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18.7.23

VIA D'AMELIO 1992 -2023 MIO RICORDO PERSONALE

 



Non ho   appreso ,  a  differenza  di quella  di   capaci  ,  in diretta la  notizia   della  strage di via  d'amelio  . Ma il ricordo   del  fatto e  di cosa stessi  facendo quel giorno e  di come  appresi la  notizia   è  ancora  vivo in me   dopo  31  anni . Cosi come   sono  impressi     gli eventi  successivi  .Infatti ricordo   che  era  con mio padre  e mio fratello a  raccogliere   bacche    di mirto  per  farne  delle piante . La macchina  era  lontana  e la radio era  spenta  .  Quando  tornati    a  casa dei nonni  materni       vedi  in  tv le immagini    della  edizione    straordinaria  rai  . Rimasi  scioccato , sgomentato ,  e mi misi a piangere  Era come   se  fossi   li  sul  luogo      della  strage  descritto   in maniera  ottimale   nella  6 puntata  del podcast  del Fatto quotidiano   Mattanza. Cosi  come   ricordo  , man mano  che   ascoltano   le  puntate  del podcat prima citato  ,  i depstaggi  ,  gli occultamenti  ed  i retroscena  dela  strage  di stato 


6.8.16

l'utopia della memoria condivisa i fatti di via d'amelio e di piazza alimonda a confronto


anche se  voi  credete  assolti 
  siete per  sempre  coinvolti



Il post d'oggi è dedicato a tutti coloro che

Giuseppe Scano ha condiviso il video di La Cronaca Italiana.

30 luglio alle ore 23:10 ·










Sono passati 15 anni dal G8 e dai "fatti di Genova". Questi fatti, per l'esattezza.




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4Augusto Gal, Francesca Pedroni e altri 2

Commenti





Paola Scano Ancora.....
Mi piace · Rispondi · 30 luglio alle ore 23:17





Giuseppe Scano cara zia [ Paola Scano ] si fin quando l'italia è sotto processo a straburgo per i fatti della scuola Diaz e Bolzaneto , ed nonostante il monito della Ue è l'unica a non avere nel suo ordinamento un reato di tortura . ricordare i fatti oltre la data de il classico anniversario mi sembra doveroso

Mi piace · Rispondi · 1 · 31 luglio alle ore 9:45.


Marianna Bulciolu Sul reato di tortura Giuseppe ha tutte le ragioni. Uno stato che non riconosca la tortura come reato non può definirsi civile.

Mi piace · Rispondi · 31 luglio alle ore 11:50


come mia zia e chi ancora crede nell'utopia nel caso italiano della memoria condivisa che tende : << a cancellare l'"anomalia italiana", cioè la contrapposizione ancora viva nel nostro Paese - a causa della sua storia peculiare caratterizzata dal fascismo e dalla Resistenza - tra fascismo e antifascismo, tra proletariato e borghesia . è quello di sradicare dalla storia del nostro Paese e dalla memoria delle masse le idee stesse della Resistenza e del socialismo, impedire che vengano trasmesse alle giovani generazioni e far sì che queste sentano negli anni futuri soltanto la campana della borghesia e del regime neofascista[ e non solo . Che poi è lo stesso obiettivo che da un altro versante si propone il neo duce Berlusconi, con la sua campagna anticomunista viscerale >> ( da www.pmli.it/nonmemoriacondivisa.htm ) , accusando come i fascisti e i prefascisti ( i governi dell'italia post unitaria ) d'essere socialista e comunista anche chi non lo è o non lo è mai stato << con toni da dopoguerra >> e da guerra fredda . Infatti basta vedere qualche tempo fa la proibizione ( sembra d'essere ritornati a tempi della Dc negli anni 50 \60 con strascichi negli i anni 70\80 ) da parte del sindaco di Olbia Settimo Nizzi ( forza Italia ) ha proibito prima o alla biblioteca comunale poi ad un privato di trasmettere il film la trattiva di Sabrina Guzzanti
Non ci può essere una "memoria condivisa" fin quando : 1) si guardano le cose da una parte sola , 2) si negherà ed non si ha il coraggio di provare a rimettere in discussione la propria davanti all'evidenza davanti dei fatti o quando essa fa acqua da tutte le parti
Infatti ci sono eventi ed associazioni che pur faticosamente si avviano o almeno ci provano ad arrivare ad una vera memoria condivisa da non confondersi con i primi che ancora faticano o non riescono .


Ecco i fatti  i due  tipi di  fatti  


  • Quelli che ci provano ed a tratti ci riescono

Appartiene , fra alti e bassi , quello della strage di via d'Amelio ( ne riparlerò nel mio viaggio , vedere
per le puntate precedenti l'archivio del blog , viaggio suoi luoghi della contro storia d'Italia ) quella in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta . Evento come potete vedere sotto ricordato con calma e pacatezza , salvo qualche polemica ( vere il fatto prima citato ) da gente d'entrambe le parti politico \ culturali .






Giuseppe Scano ha condiviso il post di L'ALBERO DI VIA D'AMELIO.
19 luglio alle ore 16:36
·










19 LUGLIO 1992 - Agostino Catalano,Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina ,Vincenzo Fabio Li Muli, Paolo Borsellino, VIVONO!!La mafia e' invisibile, ma NOI, la vediamo benissimo!!Bisogna liberarsi da questa catena feroce dell'omertà che è uno dei fenomeni sui quali si basa la potenza mafiosa. Si è legati a questo fatto dell'omertà, del non riferire nulla delle cose di Cosa Nostra all'esterno, di non sentire lo Stato, di sentire sempre lo Stato come un nemico o comunque come una entità con cui non bisogna collaborare. Speriamo che cambi il vento, che venga il libeccio, che si porti via quest'afa. ( Giudice Paolo Borsellino )


  • quelli che ancora sono una ferita aperta ed ancora dividono e sono terreno di scontro irruento oltre alla normale e civile dialettica


