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28.7.24

DIARIO DI BORDO N 66 ANNO II . rita atria 20 anni dopo ., Diritti «Ero single a 40 anni e ho deciso di fare due figli da sola» ., Sessualità Andreina, imprenditrice del sex tech ., Il caffè del marinaio: storia e ricetta della bevanda nata sui pescherecci marchigiani .,

 

 

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Il suo nome era Rita Atria, per Paolo Borsellino era “a picciridda”. Una bambina, di più: come una figlia.
Il papà suo, Rita lo aveva perduto a 11 anni. Un pastore legato alla mafia, ucciso da un sicario. Pur sempre un papà, però.A Rita era rimasto un fratello, Nicola, e poi sua moglie Piera. Le ammazzarono anche lui e Piera, da allora, divenne testimone di giustizia, e Rita insieme a lei. Contro il volere di sua madre, che la ripudiò, e mai più volle vederla.Rita sapeva chi era Paolo Borsellino, anche se piccola si fidava di lui. Si precipitò nel suo ufficio. Io ci sono, e sono con lei, gli disse. Lui le sorrise. Insieme a Piera, fecero arrestare decine di uomini del disonore.Quando, il 19 luglio 1992, Paolo e gli altri Eroi saltarono in aria, Rita capì di esser rimasta ancora orfana. Una settimana più tardi, disperata, si lanciò dal settimo piano del condominio in cui abitava, sotto falsa identità. Neppure la riconobbero, ci vollero ore. Era il 26 luglio 1992. Rita aveva solo 17 anni e oggi lei è lassù con i suoi due papà, e ne sono trascorsi 32.
Grazie, Rita, per essere esistita 💛



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da vanity fair

Diritti «Ero single a 40 anni e ho deciso di fare due figli da sola» .,

a figlia unica di genitori separati, sognavo di costruire una famiglia numerosa. Arrivata a 40 anni, però, mi sono resa conto che la vita mi stava riservando tante soddisfazioni, ma non un compagno né tantomeno un figlio», così Katia Minniti Berard, imprenditrice 50enne, rintraccia l’origine della sua decisione di ricorrere alla fecondazione eterologa per diventare mamma. Dopo la fine di una storia importante, mossa dal desiderio di maternità, grazie a un’attenta ricerca ha preso consapevolezza di poter avere un figlio anche da sola. Così, 10 anni fa, è volata verso la Spagna, ai tempi l’unico Paese che garantiva l’anonimato del donatore, dettaglio per lei fondamentale.«Mi sono accorta che mi avvicinavo alle relazioni per la fretta di avere un figlio, sollecitata dal mio orologio biologico. Ben presto ho capito che non era un atteggiamento sano, potevo rischiare di metter su famiglia con la persona sbagliata, allora ricorrere alla fecondazione eterologa mi è sembrata la soluzione migliore», racconta lei.  E così è stato: facendo fecondare i suoi ovuli dallo stesso donatore e crioconservando gli embrioni, ha dato alla luce Teodora e Martino, rispettivamente di 9 e 4 anni, con cui vive in una casa immersa nella campagna romana, tra i colori vivaci e le emozioni forti di una famiglia per niente tradizionale, ma tanto accogliente e viva. monogenitoriali, con bambini adottati o senza figli – nel suo progetto Album di famiglia che, fino al 25 agosto, insieme ad altri lavori sul tema, è in esposizione al

Foto di Noemi Comi
Foto di Noemi Comi
Fotografia Calabria Festival a San Lucido, tra i più suggestivi borghi del basso Tirreno calabrese «Fotografia di famiglie» è il tema del festival in cui, come ci tiene ad evidenziare la direttrice artistica Anna Catalano: «Non è casuale la scelta di utilizzare il singolare e il plurale, con un significato prettamente sociale, per illustrare attraverso il linguaggio fotografico le molteplici rappresentazioni della famiglia».Libertà di amare e scegliere la propria felicità, lottando contro stereotipi e abbattendo barriere sociali e culturali, sono i valori promossi dal progetto di Comi che propone una riflessione necessaria alla luce dei diritti civili tanto discussi negli ultimi anni in tema di matrimonio, adozione e maternità.Nonostante i tanti passi fatti avanti, c’è ancora tanta strada da percorrere. Ne dà prova la mamma single, tra le protagoniste del progetto fotografico, che racconta: «quando ho fatto questa scelta avevo solo mio nonno, all’epoca 90enne, che è stato felicissimo. Ma, soprattutto ora che i miei figli sono in età scolare, mi rendo conto che viviamo in una società in cui i bambini non sono ancora preparati a questa tipologia di famiglia».A entrambi i figli, per semplificare l’impatto, Minniti Berard ha fatto portare a scuola «Il grande grosso libro delle famiglie» che raccoglie tutti i tipi di famiglie, ma è capitato che alla primogenita, dopo aver raccontato di non avere il papà, alcuni compagni chiedessero se fosse morto. Quando spiega di non avere mai avuto la figura paterna, rimangono sbalorditi.«Teodora ormai suggerisce loro di farselo spiegare dai genitori. Credo che il problema sia più degli altri che di mia figlia, perché tanto lei sa tutto, come pure mio figlio. 

