Il destino l'aveva segnato, ma andarsene nel giorno di Natale lascia sempre un dolore aggiunto. Anche se poi, per una star, è il modo forse più discreto per uscir di scena. George Michael s'è spento fra le luminarie che, una volta tanto, non brillavano per lui, ma offuscato lo era da un po', e su di lui pencolava quell'insidiosa irresolutezza, quella pendola di fragilità che facevano del cantante anglo-cipriota un eterno adolescente. Intrappolato nell'immaturità della decade più fatua del Novecento.
Io non ero una fan degli Wham! né del ciuffo artatamente, chiassosamente biondo. Non del sex-symbol posticcio e nemmeno, in fondo, della voce così bella ma, anch'essa, sempre lì lì per scivolare sul crinale della morbidezza, barocca, anzi, cherubica. Molto meglio il Michael solista, finalmente restituito alla sua mediterraneita', quasi arabo, prepotentemente uomo, o nel disperato tentativo di diventarlo. Ma questa opportunità gli fu preclusa, o se la nego' da solo; il che, alla fine, cambia poco. Troppo debole per tutto: per rivestire i panni dell'attivista, ma anche per quelli del "gay formato famiglia". Michael avrebbe continuato a sbandarsi e a cantare, che era quello che gli riusciva meglio, ma non ora, non qui. Peccato. Quanti post-adolescenti smarriti, cristallizzati in una mezza età importuna come un ospite venusiano, fuori giro e fuori opportunità. Quanti talenti rimasti schizzati, in questi anni che la vita se li mangia, senza nemmeno averli gustati. Come in un crasso convivio, ci si ritrova a cinquant'anni, usati e ancora in boccio, e non si sa perché.