Il secondo sono i fatti del G8 di Genova 2001 in particolare la vicenda di piazza Alimonda \ omicidio di Carlo Giuliani .
Infatti c'è ancora chi si divide e si contrappone anche violentemente fra : chi lo vuole martire ed eroe . Atteggiamento che non condivido in quanto è una vittima insieme a Mario placanica che viene considerato ed lui stesso a dirlo ed altri elementi emersi nel corso degli anni ma mai portati a dibattimento od ad uno vero e proprio ) ., 2) va oltre nel dire era un assassino , con insulti alla persona ed ai genitori o chi come il caso di zero calcare che mise sul suo profilo facebook una locandina a cui lui partecipava subisce non sollo insulti anche pesanti ma segnalazione che portano al limite della bannazione da fb .
Ecco quello che mi è successo , qualche tempo fa , ne parlo ora a mente fredda , fu fb solo per aver messo un post fotografico ( foto da me scattata a Genova )

Giuseppe Scano ha condiviso la sua foto.
19 luglio alle ore 9:53
·

Domani ore 17 sono 15 anni








In cui ricordavo , senza nessun comento polemico e senza voler prendere posizione in merito al fatto in questione . Vi lascio ai commenti degli utenti per farvi un idea

A testimoniare il fatto che la vicenda di Carlo Giuliani sia una vicenda ancora aperta c'è la censura che ho subito su fb



Giuseppe Scano
19 luglio alle ore 14:27 ·




visto che i censori del Coisp Segreteria Nazionale mi rimuovano dalla pagina fb un commento al post su piazza alimonda fatto come potete vedere sotto in maniera provocatoria certo ma inoffensiva . Lo riporto qui

quello che non capisco , posso capire la titolazione di una via o una piazza ancora la vicenda divide ed una ferita da qualunque parte la si veda aperta , che fastidio vi da un cippo neutro senza nessuna dedica o esaltazione retorica (stava facendo il suo dovere , martire , ecc ) ma con solo su scritto il suo nome, ragazzo , di nascita e di morte ? allora vi faccio una proposta provocatoria in particolare alla vostra sede Lombarda e Mianese perché non raccogliete firme per rimuovere si trova in una piazza della questura non rimuovete la targa dedicata all'anarchico Pinelli ? a voi simpatizzanti ma anche no del Coisp







File:Nuova Lapide Pinelli.jpg - Wikimedia Commons

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oltre a quello ho già detto ecco alcuni commenti da tratti dal primo dei due link sulla vicenda di zero calcare ( vedi sopra ) che . Insieme al commento lasciato sul mio post provocatorio riguardante la censura del gruppo del sindacato di polizia Coisp che chiede d'anni con una raccolta firme la rimozione del cippo neutro ( senza nessuna frase retorica e mitizzazante ) di piazza Alimonda e che come tutti gli anni , quest'anno ha chiesto la piazza per affrontare per modo di dire a 360 gradi la vicenda giuliani e poi oltre a voler far rimuovere un cippo fa un convegno intitolato “L’estintore quale strumento di pace” ovviamente a senso unico ripetendo la solita litania , quando ormai lo sanno dovrebbero saperlo anche i muri che la versione ufficiale fa acqua da tutte le parti .




Marini Antonello Credo che sia doveroso ricordare Pinelli, non si può morire in quel modo ed è altrettanto doveroso ricordarci che chiunque anche a causa di reati persino i peggiori, quando cade sotto la responsabilità della legge e delle forze dell'ordine deve essere trattato secondo la legge ed essere al sicuro. Oltre la legge il diritto sta a Dio ammettendo che esiste. Questo deve essere la normalità in un paese civile umano, perché questa è la differenza tra il bene ed il male.




l'abelinato arrogantea day ago


i commenti sull'argomento confermano solo una cosa: genova e tutto il tempo trascorso da li in avanti purtroppo non sono serviti a un caxxo...avete vinto voi! tenetevi il vostro stato fascista e reazionario costruito al solo scopo di tutelare i ricchi e i potenti sulla pelle di chi sta sotto. vi auguro solo che non vi capiti mai di essere dal lato sbagliato del manganello...che so, magari il giorno in cui decideranno di fare una bella tav o un inceneritore nel giardinetto sotto casa vostra invece che in posti di cui non vi frega una cippa e proverete a protestare, mentre vi apriranno il cranio in due prima di trascinarvi in un tribunale cambierete idea su cosa è giusto e cosa è sbagliato...nel mio mondo per voi storto un "tutore dell'ordine" che spara in faccia ad un ragazzo resterà sempre e comunque sbagliato a priori, qualunque cosa stesse facendo quel ragazzo






Mari More


Prima di dire le solite banalità signori revisionisti informatevi meglio...qualcuno di quelli che commenta ad cazzum ha letto delle controinchieste o ha approfondito la questione? No xche pare che commentate sulla base di quel che vi ha raccontato Topo Gigio...



Concludend o posso affermare  che A 15 anni  dai fatti di Genova   e dalla morte di Carlo Giuliani, Genova è una ferita ancora aperta.  Genova  non è  finista    come dice  Zero Calcare  qui
A voi decidere se coltivare il primo tipo o il secondo tipo di memoria condivisa

26.2.13

trattitiva con la mafia ante litteram un inedito di Leonardo sciascia sulla mafia SULLAMAFIA L’INEDITO DI SCIASCIA UN SAGGIO DIMENTICATO PER CAPIRE COSA PENSAVA DAVVERO LO SCRITTORE SU COSA NOSTRA

  fonte  il  venerdi  di repubblica  n 1301  del 22  febbraio  2013  

UN SAGGIO DIMENTICATO PER CAPIRE COSA PENSAVA DAVVERO LO SCRITTORE SU COSA NOSTRA.
RIEMERGE UN SAGGIO DEL 1972 NEL QUALE LO SCRITTORE DI RACALMUTO RACCONTAVA
I RAPPORTI TRA POTERI PUBBLICI E POTERI ILLEGALI. QUASI UNA PREISTORIA
DELLA FANTOMATICA «TRATTATIVA», OGGI AL CENTRO DI CRONACHE E POLEMICHE

