Ora Ladislav ha una casa, una famiglia e un'identità. Dovevo raccontare questa storia di umanità privata e di attendismo pubblico. Nella quale, ancora una volta, lo "strano" Giandomenico Oliverio, quel ragazzo dei cani sequestrati, dà lezione di altruismo molto raro. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.
eco l'articolo corriere della calabria 20\11\2025
la storia a lieto fine
Il ragazzo che salva i cani… e le persone: Ladislav rinasce grazie a Oliverio
Partito da San Giovanni in Fiore verso Roma, il 65enne ottiene un documento dopo mesi vissuti ai margini. A sostenerlo il ragazzo che dormiva in roulotte con 30 animali
SAN GIOVANNI IN FIORE Notte. L’autobus parte da piazza Antonio Acri, diretto a Roma da San Giovanni in Fiore. Dal finestrino un passeggero ignoto guarda la strada macinata con animo sollevato. Si tratta di Ladislav Tomlein, 65 anni, slovacco di Levoča. Sul sedile accanto siede Giandomenico Oliverio, il giovane sangiovannese che molti conoscono per il suo amore verso gli animali, i cani in particolare. Non è una gita, perché l’anziano ha bisogno come il pane di un documento di identità. Per mesi ha infatti vissuto come nell’ombra, riconosciuto soltanto dai calabresi che l’hanno accolto e confortato ogni volta. Ladislav approda in Calabria in silenzio, con un cane bianco e una piccola tenda. Giunge a San Giovanni in Fiore senza documenti e riferimenti, dorme all’aperto e affronta il freddo con il proprio amico a quattro zampe. Alcuni cittadini gli danno una mano, tra questi Giovanni Spataro, che continua a sostenerlo con la presenza e qualche aiuto economico. Ma la svolta arriva quando il signor Tomlein incontra Oliverio, che vive in una roulotte a San Leonardo di Caccuri (Crotone), mentre provvede ai propri 13 cani e ai 17 di suoi parenti; tutti i quadrupedi sequestrati l’anno scorso su provvedimento dell’autorità giudiziaria. Oliverio non chiede alcunché: ospita Ladislav nella propria roulotte, gli dà un tetto e dei pasti per vivere. Dopo il sequestro degli animali e del terreno, Oliverio lo porta con sé a San Giovanni in Fiore, a casasua. In sette mesi e passa, Ladislav entra nella sfera familiare del giovane. Non è un ospite né costituisce un peso. Sta lì come presenza stabile; «come uno zio», racconta Giandomenico. Intanto le istituzioni appaiono sfuggenti. Nessuna struttura pubblica prova a farsi carico di Ladislav, che continua a vivere senza un documento e in teoria senza sanità e gli altri diritti di base. Dell’uomo si occupa anzitutto Oliverio, che intanto deve affrontare un procedimento per presunto canile abusivo e mancata ottemperanza a provvedimenti amministrativi. Le accuse sono ancora in corso ma non cancellano il dato: c’è un pezzo di mondo che rimane fermo mentre il ragazzo, che in giro sembra strano, accoglie senza utili un uomo in difficoltà. Poi matura la decisione di andare a Roma. Nella notte scorsa salgono sul bus per la Capitale. Stamani, al Consolato della Repubblica Slovacca, Ladislav riceve un documento provvisorio che gli consente finalmente di curarsi, muoversi in libertà e lavorare se ne avrà l’occasione. Nei prossimi mesi il suo Paese gli darà il documento definitivo.
Oliverio e Ladislav
Per Ladislav è la fine di un limbo lungo quanto ingiusto. Per Oliverio è l’ennesimo gesto che parla da sé: dopo aver salvato decine di cani da abbandono e fame, assiste un essere umano lasciato al destino imprevedibile e a un immobilismo pubblico all’italiana. La domanda nasce spontanea: chi ha fatto il minimo indispensabile, le istituzioni o un ragazzo che viveva in roulotte? Oggi Ladislav scende dal bus con un foglio che gli apre, volendo parafrasare Franco Battiato, «un’altra vita». L’aspetta il suo cane bianco, affidabile, paziente, affettuoso. E in mezzo c’è sempre Oliverio, che continua a muoversi secondo la voce della coscienza. Quella che nessun giudizio “direttissimo” potrà mai irretire.
