Ricordare Paolo Borsellino oggi, trentadue anni dopo la sua morte, ha un senso solo se ci si impegna – come dovere civile, come senso autentico di cittadinanza – a non abituarsi a questo oblio. È quanto ci chiederebbe quel giudice galantuomo se fosse ancora tra noi: continuare a pretendere le risposte che ci
sono dovute. Senza agitare complotti, senza alzare la voce. Memoria e verità non hanno mai bisogno di lettere maiuscole: solo di un po’ di buona volontà. Ecco quindoi che il daneggiamento della pensillina rossa di via d'Amelio non è soltanto il classico atto vandalico contro un bene pubblico ma è anche una vigliaccata sia contro i simboli ( si può condividere o meno , ma cme bene pubblico lo rispetti ) di ricordare del femminicidio . Ma soprattutto perchè avvenuta allla vigilia del 19 luglio aniversario della strage di via d'aamelio . Attentato i cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta .
Atto vergognoso a Palermo, dove una pensilina dedicata al valore delle donne e alla lotta contro ogni forma di violenza è stata vandalizzata. L'episodio, che è solo l'ultimo di una lunga serie, è stato commesso nella notte da parte di ignoti. Adesso si cercano i responsabili.
La panchina rossa
Inaugurata nell'autunno del 2021, la pensilina rossa è un simbolo che rappresenta le grandi personalità femminili che hanno fatto parte della nostra società e vuole essere un monito contro ogni genere di violenza e di abuso. Collocata in via Autonomia Siciliana a Palermo, proprio nelle vicinanze della tristemente nota via D'Amelio, la fermata è stata intitolata a Emanuela Loi, Rita Atria, Rita Borsellino, Maria Pia Lepanto e Agnese Piraino Leto, tutte donne che hanno fatto parlare per le loro gesta e il loro coraggio.Purtroppo la pensilina non è nuova a simili attacchi. Già pochi giorni dopo l'inaugurazione, infatti, la postazione commemorativa venne presa di mira dai vandali, che distrussero alcuni dei pannelli laterali. "Era una pensilina dell'autobus ormai in disuso: prima ci dormiva un senzatetto. I pannelli laterali raccontavano la storia di via D'Amelio e delle cinque donne a cui è dedicata la fermata", aveva spiegato Davide Minio, coordinatore dell'associazione City Angels, a MeridioNews. L'atto vandalico
Purtroppo, a distanza di poco tempo, ecco che i vandali sono entrati nuovamente in azione. A quanto pare il responsabile, o i responsabili, hanno agito durante la notte fra mercoledì 17 e giovedì 18 luglio. Approfittando del buio, hanno divelto alcune immagini delle donne presenti nella pensilina. Alcuni pannelli, invece, sono stati imbrattati con disegni osceni.
Una vera e propria vergogna che per la città di Palermo è una ferita. Fra l'altro ciò è accaduto il giorno precedente al 32esimo anniversario della strage via D'Amelio (domenica 19 luglio 1992), dove persero la vita non solo il giudice Paolo Borsellino, ma anche i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Cosina e Vincenzo Li Muli.
Non ho appreso , a differenza di quella di capaci , in diretta la notizia della strage di via d'amelio . Ma il ricordo del fatto e di cosa stessi facendo quel giorno e di come appresi la notizia è ancora vivo in me dopo 31 anni . Cosi come sono impressi gli eventi successivi .Infatti ricordo che era con mio padre e mio fratello a raccogliere bacche di mirto per farne delle piante . La macchina era lontana e la radio era spenta . Quando tornati a casa dei nonni materni vedi in tv le immagini della edizione straordinaria rai . Rimasi scioccato , sgomentato , e mi misi a piangere Era come se fossi li sul luogo della strage descritto in maniera ottimale nella 6 puntata del podcast del Fatto quotidiano Mattanza. Cosi come ricordo , man mano che ascoltano le puntate del podcat prima citato , i depstaggi , gli occultamenti ed i retroscena dela strage di stato
Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto
di Lucio Luca
Il volume pubblicato da Marotta&Cafiero Editori sarà presentato sabato 11 giugno alle ore 18 a Palermo nel corso di Una Marina di libri a Villa Filippina
09 GIUGNO 2022 ALLE 19:53 2 MINUTI DI LETTURA
Quel 19 luglio, in via D’Amelio, esattamente trent’anni fa, le vittime non furono sei. Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, certo. Ma non soltanto loro. Perché a distanza di un migliaio di chilometri, in uno squallido appartamento del quartiere Tuscolano, quel giorno cominciò a morire anche una ragazzina trapanese di nemmeno 18 anni, figlia e sorella di mafiosi uccisi nella terribile faida di Partanna, che a Borsellino aveva affidato la sua vita di collaboratrice di giustizia. Si chiamava Rita Atria, il 19 luglio del 1992 capì che per lei non c’era più alcun futuro. “Io sono Rita, la settima vittima di via D’Amelio”, pubblicato da Marotta&Cafiero Editori, la casa editrice indipendente open access di Scampia, non è soltanto un libro che ripercorre il calvario di quella ragazzina, fuggita dalla sua famiglia, da una madre che la voleva chiusa in casa, un fidanzato spacciatore nelle mani della mafia, gli sguardi di un paese che non sentiva più suo. No, si tratta piuttosto di una contro-inchiesta giudiziaria fatta sulle carte ingiallite della Procura che, finalmente, sono venute fuori grazie alla determinazione di tre donne: Giovanna Cucé, giornalista del Tg1, Nadia Furnari, fondatrice e vicepresidente nazionale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e Graziella Proto, direttrice della rivista antimafia Le Siciliane/Casablanca.