PALERMO. La storia della mafia di Leonardo Sciascia  (  foto a  destra )  fu pubblicata nel 1972 nella mondadoriana rivista Storia illustrata.
Da allora era dispersa. Appena 35 pagine, che diventano 65 con l’intervista di Giancarlo Macaluso a Stefano Vilardo (amico di Sciascia dal ‘36) e un’analisi di Salvatore Ferlita. L’operazione di recupero la si deve alla casa editrice Barion, resuscitata dalla «pancia» della storica
Mursia. È un tesoro nascosto.Sciascia, anzitutto, scopre nel suo studio che la parola mafia già appare nel primo vocabolario siciliano di Traina (1868) come importata dal Piemonte, sulle ali della spedizione
dei Mille di Garibaldi. Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè era solo «una ipertrofia» dell’ego ribellista. Poi arriva Giuseppe Rizzotto. Nel 1862 scrive I mafiosi di la Vicaria (una prigione di Palermo) e la mafia diventa «associazione».
Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore,Alessandro Mirabile, che nelle sue requisitorie parlerà di  setta».Sciascia, a questo punto, sottolinea:«Alcuni, anche in buona fede,credono che applicando la parola
alla cosa si tenda a creare un pregiudizio». È ingiusto,affermano costoro, che a Milano una banda di rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca («la cosca» ricorda «è la corona
di foglie del carciofo»).