Per Martino, al momento, la situazione è più semplice perché ha in classe una bambina con due papà, quindi tutto appare più sensato» aggiunge.Non è stato facile combattere contro i pregiudizi e le accuse di egoismo, Minniti Berard si è affidata a una psicoanalista e, grazie anche a un nonno putativo,ha trovato l’equilibrio con i suoi bambini.Analizzando i pro e contro di essere una mamma single, ammette con un sorriso: «Tutto il peso delle decisioni grava solo su di me, sono sempre sola a fare tutto, dal caricare l’auto per le vacanze a scegliere la scuola. Però, almeno, non discuto con nessuno» Tornando seria, ribadisce di non essersi mai sentita una mamma di serie B e chiede alle istituzioni un aiuto finanziario ai genitori single, mentre confida la speranza che «ognuno possa aprire il proprio cuore e accogliere tutto ciò che è diverso e sconosciuto, senza paura. Solo lasciando vincere l’amore riusciremo ad assicurare un mondo migliore ai nostri figli».



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Andreina, imprenditrice del sex tech: «Sono single, gli uomini mi dicono: “Come faccio a raccontare che sto con una donna che fa questo lavoro?”»

uno dei settori industriali più in espansione a livello mondiale. Entro il 2026, secondo l’Osservatorio Global Sexual Wellness Market, il mercato dei sex toys e del sex tech raggiungerà i 125,1 miliardi di dollari: erano «solo» 62 miliardi nel 2020. Secondo le stime dell’Osservatorio Dafne, in Italia questo mercato vale invece 600 milioni di euro, in crescita grazie ai nuovi e-commerce che garantiscono velocità e anonimato. Ma il merito va soprattutto alla sempre più diffusa sensibilità verso il benessere sessuale e l'esplorazione del piacere che stanno guidando un forte cambiamento nella percezione sociale degli oggetti erotici e della sessualità.
In questo ramo di industria, anche l'imprenditoria femminile si sta ritagliando uno spazio di tutto rispetto. Sempre più donne investono sul benessere sessuale e nella produzione di sex toys, gadget, oggetti per il piacere per single e coppie.
Tra queste imprenditrici «illuminate» c'è Andreina Serena Romano, 42 anni, fondatrice e CEO di Twilo, start up di sex tech con sedi a Potenza e Taranto.
Con un BA in International Business alla Nottingham Trent University e un master in Politiche di sviluppo del made in Italy, Andreina Serena Romano tiene anche la vicepresidenza nazionale di Confinternational, associazione dedicata all'espansione delle micro e piccole imprese Italiane nel mondo. Il suo sogno era quello di creare un’azienda capace di realizzare oggetti che potessero dare piacere ma che fossero anche di design. Qualche anno fa è diventato realtà.

Andreina Serena Romano nel suo ufficio

Andreina Serena Romano nel suo ufficio

Oggi Twilo (acrostico che sta per Twist e Love) è un brand composto quasi interamente da donne, (4 dipendenti full time e 10 persone che collaborano part time per la Ricerca & Sviluppo ingegneristico), ha un brevetto registrato, vende in tutta Italia e punta a espandersi anche sul mercato europeo con un progetto speciale dedicato al mondo dell'hôtellerie. Lo scorso anno ha vinto la quinta edizione dell’Oscar dell’Innovazione e il Premio Angi è stato consegnato a Roma dall’Associazione nazionale giovani innovatori.
E pensare che i primi passi risalgono appena al 2016, «quando analizzando vari mercati, mi sono resa conto che nel campo dei sex toys, in Italia, non c'era praticamente nulla di elegante, di design, di un po' smart, anche da indossare. Abbiamo quindi iniziato a lavorare su un primo prodotto che voleva essere proprio un sex toy wearable. Non lo abbiamo ancora lanciato, però nel 2017 è stato brevettato. Da lì in poi abbiamo fatto evolvere la società iniziando a lavorare su varie categorie di prodotti», spiega la CEO.

Ma perché investire proprio sui sex toys?
«Perché è un settore in cui si riesce a lavorare bene e avere dei buoni sbocchi. L'idea era quella di creare qualcosa che potesse dare piacere alle persone, renderle naturalmente più felici. Ed era anche una grande sfida: come donne volevamo portare avanti l'idea di un piacere sessuale legato al benessere, qualcosa che tutti possono provare senza vergogna e senza tabù, poichè parte integrante della salute generale».

Donne che si rivolgono ad altre donne?
«Non solo. I nostri prodotti possono essere usati anche dagli uomini o in coppia: la libertà è l’unica regola che conosciamo. Tutti i prodotti sono creati con materiali sostenibili, esclusivi e tecnologici, a partire da una gamma di preservativi vegani, dove il lattice è solo di origine vegetale. Nel corso degli anni abbiamo studiato sex toys con forme e caratteristiche in grado di attivare nel modo più efficiente possibile i centri del piacere e soddisfare i bisogni sessuali sia degli uomini che delle donne. Non per nulla la ricerca e lo sviluppo è il nostro punto di forza».

Dove vengono prodotti gli articoli di Twilo?
«Una pre-produzione, che è quella legata ai metalli, alla parte di lavorazione orafa che interessa la struttura dei micro stimolatori, viene realizzata nel napoletano, in Campania. La parte dei siliconi e delle plastiche ABS per il corpo viene invece seguita da un'azienda che si trova nella cosiddetta “valle dei sex toys”, che non è in Italia, bensì a Hong Kong, poiché in Italia non esistono aziende che lavorano il silicone sui grandi numeri. Ci limitiamo quindi a seguire qui tutta la parte di prototipazione mentre poi in Cina lavorano sugli stampi da noi forniti e realizzati nel tarantino».

