in sottofondo
Nel tentativo di analizzare quei giorni, diu cui fra un meno di mese saranno 20 anni , per una serie d'articoli trovate qui e qui i primi due su ho intervistato Paolo e Davide Valeri ( ne avevo giùà accenato nel mio post : << ) che da 4 mesi esplorano, a vent’anni di distanza, gli eventi del G8 di Genova del 2001 con un canale video, un podcast audio e un libro pronto per essere pubblicato. Paolo e Davide, sono
Buona lettura!
E questo ricordo, in definitiva divenuto un tratto identitario, è arrivato fino a noi con molta forza, molta linearità.
Al contrario un certo modo di raccontare Genova, quel modo semplicistico che mira ad assegnare torti e ragioni ancora prima di capire le dinamiche, ha di fatto annacquato quei fatti nella memoria collettiva. Se è vero che per chi li ha vissuti sulla pelle e per chi si è preso la briga di capire quei giorni c’è la necessita di ricordare, di far sopravvivere quella memoria come un monito; per la maggioranza ancora oggi non è chiaro cosa sia successo. Genericamente si sa che la polizia ha “un po’ esagerato”, che qualcuno di troppo è stato menato e che è morto un ragazzo che voleva aggredire dei carabinieri con un estintore. La memoria collettiva è ancora troppo vaga e imprecisa perché diventi identità e produca una presa di coscienza: per questo ci siamo messi a raccontare il G8 di Genova, Perché pensiamo che sia necessario che le giovani generazioni facciano propria quella memoria come è stato per i grandi momenti civili della nostra storia, dal Risorgimento alla Resistenza.
( D e P ) Perché la memoria è una cosa labile e viva. Labile perché il tempo la sbiadisce e ne cambia i contorni, ci sono un sacco di studi che testimoniano come i nostri ricordi vengano ricostruiti a posteriori e non sempre riescano a collimare coi fatti reali. Viva perché se non la si condivide, se non si fa della memoria un tratto comune, diventa solo un ricordo personale. Magari bello, significativo per chi l’ha vissuto ma privo di valore per la collettività.
( D e P ) Giovanni Mari parla di fallimento e lo fa in maniera puntuale, passa in rassegna gli attori di quei giorni e spiega chiaramente perché ritiene i loro comportamenti fallimentari: non è una questione di secondo noi o secondo altri, è così. Sono dati di fatto, non opinioni. Tuttavia se dobbiamo dirti dove non riusciamo ad essere concordi con lui è nel principio, ci sembra che il difetto stia nel manico.
Cioè, perché bisogna decretare vincitori e vinti? Genova non è una guerra.
E’ stata guerriglia di strada, questo è certo.
E’ stata conflitto sociale, ovviamente: tra le idee del movimento e le istanze di poteri sovranazionali.
Ma Genova è stato un attacco, una risposta ad un tentativo di coesione sociale attorno a principi e valori giusti.
E di nuovo i giudizi non c’entrano niente: sono i fatti che parlano. Dopo vent’anni i punti dell’agenda che aveva il movimento sono diventate le emergenze condivise, a volte in parte o per convenienza, da quello stesso potere che ne esigeva la repressione.
( D e P ) Assassino non lo sappiamo, di sicuro non per la giustizia italiana che ha ritenuto l’azione a lui imputata come legittima difesa.
Eppure ancora troppi sono i dubbi sulla dinamica. Non quella di piazza Alimonda, che ormai ci è chiara, ma quella all’interno del defender: non sappiamo con certezza chi c’era, chi ha sparato, perché quella camionetta stava lì.
Haidi Giuliani ce lo ha detto chiaramente, lei non crede che sia stato Placanica a sparare, e al di là di condividere o meno la sua opinione i dubbi comunque rimangono e sono oggettivi. La mancanza di un indagine seria sulla morte di Carlo Giuliani è uno dei motivi per cui la memoria sui fatti genovesi è diventata così debole alla prova del tempo.
Capro espiatorio senz’altro, con che grado di connivenza non ci è dato sapere ma sicuramente in certa misura Placanica è stato consapevole del meccanismo in cui era entrato. Un meccanismo che lo ha stritolato facendolo scivolare nelle maglie dell’istituzione psichiatrica e, senz’altro, gli ha rovinato la vita.
Nebbia fitta: nonostante tutto, persino di fronte all’accertamento dei fatti sfuggono le responsabilità politiche, sia nazionali che sovranazionali. Nemmeno oggi, a posteriori, è possibile dire qualcosa di critico in modo fattuale sulle responsabilità di chi generò quegli eventi.
Nebbia di Stato, si potrebbe dire. Quella nebbia tipica che si genera quando i meccanismi del potere si autotutelano, una dinamica che in questo paese è tristemente comune e reiterata fin dalla nascita dello stato unitario.
Però, per chiarezza, non vorremmo dare la lettura di uno Stato forte che imbriglia e imbroglia le masse. In realtà i fatti di Genova si sono prodotti proprio perché il potere si trovava in una posizione di debolezza estrema.
Era debole il consenso a quelle istituzioni sovranazionali a cui il movimento opponeva la sua critica, quello stesso consenso (ricordiamolo, a livello planetario) indeboliva la capacità di sfruttamento economica e delle elité ad esso connesse. Era debole il nostro neonato governo Berlusconi, che necessitava di accreditarsi sulla scena internazionale avendo un background non proprio da grande statista. Erano deboli le forze dell’ordine, coi vertici nominati dal precedente governo di centrosinistra ma desiderosi di vedersi confermati dal centrodestra in ascesa.
In definitiva, forse, più che nebbia di Stato è stata la presenza di uno Stato talmente debole da diventare lui stesso evanescente, come fatto di nebbia: la nebbia di quei gas lacrimogeni che hanno impregnato di nuvole tossiche la città e i polmoni di chi in quel momento aveva il potere dalla sua. La forza delle idee giuste e della condivisione con tanti altri, alla fine la forza stessa del futuro.