasfusioni e allora capivi. Inutile fare domande: era una sorte che ci riguardava tutti, sapevamo non solo il quando ma anche il come. Uccisi da troppo ferro: che bestialità».
Tutto questo è passato. Oggi?
«Che dire? Sono un uomo normalissimo. Vado a caccia grossa e magari, durante le poste, ingurgito un po' di medicine: beh, poca cosa se penso a quello che ho passato».
E il surf da onda?
«Pure. Essere invalido civile non preclude lo svolgimento di attività fisiche, ovviamente a livello non intensivo, non agonistico. Buggerru, che è il luogo dove mi piace vivere, ha l'habitat ideale per questo sport».
D'accordo ma ci vuole fiato.
«E io ne ho. Il cuore è tornato ad essere perfetto o quasi. Mi controllo, ovviamente; amministro i miei sforzi quando sono sul surf e mi guardo bene dal fare le maratone di tanti miei amici».
Senza stancarsi.
«Soprattutto senza esagerare. Ma è una sensazione impagabile quella che ti regala il mare, questo mare. Gli devo molto. Mi piacerebbe saper spiegare cosa si prova a stare in cima a un'onda, super-impegnato a conservare un equilibrio ballerino che è poi il segreto della felicità».
Per questo festeggia due volte Natale?
«Ho un doppio Natale, perché negarlo? A parte quello istituzionale, ne ho personalmente un altro che cade a primavera, coincide con le dimissioni dall'ospedale. Non è Natale poter raccontare d'essere uscito dall'ingresso principale del Brotzu anziché dall'obitorio?»
Feste a parte, com'è cambiato?
«Da allora nulla è più come prima. Neppure io sono più quello di una volta. Avevo una disperata voglia di vivere e neppure un attimo di rassegnazione: questo mi ha salvato, ne sono certo. Non volevo infoltire il cimitero di famiglia».
Che futuro ha programmato?
«Ne ho uno bellissimo. Convivo da quindici anni con una ragazza meravigliosa, Stefania. Vorrei un lavoro per sposarmi. La mia fidanzata comincia ad essere stanca d'essere soltanto compagna. Vuol diventare moglie e ha sicuramente ragione. Questo per quanto riguarda il futuro programmato: vuol sapere se ho anche un sogno nel cassetto?»
Sentiamo.
«Mi piacerebbe diventare padre e nel frattempo vedere la talassemia completamente debellata o almeno curata meglio di quanto non accada oggi. Che dice, sogno troppo in  
grande?»

* http://it.wikipedia.org/wiki/Talassemia

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