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25.7.23

Il talento, il cancro, il gol. Con Linda Caicedo i Mondiali di calcio trovano la loro star

Un gol all'esordio al Campionato del mondo in Australia. A 18 anni, l'attaccante colombiana del Real Madrid è una figura ispiratrice dentro e fuori dal campo. A 15 anni la diagnosi di tumore alle ovaie, da cui è uscita con un'altra consapevolezza del gioco e della vita 

da https://www.huffingtonpost.it/    del  25 Luglio 2023 alle 10:55 

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Un sorriso contagioso, un talento che l’ha portata a diventare, a soli 18 anni, una delle giocatrici più promettenti del calcio femminile. Ma Linda Caicedo, l’attaccante colombiana del Real Madrid che ha segnato il suo primo gol ai Mondiali femminili, è una figura ispiratrice dentro e fuori dal campo. Quando aveva 15 anni, le è stato diagnosticato un tumore alle ovaie, un’esperienza che ha segnato profondamente il suo percorso di crescita soprattutto a livello psicologico. “All'epoca, non pensavo di poter giocare di nuovo professionalmente a causa di tutti i trattamenti e gli interventi chirurgici che ho dovuto affrontare. Mentalmente, è stato un momento molto difficile della mia vita”, ha raccontato al debutto sul palcoscenico più importante del calcio femminile, quello della FIFA. “Sarò per sempre grata che sia successo quando ero molto giovane. Sono riuscita a riprendermi, ho avuto il sostegno della mia famiglia e ora mi sento molto bene. Quello che è successo mi ha fatto crescere. Mi sento grata e felice di essere qui".

media_altQuesta felicità per il semplice fatto di esserci è qualcosa che traspare vedendola correre sul campo, con una velocità e un gioco di gambe in grado di sbaragliare le avversarie. È successo anche oggi al Sydney Football Stadium, quando ha regalato alla sua squadra, la nazionale colombiana, il secondo gol della vittoria contro la Corea del Sud, facendo impazzire letteralmente di gioia i tifosi. Il gol di Caicedo è arrivato al termine di una corsa sfrenata da centrocampo, che l'ha vista tagliare dalla sinistra prima di calciare dal limite dell'area.Nata a Candelaria, nel Dipartimento colombiano di Valle del Cauca, il 22 febbraio 2005, Caicedo ha iniziato a giocare a calcio all'età di cinque anni, prima in una squadra maschile, poi con le ragazze. Nessuno nella sua famiglia praticava questo sport. L’amore per il pallone è stato qualcosa di istintivo: sapeva di essere nata per giocare, e per giocare in attacco. Quando aveva 11 anni, ha iniziato come attaccante all’Atlas, la scuola sportiva dell'ex giocatrice della nazionale colombiana Carolina Pineda. È stato lì che Melissa Ortiz, che è andata alle Olimpiadi del 2012 con la Colombia, l'ha vista giocare per la prima volta. "Aveva tipo 14 anni", ha detto Ortiz a GOAL. “Ho detto a quello che è oggi il suo agente: ‘devi metterla sotto contratto!', e alla fine lo ha fatto. Ricordo solo di aver pensato: 'Sarà la prossima grande novità'".Così è stato. I prossimi passi di Caicedo la vedono rappresentare la sua regione nei tornei, poi le nazionali giovanili, prima di trasferirsi all'América de Cali all'età di 14 anni. Anche se troppo giovane per giocare nella Copa Libertadores, debutta nella competizione due anni dopo per i rivali del club, il Deportivo Cali. Caicedo ha fatto il passaggio all'inizio del 2020 e avrebbe avuto un altro titolo di campionato a suo nome nella sua seconda stagione.Grazie alle sue qualità Caicedo, ancora giovanissima, inizia a essere convocata dalla Federcalcio colombiana direttamente in nazionale, inserita dal commissario tecnico Nelson Abadía in occasione della doppia amichevole con l'Argentina del 9 e 12 novembre 2019. In seguito Abadía continua a concederle fiducia, convocandola più volte in amichevole tra il 2020 e il 2021. L'anno successivo viene scelta tra le 23 giocatrici che affrontano la Copa América Femenina 2022. Durante il torneo Caicedo si mette in luce, siglando due reti, tra le quali quella che permette di superare di misura l'Argentina in semifinale facendo accedere così la sua nazionale alla finale del torneo per la terza volta nella sua storia sportiva, qualificandosi per il torneo di calcio femminile all'olimpiade di Parigi 2024 e ricevendo il premio come migliore giocatrice.Dal febbraio di quest’anno giocare per il Real Madrid. Nonostante l'imponente eredità della squadra spagnola, Caicedo non è stata intimidita dal cambiamento e afferma di non aver avuto problemi ad adattarsi al modo spagnolo di giocare a calcio. “Sento di aver fatto bene nel breve periodo in cui sono stata in Spagna. Trasferirsi nel Paese non è stato un grande shock culturale ", ha detto in un'intervista a Claro Sports. Dall'esordio a Madrid, Caicedo ha giocato 10 partite, segnato 2 gol e fornito 4 assist. Il suo profilo Instagram è una collezione di giocate e di sorrisi, una finestra aperta sul mondo di una 18enne che di talento e grinta ne ha da vendere.