Rita Atria Documenti e verbali inediti e una serie di dubbi sui quali, con ogni probabilità, regnerà per sempre il mistero. L’unica impronta ritrovata nell’appartamento del Tuscolano e mai nemmeno comparata con quelle di Rita dopo il suicidio della ragazza avvenuto il 26 luglio del ’92, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. L’agendina di Rita, con tanti numeri “sensibili”, fatta sparire con una semplice richiesta - senza un nome né un cognome - al magistrato incaricato dell’inchiesta quando la giovane trapanese era ancora all’obitorio dell’ospedale, i suoi spostamenti senza protezione, i venti giorni in un liceo classico della capitale dove era stata trasferita dall’Alto Commissariato antimafia, le indagini sulla morte della ragazza chiuse – forse – un po’ troppo in fretta. Non ci sono accuse ma solo una minuziosa ricostruzione di quella settimana terribile conclusa con quel corpo che si lascia cadere dal settimo piano di una palazzina anonima del Tuscolano. Dove, peraltro, Rita era riuscita a trasferirsi solo da qualche giorno, dopo aver convissuto per mesi con la cognata Piera Aiello – oggi parlamentare – anch’essa collaboratrice di giustizia dopo l’uccisione del marito Nicola. “Se dovessi morire non devi piangere, anzi, brindare, perché, finalmente, raggiungerò le persone che ho veramente amato, mio padre e mio fratello”, è il saluto inaspettato che Rita rivolge a Piera quando gli agenti la accompagnano nella sua nuova – ultima – dimora di via Amelia. “Ho preso una decisione importante, ma non posso dirti niente, te lo dirò al tuo ritorno”.
Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto “Ci sono storie che non sbiadiscono, storie che racchiudono in sé tutti i fotogrammi di una tragedia antica ed al contempo raccontano anche la nostra triste attualità – scrive nella prefazione del libro Franca Imbergamo, sostituta procuratrice nazionale antimafia - La storia di Rita Atria, la ragazza che ancora minorenne raccontò a Paolo Borsellino ed alle sue sostitute procuratrici, i segreti della mafia di Partanna, è in realtà un percorso dentro la vita di una famiglia mafiosa e di un’intera società”. “Questo libro, scritto con autentica sincerità ed impegno civile – continua Imbergamo - ci porta a conoscere uno spaccato di vita siciliana, ci rende visibile l’essenza del dominio mafioso. Ed è anche la storia della passione di chi mette in gioco tutto in solo momento, quello della decisione di collaborare. Una passione che la porterà ad un gesto terribile, un esito tragico maturato nella solitudine vergognosamente inflitta ad una ragazza non ancora maggiorenne senza che le istituzioni chiamate a proteggerla si fossero curate della sua fragilità e della necessità di adeguato sostegno”.
Il libro
Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio
Apprendo da Lorenzo Tosa la deciione di Francesca Borsellino e ella famiglia di non prestarsi alle celebrazioni ufficiali ed ipocrite puliscicoscienza per il 30 enale della morte del padre paolo . Ha ragione lorenzo Tosa : << Con una decisione carica di dignità, Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ha appena annunciato che non parteciperà alla commemorazione della Strage di via D’Amelio. E con lei
tutta la famiglia. >> Brava , finalmente un familiare delle vittime di mafia e di stato perchè secndo la verità storica dietro le stragi compresa qiuella di via d'Amelio no c'è solo la classica mafia , che rifiuta i rituali puliscoscieza di uno stato complice e colluso . Un modo forte, e chiarissimo, per manifestare il proprio dissenso contro quei pezzi di Stato che a parole celebrano ipocritamente Borsellino e, nei fatti, non hanno mai fatto nulla per far emergere la verità sulle stragi.“Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro” ha detto. “Dopo trent'anni di depistaggi e di tradimenti, noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perché sia fatta verità sull'uccisione di nostro padre.È per questo motivo che diserteremo tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D'Amelio fino a quando lo Stato non ci dirà la verità su cosa è avvenuto davvero. L’unico posto dove mi sento a mio agio a parlare di papà è la scuola”.