Alcuni dei prodotti Twilo

                                                      Alcuni dei prodotti Twilo

Quali sono i vostri pezzi più venduti e che tipo di interesse c'è per gli acquisti online?
«Online c'è interesse principalmente per i mini stimolatori, piccoli, colorati, molto ludici, semplici da utilizzare e ideali per chi si avvicina per la prima volta al mondo dei sex toys. Poi ci sono i massaggiatori come Tito e Augusto, ergonomici, anatomici, con un design che piace tantissimo. Poi c'è Cesare, stimolatore per il punto G: semplice, lineare, molto elegante, apprezzato proprio per la forma. Ancora in fase di test, c'è invece la collana Afrodite, decorata da un bullet, che lanceremo in Italia in quattro bagni di colore: Silver, Silver Gold, Rose Gold, e Black Metal, quale prima collezione di sex jewels Twilo. Abbiamo presentato il prototipo di Afrodite in anteprima ed è piaciuta soprattutto ai ragazzi dai 20 ai 27 anni e agli uomini in generale, perché è molto d'impatto: una catena immaginata proprio per sdoganare l'idea che il sex toys può portarlo anche un uomo».

Augusto, Cesare, Tito, Afrodite… Perché questi nomi?
«L'idea era quella di dare dei nomi legati al mondo dell'antica Grecia e di Roma, nomi di grandi condottieri, imperatori, dee. Volevamo dare l'idea di qualcosa di forte, di importante, di epico, che faccia stare bene. Ora come ora, stiamo anche realizzando un'App, con l'aiuto di un'azienda tecnologica di Potenza per impostare funzionalità che permetteranno di usare da remoto alcuni prodotti. Nel momento in cui si utilizzeranno con una persona, l'App permetterà di parlarsi, di guardarsi, di mandare delle reazioni e in generale di condividere quel momento in maniera più piacevole e passionale».

Qual è il punto di forza dei prodotti Twilo rispetto ad altri sex toys sul mercato?
«Siamo un'azienda che disegna e progetta ogni prodotto e questo ci permette di creare dispositivi innovativi e diversi sia nel design, sia nell'utilizzo. Avendo delle risorse che lavorano solo ed esclusivamente su questo riusciamo a creare prodotti esclusivi. In più, abbiamo la possibilità di modificarli e personalizzarli grazie all'attività dei nostri ingegneri e designer».

Com'è stato recepito a Potenza e dintorni un progetto di business femminile rivolto al mondo della sessualità?
«Le reazioni non sono state del tutto positive. Purtroppo, quando è una donna a fare queste scelte imprenditoriali, bisogna scontrarsi con molti retaggi culturali. C'è ancora chi pensa che - nonostante tu crei prodotti e fai Ricerca e Sviluppo con ingegneri designer - stai sempre e comunque trattando qualcosa che ha a che vedere con il mondo della pornografia. Pensano che chi lavora in questo ambito non lo faccia con serietà e professionalità, quando in realtà si tratta di un'azienda che sta facendo business come tutte le altre e con prodotti che sono dei normali dispositivi per il piacere».

Come affrontate questi pregiudizi?
«Invece di restare stabili a Potenza, abbiamo deciso di spostarci anche su Taranto, in Puglia, dove invece abbiamo avuto un'accoglienza ottima: le persone si sono dimostrate molto interessate ai prodotti e abbiamo organizzato degli eventi di presentazione che hanno riscosso un grande successo. Sono venuti a conoscerci, hanno guardato, hanno acquistato, hanno voluto parlare di sessualità. In generale, abbiamo visto un approccio veramente differente rispetto ad altre regioni - come la Campania o la Basilicata - dove è complicato parlare e fare passaparola, perché tutti provano vergogna e imbarazzo ad affrontare certi argomenti».

Andreina imprenditrice del sex tech «Sono single gli uomini mi dicono “Come faccio a raccontare che sto con una donna...

In cosa vi state specializzando?
«Nella produzione di accessori per la stimolazione piuttosto che per la penetrazione. Lavoriamo molto anche per le spose. Creiamo dei kit speciali per l'addio al nubilato e kit dedicati alla sposa. Il bridal kit, per esempio, è una box che comprende vari oggetti tra cui stimolatori, preservativi, spillette e dadi personalizzati. Qualcosa di simile la stiamo facendo anche per il mondo dell'hôtellerie: siamo stati fra i primi a lanciare un Courtesy Kit e adesso stiamo lavorando proprio per il posizionamento all'interno dei boutique hotel. Contiene preservativi, una mascherina e un mini stimolatore personalizzabile. Al momento stiamo lavorando sull'Italia, ma abbiamo intenzione di espandere il progetto anche in Portogallo, in Grecia e in Romania. Un'idea curiosa, frutto purtroppo del mio essere una donna single…».

Perché «purtroppo»?
«Tutte le volte che mi piaceva qualcuno e ho voluto iniziare a stringere in modo un po' più serio la relazione, mi sono ritrovata davanti a esclamazioni del tipo: "Ma io come racconto che sto con una persona che fa questo?“ Mi è già successo due volte, la terza ho tagliato subito appena mi sono resa conto che sarebbe finita ancora nello stesso modo. Ogni volta chiedo: ma perché non facciamo un passo avanti? Potremmo fare insieme questo o questo … Poi vedo la reazione e capisco tutto. Uno mi ha persino detto: «Ma io come lo spiego a mia mamma il lavoro che fai? Il dispiacere che provo è lo stesso che possono provare anche le ragazze che lavorano con me e che magari subiscono i medesimi pregiudizi. C'è chi guarda già con un certo occhio una donna che fa l'imprenditrice, se poi la sua è un'azienda sex tech diventa tutto più difficile. Ma non si può non dire che produciamo accessori erotici, perché chiaramente è questo quello che facciamo. Tuttavia gli uomini e, in generale, anche altre persone vivono male questa realtà. Per me, quindi, è stato veramente difficile affrontare delle relazioni. E oggi sono sola, single e viaggiando spesso per lavoro, e sostando in albergo, so che può capitare talvolta di incontrare qualcuno che piace. Detto ciò, mi sono resa conto che è difficilissimo trovare dei preservativi, considerato che la protezione viene comunque prima di tutto. Mi è quindi venuto questo pallino di creare questo Courtesy Kit da proporre alle catene di alberghi».

