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16.11.25

Diario di bordo n 154 anno III Onifai A centosei anni si è dovuta recare all’ufficio postale per l’autentificazione di una firma per non perdere il diritto alla pensione ed altre storie burocrazia, integrazione tra culture , forza animale

fonte la nuova sardegna online


A 106 anni all’ufficio postale solo per autenticare una firma per  la  pensione .Il sindaco: «La nostra nonnina costretta a spostarsi nonostante le difficoltà»


La nonnina di Onifai Luisa Monne con il sindaco Luca Monne


Onifai 
centosei anni si è dovuta recare all’ufficio postale per l’autentificazione di una firma per non perdere il diritto alla pensione. È successo nei giorni scorsi nel piccolo centro della valle del Cedrino. La signora Luisa Manca, alla veneranda età di 106 anni e con comprensibili problemi di deambulazione, si è dovuta spostare seppur per poche centinaia di metri per assolvere a questa incombenza. A comunicarne la notizia il sindaco del paese Luca Monne. «Abbiamo assistito a un episodio che mette in luce come, nonostante le normative e le leggi a tutela delle persone con difficoltà motorie, spesso manchi una reale sensibilità e disponibilità ad applicarle in modo flessibile e umano – spiega il primo cittadino –. La nostra nonnina tzia Luisa con le sue evidenti difficoltà è stata costretta, nonostante tutto, a recarsi presso gli uffici postali per autenticare una firma, pena la sospensione della pensione». Come spiega ancora Monne è «Un compito che in condizioni normali sarebbe stato semplice, ma che in questo caso si è trasformato in una fonte di grande disagio e sconforto per lei e la sua famiglia. Con grande sforzo la signora ultracentenaria, è stata caricata in macchina per essere accompagnata allo sportello dimostrando, come spesso le frenesie burocratiche si scontrino con la realtà delle persone più fragili. Le leggi italiane prevedono norme di tutela per le persone con disabilità ma è evidente che in molti casi sarebbe necessario prevedere delle misure più flessibili e personalizzate – dice ancora il sindaco –. In questi casi, dovrebbe essere possibile usufruire di alternative come la delega, l’autenticazione a domicilio o procedure telematiche che evitino a persone come tzia Luisa di affrontare inutili fatiche e rischi. È fondamentale che le istituzioni, pur rispettando le normative, si mostrino più sensibili, pronte ad adattarsi alle esigenze di chi si trova in condizioni di vulnerabilità. Chiediamo quindi alle autorità e alle Poste Italiane di rivedere le proprie procedure, prevedendo misure di deroga e strumenti di tutela più efficaci, per evitare che episodi come questo si ripetano. La tutela dei diritti e della dignità di tutte le persone, soprattutto le più fragili, deve essere sempre una priorità affinché nessuno si trovi costretto a vivere situazioni di disagio o esclusione a causa di rigidità burocratiche. Questa non è assolutamente una critica nei confronti dell’ufficiale di Poste, che riceve direttive e si attiene alle normative e a tzia Luisa non possiamo che augurare che queste situazioni, se mai dovessero capitare, si verifichino per molti anni ancora». Per completezza d’informazione, occorre precisare che Poste Italiane si è immediatamente scusata per l’accaduto, e a riferirlo è lo stesso sindaco: «Capiamo le difficoltà ma siamo vicini alle persone, soprattutto alla nostra nonnina» conclude Luca Monne.

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 Cento anni di cemento, mattoni e tanto cuore: la storia della famiglia Rasenti

