Come fa con onde, cadute e batoste, così fa raccontandoti le storie di chi lo ha nel cuore: l'insegnamnto è sottile e palese a chi è pronto per coglierlo; non ha bisogno di passare attraverso interpretazioni e spiegazioni...
Lele si sente arrivare da lontano: la sua voce squillante e allegra è inconfondibile. Non disdegna alcuna mareggiata, dalle più attive e grosse alle scadute dove quasi devi spingere la tavola per partire. Quando non ci sono onde, lo trovi a fare pesca sub nel sotto costa intorno a Buggerru ... o lo vedi sfrecciare dietro alla sua barchetta, con la tavola sotto i piedi, nello sport che ha ribattezzato "manettone".
Lele vuoi raccontarci cosa è successo nel 2002?
Dalla nascita sono affetto da una malattia ereditaria: la talassemia. I miei globuli rossi sono diversi, e non compiono il proprio dovere: devo sottopormi periodicamente a trasfusioni, che hanno come conseguenza un accumulo di ferro negli organi. Esistono dei farmaci che ci aiutano a smaltire il ferro, ma arriva un certo punto in cui questi diventano inefficaci...a me è capitato nel 2002... ho avuto un gravissimo scompenso cardiaco, per il quale ho dovuto passare mesi in ospedale. L'unica speranza per me era ricevere un cuore nuovo...ci sono stati dei momenti di grande sconforto, in cui continuavo a sfogliare riviste di surf nella convinzione che cavalcare un' onda sarebbe stato solo un ricordo. Poi la medicina ha compiuto un piccolo miracolo: hanno deciso di sperimentare con me un nuovo cocktail di farmaci che in 3 (lunghissimi) anni è riuscito a normalizzare il mio cuore.
Come è cambiato il tuo rapporto con il mare durante gli anni di convalescenza?
Non riuscivo proprio a guardare le onde...e quando sapevo che si poteva surfare cercavo di stare a casa. In fondo però speravo, ed ero convinto, di poter tornare in acqua...credo sia questo pensiero la molla ad avermi spinto a curarmi sempre nel miglior modo possibile, anche seguendo una dieta rigorosa (il mangiare dopo il surf è una delle mie più grandi passioni).
[.... ] continua nel sito sopra riportato
Adesso l'articolo dell'unione
di pisano@unionesarda.it
L'altro Natale di Lele Billai, 36 anni, ex pescatore di Buggerru, cade alla fine di primavera. Ed è esattamente quel giorno di dieci anni fa che è riuscito «a uscire dall'ospedale Brotzu di Cagliari passando dall'ingresso principale anziché, come previsto, dall'obitorio ». Talassemico*,il cuore soffocato dal ferro, era stato inserito disperatamente in lista-trapianto.
Gli restavano pochi giorni di vita quando ha accettato di prendere un farmaco sperimentale, non autorizzato e (soprattutto) non completamente testato. Com'è finita? Depennato dalla lista-trapianto, oggi va a caccia grossa e fa surf da onda.La casa dove si festeggiano due Natali anziché uno soltanto è un nido d'aquila sospeso sul mare di Buggerru. Sta in cima al paese, proprio davanti a uno scenario da cartolina. Lele Billai (Emanuele solo per l'anagrafe), 36 anni, ha una lunga coda di cavallo che scioglie esclusivamente quando fa surf. Surf da onda: difficilissimo e travolgente. La sua sarebbe una storia qualunque non fosse per un piccolo dettaglio: Lele è talassemico. Vista l'età, sarebbe dovuto comparire da un pezzo sui necrologi del giornale. Invece no, è andato oltre. Ha superato la morte, come dice lui, grazie a un miracoloso dono di Natale arrivato inaspettatamente a giugno.Anno 2002. Accompagnato dal padre, arriva in ospedale a Cagliari: sta male, non ha neanche la forza di fare qualche passo. L'anemia mediterranea gli ha riempito il cuore di ferro trasformandolo in una sorta di palla che riesce molto debolmente