Storie potenzialmente importanti, quindi, che si sono subito arenate a causa di persistenti pregiudizi attorno al business del sex tech. Ma davvero è possibile tutto questo?
«Il punto è che il mio lavoro viene inteso come un'attività ludica e poco seria. Agli occhi degli uomini con cui ho tentato costruire una relazione - ma anche di altri e altre in generale - io non sono una vera imprenditrice che ha avviato un progetto di business con tutti i criteri necessari, incluso un considerevole investimento economico. E parliamo comunque di uomini con un alto livello di educazione scolastica, con una professione importante, ma che vivono questa mia attività con imbarazzo al punto da porsi il problema di come presentarmi in pubblico se avessimo formato ufficialmente una coppia».

Tabù, cliché, pregiudizi… C'è speranza per un cambiamento culturale?
«Io vivo di fiducia e di ottimismo. Bisogna mantenere sempre alta la possibilità di raccontare determinate cose e quando alle persone parli, spieghi, racconti, a un certo punto iniziano ad ascoltarti, a capire, iniziano a vivere in un altro modo. Non ci sarà forse un cambiamento epocale, ma da qui a 5 anni si potranno vedere di certo i frutti del cambiamento imposto dalle nuove generazioni, già molto avanti nel parlare di affettività, di sessualità, di benessere. Sono loro che ci aiuteranno in questo passaggio».

Lei continua a credere nell'amore?
«Io credo tantissimo nell'amore. Sono un'emotiva romantica, mi batte il cuore in continuazione. Anche per questo i nostri prodotti non sono chiamati semplicemente sex toys ma Love Toys: il concetto di amore per noi è fondamentale. Eppure è difficile oggi riuscire ad avere una relazione, anche perché le persone non sono pronte, non hanno voglia, non hanno il tempo di gestire l'affetto. Vedo una difficoltà generale proprio a dedicarsi all'amore e alle relazioni monogame. Invece è proprio attraverso questo stato di passione, di emotività e di meraviglia reciproca che si può accedere davvero al piacere. L'amore regola tutto».


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Il caffè del marinaio: storia e ricetta della bevanda nata sui pescherecci marchigiani


affè del marinaio si beveva all’interno delle imbarcazioni del medio Adriatico, nel sud delle Marche. Un mix di caffè, rum, distillati locali all’anice da bere caldo secondo la tradizione. Ma c’è anche chi lo propone nei cocktail

Un caffè rinforzato nato in ambienti marinai nel medio Adriatico, dal gusto robusto e dal tenore alcolico sostenuto. Pariamo del caffè del marinaio, una preparazione che è nata a bordo dei pescherecci marchigiani per poi diventare rito di ogni fine pasto. Non c’è ristorante, bar e trattoria tipica di pesce nella zona di San Benedetto del Tronto, località di mare nel sud delle Marche e importante porto peschereccio, che non serva in maniera tradizionale questa bevanda calda.  Anche d’estate. Vi raccontiamo la sua storia ed evoluzione.

Il caffè del marinaio: perché si chiama così

Per scoprire le origini del caffè del marinaio si deve tornare agli inizi del ‘900 con l’avvento del peschereccio a motore. Infatti la storia del caffè del marinaio è legata al progresso di quegli anni. E proprio a San Benedetto del Tronto il 26 maggio 1912 venne varata la prima imbarcazione a motore d’Italia. Il peschereccio San Marco entra dunque nella storia. Visto che i viaggi iniziavano ad essere più lunghi nasceva l’esigenza di portare a bordo generi alimentari di lunga conservazione e capaci di ristorare nei rigidi inverni l’equipaggio. Dunque liquori, distillati e ovviamente caffè fatto rigorosamente con la moka. Bastava correggere il caffè con tutto ciò che si aveva a disposizione ed ecco che nasce il caffè del marinaio, momento di ristoro dopo le lunghe e faticose giornate a mare.

Il porto di San Benedetto del Tronto
Il porto di San Benedetto del Tronto

La ricetta del caffè del marinaio e come si beve oggi

Non c’è una ricetta codificata del caffè del marinaio: ogni famiglia custodisce la sua. Non si può prescindere dal caffè fatto con la moka a cui si aggiunge un insieme di alcolici come rum, mistrà (una versione locale di distillato all’anice, ve ne abbiamo parlato qui), oppure Varnelli o Meletti, e c’è anche chi aggiunge il Caffè Borghetti. Oggi si consuma a fine pasto, servito in un bricco portato ad ebollizione e con i famosi cantuccini da intingere.

Old Sailor Coffee
Old Sailor Coffee

Il caffè del marinaio in bottiglia

Nonostante il caffè del marinaio non abbia una ricetta scritta e viene consumato esclusivamente in questa zona delle Marche, c’è chi ha scommesso sulla sua riuscita. Parliamo della Levante Spirits, società di produzione di alcolici artigianali nata dall’incontro del marchigiano Fabio Mascaretti e il toscano Enzo Brini. “Volevamo far conoscere la storia e far capire che questo prodotto può avere una vita fuori dal consumo strettamente territoriale” spiega Mascaretti. Il loro prodotto si chiama Old Sailor Coffee: Partiamo da un rum giovane e bianco a cui vanno aggiunte infusioni separate di anice verde di Castignano, caffè Barbera e buccia d’arancia. Per un prodotto che contiene solo il 15% di zucchero rispetto alla media dei liquori al caffè che si attesta sul 35-40%”. Si consuma freddo con ghiaccio, ovviamente caldo con una scorza d’arancio al suo interno, e in miscelazione. A registrare il brand caffè del marinaio c’è invece l’Italian Creative Food, di San Benedetto del Tronto, che produce un liquore al caffè. Si chiama appunto Il Caffè del Marinaio e omaggia la tradizione marinara locale.