Olbia Cento anni tondi tondi e una città che, per certi versi, è diventata così grande anche grazie a loro. Perché è dal 1925 che i Rasenti ci mettono cuore, cemento, ferro e mattoni. Stessa licenza, stessa linea di sangue. Dal nonno con la bombetta ai nipoti che parlano di materiali da costruzione ecosostenibili. In mezzo c’è un secolo di storia e di vita familiare: Terranova che si trasforma in Olbia, il dopoguerra, il boom del turismo e una città in continua espansione. «Quando nonno Giuseppe aprì la sua attività Olbia era tutta lì, c’era soltanto quello che oggi chiamiamo centro storico» sottolineano i nipoti Pietro e Giuseppe Rasenti. Tutto cominciò in via De Filippi. Poi, molti anni dopo, il trasloco in fondo a viale Aldo Moro.
«In via De Filippi non ci stavamo più. E soprattutto non passavano più i mezzi. Andavano bene i carretti e i camioncini, ma ce lo vedete voi un autotreno passare in quella strada?». Naturalmente no. Olbia è cambiata e in parte sono cambiati anche loro. Ma la missione – un secolo dopo – resta ancora la stessa: vendere materiale edile e, da qualche tempo, anche elementi di arredo. Pure la passione è sempre la stessa, identica a quella che, un secolo fa, spinse Giuseppe Rasenti a creare una attività tutta sua.
La storia La famiglia Rasenti è presente a Olbia dai primi decenni del Settecento. Due secoli più tardi, invece, la svolta imprenditoriale. «Fu nostro nonno a fondare l’impresa, anche se prima ancora, verso la fine dell’Ottocento, i nostri bisnonni aprirono una rivendita di tabacchi in corso Umberto – racconta Pietro –. Per quanto riguarda la nostra attività, tutto cominciò con un deposito di legname. Presto, però, arrivò il materiale da costruzione più classico: mattoni, cemento, ferro. Il deposito si trovava in via De Filippi, nell’area oggi occupata dalla banca. Poi il trasferimento in viale Aldo Moro, era il 1978». Negli anni Sessanta l’impresa passò nelle mani dei figli di Giuseppe: Tonino e Alvaro, conosciutissimi a Olbia. Dagli anni Novanta, invece, opera la terza generazione: Giuseppe e Manlio, figli di Alvaro, e Pietro e Angelica, figli di Tonino. Trasformazioni e passaggi di consegne che hanno contribuito all’espansione di Olbia.
Perché sono centinaia (se non di più) gli edifici della città – ma anche del borgo di Porto Rotondo – che sono stati costruiti con il materiale acquistato dai Rasenti. «Ma naturalmente, negli anni, è cambiato tutto – ricorda Pietro –. Nel dopoguerra, per esempio, gli olbiesi venivano da noi, prendevano il materiale, si costruivano la casa e poi pagavano piano piano. Non c’erano le banche, bastava una stretta di mano. A Olbia ci si conosceva praticamente tutti. Un tempo la manodopera costava molto meno dei materiali. Oggi, invece, accade l’esatto contrario».
Rasenti oggi Dal 2007 la Rasenti materiali da costruzione spa – che festeggia il centenario proprio in queste settimane – fa parte del consorzio BigMat, con oltre mille punti vendita e 577 soci in sette Paesi. L’azienda olbiese – che in viale Aldo Moro conta sia uno showroom che un negozio di materiali – vanta una ventina di dipendenti e un fatturato di circa sei milioni di euro.
Una attività che continua naturalmente a seguire tutte le trasformazioni del mercato e anche dei materiali richiesti per la costruzione. «Sicuramente tante cose sono cambiate dopo la grande crisi del 2008 – ricorda Pietro Rasenti –. Il mercato si è spostato non tanto sulla costruzione del nuovo ma sulla ristrutturazione. È significativa anche l’evoluzione dal punto di vista dell’innovazione dei materiali. Oggi si parla di cappotto, di isolamento, di ecosostenibilità». «Poi, ovviamente, dagli anni Ottanta-Novanta è cambiata anche l’estetica – sottolinea Giuseppe –. Una spinta di questo tipo, a Olbia, è arrivata soprattutto dalla vicina Porto Rotondo e dalla Costa Smeralda. Realtà internazionali che fatto sicuramente la loro parte nel modo di concepire la casa anche in città».


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Senegalesi, cinesi e sassaresi ridipingono la staccionata di corso Vico: "Esempio di vera integrazione"







Sassari Le signore distribuiscono dolcetti, succhi e caffè tipico del Senegal, i ragazzi armeggiano con rulli, pennelli e vernice bianca, i bambini giocano e mangiano. C'era proprio aria di festa, in occasione del progetto "Scuola della comunità" dell'istituto comprensivo San Donato, con il finanziamento della Fondazione di Sardegna, il patrocinio del Comune e la collaborazione di comitato Centro Storico, comunità senegalese e cinese e di cittadini e associazioni come Il Cenacolo. Un'idea semplice, ma efficace: con i materiali acquistati e donati dalla comunità cinese, la comunità senegale si è messa al lavoro per imbiancare la staccionata che costeggia corso Vico. Nelle prossime settimane, artisti e bambini si dedicheranno a riempire di colori e opere la staccionata. "Un messaggio di pace nel viale delle Rimembranze, dove ogni albero rappresenta un caduto in guerra" ricorda il presidente del comitato Centro Storico Giovanni Ruiu. "L'obiettivo è quello di rigenerare questo tratto di corso Vico coinvolgendo chi vive nel centro storico" spiega la dirigente dell'istituto comprensivo Patrizia Mercuri. Una rigenerazione che, nella strategia del Comune, passa anche dal nuovo mercato di corso Vico: "La settimana prossima pubblicheremo la graduatoria definitiva e già da subito potrà partire il mercato, ogni venerdì dalle 8 alle 14". Insieme a Qiu Zhongbiao, rappresentante della comunità cinese, anche Mor Sow, maestro di musica e presidente dell'associazione Amico del Senegal - Batti cinque: "Siamo qui per dimostrare non solo che ci siamo, ma anche la nostra disponibilità a lavorare per rendere più bello il centro storico di Sassari". (a cura di Davide Pinna)