Sciascia, su questo, è netto: «La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa  ha preso quel nome, in forza di una distinzione  qualitativa... questa distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di
don Pietro Ulloa, allora procuratore generale a Trapani». E cosa scrive Ulloa nel 1838? Parla di «oscure fratellanze», «sette segrete che diconsi partiti», un popolo che le fiancheggia, magistrati  che le  proteggono. E «al centro di tale dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX». Commenta Sciascia:«Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia,una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?».
Sciascia sposa la tesi dello storico inglese Eric Hobsbawm: in Sicilia la «rivoluzione francese» l’ha fatta la mafia. Ifeudi passano di mano, dai baroni ai borghesi.
I contadini promossi campieri ne diventano l’esercito. E rilegge (altro punto importante) Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in chiave «antimafia ». Il passaggio epocale, spiega, è chiaro nel personaggio di Calogero Sedara e nella famosa frase del principe di Salina: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno le iene e gli sciacalli».Iene e sciacalli, per Sciascia, si annidarono tanto nella spedizione dei Mille quanto nella «neutralità» verso il fascismo.
Anzi, vista la presenza del prefetto Mori, inviato dal Duce in Sicilia a combattere la mafia, se ci fosse stata una Resistenza nell’Isola, «i boss sarebbero stati partigiani». Sempre iene e sciacalli si alleeranno con gli americani per favorirne lo sbarco in Sicilia, ancora loro faranno sparire nel ’70 il cronista dell’Ora Mauro De Mauro e uccideranno il procuratore Pietro Scaglione nel ’71. Non  mutano mai pelle, i picciotti di Cosa Nostra. Per farli vedere bene agli italiani, lo scrittore li paragona ai bravi dei Promessi Sposi di Manzoni. Infine, la famosa «equazione» di Sciascia su Cosa Nostra: «La mafia è una associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento... che si pone come intermediazione parassitaria,con mezzi di violenza, tra proprietà e lavoro, produzione e consumo,cittadino e Stato».
Leonardo Sciascia, deputato nelle liste radicali tra il 1979 e il 1983, espresse diciannove volte il suo pensiero in Parlamento.
Tre volte parlò di mafia e utilizzò la sua Storia della mafia come base per i suoi interventi. Grazie ad Andrea Camilleri,che li ha riordinati di recente, sappiamo che nel primo intervento (20 febbraio 1980) disse che diciotto anni dopo le sue denunce «il fenomeno anziché diminuire» lo avevano visto crescere. Nel secondo (6 febbraio ’80) accusò i colleghi: «Tutti avete detto che la mafia insorge nel vuoto dello Stato. E invece insorge nel pieno dello Stato!».
Nel terzo (27 gennaio  ’83), dopo l’omicidio del giudice di Trapani Ciaccio Montalto, tuonò verso il ministro dell’Interno,Virginio Rognoni:«Lei parla della mafia come di un fatto fisiologico. Ritengo invece che bisogna guardarlo come un fatto patologico,e lei che è ministro dell’Interno deve guardarlo da medico internista».
Che voleva dire? Se cercate la malattia  mafia, dovete curare il cuore dello Stato. Il saggio di Leonardo Sciascia, che  salta fuori dal lontano 1972, riporta  nell’attualità quegli interventi in Parlamento. Il libretto  è importante per parecchi  motivi. Intanto, è l'unico  saggio «organico» sul tema  firmato dallo scrittore di Racalmuto.
Poi contiene per la  prima volta la sua celebre «equazione» sulla mafia, che lui non abiurò fino alla morte e che citerà apertamente nei suoi interventi parlamentari.
Non solo. Ne citerà anche altri passi, tra cui la relazione del procuratore di Trapani Pietro Ulloa del 1837, che lo  scrittore ritenne sempre attualissima: «Descriveva la mafia come l'abbiamo conosciuta
noi, ed era una mafia di procuratori del re, di segretari comunali e di preti», dirà nella solennità del Parlamento.
La sciasciana Storia della mafia ci restituisce un intellettuale per intero, lo  scrittore che «contraddisse e si contraddì », come ebbe a definirsi, non limitandosi a impiccarlo all’articolo sul Corriere della
Sera del 10 gennaio dell’87 contro «i professionisti dell’antimafia». In quell’intervento,
come noto, Sciascia criticò (senza nominarlo) il «protagonismo» del sindaco di Palermo (oggi rieletto) Leoluca Orlando, ma soprattutto sparò a zero contro la decisione del Csm di promuovere  Paolo  Borsellino procuratore di Marsala,in barba ai criteri di anzianità fin lì seguiti. Successivamente spiegò che,quando aveva redatto il suo intervento,non sapeva nulla di Borsellino, ma aveva criticato «l’assenza di regole» da parte del Csm, arma poi usata in senso inverso,per bocciare la candidatura di Giovanni Falcone. Soprattutto, Sciascia chiarì che aveva scritto sull’onda di eventi traumatici.
Il primo, pur rimasto sottotraccia, è il caso di Enzo Tortora, il presentatore tv arrestato nell’83 e coinvolto nel processone di Napoli contro la camorra.
Per inciso, Giovanni Falcone pensava che non avere stralciato la posizione di un personaggio così famoso da un processone contemporaneo al maxiprocesso di Palermo contro la mafia fosse «una trappola ben organizzata» a Napoli per scatenare «pretese di impunità» per i boss anche a Palermo. Il secondo trauma,dichiarato invece apertamente:il suicidio del segretario della Dc siciliana Rosario Nicoletti, rimasto un mistero.Quanto a Borsellino,dopo la
pubblicazione dell’articolo, i due si riappacificarono e, successivamente,rimasero in contatto. Il giudice si disse certo che qualcuno «che gli voleva male» aveva giocato il ruolo del suggeritore. Tuttavia non replicò mai allo scrittore. «Ho amato troppo i suoi romanzi sulla mafia, ci sono cresciuto». Ma di quell’articolo resta la carta e il piombo, per una volta solo tipoche avvolge una tragedia siciliana. Si ha un bel dire che Sciascia e Borsellino si chiarirono. Il giudice, nel suo ultimo intervento pubblico prima di sacrificarsi in via D’Amelio, disse che Falcone aveva cominciato a morire il giorno della pubblicazione dell’atto d’accusa di Sciascia. Il  che da solo dovrebbe bastare a spiegare gli «eroici furori» di chi ha utilizzato in questi anni Sciascia in esclusiva chiave  antimagistrati. Ma la vedova di Borsellino, Agnese, ha detto di recente che Sciascia «aveva  capito tutto vent’anni prima».La figlia dello scrittore, Anna Maria, ha sottolineato che il padre non voleva colpire Borsellino,ma che mal sopportava «una certa retorica dell’antimafia ». Disonesto sarebbe però anche affermare che l’articolo sarebbe
stato scritto «sotto dettatura». O che fosse incoerente. La faccenda, comunque la si giri, resta complicata. E tragica. La simbiosi. La metastasi. La peste.Resta il fatto che Sciascia vede incubare un’Italia futura «mafizzata», con quello «sguardo distaccato di un entomologo» che gli attribuisce, a ragione, l’amico Vilardo.
A 23 anni aveva assistito all’omicidio del sindaco di Racalmuto, Baldassare Tinebra. Poi aveva visto, a Caltanissetta,il popolo far ressa per baciare la  mano al boss don Calò Vizzini. Nel 1965  aveva intervistato Giuseppe Genco Russo,padrino di Mussomeli. E aveva studiato,«osservandolo» mentre si occupava del caso De Mauro, il capo della squadra Mobile, Boris Giuliano, ucciso nel luglio del’79. Freddo non per cuore duro,ma per «osservare» bene. Confidava all’amico Vilardo: «Quando la mafia si arricchisce,e ci vuol poco con la ricchezza che muove, sforna avvocati, medici, imprenditori,professionisti. Colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre quella».
L’entomologo Sciascia divenne, con timore,quasi un profeta. In Todo Modo descrisse la futura dissoluzione della Dc e il caso Moro. «Ho paura di dire cose che possono avvenire» spiegava. Di più. Nel’72, l’anno in cui scrisse La storia della mafia (aprile), a febbraio aveva licenziato Il contesto. Lo aveva tenuto fermo due anni.
Ne aveva paura. L’ispettore del romanzo, Americo Rogas,sembrerà a tutti Boris Giuliano,l’amico poliziotto ucciso. E la trama? Un complotto per occultare omicidi eccellenti,in nome della «ragion di Stato ». Dentro ci sono tutti, anche l’opposizione. Questo valse a Sciascia una raffica di sei articoli di critica sui giornali di area comunista (dall’Unità a Rinascita). Ma era ben peggio il vaticinio finale del suo ispettore: «Il potere in Sicilia, in Italia, nel mondo, sempre più degrada nella impenetrabile  forma di una concatenazione che approssimativamente  possiamo dire mafiosa ». Sembra che si parli delle inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia. Leonardo Sciascia, nel 1986, ascoltò la  deposizione del pentito Tommaso Buscetta al maxiprocesso di Palermo. Ne  uscì sgomento. Ma poi, dopo la sentenza,scrisse: «Il verdetto cancella l’impressione di allora. Vi si intravede quell'osservanza del diritto, della legge, della Costituzione  che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine».
Non capì la nuova Cosa Nostra. Non poteva sapere che il mostro che lui aveva avvistato tanti anni prima, quei picciotti sempre uguali, le iene e gli sciacalli di  ogni tempo, stavano tornando sotto forme nuove. Dopo la breve parentesi della  mafia corleonese di Totò Riina, che dichiarò guerra allo Stato, dalle sue ceneri sono risorte, all’ombra delle grandi corruzioni e di equilibri impenetrabili, le mafie invisibili, aristocrazie più simili a quelle dei primordi. Muovono un fatturato annuo (secondo lo studioso Francesco Barbagallo) di 70 miliardi di euro. E, dopo  il tramonto dei corleonesi, hanno ripreso a vivere all’ombra delle istituzioni.
                                              PIERO MELATI