Guance piene, chioma fulva e aria da ragazzina spensierata: Emanuela Loi aveva in effetti poco meno di venticinque anni quando rimase uccisa nell’attentato di Via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino.Originaria di Sestu, vicino a Cagliari, Emanuela sognava in realtà di diventare maestra; ma per qualche strana ragione a volte si fanno scelte che condannano il proprio destino, e la giovane, ispirata dalla sorella maggiore, tenta insieme a lei il concorso in polizia, superandolo – a differenza della sorella – a pieni voti.
Nel 1989 Emanuela entra perciò, quasi per caso,nella Polizia di Stato, spostandosi a Trieste per l’addestramento e iniziando la serie di trasferimenti che la porteranno lontana dalla famiglia e dalla sua terra. Due anni dopo, infatti, invece di rientrare in Sardegna, viene trasferita a Palermo, dove le vengono affidati i piantonamenti a casa Mattarella, la scorta alla senatrice Masaino e la guardia al boss Francesco Madonia. E così, oltre al dispiacere della lontananza da casa, si aggiunge la paura, perché la Sicilia tra gli anni Ottanta e Novanta è martoriata di stragi mafiose che uccidono indifferentemente magistrati e agenti di polizia. A Palermo, inoltre, Emanuela deve fronteggiare anche gli sberleffi degli adolescenti, che scherniscono le donne in divisa.È il luglio 1992. Solo due mesi prima, la strage di Capaci ha ucciso il giudice Giovanni Falcone insieme Quel tremendo attentato ha scosso profondamente tutti i poliziotti, anche Emanuela, che come i colleghi non si sente più sicura. È il luglio 1992. Solo due mesi prima, la strage di Capaci ha ucciso il giudice Giovanni Falcone insieme a quasi tutta la sua scorta. Quel tremendo attentato ha scosso profondamente tutti i poliziotti, anche Emanuela, che come i colleghi non si sente più sicura.Non servono le rassicurazioni alla famiglia e al fidanzato che non le sarebbe successo nulla: Emanuela sa di rischiare la vita per quell’incarico, molto più pericoloso dei precedenti; a darle coraggio, il pensiero di fare scrupolosamente il suo lavoro, e soprattutto di fare ritorno a Sestu, nella sua Sardegna, per un periodo di ferie.Ma Emanuela non ne avrà il tempo.Il secondo giorno di scorta a fianco di Borsellino, alle 16.58 del 19 luglio 1992, in via D’Amelio, dove il giudice si era recato per un saluto alla madre, una Fiat 126 esplode proprio nel momento in cui i due scendono dall’auto, uccidendo insieme a loro anche gli altri membri della scorta Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.Emanuela avrà il triste primato di prima donna poliziotto a morire in servizio. In Sardegna la aspettavano a fine mese mamma Alberta e papà Virgilio, la sorella Claudia, il fratello Marcello e il fidanzato, ma a Sestu tornerà solo il suo corpo dilaniato dall’esplosione. Claudia, 26 anni, quella sorella di cui Emanuela voleva seguire le orme e che invece era diventata parrucchiera, oggi tiene vivo il suo ricordo nell’associazione contro le mafie “Libera”.Emanuela era una ragazza solare e sorridente, che amava la vita e il suo lavoro, a cui ha sacrificato anche se stessa.Gli ultimi istanti della sua vita sono raccontati in un bellissimo libro per ragazzi di Annalisa Strada, Io, Emanuela, agente della scorta di Paolo Borsellino, che dipinge il coraggio di questa giovanissima poliziotta, per restituirle almeno sulla carta i sogni che quel giorno di luglio le ha spezzato troppo presto.
per approfondire il contesto di Capaci e il dopo ( Borsellino- via d'Amelio , le bombe delle 1992\93 e il colpo di coda [?] di mafia e potere politico )
auto degli uomini della scorta del giudice Falcine
Come ben sapete , cari compagni di strada e di viaggio , io sono sempre contrario agli anniversarti e alle celebrazioni ufficiali ma li celebro qualche giorno prima o qualche giorno dopo in ( almeno ci provo ) maniera non retorica celebrativa e d ipocrita cavalcata da cloro che lo accusarono di essersi messo da solo la bomba all'addaura - Ma a causa di problemi di lavoro e di salute , per questo evento lo faccio in tale data e con ricordi diretti o semi indiretti .
