Fiji, i rugbisti volanti sbarcati a Tokyo su un cargo di pesce
dal nostro inviato Mattia Chiusano
(ansa)
Tre mesi isolati in un ostello per vincere il titolo nel rugby a sette e confermarsi dopo Rio 2016
TOKYO - Gli uomini del pesce congelato hanno pregato, pianto, cantato, messo al collo l’uno dell’altro la medaglia d’oro, e adesso sperano in un premio ancora più grande: rivedere i loro figli. Cinque anni dopo sono ancora le isole Fiji a vincere nel Rugby Sevens, la versione light che ha portato il rugby alle Olimpiadi. Ma non c’è niente di paragonabile tra il percorso del 2016 e quello del 2021 per i Flying Fijians del Pacifico. La loro storia racconta quel che sta s
È successo tutto ad aprile, il lunedì di Pasqua. In un raduno preolimpico di cinque giorni fissato dal ct Gareth Baber, ex nazionale del Galles che aveva convocato Jerry Tuwai, l’unico reduce di Rio, e tanti debuttanti mai usciti dalle Fiji. Il secondo giorno, l’annuncio shock: il paese è in lockdown, i giocatori non si possono più muovere. Isolati nella capitale Suva, in un ostello cristiano. Con un’Olimpiade da preparare, e l’esigenza di arrangiarsi. Attrezzando una palestra nel garage, aspettando notizie buone che non arriveranno. «Li abbiamo rinchiusi in pratica per cinque mesi» spiega ora Baber. «I ragazzi sono venuti il lunedì pensando che sarebbero tornati a casa il venerdì, ma da allora non hanno più visto le famiglie».
I cinque giorni sono diventati dodici settimane, e l’arte dell’allenare di Baber è diventata presto psicologia. Calmando padri di bambini piccolissimi. «Questa medaglia è per mio figlio che ha un anno, non sono nemmeno riuscito a salutarlo quando me ne sono andato» piange Asaeli Tuivuaka. Lo stesso Tuwai, il veterano, voleva scappare per rivedere i tre figli, convinto a restare dall’allenatore.
I ragazzi delle Fiji sono riusciti finalmente a muoversi a fine giugno, per un torneo di preparazione in Australia. Per i più giovani, il primo viaggio in aereo della vita. Ma niente in confronto al volo per Tokyo. Il blocco del traffico aereo ha risvegliato l’arte di arrangiarsi. Ecco così la nazionale campione a Rio salire su un cargo con un carico speciale: rugbisti e casse di pesce congelato.
Sarà stato anche scomodo, ma certo il viaggio non le ha impedito di battere tutti fino alla finale con la Nuova Zelanda. Abbandonandosi a un canto che ha riempito il Tokyo Stadium vuoto: “Dio è amorevole e mentre noi ci allontaniamo da ciò che lui si aspetta da noi, lui ci ama ancora e ci dona cose buone”. Adesso comincia l’ultima parte dell’odissea: la quarantena che farà salire a venti le settimane di lontananza dalle famiglie. Poi, finalmente, torneranno genitori.
Ma da Italiano perchè pur pensando globale non perdo le miei origini cioè chi sono e da dove vengo concordo riporto quanto dice repubblica del 6\82021
TOKYO - Da dove arrivano davvero, tutte queste medaglie? Da quali palestre, piscine, campetti? Da quante macchine dei nonni, delle mamme e dei papà sono saltati fuori questi campioni quand'erano bambini, tirando giù il sedile davanti per scendere meglio con il borsone e tutto? Da quale Italia? E siamo sicuri di conoscerla davvero, l'Italia del nostro sport diffuso e vittorioso? Ne abbiamo percezione, oltre che memoria?
