Le scelte per avviare un'impresa nella crisi
di Marco Liera (*) - 26/05/2013
La grave crisi occupazionale spinge non pochi italiani a valutare l’alternativa imprenditoriale. In contemporanea all’ondata dei fallimenti (oltre 6mila da inizio anno) quotidianamente aggiornati dal Sole-24 Ore, nel primo trimestre 2013 il saldo tra iscrizioni e chiusure di società di capitali è stato positivo e pari a 8.793 unità (fonte: Unioncamere). Insolvenze e cessazioni colpiscono soprattutto le ditte individuali e le società di persone. Il totale delle società di capitali attive a fine marzo è aumentato a quota 1,417 milioni. Dal punto di vista macro, sembra di assistere a una schumpeteriana distruzione creativa, i cui eventuali effetti positivi tuttavia sono ancora da vedere. E a livello micro?La mancanza di opportunità più o meno interessanti di lavoro dipendente o quasi-dipendente non è di per sé una premessa sbagliata per l’avvio di una impresa. Le difficoltà possono far sprigionare energie innovative che in una situazione di maggior benessere forse resterebbero compresse in un angolo di qualche grandecorporation. La bassa disponibilità di credito bancario o altre fonti di finanziamento è certamente un potente freno oggettivo al “grande passo”. Ma non sottovaluterei neppure i rischi della mancanza di una formazione organica destinata ai nuovi imprenditori. Quanta attenzione viene riservata dalle facoltà di economia all’imprenditorialità? Si possono avere grandi idee e possedere la capacità di fornire ottimi servizi e prodotti (capitalizzando magari il know-how lavorativo pregresso), ma senza adeguate conoscenze finanziarie e gestionali le probabilità di successo o di semplice sopravvivenza – già non molto invitanti - si riducono sensibilmente. Rielaborando i dati di un rapporto del Cerved Group del febbraio 2011 sulla mortalità delle imprese italiane, a cinque anni dall’apertura il 34% delle start-up è già in default. A questo dato vanno poi aggiunte le liquidazioni. Negli Stati Uniti la probabilità di sopravvivenza di una nuova impresa è storicamente inferiore al 50% al quinto anno.La destinazione di parte dei risparmi familiari (laddove disponibili) alla start-up (sotto forma di equity o di finanziamento soci) è una strada pressochè obbligata per chi non riesce ad accedere ad altre risorse. Questa strategia è solo apparentemente meno rischiosa per il socio fondatore di una Spa o di una Srl, perché riduce la “riserva di sicurezza” per il mantenimento della famiglia. Una riserva che andrà investita tassativamente in attività finanziarie a minor rischio atteso (depositi bancari, risparmio postale, titoli di Stato a breve termine). Gli impegni finanziari legati alla famiglia condizionano seriamente la possibilità di avviare una nuova impresa.Uno studio Bankitalia appena pubblicato (“Le microimprese in Italia: una prima analisi delle condizioni economiche e finanziarie”) alza il velo sulla gestione delle 420mila società di capitali con meno di 10 addetti, che generano il 33% del valore aggiunto della nostra economia, circa 14 punti percentuali in più della media europea. Si tratta di aziende che hanno registrato tra il 2002 e il 2010 un tasso medio di crescita del fatturato annuo (11,7%) di oltre 7 punti superiore a tutte le altre. Le microimprese con meno di quattro anni di vita in particolare sono mediamente cresciute del 46,3%annuo, ovviamente con una dispersione elevatissima e con una forte variabilità dei volumi di affari nel corso del tempo. La redditività operativa è superiore a quella delle altre imprese, pare per “ una minore incidenza dei costi piuttosto che a un maggiore livello di ricavi”. Una delle chiavi del successo di una startup è proprio quello di tenere bassi i costi. E non indebitarsi troppo. Solo una microimpresa su cinque non ha debiti verso le banche, e vanta una crescita del fatturato superiore a quella delle imprese indebitate.
(*) Pubblicato sul Sole-24 Ore del 26 maggio 2013