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(ANSA) - PALERMO, 27 LUG - Riottiene la patente dopo 23 anni e alla fine dell'iter processuale viene risarcito. E' accaduto a un automobilista di Caltabellotta, al quale era stata revocata la licenza di guida nel 1996, per decisione della prefettura di Agrigento che gli addebitava la mancanza dei requisiti morali, in quanto sottoposto a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. 



Dopo avere espiato la misura di prevenzione, l'uomo si vedeva respinta la richiesta di riavere la patente.Assistito dagli avvocati Girolamo Rubino e Daniele Piazza, l'automobilista ha presentato ricorso al Tar di Catania, ottenendo la sospensiva e il rilasciao di un titolo provvisorio alla guida. A distanza di diversi anni il Tar ha ritenuto di non essere competente per giurisdizione e la causa è passata al giudice civile di Palermo, che con la sentenza del 3 novembre scorso, dopo 23 anni dall'inizio del contenzioso, ha deciso la restituzione della patente, condannando la prefettura al pagamento delle spese del processo.Visto il lungo percorso processuale i legali dell'uomo hanno presentato alla corte d'appello un ricorso, sulla base della legge Pinto, contro il ministero dell'Economia per ottenere l'equo indennizzo per l'irragionevole durata del giudizio, durato complessivamente 23 anni. I giudici d'appello hanno accolto il ricorso e condannato il ministero a pagare 8 mila euro in favore dell'automobilista per il danno non patrimoniale sofferto, oltre al pagamento delle spese di lite. (ANSA).



 

6.1.23

per l'ipocrita Diritto all’oblio dei mafiosi , la Rai spegne lo speciale Tg1 su Rita Atria

 Stavo  finendo    il post della nuova  rubrica    settimana incom  quando alla  lettura    dell'orripilante     notizia    della  censura   sulla  morte di Rita  Atria  ( vedere  articolo  sotto   e scheda  al lato   entrambi presi da IFQ del  5 Jan 2023    )   mi  chiedo  ma  il diritto  all'oblio  può evitare  di  cancellare  \ rimuovere   ma    in questa  caso  si parla  di censurare  la  storia   e  le storie  ?   Secondo me   si    se  si  fa   come suggerito   nell'articolo    sotto  o  quando  come  nel  caso  della sentenza  Ecn isole  della   rete     contro Caradonna   si    quando  si tratta   di   fatti storici   ancora  attuali   come   quello   della   coraggiosa   e  giovane  Rita Atria  


                             di   Stefano Caselli e Maria Cristina Fraddosio

Diritto all’oblio, la Rai spegne lo speciale Tg1 su Rita Atria

Il doc di Giovanna Cucè rimosso da Raiplay. Tre arrestati per mafia negli anni 90 minacciano richieste danni per 60 mila euro

FOTO ANSA
La testimone di giustizia Rita Atria morì a soli 17 anni una settimana dopo via D’amelio

La storia, struggente e importante, è di quelle che è bene continuare a raccontare. È la storia di Rita Atria che il 26 luglio 1992, a soli 17 anni, morì cadendo da un balcone del quartiere Tuscolano a Roma. La storia di una ragazza nata e cresciuta in una famiglia di mafia della provincia di Trapani che, dopo gli omicidi del padre e del fratello maggiore, decise di tagliare quel cordone ombelicale e di collaborare con la magistratura. La storia di una ragazza che Paolo Borsellino, che raccolse parte delle sue dichiarazioni, considerò come una figlia acquisita. La storia di una ragazza, prigioniera a Roma di un programma di protezione testimoni, che non sopportò la morte di quel secondo padre e che sette giorni dopo la strage di via D’amelio cadde nel vuoto dal settima piano di viale Amelia 23 a Roma.

Una storia che rischia di non poter più essere raccontata, almeno non nella forma scelta dalla giornalista Rai Giovanna Cucè, autrice dello speciale Tg1 Rita Atria, la settima vittima, trasmesso il 17 luglio in

un frame  della trasmissione  in questione 

seconda serata. Il programma, della durata di 58 minuti, è stato infatti rimosso da Raiplay a causa di alcune immagini di repertorio di una trentina di arresti (con manette pixelate), relativi alla cosiddetta “faida di Partanna” (di cui parlò proprio Rita Atria) su mandato dall’allora procuratore capo di Marsala Paolo Borsellino. Tre persone ritratte in questi filmati si sono sentite lese nell’immagine e hanno minacciato cause alla giornalista, alla direttrice del Tg1 e alla Rai per un totale di 60 mila euro. La Rai ha così deciso di rimuovere lo speciale in attesa del giudizio.

IL TEMA

è assai delicato perché riguarda il diritto all’oblio, civilissima e recente conquista, tuttavia in inevitabile conflitto con il diritto di cronaca. Gli arresti del novembre 1991 e del marzo del 1992 raccontano infatti una pagina importante di storia (oltre a contenere un inedito audio del super boss latitante Matteo Messina Denaro). Se aggiungiamo che uno dei ricorrenti è stato condannato in via definitiva per associazione mafiosa (il secondo è stato condannato in primo grado e assolto in appello, il terzo assolto in tutti i gradi) il tema si fa ancora più complesso. Possiamo forse immaginare un documentario sul maxiprocesso di Palermo senza le immagini dell’ucciardone?