7.6.23

Quelle "signorine per bene che giocavano a calcio" e sfidarono il duce: la prima squadra di football femminile



da  https://cultura.tiscali.it/storie/articoli/


Nasceva novant'anni fa a Milano. Libri, articoli e uno spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che sta girando l'Italia raccontano la vicenda del Gruppo Femminile Calcistico milanese

                                     di    Francesca Mulas


“Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnasstico lo sport del calcio”. Così la giovane milanese Losanna Stringaro difendeva novant'anni fa, sulle pagine del quotidiano Il Littorio, il suo Gruppo Femminile Calciatrici, la prima squadra di calcio femminile nata in Italia. L'esperimento, come lo chiamarono le stesse fondatrici, durò poco meno di un anno ma rivoluzionò per sempre la visione dello sport italiano e fu una preziosa prova di coraggio e libertà nel tempo in cui il fascismo imponeva la sua visione autoritaria e oppressiva sulle donne.





La storia, ancora poco nota, è stata ben raccontata dalla giornalista Federica Seneghini che tre anni fa ha dato alle stampe per le edizioni Solferino "Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce", un saggio che ripercorre la vicenda di Rosetta, Giovanna, Marta, Elena e le altre donne coraggiose che, appassionate di calcio, scelsero di dare vita a una squadra tutta al femminile sfidando i pregiudizi e gli stereotipi che volevano le donne chiuse in casa mentre gli uomini si occupavano di politica, cultura, lavoro e sport.

 Oggi quello stesso incredibile coraggio è al centro di "Le fuorigioco", spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che racconta la storia del GFC, il Gruppo Femminile Calcistico milanese nato tra il 1932 e il 1933; lo spettacolo, che da mesi sta girando il Paese, andrà in scena il prossimo 23 giugno a Sestu, provincia di Cagliari, per il festival “Storie di donne, donne e la storia”.



                                 L'attore Michele Vargiu nello spettacolo "Le fuorigioco"