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Crudeltà sugli animali
Olbia, cagnolina trovata senza le zampette posteriori: la storia di Giada, simbolo di resistenza

La Lida: «E’ stata abbandonata in campagna. Ci siamo chiesti come abbia fatto a sopravvivere»





Olbia Si chiama Giada, pesa cinque chili, e quando i volontari della Lida di Olbia l’hanno vista per la prima volta non riuscivano a credere che fosse ancora viva. La cagnolina è stata trovata sola in campagna, con le zampette posteriori amputate, le ossa esposte, costretta a muoversi trascinandosi sui moncherini. Una scena difficile da reggere anche per chi è abituato a intervenire nei casi più estremi.
La sua storia è stata raccontata in un post dalla Lida, che definisce l’immagine di Giada «un grido silenzioso di sofferenza» e allo stesso tempo un esempio di forza: «Ci siamo chiesti come abbia fatto a sopravvivere da sola in quelle condizioni». Nessuno conosce ancora cosa le sia accaduto né da quanto tempo vagasse ferita nella campagna.
A dare l’allarme è stato un volontario, contattato da chi aveva notato la cagnetta spostarsi con evidente difficoltà. «Si muoveva sui moncherini, mostrando una tenacia incredibile», raccontano dal rifugio I Fratelli Minori. Le foto inviate alla Lida, guidata da Cosetta Prontu, hanno gelato i volontari: «Ci siamo sentiti paralizzati dall’impotenza e dalla tristezza, capendo che la sua vita dipendeva da un gesto di umanità».
Il recupero è avvenuto subito. E mercoledì mattina, 12 novembre, Giada è arrivata al rifugio, accolta – scrivono – «con un abbraccio d’infinito amore e premura». Adesso verrà visitata da un chirurgo ortopedico per valutare la possibilità di un intervento che le consenta di iniziare un percorso di recupero. Un cammino che sarà lungo e complesso, fatto di cure, medicazioni e adattamento, ma che la Lida si dice pronta ad affrontare «passo dopo passo».
È l’ennesimo episodio di crudeltà registrato nel territorio. Solo poche settimane fa l’associazione aveva salvato cinque cuccioli chiusi in un sacco di juta, abbandonati in una campagna olbiese e recuperati appena in tempo. Un caso che aveva suscitato forte indignazione e riacceso il dibattito sulla tutela degli animali e sulla necessità di maggiore responsabilità da parte dei proprietari.
Il messaggio della Lida, oggi, è lo stesso: Giada è una sopravvissuta. «Un esempio vivente della forza della vita, una piccola guerriera», la definiscono. Animale «speciale», uno di quelli che molti chiamano «con un angelo custode». L’associazione invita tutti a non restare indifferenti: «Ogni gesto può fare una differenza enorme. Il vostro supporto è un messaggio potente: esistono ancora speranza, compassione e amore incondizionato».
Il rifugio chiede ai cittadini di diffondere la storia della cagnetta e, per chi può, di contribuire alle cure. «Facciamo in modo che senta questo amore in ogni passo verso il suo lieto fine», si legge nel post. «Perché, nonostante tutto, Giada non ha mai smesso di lottare».




28.7.24

DIARIO DI BORDO N 66 ANNO II . rita atria 20 anni dopo ., Diritti «Ero single a 40 anni e ho deciso di fare due figli da sola» ., Sessualità Andreina, imprenditrice del sex tech ., Il caffè del marinaio: storia e ricetta della bevanda nata sui pescherecci marchigiani .,

 

 

   tra  fb e    ed  i portali di   :  bing  \  msn.it  ,  di  mozzilla  firex  fox  . 

Il suo nome era Rita Atria, per Paolo Borsellino era “a picciridda”. Una bambina, di più: come una figlia.
Il papà suo, Rita lo aveva perduto a 11 anni. Un pastore legato alla mafia, ucciso da un sicario. Pur sempre un papà, però.A Rita era rimasto un fratello, Nicola, e poi sua moglie Piera. Le ammazzarono anche lui e Piera, da allora, divenne testimone di giustizia, e Rita insieme a lei. Contro il volere di sua madre, che la ripudiò, e mai più volle vederla.Rita sapeva chi era Paolo Borsellino, anche se piccola si fidava di lui. Si precipitò nel suo ufficio. Io ci sono, e sono con lei, gli disse. Lui le sorrise. Insieme a Piera, fecero arrestare decine di uomini del disonore.Quando, il 19 luglio 1992, Paolo e gli altri Eroi saltarono in aria, Rita capì di esser rimasta ancora orfana. Una settimana più tardi, disperata, si lanciò dal settimo piano del condominio in cui abitava, sotto falsa identità. Neppure la riconobbero, ci vollero ore. Era il 26 luglio 1992. Rita aveva solo 17 anni e oggi lei è lassù con i suoi due papà, e ne sono trascorsi 32.
Grazie, Rita, per essere esistita 💛