a pulsare. Ha il diametro del ventricolo sinistro, che è la principale pompa del cuore, di circa settanta millimetri (anziché 55), l'indice di contrattilità al 25 per cento (anziché al 65). Le condizioni generali sono disperate e ripetono un destino scritto migliaia di volte: Lele sta per morire, ha abbondantemente superato quella che il vocabolario medico chiamaaspettativa di vita .Ricoverato nel reparto di Cardiologia del Brotzu (diretto da Maurizio Porcu), viene inserito in fretta e furia nella lista dei pazienti che hanno bisogno di un trapianto di cuore. Il tempo intanto stringe e la situazione precipita: al padre spiegano che sarà difficile farlo sopravvivere più di qualche giorno. Quando tutto sembra perduto, uno dei medici propone di giocare una carta disperata: e se si provasse a somministrare il deferiprone? C'è un ma: il deferiprone è un farmaco in fase di sperimentazione, non ha completato i test clinici, soprattutto non è ancora autorizzato ad andare in commercio. Segue un giro concitato di telefonate per ottenere un benestare, sia pure informale. D'altra parte c'è ben poco da perdere: il malato è agli sgoccioli, potrebbe andarsene da un momento all'altro. Esattamente come è accaduto a tanti talassemici come lui.Com'è finita vuol essere lui a raccontarlo. Quel che si può dire è che sei mesi più tardi la Risonanza magnetica rivela che nel suo cuore il ferro è in evidente diminuzione. Sa di essersi salvato grazie a una decisione, come dire?, illegale. Il deferiprone era, come spiegano in gergo, off label: insomma, non ancora benedetto dal Comitato ministeriale per i farmaci. E dunque inutilizzabile. In teoria.Licenza media, Lele parla un italiano ricco ed elegante conquistato con una passione per la lettura che non rilascia diplomi. Per ben due volte, si fa tradire dall'emozione, la voce gli si spezza in gola. «Chiedo scusa, ogni volta che penso alla mia storia mi sento travolgere». Ha campato facendo il pescatore fino a quando la talassemia e una trasfusione tossica non gli hanno imposto di fermarsi. Nel vaevieni infinito da un ospedale all'altro, avrebbe dovuto aspettare la morte nel silenzio e nell'anonimato simile a quello di tanti suoi compagni di calvario. Scompenso cardiaco, avrebbero scritto come mille altre volte nel certificato di avvenuto decesso. Quest'estate, per dire com'è passato dall'inferno al paradiso, ha salvato un turista francese che rischiava di annegare. Lotta dura, nel maestrale in tempesta, ma alla fine ce l'ha fatta. «Sono diventato un'altra persona».
Cosa vuol dire nascere talassemici?
«Significa che appena vieni al mondo ti devi abituare all'idea dell'ospedale, anzi degli ospedali. Devi sottoporti, colpa dei globuli rossi malati, a continue trasfusioni di sangue: è l'unico modo per rigenerarli».
Pendolare casa-ospedale-casa già da bambino.
«Ti abitui rapidamente a questa condizione. Conosci altri talassemici, gente come te, e quindi diciamo che la vivi come una cosa quasi normale. Il difficile arriva quando cresci, soprattutto nell'adolescenza».
Perché, che succede?
«Si comincia ad avere i primi approcci con le ragazze e il mondo diventa improvvisamente più complicato».
Facile cadere nella depressione.
«A me non è successo. La mia fortuna è avere una famiglia, un padre soprattutto e sopra tutti, che mi ha sempre incitato a vivere la vita più normalmente possibile: leggere, guardarsi intorno, lavorare, insomma fare quello che fanno tutti gli altri senza sentirmi mai un disabile».
Perfidie.
«Tante ma se hai la famiglia giusta alle spalle, riesci a neutralizzarle. È capitato con qualche ragazza».
Più difficile innamorarsi?