Era l'autunno del 1932 quando un gruppo di ragazze fondò la squadra per sole donne. Nonostante allora questo sport fosse roba da uomini, le intenzioni delle giovani erano serissime: crearono un programma con regole ben precise e lo inviarono a tutti i giornali perché lo pubblicassero, con l'obiettivo di cercare altre donne interessate a entrare in squadra. Il gioco era diverso da quello maschile: le partite erano divise in due tempi da 15 minuti l'uno, si calciava rasoterra e il pallone era "poco più grande di una palla di gomma, di quelle con cui giocano i bambini". Insieme alla nota stampa le "tifosine", come loro stesse si chiamavano, allegarono anche una foto di gruppo realizzata in uno studio fotografico.
Il 26 marzo 1933, davanti a un pubblico di parenti e amiche, ci fu il primo allenamento della squadra, mentre a fine maggio il giornale "Il Calcio Illustrato", l'unico che prese sul serio l'idea e diede spazio alle notizie del GFC, dedicò un'ampio spazio a interviste, commenti, opinioni intitolato "Un'ora con le calciatrici milanesi". Il giornalista notò un gioco piuttosto lento, scarsa abilità e parecchia inesperienza, tuttavia il suo era un punto di vista finalmente serio a fronte di tanti commentatori sarcastici, e sottolineava "poca agilità in corsa, cadute che erano dei crolli, assenza di dribbling, abuso del colpo di punta al pallone, pochissimi i colpi di testa e gli shoots" nel gioco delle ragazze, come riporta lo studioso Marco Giani nell'articolo "'Amo moltissimo il giuoco del calcio'. Storia e retorica del primo esperimento di calcio femminile in Italia" pubblicato nella rivista La Camera Blu del 2017. "Costituiamo una famiglia sempre in aumento, ci vogliamo bene, e continueremo", così Losanna Stringaro al giornalista de Il Calcio illustrato.



Arrivava nel frattempo l'autorizzazione al gioco da parte di Leandro Arpinati, che in quei mesi presiedeva il Coni e la Figc, a patto però che le ragazze giocassero a porte chiuse; le calciatrici furono costrette a chiedere un certificato medico a Nicola Pende, direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova, allora considerato tra i medici più autorevoli dal fascismo, che diede il suo consenso: "Io credo che dal lato medico - scrisse - nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile. Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto e con moderazione!".
Conquistato il sì dalle autorità politiche e sanitarie, non restava alle ragazze che giocare: la prima partita ufficiale si disputò l'11 giugno 1933 nel campo milanese Paolo Filzi tra le milanesi "G.S. Ambrosiano" e il "G.S, Cinzano" che conquistò la vittoria con una rete a zero su gol di Mina Bolzoni; sugli spalti, un migliaio di persone. Pochi mesi dopo Leandro Arpinati lasciò la presidenza del Coni e il suo posto venne occupato da Achille Starace, gerarca fascista e uomo meno incline alle sperimentazioni rispetto al suo predecessore, che impose la fine del Gfc suggerendo altri sport "più consoni" al genere femminile.
L'esperienza di Elena Cappella, la più piccola della squadra ad appena 14 anni, Giovanna, Gina, Rosetta e Marta Boccalini, Losanna Stringaro, Brunilde Amodeo, Maria Lucchese e le altre giovani coraggiose si concluse così. Se le partite erano terminate restava invece eterno l'esempio del gruppo di coraggiose che scelsero di rompere gli stereotipi e mostrare al Paese che le donne potevano liberarsi dal ruolo di angeli del focolare e cercare divertimento e libertà in un campo sportivo. A queste donne pochi anni fa il Comune di Milano ha intitolato una strada nella zona di Parco Sempione.

3.4.22

UN CALCIO AI TALEBANI A Firenze, le calciatrici afghane., pagani non ripete raddoppia i gemellini del violino

 

UN CALCIO AI TALEBANI A Firenze, le calciatrici afghane

«Per noi giocare è come respirare». Ma a loro era proibito. Qui raccontano che cosa ha significato lasciare il Paese, i trofei vinti e soprattutto i parenti. E perché due scarpette o una bici sono oro

Alle 7 di sera di un martedì di marzo, Maryam, Susan e Fatima − nello spogliatoio femminile del circolo sportivo Impruneta-Tavarnuzze − indossano le loro preziose scarpe da calcio. Preziose, esatto. È grazie a quelle che sono arrivate in Italia da Herat, Afghanistan. Era il 27 agosto 2021. E ora nello spogliatorio ridono con grazia, si svestono velocemente di pantaloni e maglie e indossano la tuta del loro club Lebowski, mostrando gambe forti. Prima di scappare dai ta

lebani e da un’altra guerra giocavano a livello agonistico.