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da vanity fair

Diritti «Ero single a 40 anni e ho deciso di fare due figli da sola» .,

a figlia unica di genitori separati, sognavo di costruire una famiglia numerosa. Arrivata a 40 anni, però, mi sono resa conto che la vita mi stava riservando tante soddisfazioni, ma non un compagno né tantomeno un figlio», così Katia Minniti Berard, imprenditrice 50enne, rintraccia l’origine della sua decisione di ricorrere alla fecondazione eterologa per diventare mamma. Dopo la fine di una storia importante, mossa dal desiderio di maternità, grazie a un’attenta ricerca ha preso consapevolezza di poter avere un figlio anche da sola. Così, 10 anni fa, è volata verso la Spagna, ai tempi l’unico Paese che garantiva l’anonimato del donatore, dettaglio per lei fondamentale.«Mi sono accorta che mi avvicinavo alle relazioni per la fretta di avere un figlio, sollecitata dal mio orologio biologico. Ben presto ho capito che non era un atteggiamento sano, potevo rischiare di metter su famiglia con la persona sbagliata, allora ricorrere alla fecondazione eterologa mi è sembrata la soluzione migliore», racconta lei.  E così è stato: facendo fecondare i suoi ovuli dallo stesso donatore e crioconservando gli embrioni, ha dato alla luce Teodora e Martino, rispettivamente di 9 e 4 anni, con cui vive in una casa immersa nella campagna romana, tra i colori vivaci e le emozioni forti di una famiglia per niente tradizionale, ma tanto accogliente e viva. monogenitoriali, con bambini adottati o senza figli – nel suo progetto Album di famiglia che, fino al 25 agosto, insieme ad altri lavori sul tema, è in esposizione al

Foto di Noemi Comi
Foto di Noemi Comi
Fotografia Calabria Festival a San Lucido, tra i più suggestivi borghi del basso Tirreno calabrese «Fotografia di famiglie» è il tema del festival in cui, come ci tiene ad evidenziare la direttrice artistica Anna Catalano: «Non è casuale la scelta di utilizzare il singolare e il plurale, con un significato prettamente sociale, per illustrare attraverso il linguaggio fotografico le molteplici rappresentazioni della famiglia».Libertà di amare e scegliere la propria felicità, lottando contro stereotipi e abbattendo barriere sociali e culturali, sono i valori promossi dal progetto di Comi che propone una riflessione necessaria alla luce dei diritti civili tanto discussi negli ultimi anni in tema di matrimonio, adozione e maternità.Nonostante i tanti passi fatti avanti, c’è ancora tanta strada da percorrere. Ne dà prova la mamma single, tra le protagoniste del progetto fotografico, che racconta: «quando ho fatto questa scelta avevo solo mio nonno, all’epoca 90enne, che è stato felicissimo. Ma, soprattutto ora che i miei figli sono in età scolare, mi rendo conto che viviamo in una società in cui i bambini non sono ancora preparati a questa tipologia di famiglia».A entrambi i figli, per semplificare l’impatto, Minniti Berard ha fatto portare a scuola «Il grande grosso libro delle famiglie» che raccoglie tutti i tipi di famiglie, ma è capitato che alla primogenita, dopo aver raccontato di non avere il papà, alcuni compagni chiedessero se fosse morto. Quando spiega di non avere mai avuto la figura paterna, rimangono sbalorditi.«Teodora ormai suggerisce loro di farselo spiegare dai genitori. Credo che il problema sia più degli altri che di mia figlia, perché tanto lei sa tutto, come pure mio figlio. 

Per Martino, al momento, la situazione è più semplice perché ha in classe una bambina con due papà, quindi tutto appare più sensato» aggiunge.Non è stato facile combattere contro i pregiudizi e le accuse di egoismo, Minniti Berard si è affidata a una psicoanalista e, grazie anche a un nonno putativo,ha trovato l’equilibrio con i suoi bambini.Analizzando i pro e contro di essere una mamma single, ammette con un sorriso: «Tutto il peso delle decisioni grava solo su di me, sono sempre sola a fare tutto, dal caricare l’auto per le vacanze a scegliere la scuola. Però, almeno, non discuto con nessuno» Tornando seria, ribadisce di non essersi mai sentita una mamma di serie B e chiede alle istituzioni un aiuto finanziario ai genitori single, mentre confida la speranza che «ognuno possa aprire il proprio cuore e accogliere tutto ciò che è diverso e sconosciuto, senza paura. Solo lasciando vincere l’amore riusciremo ad assicurare un mondo migliore ai nostri figli».



