Ventennale della morte di Paolo Borsellino. Che emozione vederlo in
tv qualche giorno fa, nella sua ultima intervista. La sua asciutta,
sobria determinazione, così poco siciliana, quasi nordica. Sapeva di
dover morire, il suo cuore era sconquassato e limitava anche l'affetto
paterno, nell'impossibile impresa di preparare i figli all'addio. Quando
ci lamentiamo delle difficoltà, dobbiamo ricordare lui e la forza che
l'essere umano sa esprimere, se lo vuole. Perché? Non esiste alcuna
logica dal punto di vista strettamente biologico. E' "contronatura". Ed è
questo il bello e il fascino della spericolata avventura umana,
l'oltrepassarsi per realizzarsi compiutamente. Ma perdere Paolo,
l'eterno secondo come amava definirsi, è stata una ferita immedicabile.
Era secondo, sì, forse perché la sua asciutta figura riepilogativa e
severa restasse meglio scolpita nei nostri cuori e nelle nostre anime.
Il mio ultimo libro,
uscito ieri, l'ho appunto dedicato alla memoria sua e a quella di
Falcone (oltre che a Rossella Urru, quest'ultima fortunatamente
liberata).
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