Il rischio di creare un ingombrante precedente esiste. E una sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere come la prescrizione, che un articolo della riforma appena entrata in vigore considera titoli sufficienti per una richiesta di de-indicizzazione dei contenuto online ai motori di ricerca, può prevalere

sempre e comunque sulla cronaca e sulla storia? La Rai, nel dubbio, ha scelto la via breve. A quanto si apprende da fonti di viale Mazzini, il filmato sarebbe stato rimosso in via cautelativa poiché ritrae soggetti poi successivamente assolti (ma non solo, come sappiamo) e – soprattutto – perché per le stesse immagini (ma con manette non pixelate) l’azienda era già stata condannata alla fine degli Anni 90. UNA SOLUZIONE meno drastica come rimontare lo speciale eliminando le sequenze “incriminate” o oscurando i volti dei ricorrenti, avrebbe forse meglio conciliato il diritto all’oblio con quello di cronaca, ma per il momento non è stata presa in considerazione.  Il reportage di Giovanna Cucè ricostruisce il contesto in cui Rita Atria, originaria di Partanna (Trapani), divenne testimone di giustizia. Il contesto degli arresti è quello di una faida tra due clan, gli Ingoglia e gli Accardo, questi ultimi appartenenti al mandamento di Castelvetrano, al cui vertice c’era Francesco Messina Denaro, padre del noto latitante. Borsellino indagava sui delitti che stavano insanguinando Partanna, anche grazie alle testimonianze-chiave di due donne, Piera Aiello (ex deputata 5S) e Rosalba Triolo, e della minorenne Rita Atria. Il decesso della “picciridda”, come la chiamava Borsellino, è stato archiviato nel 1993 come suicidio. A distanza di 30 anni, la sorella Anna Maria (intervistata da Cucè) ha presentato un esposto alla Procura di Roma per chiedere che le indagini vengano riaperte.

Viale Mazzini: la replica Per gli stessi frame (ma con le manette a vista) l’azienda fu condannata in passato. Nel dubbio, non si aspetta il giudizio

20.7.22

Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto Marotta&Cafiero

 

Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto

Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto
Il volume pubblicato da Marotta&Cafiero Editori sarà presentato sabato 11 giugno alle ore 18 a Palermo nel corso di Una Marina di libri a Villa Filippina


09 GIUGNO 2022 ALLE 19:53 2 MINUTI DI LETTURA





Quel 19 luglio, in via D’Amelio, esattamente trent’anni fa, le vittime non furono sei. Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, certo. Ma non soltanto loro. Perché a distanza di un migliaio di chilometri, in uno squallido appartamento del quartiere Tuscolano, quel giorno cominciò a morire anche una ragazzina trapanese di nemmeno 18 anni, figlia e sorella di mafiosi uccisi nella terribile faida di Partanna, che a Borsellino aveva affidato la sua vita di collaboratrice di giustizia. Si chiamava Rita Atria, il 19 luglio del 1992 capì che per lei non c’era più alcun futuro.
“Io sono Rita, la settima vittima di via D’Amelio”, pubblicato da Marotta&Cafiero Editori, la casa editrice indipendente open access di Scampia, non è soltanto un libro che ripercorre il calvario di quella ragazzina, fuggita dalla sua famiglia, da una madre che la voleva chiusa in casa, un fidanzato spacciatore nelle mani della mafia, gli sguardi di un paese che non sentiva più suo. No, si tratta piuttosto di una contro-inchiesta giudiziaria fatta sulle carte ingiallite della Procura che, finalmente, sono venute fuori grazie alla determinazione di tre donne: Giovanna Cucé, giornalista del Tg1, Nadia Furnari, fondatrice e vicepresidente nazionale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e Graziella Proto, direttrice della rivista antimafia Le Siciliane/Casablanca.

Rita Atria Documenti e verbali inediti e una serie di dubbi sui quali, con ogni probabilità, regnerà per sempre il mistero. L’unica impronta ritrovata nell’appartamento del Tuscolano e mai nemmeno comparata con quelle di Rita dopo il suicidio della ragazza avvenuto il 26 luglio del ’92, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. L’agendina di Rita, con tanti numeri “sensibili”, fatta sparire con una semplice richiesta - senza un nome né un cognome - al magistrato incaricato dell’inchiesta quando la giovane trapanese era ancora all’obitorio dell’ospedale, i suoi spostamenti senza protezione, i venti giorni in un liceo classico della capitale dove era stata trasferita dall’Alto Commissariato antimafia, le indagini sulla morte della ragazza chiuse – forse – un po’ troppo in fretta.
Non ci sono accuse ma solo una minuziosa ricostruzione di quella settimana terribile conclusa con quel corpo che si lascia cadere dal settimo piano di una palazzina anonima del Tuscolano. Dove, peraltro, Rita era riuscita a trasferirsi solo da qualche giorno, dopo aver convissuto per mesi con la cognata Piera Aiello – oggi parlamentare – anch’essa collaboratrice di giustizia dopo l’uccisione del marito Nicola.
“Se dovessi morire non devi piangere, anzi, brindare, perché, finalmente, raggiungerò le persone che ho veramente amato, mio padre e mio fratello”, è il saluto inaspettato che Rita rivolge a Piera quando gli agenti la accompagnano nella sua nuova – ultima – dimora di via Amelia. “Ho preso una decisione importante, ma non posso dirti niente, te lo dirò al tuo ritorno”.

Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto “Ci sono storie che non sbiadiscono, storie che racchiudono in sé tutti i fotogrammi di una tragedia antica ed al contempo raccontano anche la nostra triste attualità – scrive nella prefazione del libro Franca Imbergamo, sostituta procuratrice nazionale antimafia - La storia di Rita Atria, la ragazza che ancora minorenne raccontò a Paolo Borsellino ed alle sue sostitute procuratrici, i segreti della mafia di Partanna, è in realtà un percorso dentro la vita di una famiglia mafiosa e di un’intera società”.
“Questo libro, scritto con autentica sincerità ed impegno civile – continua Imbergamo - ci porta a conoscere uno spaccato di vita siciliana, ci rende visibile l’essenza del dominio mafioso. Ed è anche la storia della passione di chi mette in gioco tutto in solo momento, quello della decisione di collaborare. Una passione che la porterà ad un gesto terribile, un esito tragico maturato nella solitudine vergognosamente inflitta ad una ragazza non ancora maggiorenne senza che le istituzioni chiamate a proteggerla si fossero curate della sua fragilità e della necessità di adeguato sostegno”.

Il libro



Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio

di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto

Marotta&Cafiero

26.7.17

ricordiamo che la mafie uccide anche gente comune non solo politici e giornalisti . Il ricordo. Rita Atria, la picciridda di Borsellino che morì 25 anni fa



Anche un suicidio può diventare omicidio . Soprattutto quando i media e le istituzioni ( dopo averli riempiti di merda fango quando erano invita ) si geneflettono ricordando Falcone e Borsellino e di sgtriscio gli uomini delle loro scorte .Ed  in un barlumne di coscienza  e   di lucidità   anche  le istituzioni  : <<  Conosciamo tutti le vittime della strage di Via D'Amelio eppure ne dimentichiamo sempre una. Rita Atria aveva solamente la colpa di essere nata in una famiglia mafiosa»: lo scrive su Facebook il presidente del Senato Pietro Grasso (  http://www.corriere.it/cronache/17_luglio_26/)  >> 

 E il caso che mi acingono a riportare oggi 


Antonio Maria Mira mercoledì 26 luglio 2017
Figlia di una famiglia mafiosa di Partanna testimone di giustizia, aveva 17 anni quando si gettò dalla finestra appena seppe della strage di via D'Amelio.

                                                     Rita Atria

Via D’Amelio e via Amelia. Paolo e Rita. Il magistrato nemico delle mafie e la 'picciridda', figlia di una famiglia mafiosa. Una storia di riscatto e di speranza, di fiducia nei giovani e in una vita pulita, che vince anche la morte. Quella di Rita Atria, 17 anni, la settima vittima di via D’Amelio, anche se la sua vita si ferma il 26 luglio 1992 sul marciapiede al numero 23 di via Amelia, a Roma, sotto il palazzone dove la ragazzina viveva tutelata dal Servizio centrale di protezione, testimone di giustizia, dopo l’uccisione del padre e del fratello, mafiosi di Partanna. Una scelta disperata dopo la morte di Borsellino, il suo nuovo papà. «Rita non la dobbiamo ricordare per la sua morte ma per la sua intelligenza che le diede la possibilità in pochissimo tempo di cambiare. È la storia drammatica di una ragazza che per la prima volta aveva trovato nella vita cose pulite e siccome era intelligente aveva capito la differenza tra le cose sporche in cui aveva vissuto e quelle pulite che aveva trovato».


                        Le due lapidi poste sulla tomba di Rita Atria (Max Firreri)