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Andreina, imprenditrice del sex tech: «Sono single, gli uomini mi dicono: “Come faccio a raccontare che sto con una donna che fa questo lavoro?”»

uno dei settori industriali più in espansione a livello mondiale. Entro il 2026, secondo l’Osservatorio Global Sexual Wellness Market, il mercato dei sex toys e del sex tech raggiungerà i 125,1 miliardi di dollari: erano «solo» 62 miliardi nel 2020. Secondo le stime dell’Osservatorio Dafne, in Italia questo mercato vale invece 600 milioni di euro, in crescita grazie ai nuovi e-commerce che garantiscono velocità e anonimato. Ma il merito va soprattutto alla sempre più diffusa sensibilità verso il benessere sessuale e l'esplorazione del piacere che stanno guidando un forte cambiamento nella percezione sociale degli oggetti erotici e della sessualità.
In questo ramo di industria, anche l'imprenditoria femminile si sta ritagliando uno spazio di tutto rispetto. Sempre più donne investono sul benessere sessuale e nella produzione di sex toys, gadget, oggetti per il piacere per single e coppie.
Tra queste imprenditrici «illuminate» c'è Andreina Serena Romano, 42 anni, fondatrice e CEO di Twilo, start up di sex tech con sedi a Potenza e Taranto.
Con un BA in International Business alla Nottingham Trent University e un master in Politiche di sviluppo del made in Italy, Andreina Serena Romano tiene anche la vicepresidenza nazionale di Confinternational, associazione dedicata all'espansione delle micro e piccole imprese Italiane nel mondo. Il suo sogno era quello di creare un’azienda capace di realizzare oggetti che potessero dare piacere ma che fossero anche di design. Qualche anno fa è diventato realtà.

Andreina Serena Romano nel suo ufficio

Andreina Serena Romano nel suo ufficio

Oggi Twilo (acrostico che sta per Twist e Love) è un brand composto quasi interamente da donne, (4 dipendenti full time e 10 persone che collaborano part time per la Ricerca & Sviluppo ingegneristico), ha un brevetto registrato, vende in tutta Italia e punta a espandersi anche sul mercato europeo con un progetto speciale dedicato al mondo dell'hôtellerie. Lo scorso anno ha vinto la quinta edizione dell’Oscar dell’Innovazione e il Premio Angi è stato consegnato a Roma dall’Associazione nazionale giovani innovatori.
E pensare che i primi passi risalgono appena al 2016, «quando analizzando vari mercati, mi sono resa conto che nel campo dei sex toys, in Italia, non c'era praticamente nulla di elegante, di design, di un po' smart, anche da indossare. Abbiamo quindi iniziato a lavorare su un primo prodotto che voleva essere proprio un sex toy wearable. Non lo abbiamo ancora lanciato, però nel 2017 è stato brevettato. Da lì in poi abbiamo fatto evolvere la società iniziando a lavorare su varie categorie di prodotti», spiega la CEO.

Ma perché investire proprio sui sex toys?
«Perché è un settore in cui si riesce a lavorare bene e avere dei buoni sbocchi. L'idea era quella di creare qualcosa che potesse dare piacere alle persone, renderle naturalmente più felici. Ed era anche una grande sfida: come donne volevamo portare avanti l'idea di un piacere sessuale legato al benessere, qualcosa che tutti possono provare senza vergogna e senza tabù, poichè parte integrante della salute generale».

Donne che si rivolgono ad altre donne?
«Non solo. I nostri prodotti possono essere usati anche dagli uomini o in coppia: la libertà è l’unica regola che conosciamo. Tutti i prodotti sono creati con materiali sostenibili, esclusivi e tecnologici, a partire da una gamma di preservativi vegani, dove il lattice è solo di origine vegetale. Nel corso degli anni abbiamo studiato sex toys con forme e caratteristiche in grado di attivare nel modo più efficiente possibile i centri del piacere e soddisfare i bisogni sessuali sia degli uomini che delle donne. Non per nulla la ricerca e lo sviluppo è il nostro punto di forza».