Perché noi siamo l'Italia che non fa ginnastica a scuola, e siamo anche l'Italia che vince più di sempre nella sua storia sportiva che pure è gigantesca, tesa come un arco da Livio Berruti a Luigi Busà. Un solo luogo, un solo tempo. Siamo l'Italia delle palestre chiuse per Covid e degli ori a pioggia, medaglie in tutti gli sport: quelli che si conoscono da sempre, l'atletica, il nuoto, il ciclismo, e quelli dove bisogna imparare e capire bene le regole per seguirli e apprezzarli, il judo, il karate, il sollevamento pesi. Siamo l'Italia che non ha tanti impianti (di più i rimpianti), e che se li deve un po' inventare. L'Italia delle palestre a Scampia, a Settimo Torinese, a Jesi, a Isernia, ma anche a Roma naturalmente, dove Marcell corre e si allena dentro il tramonto più bello del mondo. Siamo l'Italia delle donne che non erano mai salite sul podio, oppure neanche mai erano andate ai Giochi (il Molise), e siamo l'Italia che in una manciata di minuti si prende i 100 metri maschili e il salto in alto. Siamo proprio tante cose, siamo una montagna di contraddizioni e fatica. E siamo grandiosi.
Queste sono le medaglie dei dirigenti delle piccole società sportive che girano con le chiavi della palestra in tasca, mazzi grandi così che sfondano le giacche e i paltò, la sera quando è buio c'è sempre uno che chiude prima di andare a casa. Le macchine parcheggiate fuori dalla piscina con la neve sui vetri, e il motore acceso per non congelare aspettando che il ragazzo finisca di cambiarsi, dài che mamma avrà già buttato la pasta. I campetti sterrati, senza un filo d'erba, nel fuoco d'agosto. Sono le medaglie dello sport di base, dell'associazionismo, degli enti di promozione, delle tavolate per la pizza dopo la partita di pallavolo il sabato pomeriggio, e c'è sempre una mamma che va a comprare il gelato per le ragazze. Poi si mangia appoggiati al muretto, ridendo. Le ragazze si riempiono di baci, non smettono mai di abbracciarsi quando si salutano, come se dovessero rivedersi tra vent'anni e non domattina.
Quante Italie diverse, dentro una sola Italia. E basta gelosie, per una volta. Un calciatore molto importante della Nazionale campione d'Europa, oggi ci ha mandato un WhatsApp. Diceva: "I ragazzi di Tokyo ci stanno facendo emozionare tanto! Finalmente si è capito che esiste soltanto una squadra azzurra". Voleva dire, il nostro amico, che non è più "calcio contro tutti" oppure, qualche volta alle Olimpiadi tra gli atleti del villaggio è pur successo, "tutti contro il calcio". Perché le medaglie, ragazzi, sono tutte uguali. Quelle placcate oro dell'"estate ragazzi" nei quartieri, e quelle degli azzurri a Wembley oppure a Tokyo. Perché dentro le medaglie, anche quelle perse, soprattutto dentro quelle, ci sono storie e c'è tantissima vita. La nostra vita migliore, quella spesa per far fare sport ai nostri figli e ai nostri nipoti, le ore trascorse ad ammirarne la commovente bellezza mentre si allenano, il rumore delle loro scarpette da ginnastica sul parquet, il pallone che rimbalza contro la vetrata e ancora un po' la scassa, che paura, anche nonna si è messa a tremare.
Perché lo sport è una cosa grande, una cosa enorme. E ci dice cose, di noi, che non sappiamo. In questi incredibili giorni giapponesi, nei Giochi che resteranno per sempre perché sono quelli del mondo che rinasce, abbiamo capito di non essere i soliti italiani che fanno fatica per niente, e che vedono andare avanti nella vita solo i furbi o i raccomandati. Lo sport azzurro, azzurro è davvero: come un cielo d'estate in quel sud che è ormai una nostra miniera, la Puglia da sola ha vinto più medaglie di nazioni intere.
Le medaglie si contano, ma soprattutto si pesano. E questa gran massa di metallo lucente vale tonnellate di tempo, di fatica, di sacrificio, di talento e di fortuna. Perché tutto serve nelle vita, quando riusciamo a farlo servire e quando non ne diventiamo servi.
o non lo sfruttiamo a livello politico per nascondere le nostre maggne e leggi porcate come evidenzia la vignetta riporta a sinistra de ilfattoquotidiano del 8\8\2021.