Così la ricorda Alessandra Camassa, presidente del Tribunale di Marsala. Venticinque anni fa, giovanissima sostituto procuratore nella città siciliana, fu lei a seguire il percorso di collaborazione di Rita. Lei insieme al suo 'capo' Paolo Borsellino. «Paolo aveva una particolare predisposizione per i giovani, soprattutto per i più fragili. Più un ragazzo era fragile e più lo amava. Aveva questo spirito adottivo. Si sostituiva subito alla figura paterna. La sua era una vocazione. E quindi il rapporto con Rita è stato automatico. Faceva benissimo il magistrato ma gli riusciva ancor più bene fare il padre». E per Borsellino era fondamentale anche nella lotta alla mafia. «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo», diceva. «Quanto è importante investire sui ragazzi. È fondamentale», afferma anche la Camassa. Ed è anche l’eredità che ci lascia la 'picciridda', così come la chiamava Borsellino.
Lo sottolinea il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, che come come ogni anno sarà oggi al cimitero di Partanna. Sulla tomba, come aveva chiesto Rita, saranno poste una rosa rossa e un’orchidea. «Il suo sogno si è infranto il 19 luglio. La morte di Borsellino è un vuoto che ha risucchiato la sua fragile vita. Lei il 26 luglio si è affacciata sul balcone e si è lasciata morire. Ma io sono convinto che durante quel volo Dio l’ha abbracciata stretta e forte. Per noi vive, perché la sua vita spezzata ha generato tanti frutti. Soprattutto due: le donne di mafia che si ribellano ai padrini e i ragazzi della giustizia minorile, che hanno più o meno la sua età, che cercano altre strade, altri punti di riferimento, che fanno delle esperienze in un altro tipo di comunità, non quella mafiosa ma quella vera che riempie la vita di vita».
In fondo è proprio quello che Rita aveva scritto. «Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo».
Rita sceglie di parlare seguendo l’esempio della giovane cognata Piera Aiello, moglie del fratello ucciso. «Quando comincia a collaborare con la giustizia – racconta ancora il magistrato – non pensa minimamente 'ora aiuto i giudici'. C’è solo rabbia. Era venuta per vendicarli. E come può una ragazzina di 17 anni vendicare la morte del padre e del fratello? Certamente non si poteva mettere a sparare per strada pur conoscendo tutti i mafiosi amici del padre. E allora collabora con la giustizia. Ma per lei la giustizia erano i carabinieri che venivano a casa la notte. Nei primi colloqui mi dice 'mio padre era un uomo straordinario perché ogni volta che rubavano le pecore, lui riusciva a farle restituire'. Io allora le faccio vedere i rapporti giudiziari e le dico, 'guarda che tuo padre rubava le pecore e si faceva pagare per restituirle: si chiama estorsione'. Per Rita tutto questo è stato un vero percorso analitico, ha rivisitato la sua vita, ha reinterpretato le figure del padre e del fratello. In un anno ha cambiato testa. Le si leggeva in faccia il suo stupore. Non so come ci immaginava. Forse tutti vecchi e burbera. Invece Paolo era tanto affettuoso, io e la collega Morena Plazzi eravamo due ragazze, gentili, normali. Così lei pensa 'e allora tutto quello in cui avevo creduto era sbagliato'. E si affida davvero in un modo personale a Borsellino. Morti il padre e il fratello, rifiutata dalla madre e dalla sorella, Paolo per lei era la salvezza. Era la figura maschile che le mancava».
E Borsellino la coccola, le fa regali, così anche la moglie Agnese. E Rita cambia anche nell’aspetto. «Quando partì dalla Sicilia aveva un vestitino con il pizzo, sembrava una donna dell’800, quando è tornata aveva una grande consapevolezza di sé». In fondo era «una ragazzina, ma dura, perché già la vita l’aveva traumatizzata. Mi diceva sempre: 'dottoressa lei certe volte non può capire perché è troppo una brava ragazza'. E questo mi faceva sorridere perché faceva un po’ la grande con me, mi trattava da ingenua. E un po’ aveva ragione. Le sue paure, le sue ansie io non potevo comprenderle. La paura di una che che ha avuto quella vita non è quella che abbiamo noi, è una paura profonda». E poi il rapporto con la madre. «Lei lo capiva che era qualcosa di terrificante però diceva 'mia madre è una donna che ha avuto grandi disgrazie. Io sono quella intelligente che deve andare verso di lei'. E si sorbiva delle minacce pesantissime. 'Ti farò fare la fine di tuo fratello', le diceva. Ma voleva che nei colloqui non la lasciassimo mai sola. Borsellino con la sua grande umanità cercava di trovare la quadratura del cerchio ma erano due mondi che non si potevano parlare».
Già perché la famiglia era ed è ancora convinta che la colpa delle scelte di Rita sia tutta di Borsellino e di Piera Aiello. «La madre – ricorda Camassa – denunciò Paolo per sottrazione di minore e fummo costretti a fare il procedimento al Tribunale dei minorenni per sospendere la patria potestà». E proprio la madre spezzò la lapide della tomba. Ora, dopo la sua morte quattro anni fa, la lapide è stata rimessa. Anzi due. Una di chi ha sostenuto la sua scelta, una della sorella. Fianco a fianco ma le parole e i pensieri restano diversi. Ma almeno il suo nome c’è. Nome e memoria.
Ma c’è un modo molto concreto per onorarne la memoria. Approvare rapidamente la proposta di legge sui testimoni di giustizia. Il testo è uscito dall’inchiesta della Commissione antimafia nel maggio-luglio 2014. Come ci ricorda il deputato del Pd, Davide Mattiello, coordinatore dell’inchiesta, la commissione approvò all’unanimità una relazione nell’ottobre 2014. Poi alla fine del 2015 la proposta di legge sottoscritta da tutti i gruppi politici in commissione. A marzo 2017 è stata votata dalla Camera sempre all’unanimità. «Io ero il relatore – ricorda ancora Mattiello –. Al Senato, dove lo è Giuseppe Lumia, è stata incardinata in commissione Giustizia poche settimane fa. La sfida è che non sia modificata e così diventi rapidamente legge. Spero non ci siano sorprese dopo tutta questa unanimità».Anche perché la proposta di legge è dedicata a Rita. Ed è importante perché definisce per la prima volta uno statuto autonomo dei testimoni di giustizia, rispetto ai collaboratori di giustizia. «Fino ad ora – spiega Mattiello – i testimoni sono stati trattati come una costola della normativa sui collaboratori, una scelta che genera confusione e nella confusione un certo mal trattamento». Invece, commenta la Camassa, «dobbiamo riconoscere il grande sacrificio dei testimoni. Il Paese dovrebbe tributare loro un ringraziamento continuo, perché è gente che cambia la sua esistenza, la propria vita, e per sempre». Proprio come Rita, la 'picciridda' di Borsellino.

  concluso   facendo mio  , poi  fate  come volete  ,L'appello lanciato dalle figlie di Paolo Borsellino  ( sempre  dal corriere  delal sera  )  ad abbandonare la retorica delle celebrazioni è lo stesso che ripete l'associazione nata per ricordare Rita Atria: «L'antimafia - spiegano gli organizzatori degli eventi celebrativi - non si esercita con la retorica istituzionale, con le commemorazioni una volta all’anno, con facili slogan, ma praticando la memoria attiva, denunciando, documentando, dando voce, sostegno e solidarietà concreta alle vittime, lottando ogni giorno per cambiare un sistema di valori che ha preso il sopravvento e che puzza di quel compromesso morale, di quella indifferenza, di quella contiguità e quindi della complicità di cui parlava Borsellino». «Il dubbio di Rita - aggiunge il regista Nevano - se può un mondo onesto possa esistere o sia solo in sogno è la domanda più attuale, mentre celebriamo la morte di Borsellino, e la più urgente. Sinceramente non so rispondere».

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...