Teulada piange Pietrino Culurgioni, scomparso all’età di 108 anni: era l’uomo più anziano della Sardegna (mentre la donna più longeva è Luisetta Mercalli, che ha compiuto 110 anni nel febbraio 2025 ed è originaria di Carloforte ma vive a Cagliari). I funerali si sono tenuti ieri a Domus de Maria, dove la salma è stata tumulata nel cimitero comunale, tra la commozione di familiari, amici e dell’intera comunità locale. Aveva festeggiato il compleanno appena tre mesi fa, l’8 luglio, nell’antica casa di famiglia a Capo Spartivento, dove aveva ricevuto la visita di parenti e amici. Nonno Pietrino era il simbolo di una lunga tradizione pastorale che affonda le radici nei secoli e l’ultimo esponente dell’antica aristocrazia pastorale che ha segnato il passato recente di Teulada, Domus de Maria e Sant’Anna Arresi. Figlio e nipote di caprai, discendeva da una famiglia che già nel primo censimento nazionale del 1858 contava sette figli maschi tutti allevatori di bestiame da latte.
storie di caldo anomalo e boom di granite e limonate , di scelte di vita religiosa , di maturita in sardo e con figli , contestazione sul metodo della maturità . fonti msn.it ed altri siti internet provenienti da tale portale , canali telegram whatsapp ed altri social e i siti
Infatti ha scelto il silenzio in un mondo che urla: nessun rumore, solo preghiera e ascolto. La storia di Anna Maria, 30 anni, va controcorrente: è il racconto di una donna che ha detto "sì" alla vita monastica, in un tempo in cui le comunità religiose femminili si svuotano sempre più velocemente. «I dubbi ci sono, ma proprio per questo resto. Perché non credo nelle certezze blindate. E ogni giorno è un ritorno alla grazia delle origini» spiega al Corriere della Sera. Il cammino Non è stato un colpo di fulmine. A diciassette anni aveva un futuro diverso in mente: un fidanzato, una casa ed una famiglia numerosa. «Ho sempre avuto un’idea fortissima di comunità. Di famiglia larga, aperta. Ma la relazione dopo quattro anni è finita e con lei tutte le certezze». Ne è seguito un periodo di spaesamento, di ricerca. Così si è messa in cammino. La meta? Santiago de Compostela. «In realtà pregavo perché tornasse il mio ex», racconta ridendo. «Camminavo, piangevo, pensavo e facevo amicizia (...). Ogni sera celebravamo l’eucarestia. Sentivo che non ero sola». «Lasciati amare» Rientrata a Milano, la profondità di quel viaggio ha presto lasciato spazio al ritmo caotico e frenetico della vita urbana: tra il lavoro e il volontariato, qualche storiella ma nessun amore davvero duraturo. Qualcosa mancava: sentiva il bisogno di staccare. Si recava a Gorla o a Brescia, nei monasteri e ascoltava se stessa: «Cercavo uno spazio dove ascoltare ciò che il rumore copriva. Un giorno mi sono detta: smettila di pensare troppo. Lasciati amare». Da quel momento è passato un anno: oggi Anna Maria è una Clarissa Cappuccina. Si alza all’alba, vive il ritmo lento della clausura, alterna preghiera e pittura, meditazione e colloqui con chi bussa alla porta. Non fa attivismo, non ha una missione sociale: ha scelto l’interiorità. «Ho trovato un luogo dove mi sento intera». Una voce controcorrente Ultimamente, sempre più comunità religiose femminili stanno chiudendo per mancanza di vocazioni o semplicemente per l'età avanzata delle sorelle: a Milano, nel 2014, erano 159. Oggi le suore sono 117. Nonostante le celle si stiano svuotando, Anna Maria sceglie di restare, di abitare un vuoto che non fa paura, senza sentire la necessità di una vita diversa: «Ogni scelta comporta rinunce. Ma se stai costruendo profondamente qualcosa i dubbi sono occasione per rinsaldare la fiducia e la fede, non per fuggire. A volte, per capire che la vita non si esaurisce nelle cose, bisogna restare lì dove si è».
attività dove assieme alla limonata a cosce aperte? è molto in voga anche la variante sarchiapone
La tradizione degli acquafrescai, a Napoli, come rimedio contro il caldo: Limonate, aranciate e granite sono un pieno di benzina per dissetarsi e integrare i sali minerali?, spiega Claudio Di Dato di Oasi Chiaia dal 1902, storica attività dove assieme alla ?limonata a cosce aperte è molto in voga anche la variante sarchiapone.
