9.7.12

I calli di Benedetta di Matteo tassinari ( reprise )


Dell'amico  matteo tassinari http://mattax-mattax.blogspot.it/
 Il Paz, Benny, io
Come Paz avrebbe disegnato Benedetta

di Matteo Tassinari                                                                                                                              
Per quel che ne so, la vita è breve, l’uomo è cacciatore, gli italiani sono tutti allenatori, e per molto tempo saremo morti. Rimanemmo sull’ultimo concetto in forzosa meditazione, per la durata di diverso tempo. Da una busta quelle internamente con le bolle incellofanate da far scoppiare, trassi due insuline Terumo sterili da 5 cc l'una e in due cucchiaia sciogliemmo polvere bianca (Thailandia) e di brown (Turchia). Infilai il braccio nel vuoto in modo che fosse teso con vene ben gonfie, pronto a farmi un dose d'ingiustizia pagata con soldi miei trovati chissà dove, ma vallo a spiegare alla gente, a chi si ritiene ragionevole, quindi bravi e zelanti indicatori di quale strade imboccare. Bazzecole? Non ho problemi. Però fatti una pera, poi diventane schiavo, scappagli se ti riesce e trovati, se non sei ancora morto nel frattempo, per lei malato fino alla morte dopo 33 anni che non vedo un milligrammo d'eroina. Allora, forse, potremmo intavolare un discorso, di quelli che si fanno guardandosi in faccia, alla pari. E sentirti dissociato ti farà solo bene, restando per sempre coinvolto in cose che preferisci non sapere. Non scrivo tutto ciò in giugno, a caso, e il giusto lavoro "sporco", lo faccio sempre molto volentieri. Un 16 giugno di 24 anni fa, a Montepulciano, per un pera qualsiasi, morì il miglior fumettista e pittore italiano del secolo scorso, Andrea Pazienza detto il Paz!, come fosse stato spintonato, ubriaco di Toradol, per poi essere appeso ad un vortice di polvere divenuto sciarada, ma non sappiamo cosa.

Andrea Pazienza al lavoro da guardare, possibilmente, in Full Screen

Siamo qualcosa che non resta,
frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno
                                                            Francesco Guccini, “Incontro”
Non so che anno fosseforse il 1982, quando un giorno accadde un fatto che oggi ricordo con buona memoria e vivido ricordo e non perché fosse più truculento di altri, niente affatto, perché era gelido come la Tramontana dopo che ha attraversato i Pirenei. Anche se sono passati 33 anni, lo scrivo al presente quel giorno privo di compassione e vissuto con una mia amica, molto speciale. Una donna che sapeva leggere il linguaggio del non detto per pura nostra incapacità nell'essere leali, senza lasciare nulla d'incompiuto. Emergendo dagli abissi come un cadavere gonfio di un annegato di droga, Benedetta è alle prese coi fiumi che le fluttuano plasma.
E’ in una rovinosa ricerca di una vena. Le braccia di Benedetta, più grande di me di un paio d'anni, sono un cimitero di cicatrici: tagli, fori, calli, buchi, tentati suicidi, tatuaggi alla come viene viene. Febbricitante s’infila la spada e comincia il rituale ululato, poi il risucchio per vedere se l’ago aveva centrato la vena oppure no. Benedetta sta da far schifo, astinenza esplosa da un pezzo, per di più suda e trema dal dolore. E’ seduta su di una sedia in cucina. Assisto in silenzio, strafatto per conto mio e steso sul divano con gli occhi a fessura e la tv accesa con il volume al minimo, per cui non le dedico alcuna attenzione. L’astinenza la costringe a scoreggiare forte e assumere piegamenti nel volto che la sua femminilità non avrebbe voluto. Spiegazione dovuta ai più: quando si è in down forte, come quello di Benedetta e hai la roba pronta nell'insulina già calda, l’emozione ti prende così forte allo stomaco che rischi di cagarti addosso senza dedicare al fatto molta attenzione, per cui continui a praticare l’iniezione ignorando completamente l’evacuazione solido-corporea.

Benedetta tira su il primo risucchio e dalla cannula della Terumo esce il primo fiotto di sangue. Ma la spada, come un gancio che si stacca dalla propria presa, esce dalla vena. Benedetta torna coll'ago a farsi spazio dentro il braccio. Con quella spada rimestola come avesse in mano un cucchiaio e girasse del minestrone. “Cazzo Matteo, aiutami! Non vedi che son fuori vena?! Dammi una mano, fa qualcosa, per la miseria! Qua si sta seccando tutto! Sto andando giù di testa! Aiutami, cazzo, aiutami!!! Mi scoppia la testa. Mi tremano le mani e non riesco a centrare la vena. La roba mi si raggruma tutta col sangue”. Più che pompargli l’avambraccio, cosa potevo fare? Le presi il braccio e strinsi forte per riuscire a vedere meglio dov’erano 'ste cazzo di vene. Schizzò un fiotto di sangue sulle pareti e una piccola parte sulla pasta rimasta dal pranzo. Un fatto, in quell’istante, importava a Benedetta quanto gliene fregava del Titanic, non essendosene accorta.