«No, questo no. Succedeva invece che, frequentando con una certa insistenza una coetanea, i genitori facessero presente - col garbo che l'ipocrisia sociale impone - che in ogni caso non poteva esserci futuro».
Non era cosa, insomma.
«Esatto. Ma non me l'hanno mai sbattuto in faccia in modo così brutale. Ho sempre incassato senza soffrirne eccessivamente e lasciando lo sconforto per qualcosa che valesse davvero la pena. Avevo altro da pensare».
Per esempio?
«L'ospedale. È diventata, esente Imu, la mia seconda casa. Nella migliore delle ipotesi ci andavo, e ci vado, quattro volte al mese: due per i prelievi di sangue e altre due per le trasfusioni. Te le raccomando, le trasfusioni».
Non servono?
«Servono eccome. Ma quando il sangue che ti trasfondono è infetto ti becchi, come il sottoscritto, pure l'epatite C».
A tu per tu con la morte.
«Un talassemico se la porta dentro. Sapevo che raramente si riesce ad andare oltre i trent'anni, dunque ho messo in conto tutto».
Tutto, cosa?
«Che avrei vissuto poco, che pian piano l'eccesso di ferro mi avrebbe ucciso, che i miei amici talassemici (a forza di incontrarci abbiamo imparato a volerci bene) avrebbero fatto la mia stessa fine. Era un destino segnato, il nostro. Io, poi, potevo vantare un'esperienza come pochi».
Da che punto di vista?
«Della morte. Non è della morte che stavamo parlando? La mia famiglia è stata sterminata dall'anemia mediterranea: cinque zii uccisi dalla talassemia. Con un precedente così, non potevo certo mettermi grilli per la testa. Peggio, illudermi, sperare. Ho scelto una strategia diversa: reagire».
Reagire come?
«Sembrerà ridicolo ma mi sono fatto l'idea che la talassemia era un guerriero da sconfiggere. Tutto qui. Il problema era solo quello di trovare il coraggio per farlo. Sono convinto che la forza di volontà abbia un peso enorme in una guarigione. Sennò, quando il trapianto di cuore m'ha preso in contropiede, mi sarei sentito finito con troppo anticipo».
Invece?
«Quando mio padre mi ha portato in Cardiologia all'ospedale Brotzu di Cagliari stavo bruciando gli ultimi minuti: troppo ferro nel cuore, impossibile sopravvivere. Faticavo per andare dal letto al bagno, non avevo la forza di muovermi».
Però niente resa.
«Certo che no. Mio padre si è ben guardato dal riferirmi quello che gli avevano detto i medici. Vedrai, qualcosa succederà, mi incoraggiava. Non immaginava che ero in grado di leggergli lo sguardo. Mi rendo conto che non è semplice stare a guardare un figlio che muore a nemmeno 26 anni. Poco importa sapere da prima, da molto prima, che era tutto prevedibile».
Al trapianto non c'era alternativa?
«Purtroppo no. Anzi: si pensava proprio di no. Fino a quando non hanno sperimentato sulla mia pelle un farmaco non ancora autorizzato».
Vi hanno informato?
«Certo. Ma c'era poco da scegliere: mi restava pochissimo da vivere. Roba di giorni, anche se a me non avevano detto nulla».
Quando ha intuito che quel farmaco funzionava?
«Non saprei dire con precisione, ho vissuto giorni piuttosto confusi. Ricordo tuttavia d'essermi accorto che a un tratto il respiro era un po' più lungo, più consistente del solito. Sul momento non ero in grado di valutare l'importanza di questo segnale. Posso dire soltanto che mi sentivo leggermente meglio, stavo uscendo pian piano dal ruolo del quasi-morto. Ma di questo, in fondo, ero sicuro».
Sicuro di che?
«Sapevo di non voler morire. Sapevo d'essere un cadavere in lista d'attesa ma sono sempre stato convinto che in qualche modo da quella lista sarei uscito. Non avevo proprio voglia di andarmene all'altro mondo. È bellissima, la vita».
Quando ha capito d'essere salvo?