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dopo una storia che sembrerà banale , ma in un contesto nazionale sempre più fatto d'incultura cì sono anche dei casi come : il diploma contemporaneo di madre e figliae gli altri tre racconti sotto
Gianmaria Favaretto, 19enne ex studente del liceo scientifico Fermi di Padova, ha compiuto una scelta che fa discutere: si è presentato all’esame orale di maturità, ha firmato il registro e ha dichiarato:
"Signori grazie di tutto, ma io questo colloquio di maturità non lo voglio sostenere. Arrivederci". Un gesto che, come racconta il giovane in un'intervista rilasciata al Mattino di Padova, non è stato frutto di svogliatezza, ma di una riflessione profonda sul sistema scolastico e sul significato dei voti. Una decisione meditata Gianmaria aveva calcolato che i suoi crediti scolastici (31 punti) e i risultati degli scritti (17 nel tema di italiano, 14 in matematica) gli avrebbero garantito la sufficienza, totalizzando 62 punti. "Credo di essere il primo che fa una cosa del genere al Fermi", ha dichiarato. Ma dietro questa scelta c’è molto più di un freddo calcolo: "L’esame di maturità per me è una sciocchezza", ha affermato, criticando un sistema di valutazione che, a suo avviso, non riflette le reali capacità degli studenti. La critica al sistema scolastico "Trovo che l’attuale meccanismo di valutazione degli studenti non rispecchi la reale capacità dei ragazzi, figuriamoci la maturità", ha spiegato Gianmaria. La sua protesta si concentra sui voti, vissuti da molti studenti come fonte di competizione e stress. "In classe c’è molta competizione. Ho visto compagni diventare addirittura cattivi per un voto", ha raccontato, sottolineando come le pressioni di professori e famiglie possano esacerbare questa dinamica. La sua decisione è maturata nel tempo, soprattutto durante l’ultimo anno di superiori, quando ha raggiunto il suo «limite di sopportazione» rispetto a un sistema che sentiva distante dai suoi valori. Il confronto con la commissione Nonostante il suo rifiuto di sostenere l’orale, Gianmaria non ha lasciato la sala senza un confronto. I professori, inizialmente sorpresi, hanno cercato di capire le sue motivazioni. "La presidente è stata rigida, mi ha detto che non sostenendo l’orale insultavo il lavoro dei docenti che avevano corretto i miei scritti", ha rivelato. Tuttavia, dopo un dialogo con i professori interni, che lo conoscevano bene, la situazione si è risolta con un compromesso: Gianmaria ha risposto ad alcune domande sul programma, ottenendo 3 punti aggiuntivi e chiudendo l’esame con 65/100. Lo studio come percorso di crescita personale "In terza sono stato bocciato, mi è servito per maturare. Sbagliando si impara" ha detto, sottolineando l’importanza di apprendere dai propri errori piuttosto che inseguire un voto. Per lui, lo studio dovrebbe essere un percorso di crescita personale, non una corsa al punteggio. La sua scelta di non sostenere l’orale è stata anche un modo per rivendicare la propria autonomia: "Perché dovevo fare una cosa solo perché la fanno tutti? Ho preferito usare la mia testa". La reazione della famiglia La decisione di Gianmaria non era stata condivisa con i genitori, che hanno saputo tutto solo dopo i risultati. "Ho spiegato loro come la penso. Sono stati comprensivi", ha raccontato. Ora, il giovane guarda al futuro: l’università lo aspetta, e con essa nuove sfide per trovare il suo posto nel mondo, lontano da un sistema scolastico che non lo ha mai pienamente rappresentato.
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«Mio figlio nato durante l’esame per il diploma»: per una giovane di Capoterra sessione suppletiva al PoliclinicoVeronica Vacca, 29 anni, è ricoverata da oltre un mese per una gravidanza a rischio: ha fatto in modo di finire gli studi
Veronica Vacca
Un esame di diploma speciale. Unico. Prima rinviato, perché Veronica Vacca, 29 anni, di Capoterra, è ricoverata da oltre un mese al Policlinico di Monserrato per una gravidanza a rischio. Poi per lei è stata allestita una sessione suppletiva: martedì ha sostenuto la prova di italiano, l’indomani quella di economia aziendale. E giovedì insieme agli esiti degli scritti (19 nel tema, 20 la prova tecnica) è arrivato anche Samuele. «Il tempo di rimettermi un pochino – racconta raggiante al telefono – e darò l’orale». Appuntamento domani mattina, sempre al Policlinico, dove il direttore generale Vincenzo Serra ha messo a disposizione il suo ufficio: «Ci hanno aiutato tutti, i docenti, i medici, la direzione sanitaria: ho tante persone che devo ringraziare, soprattutto