Ricordo tale evento come se fosse oggi . Infatti ci sono eventi che ti rimangono impressi dal farti ricordare quello che sta facendo o dov'eri quando hai appreso la notizia del fatto . E la strage di Capaci ( anche se in realtà' l'attentato non avvenne proprio a capaci . Infatti secondo la voce di https://it.wikipedia.org/wiki/Capaci : << [...] Il 23 maggio 1992, sull'Autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci (ma in territorio di Isola delle Femmine, un comune adiacente [....] ) è uno di questi . Ricordo che stavo studiando per le ultime interrogazioni ed alle 18.55 feci una sosta per sentire i titoli del tg3, quando già 5 minuti prima smisero di fare pubblicità e comparve non ricordo se La Cuffaro o la Berlinguer annunciando la news che già circolava essendo l'attentato avvenuto un ora prima . Io urlai con e lacrime a volto , e scosso riferisco la news a mia madre che si trova in cucina a preparare la cena . E lei venne in soggiorno e mi disse << avrai sentito male >> , di non preoccuparmi , poi scosso aspettai due \ tre minuti in più quando il tg3 delle 19 apri con la notizia e con l'aggiornamento della morte del giudice e vedi mia madre con il volto rigato dalle lacrime .
Ricordo le immagini ( di cui trovate sotto una foto )
Ma non come descritto dall'ottimo speciale di Atlantide di andrea purgatori andato in onda sabato 18\5\2019 su la7 intitolata "Capaci le verità nascoste " non sapevo o avevo vaghi ricordi tramite i giornali e vari servizi tv , su la confusione che ci fu dopo la strage .
La trasmissione mi ha fatto ricordare di come falcone inizio a morire per gli attacchi da quelli che ora l 'osanno e ( mi pare che non si sono neppure scusati per la merda fango che gli hanno gettato addosso ) santificano
Spero d'esserci riuscito e d'aver svolto il dovere di ricordare non solo falcone ma anche gli uomini della sua scorta senza retorica e frasi di circostanza un fatto della storia italiana con cui non abbiamo ancora fatto i conti e di cui ancora ( vedere siti citati all'inizio e la trasmissione di Atlantide di Andrea Purgatori citata e che trovate qui sul sito della trasmissione http://www.la7.it/ ) ancora avvelena il nostro paese e della mia gioventù
mi cospargo il capo di cenere per aver condiviso e messo mi piace sul mio facebook ad un idiozia del genere e non aggiungo altro all'articolo dell'amico Enrico che trovate sotto se non questo video di un regista cervellotico e geniale allo stesso tempo che Nanni moretti
buona lettura
Il peso delle parole
Sulla prima pagina di “Libero” di ieri Filippo Facci, in dichiarata sintonìa col sottoscritto, ha lanciato una provocazione. Speriamo che porti a qualcosa di positivo.
Il tema è piuttosto spinoso: il riporto giornalistico, più o meno strumentale o più o meno infedele, delle parole e dei pensieri dei nostri eroi di Stato, mediato o tramandato da chi gli era vicino allorchè essi erano ancora in vita.
In questo caso a sollevare la nostra attenzione, è stato un “aforisma” attribuito a Paolo Borsellino e pubblicato come una lapide in decine di migliaia di pagine del web, che recita:
“Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.”
In questi giorni di commemorazione del ventennale della morte di Paolo Borsellino, l’impiego di questo aforisma nelle pagine di internet, è letteralmente esploso. (cercandolo con google, compaiono migliaia di link).
Sono state realizzate composizioni d’effetto, poster e immagini votive, e centinaia e centinaia di cittadini lo hanno inserito, in memoria del magistrato, nelle pagine dei propri blog, dei forum, dei profili, ecc.. ecc..
La seguente composizione fotografica, su Facebook, ha superato le 10.000 condivisioni da parte di altrettanti utenti.
Ma ve ne sono anche altre, altrettanto suggestive:
Qualcuno poi ha realizzato delle composizioni artistiche di pregevole fattura, come il fotografo fiorentino Davide Bellanti che in questo suo scatto molto suggestivo ha inserito anche un’immaginaria riproduzione della famosa Agenda Rossa, aperta sulla pagina dove compare il nostro aforisma manoscritto e firmato in calce da Paolo Borsellino:
Ora, tutto questo onorare e ricordare queste parole di Paolo Borsellino, assume un aspetto un po’ grottesco se si pensa ad un piccolo dettaglio che ora noi, come già Filippo Facci nel suo corsivo su Libero, ci permettiamo di segnalare: queste parole, scritte a quel modo, in realtà non possono appartenere a Paolo Borsellino.
Per la verità c’è un solo episodio in cui Borsellino risulta avere espresso parole vagamente simili, ma, come vedremo ,dal significato molto diverso.
A quell’episodio era presente soltanto la moglie, Agnese Leto Piraino, la quale lo ha raccontato con dovizia di particolari ai procuratori di Caltanissetta, il 18 agosto 2009.
Quindi riportiamo la fedele trascrizione della parte di quel verbale di nostro interesse:
“AD.R. Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta.
In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere.”
Poco dopo, la teste precisa: “ non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore GIAMMANCO.”
Quindi:
che l’episodio in cui Borsellino, a poche ore dalla morte, si confidò con la moglie sul proprio imminente assassinio lamentandosi del fatto che, per responsabilità di terzi, la mafia si stava trovando la strada aperta per realizzarlo, sia quello e soltanto quello oggetto di questa deposizione, non c’è alcun dubbio.