Chiedono se sia possibile parlare in dari, la loro lingua, per spiegare che cosa hanno dentro. Certo non può servire l’italiano, stentato. L’inglese va meglio, d’altra parte sia Maryam che Susan erano iscritte a Letteratura inglese. Maryam e Susan non portano il velo. Fatima, che porta un cappellino che la fa apparire una rapper, invece lo indossa per questioni religiose, mentre quando fa sport usa lo «sport hijab». «Sotto, ho i capelli lunghi e ricci», racconta. Fatima era considerata l’astro nascente del calcio e si vede da ogni suo movimento che è una ragazza che sogna in grande. È attaccante. Maryam gioca in difesa, Susan è centrocampista.

Al Paese facevano parte del Bastan Football Club.

Il loro racconto del passato è praticamente identico. Maryam: «I miei genitori mi hanno sempre supportato, invece i parenti scuotevano la testa: “Una brava ragazza non fa sport”. Poi sono arrivati i talebani e mio cognato ha deciso di passare con loro, ci ha additato: “Guardate che queste ragazze giocano a calcio”. È diventato tutto pericoloso». Susan: «Ho iniziato a 15 anni, non c’erano problemi. Quando sono diventata grande mi hanno detto “smettila”, soprattutto mio fratello. Mio padre non l’ha ascoltato, mi ha sempre fiancheggiato, è un eroe». L’eroe, chemostra orgogliosa sul cellulare, è un signore dall’aria pacifica, con giacchina trapuntata e bicicletta. Susan, quando il padre andava a insegnare, prendeva la sua bici e la provava in cortile, lì dove quasi tutto era proibito. Tant’è che l’avere qui, in Italia, una bici, è per lei una grande gioia. Fatima ricorda invece il caldo: «Giocavamo a mezzogiorno, quando potevamo». E poi l’addio all’Afghanistan: «Ho portato solo i vestiti, nessun trofeo», dice lei che ha vinto 3 golden Boots, 2 coppe come miglior giocatrice, 10 medaglie d’oro, 4 d’argento e 2 di bronzo. «Sarebbe stato troppo pericoloso se avessero aperto i bagagli». Per tutte e tre il calcio è la vita, l’aria che respirano.

La presa di Kabul è del 15 agosto e da lì si parte. Il racconto di Anna Meli della onlus Cospe sulla loro fuga è dettagliato: «Il 13 le ragazze avevano già contattato il giornalista Stefano Liberti per un aiuto. Dal 24 al 26 agosto

La famiglia ci ha sempre supportato, erano gli altri a storcere il naso; poi sono arrivati loro ed è diventano tutto molto pericoloso

abbiamo cercato di far partire 60 persone, 42 ce l’hanno fatta, le guidavamo via WhatsApp dall’Italia. Per rendersi riconoscibili ai militari italiani tutti avevano un fazzoletto bianco al polso e nelle vicinanze dell’Abbey Gate, la via d’ingresso all’aeroporto, dovevano gridare “Tuscania”, il nome del contingente di stanza lì». Tra quelle 42 persone c’erano Maryam, Susan, Fatima e l’allenatore Najibullah Nawrozi. E ora l’allenatore, fisico compatto simile a un masso che resiste alle intemperie, se ne sta a bordo campo a guardare le sue ragazze, con quegli occhi chiari afghani così ben raccontati dal fotografo Steve McCurry.

Della loro terra Susan dice in inglese: « I miss my family» , mi manca la mia famiglia, e poi «le nipoti, l’università », mentre Maryam, che offre samosé e che ha imparato a cucinare in Toscana, non in Afghanistan eh, sospira: «Ho nostalgia di tutto: la casa, le nuvole, l’università».