22.7.12

il peso delle parole di enrico tagliaferro

 mi cospargo il capo di cenere  per  aver  condiviso e messo mi piace    sul  mio facebook ad  un idiozia  del genere   e  non aggiungo altro  all'articolo   dell'amico  Enrico    che trovate sotto  se  non questo  video    di un regista cervellotico    e geniale  allo stesso tempo   che  Nanni moretti





 buona lettura

Il peso delle parole

Sulla prima pagina di “Libero” di ieri  Filippo Facci, in dichiarata sintonìa col sottoscritto, ha lanciato una provocazione. Speriamo che porti a qualcosa di positivo.
Il tema è piuttosto spinoso:  il riporto giornalistico, più o meno strumentale o più o meno infedele,  delle parole e dei pensieri dei nostri eroi di Stato, mediato o tramandato da chi gli era vicino allorchè essi erano ancora in vita.
In questo caso a sollevare la nostra attenzione, è stato un “aforisma” attribuito a Paolo Borsellino e pubblicato come una lapide in decine di migliaia di pagine del web, che recita:
Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.”
In questi giorni di commemorazione del ventennale della morte di Paolo Borsellino, l’impiego di questo aforisma nelle pagine di internet, è letteralmente esploso. (cercandolo con google, compaiono migliaia di link).
Sono state realizzate composizioni d’effetto, poster e immagini votive, e centinaia e centinaia di cittadini lo hanno inserito, in memoria del magistrato, nelle pagine dei propri blog, dei forum, dei profili, ecc.. ecc..
La seguente composizione fotografica, su Facebook, ha superato le 10.000 condivisioni da parte di altrettanti utenti.
Ma ve ne sono anche altre, altrettanto suggestive:
Qualcuno poi ha realizzato delle composizioni artistiche di pregevole fattura, come il fotografo fiorentino Davide Bellanti che in questo suo scatto molto suggestivo ha inserito anche un’immaginaria riproduzione della famosa Agenda Rossa, aperta sulla pagina dove compare il nostro aforisma manoscritto e firmato in calce da Paolo Borsellino:

Ora, tutto questo onorare e ricordare queste parole di Paolo Borsellino,  assume un aspetto un po’ grottesco se si pensa ad un piccolo dettaglio che ora noi, come già Filippo Facci nel suo corsivo su Libero, ci permettiamo di segnalare:  queste parole, scritte a quel modo, in realtà non possono appartenere a Paolo Borsellino.
Per la verità c’è un solo episodio in cui Borsellino risulta avere espresso parole vagamente simili, ma, come vedremo ,dal significato molto diverso.
A quell’episodio era presente soltanto la moglie, Agnese Leto Piraino, la quale lo ha raccontato con dovizia di particolari ai procuratori di Caltanissetta, il 18 agosto 2009.
Quindi riportiamo la fedele trascrizione della parte di quel verbale di nostro interesse:
AD.R. Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta.
In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere.”
Poco dopo, la teste precisa:  “ non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore GIAMMANCO.”
Quindi:
che l’episodio in cui Borsellino, a poche ore dalla morte, si confidò con la moglie sul proprio imminente assassinio lamentandosi del fatto che, per responsabilità di terzi, la mafia si stava trovando la strada aperta per realizzarlo, sia quello e soltanto quello oggetto di questa deposizione, non c’è alcun dubbio.
Che Borsellino abbia fatto quell’affermazione riferendosi espressamente ai “colleghi”, allo stesso modo non può esservi dubbio in quanto la testimone fornisce una precisazione ben circostanziata a riscontro (… quando Paolo si riferì ai colleghi…), che non lascia spazio ad equivoci.
Pare, di conseguenza, altrettanto incontestabile, che Borsellino abbia manifestato il suo sconforto alla moglie riferendosi specificatamente  al suo isolamento ed all’abbandono da parte di colleghi di lavoro e da parte di altri che, come loro, avrebbero dovuto invece supportarlo e proteggerlo (soprattutto a seguito del fatto  che le informative che erano pervenute in procura, le quali preannunciavano il suo attentato, gli erano state celate dal collega Giammanco, e Borsellino era venuto a saperlo).  E tutto questo,  senza sollevare mai, nelle sue parole,  la mafia dalla responsabilità della premeditazione dell’attentato “imminente”, perché questo, di fatto, dalle parole “pesate” dalla signora Agnese di fronte ai magistrati, non risulta essere avvenuto,  e noi non crediamo assolutamente che nella realtà possa essere avvenuto.
Detto questo, bisogna dare atto che esistono altre versioni, in circolazione, di quell’episodio.
Nella fattispecie, io ne conosco altre tre, tutte testualmente diverse l’una dall’altra. Delle altre due di queste, parlerò in un prossimo articolo, perché rappresentano di fatto qualcosa che va analizzato a parte e approfonditamente.  Ad ogni modo, si tratta di versioni più “sintetiche”, generiche e meno circostanziate, di quelle di cui ora parleremo, per cui per il momento possiamo trascurarle.
La versione di cui oggi invece ci stiamo occupando, la più diffusa, definita come una “schifosa manipolazione” da Filippo Facci nel suo corsivo, compare, oltre che nelle decine di migliaia di citazioni lapidarie nei siti internet di cui abbiamo parlato,  in virgolettato e forse per la prima volta,  nel libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino” di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, (ed. Chiarelettere – 2007), ed è citata sia nella prefazione di Marco Travaglio (come segnala Facci), sia nel testo degli autori, i quali la raccontano così:
“Agnese Piraino Leto nella sua deposizione al Borsellino ter dice che il marito, nei giorni precedenti alla morte, sosteneva di avere “capito tutto” della morte di Falcone. “Così diceva: ho capito tutto.” Oggi, a quindici anni di distanza, Agnese è più precisa: “Paolo era come uno che ha il cancro, sapeva di dover morire presto, aspettava di morire da un momento all’altro. Mi diceva: mi uccideranno, ma mi diceva anche: non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri“.
Ecco, per la verità, Rizza, Lo Bianco, e il prefatore Travaglio,  non ci forniscono il minimo aiuto per capire quando, dove e come la signora Agnese sarebbe stata più precisa, a quella maniera.
Si tratta di una dichiarazione resa forse in un’intervista rilasciata agli autori stessi? Si tratta di uno stralcio di qualche altro verbale giudiziario? Si tratta di qualcosa detto dalla signora Agnese a qualche convegno? Si tratta di un’informazione passata ai giornalisti da qualche intermediario terzo, magari un famigliare? Si tratta di qualcosa di inventato di sana pianta? Si tratterà di una versione veramente testuale, oppure arricchita e infiorettata?
Noi, in tutta onestà, non lo sappiamo. Abbiamo effettuato un’umile ricerca in internet, nei nostri archivi personali, e negli archivi storici dei  principali quotidiani nazionali, e non abbiamo trovato null’altro che quel virgolettato di quel libro, in merito a quell’apporto testimoniale della signora Borsellino che, secondo gli autori, risalirebbe al 2007.
Però una cosa certa la sappiamo: che, comunque sia, quelle pubblicate nel 2007 su quel libro, non possono essere state le parole di  Paolo Borsellino.  Proprio perché, se così non fosse, allora la vedova Borsellino avrebbe testimoniato il falso dinnanzi ai magistrati di Caltanissetta il 18 agosto 2009.  Infatti in quella deposizione la signora Agnese,  in regime di ammonizione formale perché dica la verità,  circostanzia esattamente l’episodio, e lo descrive come un giudizio del marito espresso con stretto riferimento all’atteggiamento di ignavia ed accondiscendenza soprattutto dei suoi colleghi relativamente  all’attentato imminente , e non come una dichiarazione del giudice riferita a presunti ignoti “committenti” della strage imminente, committenti diversi dalla mafia, come invece indicherebbe l’aforisma che tanto successo e diffusione ha ottenuto presso i cittadini.
Insomma, delle due soltanto una può essere vera, e soltanto una compare su di un verbale giudiziario sottoscritto dalla testimone, per cui quella vera non può essere che questa , risalente all’agosto 2009.
Se in quella riflessione Borsellino fece uno specifico riferimento all’atteggiamento dei colleghi, allora le parole che impiegò non possono essere quelle che oggi ovunque gli vengono attribuite a seguito della pubblicazione del libro di Rizza e Lo Bianco, dove quella parte centrale, quella sui colleghi, viene invece bellamente omessa e concettualmente stravolta. Questa evidenza, è oggettiva.
E ciò a maggior ragione, se si guarda a quella strana affermazione: “La mafia non si vendica”.
Potrebbe mai Paolo Borsellino aver pronunciato una cosa del genere? Noi, francamente, ne dubitiamo.
Non c’è bisogno di essere uno dei massimi esperti di mafia come Paolo Borsellino, per sapere che la vendetta mafiosa non soltanto è qualcosa che esiste, ma è anche qualcosa che sta nel DNA stesso della mafia essendo proprio la vendetta una delle opzioni principali dell’organizzazione  per mantenersi autorevole nel suo regime di terrore.
Molto difficile quindi accettare l’idea che Paolo Borsellino possa aver espresso un postulato del genere proprio con quelle esatte parole, perchè stridono con il suo pensiero e la sua professionalità, tanto che paiono più simili a quelle che si ritrovano in alcune leggendarie sortite,  del tipo “la mafia non esiste” o “qui ci sono solo pastori e braccianti agricoli”, che tutti conosciamo.
Sic stantibus rebus, noi siamo d’accordo con Filippo Facci che provocatoriamente definisce le due versioni  una la manipolazione dell’altra, perché concettualmente è così: la versione propagandata si configura, a tutti gli effetti, come un’alterazione delle vere parole pronunciate dal magistrato,  anche se, come pare, sotto il profilo cronologico  dovrebbe essere nata prima la versione alterata rispetto a  quella veritiera, per cui si tratterebbe di un’alterazione non fisica ma concettuale: un modo molto sottile, quello di Facci, per richiamare l’attenzione sul fatto che decine di migliaia di cittadini, sulle loro pagine di internet, stanno onorando Paolo Borsellino  con la “santificazione”  di un aforisma composto da parole che non solo il magistrato potrebbe non avere mai pronunciato (o comunque certo non in quegli esatti termini), ma che, nel caso non le avesse mai pronunciate e fossero quindi false o  alterate, potrebbero arrivare anche ad apparire   come scientemente elaborate per favorire Cosa Nostra.
La mafia infatti, grazie a quell’aforisma enormemente reclamizzato da cittadini ignari, dapprima ottiene grossi benefici a livello d’immagine,  mediante la notizia ripetuta in internet migliaia e migliaia di volte che essa non sarebbe usa a vendicarsi, dopodiché viene pure nettamente scagionata, direttamente dalla bocca di un virtuale Paolo Borsellino (che possiamo bene immaginare quanto sarà d’accordo, da lassù), dalla responsabilità della premeditazione della strage di Via D’Amelio, figurando solo come un sicario, una specie di sciocco, quasi ignaro, mero esecutore.
Tutto ciò pare gravissimo, ma allo stesso modo inevitabile, in un paese dove, come dice Beppe Grillo, “i giornali sono medium, non media: fanno parlare i morti.