Che Borsellino abbia fatto quell’affermazione riferendosi espressamente ai “colleghi”, allo stesso modo non può esservi dubbio in quanto la testimone fornisce una precisazione ben circostanziata a riscontro (… quando Paolo si riferì ai colleghi…), che non lascia spazio ad equivoci.
Pare, di conseguenza, altrettanto incontestabile, che Borsellino abbia manifestato il suo sconforto alla moglie riferendosi specificatamente al suo isolamento ed all’abbandono da parte di colleghi di lavoro e da parte di altri che, come loro, avrebbero dovuto invece supportarlo e proteggerlo (soprattutto a seguito del fatto che le informative che erano pervenute in procura, le quali preannunciavano il suo attentato, gli erano state celate dal collega Giammanco, e Borsellino era venuto a saperlo). E tutto questo, senza sollevare mai, nelle sue parole, la mafia dalla responsabilità della premeditazione dell’attentato “imminente”, perché questo, di fatto, dalle parole “pesate” dalla signora Agnese di fronte ai magistrati, non risulta essere avvenuto, e noi non crediamo assolutamente che nella realtà possa essere avvenuto.
Detto questo, bisogna dare atto che esistono altre versioni, in circolazione, di quell’episodio.
Nella fattispecie, io ne conosco altre tre, tutte testualmente diverse l’una dall’altra. Delle altre due di queste, parlerò in un prossimo articolo, perché rappresentano di fatto qualcosa che va analizzato a parte e approfonditamente. Ad ogni modo, si tratta di versioni più “sintetiche”, generiche e meno circostanziate, di quelle di cui ora parleremo, per cui per il momento possiamo trascurarle.
La versione di cui oggi invece ci stiamo occupando, la più diffusa, definita come una “schifosa manipolazione” da Filippo Facci nel suo corsivo, compare, oltre che nelle decine di migliaia di citazioni lapidarie nei siti internet di cui abbiamo parlato, in virgolettato e forse per la prima volta, nel libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino” di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, (ed. Chiarelettere – 2007), ed è citata sia nella prefazione di Marco Travaglio (come segnala Facci), sia nel testo degli autori, i quali la raccontano così:
“Agnese Piraino Leto nella sua deposizione al Borsellino ter dice che il marito, nei giorni precedenti alla morte, sosteneva di avere “capito tutto” della morte di Falcone. “Così diceva: ho capito tutto.” Oggi, a quindici anni di distanza, Agnese è più precisa: “Paolo era come uno che ha il cancro, sapeva di dover morire presto, aspettava di morire da un momento all’altro. Mi diceva: mi uccideranno, ma mi diceva anche: non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri“.
Ecco, per la verità, Rizza, Lo Bianco, e il prefatore Travaglio, non ci forniscono il minimo aiuto per capire quando, dove e come la signora Agnese sarebbe stata più precisa, a quella maniera.
Si tratta di una dichiarazione resa forse in un’intervista rilasciata agli autori stessi? Si tratta di uno stralcio di qualche altro verbale giudiziario? Si tratta di qualcosa detto dalla signora Agnese a qualche convegno? Si tratta di un’informazione passata ai giornalisti da qualche intermediario terzo, magari un famigliare? Si tratta di qualcosa di inventato di sana pianta? Si tratterà di una versione veramente testuale, oppure arricchita e infiorettata?
Noi, in tutta onestà, non lo sappiamo. Abbiamo effettuato un’umile ricerca in internet, nei nostri archivi personali, e negli archivi storici dei principali quotidiani nazionali, e non abbiamo trovato null’altro che quel virgolettato di quel libro, in merito a quell’apporto testimoniale della signora Borsellino che, secondo gli autori, risalirebbe al 2007.
Però una cosa certa la sappiamo: che, comunque sia, quelle pubblicate nel 2007 su quel libro, non possono essere state le parole di Paolo Borsellino. Proprio perché, se così non fosse, allora la vedova Borsellino avrebbe testimoniato il falso dinnanzi ai magistrati di Caltanissetta il 18 agosto 2009. Infatti in quella deposizione la signora Agnese, in regime di ammonizione formale perché dica la verità, circostanzia esattamente l’episodio, e lo descrive come un giudizio del marito espresso con stretto riferimento all’atteggiamento di ignavia ed accondiscendenza soprattutto dei suoi colleghi relativamente all’attentato imminente , e non come una dichiarazione del giudice riferita a presunti ignoti “committenti” della strage imminente, committenti diversi dalla mafia, come invece indicherebbe l’aforisma che tanto successo e diffusione ha ottenuto presso i cittadini.
Insomma, delle due soltanto una può essere vera, e soltanto una compare su di un verbale giudiziario sottoscritto dalla testimone, per cui quella vera non può essere che questa , risalente all’agosto 2009.