Di Firenze che non sapevano così famosa, Susan ama le pescaie sull’Arno, Maryam paragona la strada di San Domenico, verso Fiesole dove abita, alla Bam di Herat, una strada in mezzo al nulla che mostra in un video sul cellulare e le si illuminano gli occhi. Dell’Italia sapevano poco, sapevano di più dell’Arsenal e di Messi, e qualcosa pure di Sara Gama, la nostra calciatrice della Nazionale vista su Instagram. Susan indossa una maglietta con su scritto «I buoni vanno in paradiso io sono cattivo vado dappertutto», e quando scopre che significa scoppia a ridere. Lei è fortunata perché è qui con gran parte della famiglia, compreso il padre eroe. La famiglia di Maryam sta a Kabul, vive nascosta perché «la figlia giocava a calcio e ha lasciato l’Afghanistan con gli occidentali». Quando si sentono, uno degli argomenti principali è la visa, il visto di ingresso (visa e ancora visa, fa capire Maryam) per il Pakistan. Città di destinazione Quetta, vicina al confine. Sperano di raggiungere la figlia in Italia.

Maryam, Susan e Fatima sono solo ragazze. E così nello stadio a un certo punto si guardano e ridono ascoltando «Con le mani, con le mani, ciao ciao». Il ritornello è casuale, ma è impossibile non pensare ai talebani.



I GEMELLI DEL VIOLINO Da grandi vogliamo solo farvi felici

Suonando Viva la vida in un video, Mirko e Valerio hanno conquistato l’America, prima grazie a Chris Martin e poi a Ellen DeGeneres. «Non ci montiamo la testa: per noi il massimo sono lamusica e una pizza con gli amici»

Questa è la favola di due gemelli violinisti di 14 anni di Agrigento che, dopo aver girato un video nella loro cameretta, hanno

conquistato gli Stati Uniti e sono stati invitati nel famoso talk show di EllenDeGeneres. Ora hanno pubblicato il loro primo album, The violin twins. Mirko e Valerio Lucia sono identici, vestono pure allo stesso modo. Ci hanno fatto entrare in casa, li abbiamo fotografati là dove tutto è iniziato, e nel loro posto del cuore: la Scala dei Turchi. «E pensare che papà quel video non lo voleva neanche fare, è stata mamma che si è intestardita», dicono.

Il video è quello in cui suonavate Viva la vida dei Coldplay, nel marzo del 2020, con milioni di visualizzazioni sui social.

«Tutto è nato per gioco, per dare speranza alle persone in unmomento difficile. Mai ci saremmo aspettati che potesse fare il giro del mondo».

Poi, la svolta.

«Unmattino ci ha svegliato un’amica di famiglia per dirci che il video era stato condiviso nella pagina di ChrisMartin. Saltavamo come canguri per l’emozione. Subito dopo è arrivata unamail, Chris Martin voleva conoscerci».

Com’è andata?

«Ci siamo incontrati su Zoom. Lui ha capito che eravamo tesi e ha iniziato a farci domande semplici, del tipo come va la scuola, che sport fate. E poi come se nulla fosse ci ha chiesto di suonare Viva la vida con lui in un live sui social».

Poi vi ha cercato Ellen DeGeneres.

«Ci ha chiamato subito, ma non potevamo spostarci per via della pandemia. Appena hanno aperto le frontiere, ci siamo fiondati a Los Angeles, con mamma e papà».

Primo impatto?

«Ci è venuto a prendere John, il driver personale. In quel van aveva portato Brad Pitt, Penelope Cruz, Jennifer Lopez e... Mirko e Valerio!».

E dopo?

«Arriviamo ai Warner Studios, una città piena di studi televisivi. Abbiamo abbracciato Ellen, ci siamo seduti e ci siamo tranquillizzati. Ci ha regalato due violini meravigliosi».

Quando avete iniziato a suonare?

«Siamo cresciuti con lamusica grazie a papà che suona di tutto. Nel suo studio c’era un violino attaccato al muro. A 8 anni abbiamo iniziato a suonarlo, un colpo di fulmine».

Com’è la vostra giornata tipo?

«Ci dividiamo tra la scuola, l’istituto tecnico turistico, e il conservatorio. Suoniamo il violino tre ore al giorno. Egiochiamo a calcio. Il sabato sera usciamo con gli amici».

C’è il rischio che vi montiate la testa?

«I nostri genitori ci tengono con i piedi a terra».

Avete successo con le ragazze?