«La faccia di mio padre, che teneva i contatti con i medici, era una specie di inconsapevole bollettino-meteo. Passano le settimane e io mi accorgo di respirare sempre meglio. Dopo qualche mese, il cardiologo mi informa che ero stato depennato dall'elenco dei pazienti in attesa di trapianto».
E lei?
«Giuro, non ho afferrato fino in fondo tutto quello che mi ha detto. Ero troppo felice per concentrarmi. Dopo la talassemia, dopo l'epatite C mi stavano comunicando che avevo finalmente vinto una battaglia. Battaglia che, per quanto mi constava, doveva invece essere l'ultima. Un film che avevo visto troppe volte».
Dove?
«Nel passaparola tra di noi, noi talassemici voglio dire. Capitava che non vedevi una delle solite facce agli appuntamenti per le trasfusioni e allora capivi. Inutile fare domande: era una sorte che ci riguardava tutti, sapevamo non solo il quando ma anche il come. Uccisi da troppo ferro: che bestialità».
Tutto questo è passato. Oggi?
«Che dire? Sono un uomo normalissimo. Vado a caccia grossa e magari, durante le poste, ingurgito un po' di medicine: beh, poca cosa se penso a quello che ho passato».
E il surf da onda?
«Pure. Essere invalido civile non preclude lo svolgimento di attività fisiche, ovviamente a livello non intensivo, non agonistico. Buggerru, che è il luogo dove mi piace vivere, ha l'habitat ideale per questo sport».
D'accordo ma ci vuole fiato.
«E io ne ho. Il cuore è tornato ad essere perfetto o quasi. Mi controllo, ovviamente; amministro i miei sforzi quando sono sul surf e mi guardo bene dal fare le maratone di tanti miei amici».
Senza stancarsi.
«Soprattutto senza esagerare. Ma è una sensazione impagabile quella che ti regala il mare, questo mare. Gli devo molto. Mi piacerebbe saper spiegare cosa si prova a stare in cima a un'onda, super-impegnato a conservare un equilibrio ballerino che è poi il segreto della felicità».
Per questo festeggia due volte Natale?
«Ho un doppio Natale, perché negarlo? A parte quello istituzionale, ne ho personalmente un altro che cade a primavera, coincide con le dimissioni dall'ospedale. Non è Natale poter raccontare d'essere uscito dall'ingresso principale del Brotzu anziché dall'obitorio?»
Feste a parte, com'è cambiato?
«Da allora nulla è più come prima. Neppure io sono più quello di una volta. Avevo una disperata voglia di vivere e neppure un attimo di rassegnazione: questo mi ha salvato, ne sono certo. Non volevo infoltire il cimitero di famiglia».
Che futuro ha programmato?
«Ne ho uno bellissimo. Convivo da quindici anni con una ragazza meravigliosa, Stefania. Vorrei un lavoro per sposarmi. La mia fidanzata comincia ad essere stanca d'essere soltanto compagna. Vuol diventare moglie e ha sicuramente ragione. Questo per quanto riguarda il futuro programmato: vuol sapere se ho anche un sogno nel cassetto?»
Sentiamo.
«Mi piacerebbe diventare padre e nel frattempo vedere la talassemia completamente debellata o almeno curata meglio di quanto non accada oggi. Che dice, sogno troppo in
grande?»
* http://it.wikipedia.org/wiki/Talassemia
Cosa vuol dire nascere talassemici?
«Significa che appena vieni al mondo ti devi abituare all'idea dell'ospedale, anzi degli ospedali. Devi sottoporti, colpa dei globuli rossi malati, a continue trasfusioni di sangue: è l'unico modo per rigenerarli».
Pendolare casa-ospedale-casa già da bambino.
«Ti abitui rapidamente a questa condizione. Conosci altri talassemici, gente come te, e quindi diciamo che la vivi come una cosa quasi normale. Il difficile arriva quando cresci, soprattutto nell'adolescenza».
Perché, che succede?