Dove vengono prodotti gli articoli di Twilo?
«Una pre-produzione, che è quella legata ai metalli, alla parte di lavorazione orafa che interessa la struttura dei micro stimolatori, viene realizzata nel napoletano, in Campania. La parte dei siliconi e delle plastiche ABS per il corpo viene invece seguita da un'azienda che si trova nella cosiddetta “valle dei sex toys”, che non è in Italia, bensì a Hong Kong, poiché in Italia non esistono aziende che lavorano il silicone sui grandi numeri. Ci limitiamo quindi a seguire qui tutta la parte di prototipazione mentre poi in Cina lavorano sugli stampi da noi forniti e realizzati nel tarantino».

Alcuni dei prodotti Twilo

                                                      Alcuni dei prodotti Twilo

Quali sono i vostri pezzi più venduti e che tipo di interesse c'è per gli acquisti online?
«Online c'è interesse principalmente per i mini stimolatori, piccoli, colorati, molto ludici, semplici da utilizzare e ideali per chi si avvicina per la prima volta al mondo dei sex toys. Poi ci sono i massaggiatori come Tito e Augusto, ergonomici, anatomici, con un design che piace tantissimo. Poi c'è Cesare, stimolatore per il punto G: semplice, lineare, molto elegante, apprezzato proprio per la forma. Ancora in fase di test, c'è invece la collana Afrodite, decorata da un bullet, che lanceremo in Italia in quattro bagni di colore: Silver, Silver Gold, Rose Gold, e Black Metal, quale prima collezione di sex jewels Twilo. Abbiamo presentato il prototipo di Afrodite in anteprima ed è piaciuta soprattutto ai ragazzi dai 20 ai 27 anni e agli uomini in generale, perché è molto d'impatto: una catena immaginata proprio per sdoganare l'idea che il sex toys può portarlo anche un uomo».

Augusto, Cesare, Tito, Afrodite… Perché questi nomi?
«L'idea era quella di dare dei nomi legati al mondo dell'antica Grecia e di Roma, nomi di grandi condottieri, imperatori, dee. Volevamo dare l'idea di qualcosa di forte, di importante, di epico, che faccia stare bene. Ora come ora, stiamo anche realizzando un'App, con l'aiuto di un'azienda tecnologica di Potenza per impostare funzionalità che permetteranno di usare da remoto alcuni prodotti. Nel momento in cui si utilizzeranno con una persona, l'App permetterà di parlarsi, di guardarsi, di mandare delle reazioni e in generale di condividere quel momento in maniera più piacevole e passionale».

Qual è il punto di forza dei prodotti Twilo rispetto ad altri sex toys sul mercato?
«Siamo un'azienda che disegna e progetta ogni prodotto e questo ci permette di creare dispositivi innovativi e diversi sia nel design, sia nell'utilizzo. Avendo delle risorse che lavorano solo ed esclusivamente su questo riusciamo a creare prodotti esclusivi. In più, abbiamo la possibilità di modificarli e personalizzarli grazie all'attività dei nostri ingegneri e designer».

Com'è stato recepito a Potenza e dintorni un progetto di business femminile rivolto al mondo della sessualità?
«Le reazioni non sono state del tutto positive. Purtroppo, quando è una donna a fare queste scelte imprenditoriali, bisogna scontrarsi con molti retaggi culturali. C'è ancora chi pensa che - nonostante tu crei prodotti e fai Ricerca e Sviluppo con ingegneri designer - stai sempre e comunque trattando qualcosa che ha a che vedere con il mondo della pornografia. Pensano che chi lavora in questo ambito non lo faccia con serietà e professionalità, quando in realtà si tratta di un'azienda che sta facendo business come tutte le altre e con prodotti che sono dei normali dispositivi per il piacere».

Come affrontate questi pregiudizi?
«Invece di restare stabili a Potenza, abbiamo deciso di spostarci anche su Taranto, in Puglia, dove invece abbiamo avuto un'accoglienza ottima: le persone si sono dimostrate molto interessate ai prodotti e abbiamo organizzato degli eventi di presentazione che hanno riscosso un grande successo. Sono venuti a conoscerci, hanno guardato, hanno acquistato, hanno voluto parlare di sessualità. In generale, abbiamo visto un approccio veramente differente rispetto ad altre regioni - come la Campania o la Basilicata - dove è complicato parlare e fare passaparola, perché tutti provano vergogna e imbarazzo ad affrontare certi argomenti».

Andreina imprenditrice del sex tech «Sono single gli uomini mi dicono “Come faccio a raccontare che sto con una donna...