«Abbiamo tante amiche, ma nessuna fidanzata».

Il lato oscuro di essere artisti già noti?

«Stiamo meno con gli amici. Nella vita devi prendere una decisione: o segui la tua passione o pensi solo a uscire, ma poi non costruisci nulla».

Siete dipendenti dai social?

«Preferiamo uscire in bici. Tanti nostri coetanei passano 10 ore davanti al telefono. A noi basta un’ora, poi ci stufiamo».

A 14 anni avete conosciuto una pandemia e ora la guerra.

«Stare chiusi in casa ci è costato, ci ha salvato la musica. Questa guerra è ingiusta, il popolo non la vuole, né i russi né gli ucraini. Ma non abbiamo perso l’ottimismo e la gioia di vivere».

Cosa volete fare da grandi? «Suonare nei più grandi teatri del mondo e rendere felici le persone».

9.4.21

La bambina con biberon e pallone

  ho letto     questa   storia bella  e  toccante   sulla newsletters   di https://www.mariocalabresi.com/    da  cui  ho ripreso foto ed  articolo  eccetto   lo screen short  istangram  preso dal blog   consigliato \  citato nell'articolo   

  Joanna Borella è la “Dad del calcio”. Conosciuta nel quartiere di NoLo, a Milano, come Mr Jo, grazie alla sua associazione “Bimbe nel pallone” insegna a fare gol alle bambine e alle ragazze, ma anche alle donne adulte. Colpita dal lockdown, si è inventata allenamenti e sfide in video, utilizzando quegli escamotage che da bambini abbiamo provato un po’ tutti. E cioè: una palla di carta come pallone, due bottiglie come pali, i rotoli di scottex come avversari da dribblare. Piena di energia, ha usato il calcio come un filo per non perdersi. Perché la vita di Joanna è segnata dalla tenacia e dal pallone fin da bambina.

Joanna Borella è la fondatrice dell’associazione “Bimbe nel pallone”, scuola di calcio al femminile del quartiere NoLo di Milano

Nata in India, arriva in Italia nel 1967: la sua è la prima adozione internazionale nel nostro Paese – grazie alla sua vicenda è nato il Cai, il Centro Adozioni Internazionali. «Avevo un anno e mezzo, ero piccolina piccolina, quindi non mi ricordo un tubo. E così sono sempre stata convinta di essere uscita dalla pancia della mia mamma italiana. Tante volte non mi rendevo nemmeno conto del colore diverso della mia pelle». Joanna si ritiene una “ragazza” doppiamente fortunata: «Il mio primo vero colpo di fortuna è stato che i miei genitori naturali in India non mi hanno abbandonato in mezzo alla strada, ma hanno avuto il cuore di andare in un orfanotrofio. E quindi mi han dato la prima possibilità di vivere. Il secondo colpo di fortuna me lo sono cercata io! Da quel che mi raccontano da piccolina dicevo “mamma”. Non mama, mom, momy in inglese ma mamma, in italiano quasi, come poteva dirlo una bambina piccolina di 15 mesi. Era però come un segno: è come se avessi alzato una bandierina: “Fatemi partire per l’Italia”. E così mi hanno portato qui».

Joanna mostra la maglietta con stampato il soprannome che la contraddistingue nel quartiere: “Mr Jo”

Joanna viene adottata dai Borella, famiglia milanese, zona Porta Romana: mamma, papà e due fratelli maschi, cui si aggiungerà una sorella, Cristiana, adottata da Bologna. Joanna è una bambina piccola che ancora non cammina ma che scopre ben presto un oggetto meraviglioso: «A una settimana dal mio arrivo gattonavo dietro al pallone e ai miei fratelli. Ho iniziato prima a giocare a calcio quasi che a camminare. Ovunque andavo, avevo sempre con me un pallone, un biberon e un pezzettino di pane». «Alle elementari, appena suonava la campanella, correvo fuori nel corridoio con una palla di carta e scotch. Le insegnanti dicevano: “Ma l’è un maschio o una bambina?” e la mia super maestra rispondeva: “No, quel lì l’è la Giovannina, che l’è minga nurmal quel lì. Gioca semper al balun. L’è un maschiaccio”. Giocavo, giocavo, giocavo sempre. In casa nostra veniva spesso il vetraio, avevamo sempre i vetri rotti… Le prime volte chiedeva alla custode dove dovesse andare, alla fine era la custode a dire: “Borella? Sì, vada vada”».