«Si comincia ad avere i primi approcci con le ragazze e il mondo diventa improvvisamente più complicato».
Facile cadere nella depressione.
«A me non è successo. La mia fortuna è avere una famiglia, un padre soprattutto e sopra tutti, che mi ha sempre incitato a vivere la vita più normalmente possibile: leggere, guardarsi intorno, lavorare, insomma fare quello che fanno tutti gli altri senza sentirmi mai un disabile».
Perfidie.
«Tante ma se hai la famiglia giusta alle spalle, riesci a neutralizzarle. È capitato con qualche ragazza».
Più difficile innamorarsi?
«No, questo no. Succedeva invece che, frequentando con una certa insistenza una coetanea, i genitori facessero presente - col garbo che l'ipocrisia sociale impone - che in ogni caso non poteva esserci futuro».
Non era cosa, insomma.
«Esatto. Ma non me l'hanno mai sbattuto in faccia in modo così brutale. Ho sempre incassato senza soffrirne eccessivamente e lasciando lo sconforto per qualcosa che valesse davvero la pena. Avevo altro da pensare».
Per esempio?
«L'ospedale. È diventata, esente Imu, la mia seconda casa. Nella migliore delle ipotesi ci andavo, e ci vado, quattro volte al mese: due per i prelievi di sangue e altre due per le trasfusioni. Te le raccomando, le trasfusioni».
Non servono?
«Servono eccome. Ma quando il sangue che ti trasfondono è infetto ti becchi, come il sottoscritto, pure l'epatite C».
A tu per tu con la morte.
«Un talassemico se la porta dentro. Sapevo che raramente si riesce ad andare oltre i trent'anni, dunque ho messo in conto tutto».
Tutto, cosa?
«Che avrei vissuto poco, che pian piano l'eccesso di ferro mi avrebbe ucciso, che i miei amici talassemici (a forza di incontrarci abbiamo imparato a volerci bene) avrebbero fatto la mia stessa fine. Era un destino segnato, il nostro. Io, poi, potevo vantare un'esperienza come pochi».
Da che punto di vista?
«Della morte. Non è della morte che stavamo parlando? La mia famiglia è stata sterminata dall'anemia mediterranea: cinque zii uccisi dalla talassemia. Con un precedente così, non potevo certo mettermi grilli per la testa. Peggio, illudermi, sperare. Ho scelto una strategia diversa: reagire».
Reagire come?
«Sembrerà ridicolo ma mi sono fatto l'idea che la talassemia era un guerriero da sconfiggere. Tutto qui. Il problema era solo quello di trovare il coraggio per farlo. Sono convinto che la forza di volontà abbia un peso enorme in una guarigione. Sennò, quando il trapianto di cuore m'ha preso in contropiede, mi sarei sentito finito con troppo anticipo».
Invece?
«Quando mio padre mi ha portato in Cardiologia all'ospedale Brotzu di Cagliari stavo bruciando gli ultimi minuti: troppo ferro nel cuore, impossibile sopravvivere. Faticavo per andare dal letto al bagno, non avevo la forza di muovermi».
Però niente resa.
«Certo che no. Mio padre si è ben guardato dal riferirmi quello che gli avevano detto i medici. Vedrai, qualcosa succederà, mi incoraggiava. Non immaginava che ero in grado di leggergli lo sguardo. Mi rendo conto che non è semplice stare a guardare un figlio che muore a nemmeno 26 anni. Poco importa sapere da prima, da molto prima, che era tutto prevedibile».
Al trapianto non c'era alternativa?
«Purtroppo no. Anzi: si pensava proprio di no. Fino a quando non hanno sperimentato sulla mia pelle un farmaco non ancora autorizzato».
Vi hanno informato?
«Certo. Ma c'era poco da scegliere: mi restava pochissimo da vivere. Roba di giorni, anche se a me non avevano detto nulla».
Quando ha intuito che quel farmaco funzionava?