Se in quella riflessione Borsellino fece uno specifico riferimento all’atteggiamento dei colleghi, allora le parole che impiegò non possono essere quelle che oggi ovunque gli vengono attribuite a seguito della pubblicazione del libro di Rizza e Lo Bianco, dove quella parte centrale, quella sui colleghi, viene invece bellamente omessa e concettualmente stravolta. Questa evidenza, è oggettiva.
E ciò a maggior ragione, se si guarda a quella strana affermazione: “La mafia non si vendica”.
Potrebbe mai Paolo Borsellino aver pronunciato una cosa del genere? Noi, francamente, ne dubitiamo.
Non c’è bisogno di essere uno dei massimi esperti di mafia come Paolo Borsellino, per sapere che la vendetta mafiosa non soltanto è qualcosa che esiste, ma è anche qualcosa che sta nel DNA stesso della mafia essendo proprio la vendetta una delle opzioni principali dell’organizzazione per mantenersi autorevole nel suo regime di terrore.
Molto difficile quindi accettare l’idea che Paolo Borsellino possa aver espresso un postulato del genere proprio con quelle esatte parole, perchè stridono con il suo pensiero e la sua professionalità, tanto che paiono più simili a quelle che si ritrovano in alcune leggendarie sortite, del tipo “la mafia non esiste” o “qui ci sono solo pastori e braccianti agricoli”, che tutti conosciamo.
Sic stantibus rebus, noi siamo d’accordo con Filippo Facci che provocatoriamente definisce le due versioni una la manipolazione dell’altra, perché concettualmente è così: la versione propagandata si configura, a tutti gli effetti, come un’alterazione delle vere parole pronunciate dal magistrato, anche se, come pare, sotto il profilo cronologico dovrebbe essere nata prima la versione alterata rispetto a quella veritiera, per cui si tratterebbe di un’alterazione non fisica ma concettuale: un modo molto sottile, quello di Facci, per richiamare l’attenzione sul fatto che decine di migliaia di cittadini, sulle loro pagine di internet, stanno onorando Paolo Borsellino con la “santificazione” di un aforisma composto da parole che non solo il magistrato potrebbe non avere mai pronunciato (o comunque certo non in quegli esatti termini), ma che, nel caso non le avesse mai pronunciate e fossero quindi false o alterate, potrebbero arrivare anche ad apparire come scientemente elaborate per favorire Cosa Nostra.
La mafia infatti, grazie a quell’aforisma enormemente reclamizzato da cittadini ignari, dapprima ottiene grossi benefici a livello d’immagine, mediante la notizia ripetuta in internet migliaia e migliaia di volte che essa non sarebbe usa a vendicarsi, dopodiché viene pure nettamente scagionata, direttamente dalla bocca di un virtuale Paolo Borsellino (che possiamo bene immaginare quanto sarà d’accordo, da lassù), dalla responsabilità della premeditazione della strage di Via D’Amelio, figurando solo come un sicario, una specie di sciocco, quasi ignaro, mero esecutore.
Tutto ciò pare gravissimo, ma allo stesso modo inevitabile, in un paese dove, come dice Beppe Grillo, “i giornali sono medium, non media: fanno parlare i morti.”
Da oggi 16 luglio inizia il rituale celebrativo per il 20° anniversario di Via d'Amelio . Strage \attentato di stampo terroristico-mafioso messo in atto il pomeriggio del 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta. L'agguato segue di due mesi la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia Da quei pochi ricordi diretti , viste che non vidi subito in diretta come quelle per capaci ( vedere miei post del 22 e 23 maggio che potete trovare qui ) ero a raccogliere bacche di mirto per farne talee con mio padre e mio fratello .
foto ansa
Dai quei pochi ricordi dell'epoca, aveva 16 anni,fu unattentatodi stampo terroristico-mafiosomesso in atto il pomeriggio del19 luglio1992aPalermoin cui persero la vita il giudice antimafiaPaolo Borsellinoe la sua scorta : 1) Agostino Catalano il capo scorta ., 2) Emanuela Loi prima donna a far parte di una scorta e a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli,Walter Eddie Cosina ed infine Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l'esplosione, in gravi condizioni. L'attentato segue di due mesi lastrage di Capaci, in cui fu ucciso il giudiceGiovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia.
Essi sono ricordi basati su immagini tv ( vedere video sotto ) che vedemmo appena rientrammo a casa di nonna materna
film e documentari sull'eccidio
L'esplosione, avvene in viaMariano D'Ameliodove viveva la madre di Borsellino e dalla quale il giudice quella domenica si era recato in visita, avvenne per mezzo di unaFiat 126contenente circa 100 chilogrammi ditritolo sui dubbi espressi da gli agenti di scorta, via d'Amelio era una strada pericolosa, tanto che era stato chiesto di procedere preventivamente ad una rimozione dei veicoli parcheggiati davanti alla casa, richiesta però non accolta dal comune di Palermo, come rilasciato in una intervista alla RAI da Antonino Caponnetto.