In cosa vi state specializzando?
«Nella produzione di accessori per la stimolazione piuttosto che per la penetrazione. Lavoriamo molto anche per le spose. Creiamo dei kit speciali per l'addio al nubilato e kit dedicati alla sposa. Il bridal kit, per esempio, è una box che comprende vari oggetti tra cui stimolatori, preservativi, spillette e dadi personalizzati. Qualcosa di simile la stiamo facendo anche per il mondo dell'hôtellerie: siamo stati fra i primi a lanciare un Courtesy Kit e adesso stiamo lavorando proprio per il posizionamento all'interno dei boutique hotel. Contiene preservativi, una mascherina e un mini stimolatore personalizzabile. Al momento stiamo lavorando sull'Italia, ma abbiamo intenzione di espandere il progetto anche in Portogallo, in Grecia e in Romania. Un'idea curiosa, frutto purtroppo del mio essere una donna single…».

Perché «purtroppo»?
«Tutte le volte che mi piaceva qualcuno e ho voluto iniziare a stringere in modo un po' più serio la relazione, mi sono ritrovata davanti a esclamazioni del tipo: "Ma io come racconto che sto con una persona che fa questo?“ Mi è già successo due volte, la terza ho tagliato subito appena mi sono resa conto che sarebbe finita ancora nello stesso modo. Ogni volta chiedo: ma perché non facciamo un passo avanti? Potremmo fare insieme questo o questo … Poi vedo la reazione e capisco tutto. Uno mi ha persino detto: «Ma io come lo spiego a mia mamma il lavoro che fai? Il dispiacere che provo è lo stesso che possono provare anche le ragazze che lavorano con me e che magari subiscono i medesimi pregiudizi. C'è chi guarda già con un certo occhio una donna che fa l'imprenditrice, se poi la sua è un'azienda sex tech diventa tutto più difficile. Ma non si può non dire che produciamo accessori erotici, perché chiaramente è questo quello che facciamo. Tuttavia gli uomini e, in generale, anche altre persone vivono male questa realtà. Per me, quindi, è stato veramente difficile affrontare delle relazioni. E oggi sono sola, single e viaggiando spesso per lavoro, e sostando in albergo, so che può capitare talvolta di incontrare qualcuno che piace. Detto ciò, mi sono resa conto che è difficilissimo trovare dei preservativi, considerato che la protezione viene comunque prima di tutto. Mi è quindi venuto questo pallino di creare questo Courtesy Kit da proporre alle catene di alberghi».

Storie potenzialmente importanti, quindi, che si sono subito arenate a causa di persistenti pregiudizi attorno al business del sex tech. Ma davvero è possibile tutto questo?
«Il punto è che il mio lavoro viene inteso come un'attività ludica e poco seria. Agli occhi degli uomini con cui ho tentato costruire una relazione - ma anche di altri e altre in generale - io non sono una vera imprenditrice che ha avviato un progetto di business con tutti i criteri necessari, incluso un considerevole investimento economico. E parliamo comunque di uomini con un alto livello di educazione scolastica, con una professione importante, ma che vivono questa mia attività con imbarazzo al punto da porsi il problema di come presentarmi in pubblico se avessimo formato ufficialmente una coppia».

Tabù, cliché, pregiudizi… C'è speranza per un cambiamento culturale?
«Io vivo di fiducia e di ottimismo. Bisogna mantenere sempre alta la possibilità di raccontare determinate cose e quando alle persone parli, spieghi, racconti, a un certo punto iniziano ad ascoltarti, a capire, iniziano a vivere in un altro modo. Non ci sarà forse un cambiamento epocale, ma da qui a 5 anni si potranno vedere di certo i frutti del cambiamento imposto dalle nuove generazioni, già molto avanti nel parlare di affettività, di sessualità, di benessere. Sono loro che ci aiuteranno in questo passaggio».

Lei continua a credere nell'amore?
«Io credo tantissimo nell'amore. Sono un'emotiva romantica, mi batte il cuore in continuazione. Anche per questo i nostri prodotti non sono chiamati semplicemente sex toys ma Love Toys: il concetto di amore per noi è fondamentale. Eppure è difficile oggi riuscire ad avere una relazione, anche perché le persone non sono pronte, non hanno voglia, non hanno il tempo di gestire l'affetto. Vedo una difficoltà generale proprio a dedicarsi all'amore e alle relazioni monogame. Invece è proprio attraverso questo stato di passione, di emotività e di meraviglia reciproca che si può accedere davvero al piacere. L'amore regola tutto».


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Il caffè del marinaio: storia e ricetta della bevanda nata sui pescherecci marchigiani


affè del marinaio si beveva all’interno delle imbarcazioni del medio Adriatico, nel sud delle Marche. Un mix di caffè, rum, distillati locali all’anice da bere caldo secondo la tradizione. Ma c’è anche chi lo propone nei cocktail

Un caffè rinforzato nato in ambienti marinai nel medio Adriatico, dal gusto robusto e dal tenore alcolico sostenuto. Pariamo del caffè del marinaio, una preparazione che è nata a bordo dei pescherecci marchigiani per poi diventare rito di ogni fine pasto. Non c’è ristorante, bar e trattoria tipica di pesce nella zona di San Benedetto del Tronto, località di mare nel sud delle Marche e importante porto peschereccio, che non serva in maniera tradizionale questa bevanda calda.  Anche d’estate. Vi raccontiamo la sua storia ed evoluzione.