«Non saprei dire con precisione, ho vissuto giorni piuttosto confusi. Ricordo tuttavia d'essermi accorto che a un tratto il respiro era un po' più lungo, più consistente del solito. Sul momento non ero in grado di valutare l'importanza di questo segnale. Posso dire soltanto che mi sentivo leggermente meglio, stavo uscendo pian piano dal ruolo del quasi-morto. Ma di questo, in fondo, ero sicuro».
Sicuro di che?
«Sapevo di non voler morire. Sapevo d'essere un cadavere in lista d'attesa ma sono sempre stato convinto che in qualche modo da quella lista sarei uscito. Non avevo proprio voglia di andarmene all'altro mondo. È bellissima, la vita».
Quando ha capito d'essere salvo?
«La faccia di mio padre, che teneva i contatti con i medici, era una specie di inconsapevole bollettino-meteo. Passano le settimane e io mi accorgo di respirare sempre meglio. Dopo qualche mese, il cardiologo mi informa che ero stato depennato dall'elenco dei pazienti in attesa di trapianto».
E lei?
«Giuro, non ho afferrato fino in fondo tutto quello che mi ha detto. Ero troppo felice per concentrarmi. Dopo la talassemia, dopo l'epatite C mi stavano comunicando che avevo finalmente vinto una battaglia. Battaglia che, per quanto mi constava, doveva invece essere l'ultima. Un film che avevo visto troppe volte».
Dove?
«Nel passaparola tra di noi, noi talassemici voglio dire. Capitava che non vedevi una delle solite facce agli appuntamenti per le trasfusioni e allora capivi. Inutile fare domande: era una sorte che ci riguardava tutti, sapevamo non solo il quando ma anche il come. Uccisi da troppo ferro: che bestialità».
Tutto questo è passato. Oggi?
«Che dire? Sono un uomo normalissimo. Vado a caccia grossa e magari, durante le poste, ingurgito un po' di medicine: beh, poca cosa se penso a quello che ho passato».
E il surf da onda?
«Pure. Essere invalido civile non preclude lo svolgimento di attività fisiche, ovviamente a livello non intensivo, non agonistico. Buggerru, che è il luogo dove mi piace vivere, ha l'habitat ideale per questo sport».
D'accordo ma ci vuole fiato.
«E io ne ho. Il cuore è tornato ad essere perfetto o quasi. Mi controllo, ovviamente; amministro i miei sforzi quando sono sul surf e mi guardo bene dal fare le maratone di tanti miei amici».
Senza stancarsi.
«Soprattutto senza esagerare. Ma è una sensazione impagabile quella che ti regala il mare, questo mare. Gli devo molto. Mi piacerebbe saper spiegare cosa si prova a stare in cima a un'onda, super-impegnato a conservare un equilibrio ballerino che è poi il segreto della felicità».
Per questo festeggia due volte Natale?
«Ho un doppio Natale, perché negarlo? A parte quello istituzionale, ne ho personalmente un altro che cade a primavera, coincide con le dimissioni dall'ospedale. Non è Natale poter raccontare d'essere uscito dall'ingresso principale del Brotzu anziché dall'obitorio?»
Feste a parte, com'è cambiato?
«Da allora nulla è più come prima. Neppure io sono più quello di una volta. Avevo una disperata voglia di vivere e neppure un attimo di rassegnazione: questo mi ha salvato, ne sono certo. Non volevo infoltire il cimitero di famiglia».
Che futuro ha programmato?
«Ne ho uno bellissimo. Convivo da quindici anni con una ragazza meravigliosa, Stefania. Vorrei un lavoro per sposarmi. La mia fidanzata comincia ad essere stanca d'essere soltanto compagna. Vuol diventare moglie e ha sicuramente ragione. Questo per quanto riguarda il futuro programmato: vuol sapere se ho anche un sogno nel cassetto?»
Sentiamo.
«Mi piacerebbe diventare padre e nel frattempo vedere la talassemia completamente debellata o almeno curata meglio di quanto non accada oggi. Che dice, sogno troppo in
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