Fin qui i ricordi misti . Questo fino a che s'inizio a parlare della trattiva tra mafia e stato che appresi da trasmessi come Blu notte di Lucarellie siti come http://www.misteriditalia.it . Ora inizialmente c'era lo stesso proposito , per chiarire e chiarirmi meglio alcuni aspetti della trattativa ( verità assoluta ed indiscutibile secondo alcuni , verità con critica come il sottoscritto , presunta secondo alcuni , inesistente o bufala secondo altri ) , dei post su capaci cioè il non parlare del contrastato argomento , e lasciare parlare solo i ricordi diretti o indiretti che fossero . Ma visti i classici fiumi d'inchiostro e di bit e tutta una serie d'articoli trasmissioni ,tv , dvd , libri ,ecc a senso unico cioè pro trattativa , i miei dubbi su quello che gli stessi fautori d'essa definisco basilare cioè il pappello di Vito Ciancimino e le dichiarazioni del figlio Massimo Ciancimino , ed [ SIC ] il svincolare ( come il caso di Adriana stazio delle agende rosse ) o il non rispondere ( motivi di salute o paura d'essere messi in discussione , Salvatore Borsellino spazio facebook e email al sito http://www.19luglio1992.com/.
Il mio intento era intervistare sia i Trattatisti ( sono sempre a disposizione per repliche ed eventuali richieste di rettifiche che questo post dovesse potare ) sia gli anti o i dubbiosi \ negazionisti . Ora Sono riuscito nel secondo , intervistando via facebook il maggiore dei rappresentati Enrico Tagliaferro , riprendendo le domande ( qui il testo originale ) fatte dall'amica Antonella Serafini ( di www.censurati .it ) al d Antonio Ingroia ovviamente modificandole per renderle più comprensibili a chi non legge i giornali ( se non quelli sportivi ) o vede solo programmi demenziali , insomma agli analfabeti di ritorno
Egli è un blogger noto sul web come “il Segugio”
( indirizzo del blog: http://segugio.daonews.com/ ), autore
nel 2010 di un libro autoprodotto dal titolo “Prego, dottore!”, acquisito agli
atti del processo “Mori-Obinu”, a Palermo, in quanto latore di argomenti
piuttosto convincenti in relazione alla dubbia autenticità di alcune carte
prodotte dal teste Massimo Ciancimino, in un periodo in cui lo stesso
Ciancimino era considerato un’icona dell’antimafia non essendo ancora incappato
nel malaugurato incidente che gli costò l’arresto con un’accusa di calunnia per
la falsificazione di un documento.
Tagliaferro in questi ultimi anni insieme ad altri blogger
giornalisti come Antonella Serafini (censurati.it) o Anna Germoni, ha seguito
le vicende siciliane che hanno visto i Reparti Operativi Speciali dei
carabinieri al centro di accuse molto gravi, studiando scrupolosamente le carte
e le testimonianze, e proponendo quindi un’analisi critica del lavoro della magistratura
che ha sollevato nei suoi lettori, come pare, più di un dubbio in relazione
alle ipotesi accusatorie formulate a carico di uomini come il capitano Ultimo
(Sergio De Caprio) e il generale Mori.
Tagliaferro in particolare, con le sue documentate inchieste, ha
acceso i riflettori su indizi di dubbia autenticità e su testimonianze
incongrue, in relazione a questa triste storia.
Purtroppo il nostro sistema dell’informazione da ben poco spazio
a chi non si accoda alle “verità” ufficiali.
Abbiamo così deciso di proporgli alcune domande.
1) Con riferimento alla perquisizione del
febbraio 2005 della casa all’Addaura di Massimo Ciancimino, tu non vedi forse
un’incongruenza fra quanto riferito dal testimone a proposito della cassaforte “volontariamente
non perquisita” dai carabinieri, ed il fatto che vi sia stata una contestuale
perquisizione, da parte degli stessi carabinieri, di un magazzino, persino
facoltativa in quanto non disposta nel mandato del magistrato, in cui venne
repertato il famoso pizzino strappato, meglio noto come “lettera di Provenzano
a Berlusconi”, oltre che a copiosa documentazione manoscritta di don Vito? E
come si conciliano le due versioni date dal teste, una in cui Ciancimino per
telefono dalla Francia suggerisce al suo impiegato di consegnare ai carabinieri
la chiave della cassaforte, e l’altra in cui dice di aver parlato con il suo
dipendente solo “a perquisizione avvenuta”?
