Secondo voi com'è possibile che persone che ora hanno 6\10 anni o peggio sono nate nello stesso anno dei fatti della Diaz e di Bolzaneto (solo per citare gli episodi più gravi e vergognosi del g8 di Genova 2001) sanno tutto sul'11 settembre e niente su quella che può essere considerata la più grande violazione dei diritti umani a livello europeo?
( Davide e Paolo )
Per prima cosa l’11 settembre è stato un evento che ha molte meno sfumature, soprattutto per gli americani. Si è impresso nella loro memoria con forza, probabilmente anche per la tragicità con cui è stato vissuto all’interno della società americana (non solo per i morti, ovviamente, ma anche per la sensazione di essere stati violati, di essere stati attaccati su suolo nazionale).
E questo ricordo, in definitiva divenuto un tratto identitario, è arrivato fino a noi con molta forza, molta linearità.
Al contrario un certo modo di raccontare Genova, quel modo semplicistico che mira ad assegnare torti e ragioni ancora prima di capire le dinamiche, ha di fatto annacquato quei fatti nella memoria collettiva. Se è vero che per chi li ha vissuti sulla pelle e per chi si è preso la briga di capire quei giorni c’è la necessita di ricordare, di far sopravvivere quella memoria come un monito; per la maggioranza ancora oggi non è chiaro cosa sia successo. Genericamente si sa che la polizia ha “un po’ esagerato”, che qualcuno di troppo è stato menato e che è morto un ragazzo che voleva aggredire dei carabinieri con un estintore. La memoria collettiva è ancora troppo vaga e imprecisa perché diventi identità e produca una presa di coscienza: per questo ci siamo messi a raccontare il G8 di Genova, Perché pensiamo che sia necessario che le giovani generazioni facciano propria quella memoria come è stato per i grandi momenti civili della nostra storia, dal Risorgimento alla Resistenza.
(I ) Come è potuta bastare una generazione per perdere (salvo casi isolati come il vostro) la memoria di un evento così grande e farlo diventare nebbia e stato?
( D e P ) Perché la memoria è una cosa labile e viva. Labile perché il tempo la sbiadisce e ne cambia i contorni, ci sono un sacco di studi che testimoniano come i nostri ricordi vengano ricostruiti a posteriori e non sempre riescano a collimare coi fatti reali. Viva perché se non la si condivide, se non si fa della memoria un tratto comune, diventa solo un ricordo personale. Magari bello, significativo per chi l’ha vissuto ma privo di valore per la collettività.
Quando uno si sposa si fa le foto proprio perché quando le riguarda ritrova un suo momento importante ma vissuto assieme alle persone che per lui erano significative, e questo su più larga scala succede anche con gli eventi storici. Eppure proprio per queste sue caratteristiche la memoria, e la memoria condivisa ancora di più, ha la necessità del confronto, dello scambio, del racconto. E’ evidente che qualcosa non ha funzionato: non credo per colpa di chi ha raccontato le proprie esperienze, anche contraddittorie, ma probabilmente a seguito di quella narrazione, portata avanti un po’ da tutti i media, che ha sempre presentato i fatti di quel luglio del 2001 attraverso la lente deformante degli opposti estremismi. Per questo oggi, a vent’anni di distanza, ci sembra necessario storicizzare in maniera diversa quella memoria e ci piace pensare di dare il nostro piccolo contributo in quella direzione in mezzo ai tanti che ci provano. Perché in definitiva basta che una generazione abdichi al dovere di raccontare ciò che ha vissuto e quella successiva si ritroverà orfana di quella storia.
( I ) Dal libro di Giovanni mari, da voi intervistato sembra che dal g8 di Genova non siano usciti né vincitori né vinti. Secondo voi invece?
( D e P ) Giovanni Mari parla di fallimento e lo fa in maniera puntuale, passa in rassegna gli attori di quei giorni e spiega chiaramente perché ritiene i loro comportamenti fallimentari: non è una questione di secondo noi o secondo altri, è così. Sono dati di fatto, non opinioni. Tuttavia se dobbiamo dirti dove non riusciamo ad essere concordi con lui è nel principio, ci sembra che il difetto stia nel manico.
Cioè, perché bisogna decretare vincitori e vinti? Genova non è una guerra.
E’ stata guerriglia di strada, questo è certo.
E’ stata conflitto sociale, ovviamente: tra le idee del movimento e le istanze di poteri sovranazionali.
Ma Genova è stato un attacco, una risposta ad un tentativo di coesione sociale attorno a principi e valori giusti.
E di nuovo i giudizi non c’entrano niente: sono i fatti che parlano. Dopo vent’anni i punti dell’agenda che aveva il movimento sono diventate le emergenze condivise, a volte in parte o per convenienza, da quello stesso potere che ne esigeva la repressione.
Insomma il problema non è chi ha vinto o chi ha perso vent’anni fa, il problema è trovare una memoria condivisa delle azioni e delle reazioni che erano all’opera allora e lo sono ancora oggi, perché siamo noi oggi che abbiamo tutto da vincere o tutto da perdere.
( I ) Mario Placanica: assassino o capro espiatorio?
( D e P ) Assassino non lo sappiamo, di sicuro non per la giustizia italiana che ha ritenuto l’azione a lui imputata come legittima difesa.
Eppure ancora troppi sono i dubbi sulla dinamica. Non quella di piazza Alimonda, che ormai ci è chiara, ma quella all’interno del defender: non sappiamo con certezza chi c’era, chi ha sparato, perché quella camionetta stava lì.
Haidi Giuliani ce lo ha detto chiaramente, lei non crede che sia stato Placanica a sparare, e al di là di condividere o meno la sua opinione i dubbi comunque rimangono e sono oggettivi. La mancanza di un indagine seria sulla morte di Carlo Giuliani è uno dei motivi per cui la memoria sui fatti genovesi è diventata così debole alla prova del tempo.
Capro espiatorio senz’altro, con che grado di connivenza non ci è dato sapere ma sicuramente in certa misura Placanica è stato consapevole del meccanismo in cui era entrato. Un meccanismo che lo ha stritolato facendolo scivolare nelle maglie dell’istituzione psichiatrica e, senz’altro, gli ha rovinato la vita.