Joanna mentre gioca a calcio, passione che ha coltivato sin da piccolissima

La passione di Joanna per il calcio non si spegne, tanto che continua a giocare: «L’unica cosa che mi ha sempre dato fastidio era a volte di dover dimostrare di saper fare molto di più di un maschio». Nel frattempo inizia a lavorare come babysitter, insegnando spesso ai bambini che accudisce a giocare a calcio. Ad un certo punto le due passioni si sono unite: «Ho frequentato la scuola per gli allenatori di calcio e un corso per educatori sportivi, e nel 2015 ho aperto “Bimbe nel pallone” associazione sportiva dilettantistica, una scuola di calcio divertente, flessibile e libera per bambine e ragazze dai quattro agli 11 anni e dagli 11 ai 18 anni. Non devono essere Maradona, ma devono divertirsi col calcio. E poi ho iniziato anche a fare un corso per le donne e le mamme». Mr Jo allena nelle strutture del quartiere, nell’impianto di via Cambini e al parco Trotter, ma anche all’oratorio di Turro. A causa di un problema di strutture alla Cambini, ha stretto un patto con la Gorlese Calcio. Inoltre quest’anno è entrata a far parte del Patto di Collaborazione del Trotter, per coinvolgere bimbe e bimbi in giochi e attività utilizzando l’ex piscina del parco, recentemente rimessa a nuovo e inaugurata come campo sportivo. Appena tutto questo si potrà di nuovo fare dal vivo, ovviamente. Perché adesso è tutto fermo, restano solo gli allenamenti via Web.

Joanna mentre allena le sue ragazze della scuola di calcio. Mr Jo è nata in India e nel 1967 è arrivata in Italia, dov’è stata adottata a un anno e mezzo 

«Da bambina adoravo quando, a fine estate, prima di settembre, ci sedevamo al tavolo tutti quanti per leggere con il librettino di Milanosport, per cercare lo sport che avresti fatto tutta la stagione. Sfogliavo, sfogliavo, sfogliavo e non trovavo mai calcio femminile. Il mio obiettivo è che le bambine oggi possano scegliere anche il calcio. Ma in generale le donne, le ragazze, le mamme. Mi

piace pensare a certe situazioni famigliari: è l’ora di cena, i bambini strillano, ma la mamma prende su il suo zainetto e dice: “Ciao belli, io vado a giocare a calcio!”. Non è solo il papà che può svagarsi, ma anche la mamma. E anche lei può farlo con il calcio».


Stefania Carini e i suoi il  suo blog   “Effetti Personali” 

La storia di Joanna Borella l’ho scoperta su “Effetti Personali”, un progetto giornalistico di Stefania Carini, realizzato grazie all’European Journalism Covid-19 Support Fund. Attraverso voci, foto, video, Carini raccoglie il vissuto di alcuni suoi vicini di quartiere, quel NoLo di cui si è tanto parlato a Milano. Ogni intervistato si racconta attraverso il suo “effetto personale”, un oggetto che ha segnato questo suo anno di pandemia, e allo stesso tempo mette in luce la sua visione del quartiere e di Milano, un modo anche per indagare l’idea di “città in 15 minuti” che oggi sta prendendo sempre più piede.

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Stefania Carini è giornalista e saggista. Negli anni ha scritto per “Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “Il Foglio”, “Europa”. Per la tv ha realizzato speciali e documentari per Sky, Rai, Mediaset tra cui “TeleVisori”, “Galassia Nerd”, “L’Italia di Carlo Vanzina”. Il suo ultimo libro è “Ogni canzone mi parla di te” (Sperling&Kupfer, 2018).

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

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