19.7.12

Via d'Amelio 19 luglio 1992-19 luglio 2012 [c'era una volta 1992-1994 puntata VII] + intervista esclusiva ad uno dei pochi giornalisti che non credono alla trattiva tra stato e mafia Enrico tagliaferro


Da oggi  16  luglio   inizia  il rituale celebrativo per il 20° anniversario di Via d'Amelio . Strage \attentato di stampo terroristico-mafioso messo in atto il pomeriggio del 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta. L'agguato segue di due mesi la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia Da quei pochi ricordi diretti , viste che non vidi subito in diretta come quelle per capaci ( vedere miei post del 22 e 23 maggio che potete trovare qui ) ero a raccogliere  bacche  di mirto per  farne  talee  con mio padre  e mio fratello  .  
foto ansa
Dai quei pochi ricordi dell'epoca, aveva  16 anni,fu  un attentato di stampo 
terroristico-mafioso messo in atto il pomeriggio del 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta :   1)  Agostino Catalano il  capo scorta  ., 2)  Emanuela Loi prima donna a far parte di una scorta e a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli,Walter Eddie Cosina ed infine  Claudio Traina.
L'unico sopravvissuto   fu  Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l'esplosione, in gravi condizioni. L'attentato segue di due mesi la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia.
Essi sono ricordi  basati  su immagini tv (  vedere  video sotto  )  che vedemmo appena   rientrammo a  casa  di nonna  materna   


                       film e  documentari sull'eccidio 





 L'esplosione, avvene in via Mariano D'Amelio dove viveva la madre di Borsellino e dalla quale il giudice quella domenica si era recato in visita, avvenne per mezzo di una Fiat 126 contenente circa 100 chilogrammi di tritolo sui  dubbi espressi   da  gli agenti di scorta, via d'Amelio era una strada pericolosa, tanto che era stato chiesto di procedere preventivamente ad una rimozione dei veicoli parcheggiati davanti alla casa, richiesta però non accolta dal comune di Palermo, come rilasciato in una intervista alla RAI da Antonino Caponnetto.
Fin qui i   ricordi misti .
Questo    fino a  che   s'inizio  a parlare  della trattiva  tra mafia e stato  che  appresi da trasmessi  come Blu notte di Lucarelli e  siti  come  http://www.misteriditalia.it  . Ora  inizialmente  c'era lo stesso proposito   , per  chiarire e  chiarirmi  meglio  alcuni  aspetti   della trattativa  (  verità assoluta ed indiscutibile secondo alcuni  ,  verità  con critica  come il  sottoscritto  , presunta   secondo alcuni  , inesistente o bufala  secondo altri  ) ,  dei post  su  capaci   cioè  il non parlare   del contrastato argomento  ,  e lasciare parlare solo  i ricordi diretti o indiretti che fossero  . Ma  visti  i classici fiumi  d'inchiostro  e  di bit   e tutta  una serie  d'articoli  trasmissioni  ,tv  , dvd  , libri ,ecc   a senso  unico  cioè pro trattativa  , i  miei dubbi  su quello che  gli stessi fautori  d'essa definisco  basilare    cioè il pappello  di  Vito Ciancimino   e le  dichiarazioni  del figlio  Massimo Ciancimino    , ed [  SIC  ] il svincolare  ( come il  caso  di  Adriana  stazio delle agende  rosse )  o  il non rispondere ( motivi di salute o paura  d'essere messi in discussione   , Salvatore  Borsellino spazio facebook  e email al sito http://www.19luglio1992.com/.  
Il mio  intento  era intervistare   sia  i Trattatisti  (   sono sempre  a  disposizione per  repliche  ed eventuali richieste di rettifiche    che  questo post   dovesse potare  )  sia  gli anti  o i dubbiosi \ negazionisti   . Ora  Sono riuscito  nel secondo ,  intervistando  via  facebook  il maggiore  dei rappresentati  Enrico Tagliaferro , riprendendo le  domande (  qui il testo originale  )  fatte dall'amica Antonella Serafini  (  di www.censurati .it )  al d Antonio Ingroia  ovviamente  modificandole per  renderle  più comprensibili  a  chi non legge i giornali ( se  non quelli sportivi  )  o  vede  solo programmi demenziali  ,  insomma  agli analfabeti di  ritorno  
Egli  è un blogger noto sul web come “il Segugio” ( indirizzo del blog: http://segugio.daonews.com/ ), autore nel 2010 di un libro autoprodotto dal titolo “Prego, dottore!”, acquisito agli atti del processo “Mori-Obinu”, a Palermo, in quanto latore di argomenti piuttosto convincenti in relazione alla dubbia autenticità di alcune carte prodotte dal teste Massimo Ciancimino, in un periodo in cui lo stesso Ciancimino era considerato un’icona dell’antimafia non essendo ancora incappato nel malaugurato incidente che gli costò l’arresto con un’accusa di calunnia per la falsificazione di un documento.
Tagliaferro in questi ultimi anni insieme ad altri blogger giornalisti come Antonella Serafini (censurati.it) o Anna Germoni, ha seguito le vicende siciliane che hanno visto i Reparti Operativi Speciali dei carabinieri al centro di accuse molto gravi, studiando scrupolosamente le carte e le testimonianze, e proponendo quindi un’analisi critica del lavoro della magistratura che ha sollevato nei suoi lettori, come pare, più di un dubbio in relazione alle ipotesi accusatorie formulate a carico di uomini come il capitano Ultimo (Sergio De Caprio) e il generale Mori.
Tagliaferro in particolare, con le sue documentate inchieste, ha acceso i riflettori su indizi di dubbia autenticità e su testimonianze incongrue, in relazione a questa triste storia.
Purtroppo il nostro sistema dell’informazione da ben poco spazio a chi non si accoda alle “verità” ufficiali.

Abbiamo così deciso di proporgli alcune domande.