Da Trainspotting
Eccola di nuovo che torna alla carica. Inizia a forarsi in una mano, ma a nulla le servì. Poi riprova in una gamba. Niente. Le vene erano massacrate e seccate. Nella furia di pizzicare un rigagnolo di sangue, mi butto e provo anch’io nella ricerca di quel rosso che ti fa capire di essere ad un passo dalla felicità malata, ma ridotto com’ero e beccare la vena, era come iscrivere uno che soffre di vertigini ad un corso di paracadutismo. Le vene erano tutte otturate a forza di darci dentro, negli anni con furioso sdegno verso sé stessi, si formano canali che poi seccano, quelli che i tossici chiamano "Flebo spontanea". “No, no, sto perdendo la mia pera! Non ci posso credere, mezzo grammo buttato via, nooo! Si sta solidificando tutto. Ummfff”. L’angoscia spessa è tormentosa: “Come cazzo faccio, non becco la vena, non becco la vena. Non la becco, ti sto dicendo”. Paranoia full immersion. Non beccare la vena significa non sentire il flash, l’impatto che l’eroina ti offre appena saluta il tuo sangue, cioè la parte migliore della storia, quella che ti stravolge e ti lancia per un periodo di tempo precisato nel regno dell’ovatta e degli abbandoni globali per poi ritornare come zombi. “Ma porca la puttana vacca, troia. Ma vaffanculo!". E' Benedetta, va capita.
    "Oggi avrei voglia di quiete"
(Mia Martini)

"Come faccio con ‘sta roba Matteo, non becco la vena" e imprecazioni di ogni risma e un suo urlo agghiacciante chiuse per un attimo quella follia, nel tentativo di farsi sta cazzo di pera, mentre con l'ago frugava nel crocevia della mano sinistra. Inizia ad emettere rumori strani, più strani degli altri. Dal suo stomaco partono gorgoglii in continuazione. Come rutti e scoregge si succedono una dietro l’altra. Sarà al quarto buco. L’astinenza gli sta soffiando addosso tutta la sua inquietante per quanto certa presenza, avendo in mano l’arma che potrebbe spegnere tutte le sue angosce in un solo secondo. Il liquido rosso nell’ago sta coagulandosi. Benedetta sa, e questo la manda in maggior tormenta, s'è possibile. Buca, buca, buca, buca. E ri-buca quella carne rosa, Benedetta. Buca e fruga, fruga e buca, cerca, buca e fruga una vena che da qualche parte nel corpo avrai. A mani tremanti, tira su lo stantuffo per vedere se è in vena. Niente. Nella spada solo aria, niente ampolle di rosso sangue. Ci riprova, ancora. Poi ancora. Buca, fruga e stramazza. Benedetta mi guarda con uno sguardo mai visto prima, fra il terrore e l’impotenza. Decisa come pochi essere umani al mondo, tira su la maglietta per iniettarsela nel Deltoide, il muscolo dell’avambraccio, almeno, l’effetto della roba le verrà su parzialmente venti minuti dopo e senza risucchio, che è tutt'altra roba, per un tossico o tossica. Un esempio: è come per un alcolista mangiarsi una caramella al liquore oppure tracannarsi con infamia un bicchiere ricolmo di Vodka. Chiaro, direi.
Urlerà ancora? 
Benedetta becca il muscolonon la vena, fa pressione sullo stantuffo e stak!, il plasma ormai denso ottura l’ago e schizzandomelo in vari punti della camicia, la faccia. le mani. Benedetta fugge, non so dove. Io rimango a casa sua da solo, bollito come un patata, o forse più lessato come quel tubero. Mi metto a sedere nel suo divano e piano piano mi allungo fino a stendermi. Apro gli occhi e mi trovo di fronte sua madre che mi chiede chi ero e cosa facevo in casa sua. In realtà mi conosceva e sapeva già di sua figlia e di me. Sapeva che ci facevamo insieme al ritmo della mattanza, che eravamo quanto non si può dire, che avevamo fatto qualche colpettino assieme (furti, scippi, situazioni strane come trovarsi con un avvocato stimato e danaroso di Bologna in un divano galattico in un attico a far maialate di ogni tipo per poi farci sganciare una cospicua parcella per il nostro impazzimento). Sapeva tutto sua madre perché Benedetta, prima o poi, le raccontava tutto. Bella donna, dall’aspetto giovanile, nonostante gli anni. Le rispondo con notevoli ammaccature grammaticali, di sintassi neanche a parlarne: “Quando c’ero, lei c’era. Benedetta, Benedetta, Benedetta, dove ti trovi? Vuoi fuori. Non vedi, c'è mamma?!”. La madre mi guarda come si guarda un beota fumato: “Ascolta scemo, ho già troppi casini con mia figlia e il resto della mia vita! Se Benedetta fosse qui me ne sarei già accorta. Ma qui non c’è. Si può sapere dov’è?”. Mi staffilò. Cerco di rispondere: “Signora, guardi niente storie strane, cioè, non le sto facendo le menate, lo capisce no? Per davvero, non so dov’è Benedetta. Sarei il primo a saperlo volere”. Mi cacciò di casa come un appestato e non aveva torto.

M’incamminai verso il Ronco, un cazzo di fiume, dove c’era un bar, Il Lido, che ci radunava un po’ tutti. Inizio a parlare con qualcuno, senza neppure ricordare chi fosse. Non ero lì con la testa, assolutamente. Il pensiero era rivolto a Benedetta. Dov’era? Come stava? Avrà trovato altra roba? O una vena? Urlerà? E quanto? A voi la risposta, anche quella dei Catoni imperiali del buon senso. L'episodio in se non mi pare più terribile di altri, come già scritto, la differenza la fece Benedetta, rivedendola una decina di giorni dopo fredda, occhi chiusi, bella e vestita bene nella cassa di legno. Un'overdose le aveva schiantato ogni legame con questo detrito di realtà dove c'è anche chi riesce a divertirsi. Pensai subito che non era la peggiore delle notizie che potessero darmi di Benedetta, fra tossici si fa presto a capire ciò che è riparabile e ciò che non lo è più e mettersi, non dico il cuore in pace, quello mai, ma a farsene un ragione si. Ma non so se questo serva qualcosa per aiutare a capire il modus-vivendi di chi, per un periodo della propria vita, ha scambiato Dio con l'eroina.

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