Tu hai già posto l’accento, nella tua domanda, su alcune visibili
incongruenze. Ma ce ne sono molte altre, su quel fatto. Massimo Ciancimino dapprima
racconta che i carabinieri, durante quella perquisizione nel 2005, rinunciarono
ad aprire la sua cassaforte, nonostante questa contenesse il preziosissimo
“papello”, quello poi da lui consegnato in fotocopia e che oggi noi conosciamo.
Successivamente uno dei carabinieri che parteciparono alla perquisizione,
affermò invece in aula che un suo collega ritrovò il papello nascosto in una
controsoffittatura, se lo portò in copisteria per fotocopiarselo (ma senza
porre la fotocopia agli atti del sequestro), e quindi lo ripose nuovamente dove
l’aveva trovato.
Tutte queste narrazioni possono lasciare, in chi le recepisce, perplessità,
e come un senso di sconcerto, di mistero. Io invece credo che tutto diventi più
chiaro e meno misterioso, se si guarda sotto un’altra luce, vale a dire tenendo
in considerazione in primis che il “papello” di Ciancimino, già rinviato a
giudizio per aver falsificato, reo confesso, un altro documento, contiene un evidente
anacronismo, tale da indurre a dubitare anche di quella fotocopia, e che il
secondo testimone è un carabiniere non proprio dei primi della classe, già
condannato in primo grado per falso materiale, avendo falsificato la firma del
suo comandante in calce ad una dichiarazione scritta, ed essendo quindi fisiologicamente
ostile verso i propri comandi dell’epoca.
Ci troviamo quindi di fronte ad incongruenze o fatti
sconcertanti scaturiti dalle testimonianze di due probabili falsari. Tenendo in
conto questo, forse tutto quadra meglio, e si spiegano le incongruenze.
2 ) Parliamo della trattativa fra lo stato e
la mafia. Secondo la teoria dei magistrati, questa avrebbe avuto origine da un
contatto, realizzato a questo scopo, fra i carabinieri del ROS e don Vito
Ciancimino. Ti pare forse un’iniziativa logica, quella di impiegare due
ufficiali dei carabinieri, già distintisi per un’attività senza tregua contro
la criminalità e per aver arrestato molti pericolosi latitanti, come ad esempio
Ciccio Madonìa, e proprio in quel momento concentrati in un’inchiesta sulla
mafia e sugli appalti in Sicilia, come emissari della “trattativa”, quando era
disponibile, ad esempio, il famoso “signor Franco” il quale, a sentire le testimonianze,
era un rappresentante delle istituzioni che nel contempo aveva contatti molto
più diretti dei carabinieri con Cosa Nostra?
Le istituzioni con cui Cosa Nostra avrebbe dovuto trattare, erano forse
rappresentate dai due carabinieri, Mori e De Donno, e da loro soltanto?
L’idea di un’iniziativa del “signor Franco” intesa come migliore
e più logica opportunità, per intavolare una trattativa fra lo stato e la
mafia, rispetto a quella assunta da due nemici giurati (non solo
metaforicamente) dell’organizzazione criminale, quali erano Mori e De Donno, è logicamente
sostenibile di per se stessa, ma
irrealistica e non ipotizzabile, in quanto non solo il sottoscritto, ma anche,
ad esempio, i magistrati di Caltanissetta dubitano che questo sig. Franco possa
configurarsi veramente come un’entità appartenente al mondo reale. Comunque,
pur prescindendo da ogni termine di
paragone,anche in senso assoluto mi pare evidente che se veramente qualcuno
nello Stato, volendo piegarsi ad una trattativa di natura “concessoria” con
Cosa Nostra, avesse deciso di affidare, anziché a qualcuno dei molti “contatti”
possibili con la mafia (magari selezionato nell’ambito delle molte contiguità e
collusioni che certamente esistevano), l’incarico a due segugi da caccia grossa,
capaci di mille trucchi pur di catturare la preda, quali erano Mori e De Donno,
e conosciuti dai mafiosi come tali, beh… non mi pare che potrebbe considerarsi
una brillante idea, se questa fosse riferita ad un fatto vero. Infatti io sono
convinto che le cose non stiano a quel modo. Cosa Nostra sapeva benissimo che
il Generale Dalla Chiesa era stato come un padre ed un fratello, per il
colonnello Mori, così come lo stesso Mori lo era stato per il maresciallo Giuliano
Guazzelli, ucciso pochi mesi prima (aprile 92) dagli assassini di Cosa Nostra.
Avete mai visto un assassino che, per intavolare una trattativa finalizzata ad
ottenere qualche vantaggio, accetta fiducioso, quale interlocutore, il fratello
oppure il padre, o comunque un compagno d’armi delle proprie vittime? E’ chiaro
che non esiste al mondo un interlocutore più inopportuno ed inadatto di quello,
potendo egli come obbiettivo primario, anche per ragioni personali, sempre e
soltanto la cattura degli assassini.
Ma questa è soltanto una, fra le tante incongruenze di questa
fantastica ricostruzione storica, quella della trattativa.