Il caffè del marinaio: perché si chiama così

Per scoprire le origini del caffè del marinaio si deve tornare agli inizi del ‘900 con l’avvento del peschereccio a motore. Infatti la storia del caffè del marinaio è legata al progresso di quegli anni. E proprio a San Benedetto del Tronto il 26 maggio 1912 venne varata la prima imbarcazione a motore d’Italia. Il peschereccio San Marco entra dunque nella storia. Visto che i viaggi iniziavano ad essere più lunghi nasceva l’esigenza di portare a bordo generi alimentari di lunga conservazione e capaci di ristorare nei rigidi inverni l’equipaggio. Dunque liquori, distillati e ovviamente caffè fatto rigorosamente con la moka. Bastava correggere il caffè con tutto ciò che si aveva a disposizione ed ecco che nasce il caffè del marinaio, momento di ristoro dopo le lunghe e faticose giornate a mare.

Il porto di San Benedetto del Tronto
Il porto di San Benedetto del Tronto

La ricetta del caffè del marinaio e come si beve oggi

Non c’è una ricetta codificata del caffè del marinaio: ogni famiglia custodisce la sua. Non si può prescindere dal caffè fatto con la moka a cui si aggiunge un insieme di alcolici come rum, mistrà (una versione locale di distillato all’anice, ve ne abbiamo parlato qui), oppure Varnelli o Meletti, e c’è anche chi aggiunge il Caffè Borghetti. Oggi si consuma a fine pasto, servito in un bricco portato ad ebollizione e con i famosi cantuccini da intingere.

Old Sailor Coffee
Old Sailor Coffee

Il caffè del marinaio in bottiglia

Nonostante il caffè del marinaio non abbia una ricetta scritta e viene consumato esclusivamente in questa zona delle Marche, c’è chi ha scommesso sulla sua riuscita. Parliamo della Levante Spirits, società di produzione di alcolici artigianali nata dall’incontro del marchigiano Fabio Mascaretti e il toscano Enzo Brini. “Volevamo far conoscere la storia e far capire che questo prodotto può avere una vita fuori dal consumo strettamente territoriale” spiega Mascaretti. Il loro prodotto si chiama Old Sailor Coffee: Partiamo da un rum giovane e bianco a cui vanno aggiunte infusioni separate di anice verde di Castignano, caffè Barbera e buccia d’arancia. Per un prodotto che contiene solo il 15% di zucchero rispetto alla media dei liquori al caffè che si attesta sul 35-40%”. Si consuma freddo con ghiaccio, ovviamente caldo con una scorza d’arancio al suo interno, e in miscelazione. A registrare il brand caffè del marinaio c’è invece l’Italian Creative Food, di San Benedetto del Tronto, che produce un liquore al caffè. Si chiama appunto Il Caffè del Marinaio e omaggia la tradizione marinara locale.


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(ANSA) - PALERMO, 27 LUG - Riottiene la patente dopo 23 anni e alla fine dell'iter processuale viene risarcito. E' accaduto a un automobilista di Caltabellotta, al quale era stata revocata la licenza di guida nel 1996, per decisione della prefettura di Agrigento che gli addebitava la mancanza dei requisiti morali, in quanto sottoposto a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. 



Dopo avere espiato la misura di prevenzione, l'uomo si vedeva respinta la richiesta di riavere la patente.Assistito dagli avvocati Girolamo Rubino e Daniele Piazza, l'automobilista ha presentato ricorso al Tar di Catania, ottenendo la sospensiva e il rilasciao di un titolo provvisorio alla guida. A distanza di diversi anni il Tar ha ritenuto di non essere competente per giurisdizione e la causa è passata al giudice civile di Palermo, che con la sentenza del 3 novembre scorso, dopo 23 anni dall'inizio del contenzioso, ha deciso la restituzione della patente, condannando la prefettura al pagamento delle spese del processo.Visto il lungo percorso processuale i legali dell'uomo hanno presentato alla corte d'appello un ricorso, sulla base della legge Pinto, contro il ministero dell'Economia per ottenere l'equo indennizzo per l'irragionevole durata del giudizio, durato complessivamente 23 anni. I giudici d'appello hanno accolto il ricorso e condannato il ministero a pagare 8 mila euro in favore dell'automobilista per il danno non patrimoniale sofferto, oltre al pagamento delle spese di lite. (ANSA).



 

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