Ma soprattutto
La provincia italiana serbatoio di medaglie dove mancano palestre e piscine dal nostro inviato Maurizio Crosetti
Abraham Conyedo, da lui la medaglia azzurra n.39 (ansa)
È l'Italia delle molte Italie ad aver dato i natali ad alcuni nostri campioni: luoghi invisibili ma di enorme sostanza. La mappa di questo successo ci dice che qui da noi si può lavorare bene ovunque, ma che quasi dappertutto servono miracoli per riuscirci
TOKYO. Se questi Giochi Olimpici riscrivono la storia dello sport italiano, il loro segno è profondo anche sulla geografia. La mappa del tesoro, cioè delle nostre
39 strabilianti medaglie, tocca lembi da telequiz: chi saprebbe collocare sulla famosa "cartina muta" delle superiori posti come Mesagne, Cittiglio o Casalmaggiore? E chi ha mai sentito nominare Grumo Appula o Gravedona ed Uniti? Eppure sono tanti piccoli cuori d'Italia, l'Italia delle molte Italie, ad aver dato i natali ad alcuni nostri campioni. Luoghi invisibili ma di enorme sostanza, non solo pagine della garzantina. Soltanto quattro romani portano al collo una medaglia, cinque se vogliamo contare anche
Abraham Conyedo che è nato a Santa Clara, Cuba, ma ora vive a Ostia.
Tra le grandi città, la più medagliata è Napoli (4), mentre Catania sta sul podio insieme a Milano (3). La piemontese Verbania batte Torino 2-1. Soltanto una medaglia per Genova e Firenze. Le metropoli sono diventate provincia, e la provincia è capitale. C'è tantissimo Sud nel nuovo panorama dello sport italiano, che ci racconta un'evidenza che avevamo dimenticato ben oltre Pasolini: l'Italia è provinciale,
nel senso più alto del termine. Chissà perché da noi lo si usa quasi sempre in maniera riduttiva. Ma come, vince il meridione dove non ci sono palestre e piscine? Sì, è così. Forse invece ci sono ma stanno nascoste, oppure sono poche ma producono molto, sono terreni ad alta intensità di raccolto. Le storie degli azzurri raccontano di lunghi viaggi per trovare un campo d'allenamento o una società sportiva, chilometri macinati dai genitori sulle strade statali e provinciali: riecco l'aggettivo e di nuovo in senso virtuoso, perché le strade provinciali sono la rete capillare nel sistema circolatorio del nostro paese, servono a collegare, uniscono anche se bisogna scollinare un po'. La provincia che una città-mondo come Tokyo, megalopoli per eccellenza, consegna adesso all'Italia è comunque ben distribuita. Ci sono tanta Lombardia, tanto Veneto e Toscana, dunque l'Italia più ricca, ma c'è anche la clamorosa Puglia che se fosse una nazione (lo è? Chiediamo a Checco Zalone?) nel medagliere starebbe davanti a decine di stati.
La carta geografica azzurra non isola nessuno, non la Sardegna, non la Sicilia, non il Belice o il Friuli di lontani terremoti. In Giappone abbiamo avuto la prima molisana della storia con una medaglia, Maria Centracchio da Isernia, e ancora non si è spento l'urlo di
Gigi Busà, "il gorilla di Avola". Il primo oro, che è un po' come il primo amore, se l'era preso Vito dell'Aquila da Mesagne, Brindisi, città che aveva già dato a Olimpia Carlo Molfetta, oro di Londra. Vieni a ballare in Puglia, canterebbe Caparezza, e poi parti da lì per conquistare il mondo. La mappa degli allenatori è pressoché identica a quella degli atleti, non è sbilanciata verso le grandi città e non parla soltanto con gli accenti del nord. Ci dice che in Italia si può lavorare bene ovunque, ma che dappertutto servono miracoli per riuscirci. Dopo un anno e mezzo senza sport, con centinaia di società fallite o a forte rischio di esserlo, con gli impianti chiusi e le rette dei privati cancellate, la sopravvivenza quotidiana è diventata gloria olimpica. Nessuno lo prevedeva, neppure il Coni. Vi ricordate quando, nelle prime terribili settimane del lockdown, si gridava all'untore quando passava un povero runner? Qualcuno aveva deciso che i corridori, respirando forte e senza mascherina, potessero diffondere il Covid. Era una fesseria, naturalmente, ma gli atleti hanno dovuto sentire pure questa. Dove molti di loro andassero di buon passo, adesso lo sappiamo. Stavano correndo in Giappone a prendersi una medaglia.
P.s 1