1) Con riferimento alla perquisizione del febbraio 2005 della casa all’Addaura di Massimo Ciancimino, tu non vedi forse un’incongruenza fra quanto riferito dal testimone a proposito della cassaforte “volontariamente non perquisita” dai carabinieri, ed il fatto che vi sia stata una contestuale perquisizione, da parte degli stessi carabinieri, di un magazzino, persino facoltativa in quanto non disposta nel mandato del magistrato, in cui venne repertato il famoso pizzino strappato, meglio noto come “lettera di Provenzano a Berlusconi”, oltre che a copiosa documentazione manoscritta di don Vito? E come si conciliano le due versioni date dal teste, una in cui Ciancimino per telefono dalla Francia suggerisce al suo impiegato di consegnare ai carabinieri la chiave della cassaforte, e l’altra in cui dice di aver parlato con il suo dipendente solo “a perquisizione avvenuta”?
Tu hai già posto l’accento, nella tua domanda, su alcune visibili incongruenze. Ma ce ne sono molte altre, su quel fatto. Massimo Ciancimino dapprima racconta che i carabinieri, durante quella perquisizione nel 2005, rinunciarono ad aprire la sua cassaforte, nonostante questa contenesse il preziosissimo “papello”, quello poi da lui consegnato in fotocopia e che oggi noi conosciamo. Successivamente uno dei carabinieri che parteciparono alla perquisizione, affermò invece in aula che un suo collega ritrovò il papello nascosto in una controsoffittatura, se lo portò in copisteria per fotocopiarselo (ma senza porre la fotocopia agli atti del sequestro), e quindi lo ripose nuovamente dove l’aveva trovato.
Tutte queste narrazioni possono lasciare, in chi le recepisce, perplessità, e come un senso di sconcerto, di mistero. Io invece credo che tutto diventi più chiaro e meno misterioso, se si guarda sotto un’altra luce, vale a dire tenendo in considerazione in primis che il “papello” di Ciancimino, già rinviato a giudizio per aver falsificato, reo confesso, un altro documento, contiene un evidente anacronismo, tale da indurre a dubitare anche di quella fotocopia, e che il secondo testimone è un carabiniere non proprio dei primi della classe, già condannato in primo grado per falso materiale, avendo falsificato la firma del suo comandante in calce ad una dichiarazione scritta, ed essendo quindi fisiologicamente ostile verso i propri comandi dell’epoca.
Ci troviamo quindi di fronte ad incongruenze o fatti sconcertanti scaturiti dalle testimonianze di due probabili falsari. Tenendo in conto questo, forse tutto quadra meglio, e si spiegano le incongruenze.

 2 ) Parliamo della trattativa fra lo stato e la mafia. Secondo la teoria dei magistrati, questa avrebbe avuto origine da un contatto, realizzato a questo scopo, fra i carabinieri del ROS e don Vito Ciancimino. Ti pare forse un’iniziativa logica, quella di impiegare due ufficiali dei carabinieri, già distintisi per un’attività senza tregua contro la criminalità e per aver arrestato molti pericolosi latitanti, come ad esempio Ciccio Madonìa, e proprio in quel momento concentrati in un’inchiesta sulla mafia e sugli appalti in Sicilia, come emissari della “trattativa”, quando era disponibile, ad esempio, il famoso “signor Franco” il quale, a sentire le testimonianze, era un rappresentante delle istituzioni che nel contempo aveva contatti molto più diretti dei carabinieri con Cosa Nostra?

Le istituzioni con cui Cosa Nostra avrebbe dovuto trattare, erano forse rappresentate dai due carabinieri, Mori e De Donno, e da loro soltanto?
L’idea di un’iniziativa del “signor Franco” intesa come migliore e più logica opportunità, per intavolare una trattativa fra lo stato e la mafia, rispetto a quella assunta da due nemici giurati (non solo metaforicamente) dell’organizzazione criminale, quali erano Mori e De Donno, è logicamente sostenibile di per se stessa,  ma irrealistica e non ipotizzabile, in quanto non solo il sottoscritto, ma anche, ad esempio, i magistrati di Caltanissetta dubitano che questo sig. Franco possa configurarsi veramente come un’entità appartenente al mondo reale. Comunque, pur prescindendo  da ogni termine di paragone,anche in senso assoluto mi pare evidente che se veramente qualcuno nello Stato, volendo piegarsi ad una trattativa di natura “concessoria” con Cosa Nostra, avesse deciso di affidare, anziché a qualcuno dei molti “contatti” possibili con la mafia (magari selezionato nell’ambito delle molte contiguità e collusioni che certamente esistevano), l’incarico a due segugi da caccia grossa, capaci di mille trucchi pur di catturare la preda, quali erano Mori e De Donno, e conosciuti dai mafiosi come tali, beh… non mi pare che potrebbe considerarsi una brillante idea, se questa fosse riferita ad un fatto vero. Infatti io sono convinto che le cose non stiano a quel modo. Cosa Nostra sapeva benissimo che il Generale Dalla Chiesa era stato come un padre ed un fratello, per il colonnello Mori, così come lo stesso Mori lo era stato per il maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso pochi mesi prima (aprile 92) dagli assassini di Cosa Nostra. Avete mai visto un assassino che, per intavolare una trattativa finalizzata ad ottenere qualche vantaggio, accetta fiducioso, quale interlocutore, il fratello oppure il padre, o comunque un compagno d’armi delle proprie vittime? E’ chiaro che non esiste al mondo un interlocutore più inopportuno ed inadatto di quello, potendo egli come obbiettivo primario, anche per ragioni personali, sempre e soltanto la cattura degli assassini.
Ma questa è soltanto una, fra le tante incongruenze di questa fantastica ricostruzione storica, quella della trattativa.



3)

L'eterno secondo

Ventennale della morte di Paolo Borsellino. Che emozione vederlo in tv qualche giorno fa, nella sua ultima intervista. La sua asciutta, sobria determinazione, così poco siciliana, quasi nordica. Sapeva di dover morire, il suo cuore era sconquassato e limitava anche l'affetto paterno, nell'impossibile impresa di preparare i figli all'addio. Quando ci lamentiamo delle difficoltà, dobbiamo ricordare lui e la forza che l'essere umano sa esprimere, se lo vuole. Perché? Non esiste alcuna logica dal punto di vista strettamente biologico. E' "contronatura". Ed è questo il bello e il fascino della spericolata avventura umana, l'oltrepassarsi per realizzarsi compiutamente. Ma perdere Paolo, l'eterno secondo come amava definirsi, è stata una ferita immedicabile. Era secondo, sì, forse perché la sua asciutta figura riepilogativa e severa restasse meglio scolpita nei nostri cuori e nelle nostre anime.

Il mio ultimo libro, uscito ieri, l'ho appunto dedicato alla memoria sua e a quella di Falcone (oltre che a Rossella Urru, quest'ultima fortunatamente liberata).

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...