mio marito Daniele che mi ha sostenuto e mi ha spinto a non mollare gli studi malgrado sia stata costretta a trascorrere in un letto d’ospedale l’ultimo mese di gravidanza». La storia Quella di Veronica è la storia a lieto fine di una ragazza che si è sempre sacrificata e che ha voluto inseguire a qualsiasi prezzo il traguardo del diploma. «Lavoro da due anni come operaia tessile in una sartoria industriale, prima con mio marito avevamo vissuto sette anni in Inghilterra. Lavoravamo in una farmacia, ci siamo messi sotto per imparare l’inglese, proprio quegli anni di studio e di lavoro mi hanno fatto decidere, una volta rientrata in Sardegna, nel 2023, di riprendere gli studi che avevo interrotto in quarta ragioneria. All’Istituto Atzeni ho frequentato le serali, mi sono trovata benissimo, sia con i docenti, sia con i compagni. Quest’anno sono rimasta incinta ma ho continuato a lavorare e studiare, sin quando ho potuto». Il parto Un mese fa i medici l’hanno trattenuta al Policlinico: gravidanza a rischio per lei e per il nascituro. «Non mi sono data per vinta, volevo questo diploma». Non poteva immaginare che il primo figlio sarebbe arrivato tra gli scritti e l’orale: «Parto d’urgenza, Samuele è nato di sette mesi, sta bene ma non l’ho ancora potuto vedere. Lui l’hanno sistemato nell’incubatrice. E anche io devo rimettermi in sesto per gli orali. Mai avrei immaginato un esame così particolare, da sola, in un bell’ufficio, non insieme ai compagni di classe. Non è stato facile». I primi a complimentarsi con lei per l’arrivo di Samuele sono stati, dopo i familiari, i compagni della quinta A, il preside dell’“Atzeni” Maurizio Pibiri, i docenti che l'hanno seguita durante l'anno Daniela Perra, Federico Bacco, Stefano Salaris , Claudia Pinna, Valeria Pinna e Riccardo Pinna e quelli della commissione di esame presieduta da Carla Anedda. «Spero – chiude Veronica Vacca - che la mia storia possa essere un messaggio per tanti ragazzi e ragazze: anche nei momenti più complicati, non bisogna smettere di credere in sé stessi: di sicuro mio marito ed io la racconteremo a nostro figlio quando sarà grande».
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Un esame in sardo: al Liceo Europeo di Cagliari la lingua di casa entra tra i banchi di maturità
Giaime ha discusso in sardo il tema degli esclusi e dei vinti nella storia, partendo dal celebre dipinto I mangiatori di patate di Vincent van Gogh
Giaime Corongiu A portare il sardo tra le mura dell’esame di maturità è stato Giaime Corongiu, studente dell’ultimo anno, che ha chiesto – e ottenuto – di poter svolgere parte del colloquio orale nella sua lingua madre. Un gesto che va oltre la semplice dimostrazione di una competenza linguistica: è un atto d’amore verso le proprie radici, un’affermazione della dignità di una lingua ormai confinata alla sfera privato. Giaime ha discusso in sardo il tema degli esclusi e dei vinti nella storia, partendo dal celebre dipinto I mangiatori di patate di Vincent van Gogh fino ad analizzare la legge di sfruttamento del lavoro formulata da Karl Marx. Il resto del colloquio si è svolto in italiano e francese, come previsto dal curriculum del liceo europeo. «Parlare in sardo all’esame mi ha permesso di esprimere meglio un pezzo di me – ha raccontato Giaime –. È una lingua che ho imparato in famiglia e che i miei insegnanti hanno sempre valorizzato». La commissione, presieduta dal professor Andrea Prost, ha accolto con favore la richiesta, riconoscendo la padronanza della lingua come parte integrante del percorso formativo dello studente. Un esempio che fa sperare. «Ci auguriamo – ha commentato il corpo docente – che questa esperienza sia da stimolo per tanti altri studenti che parlano la lingua sarda e per sensibilizzare la scuola a valorizzare questo enorme patrimonio linguistico». La scuola, infatti, è il luogo dove si coltiva costruisce il proprio futuro senza però mai dimenticare le proprie radici.
ci sono anche collezionisti seri e meno feticisti come quelli di cui parlavo nel post precedente che no sollo collezionano in questo caso , libri ma salvano i luoghi dal profitto e speculazioni . E' il caso
Il collezionista da 90mila libri: “Così ho salvato Casa Sciascia”
IL “MECENATE” - Di Falco: ““L’ho comprata dopo aver visitato alcune case di scrittori, come quelle di Verga e Pirandello. Così non è diventata un altro b&b”
Una piccola casa su due piani, nel centro storico di Racalmuto, acquistata da un privato, ristrutturata e riconsegnata alla collettività. Poteva diventare un semplice b&b o una casa vacanze, in cui i clienti avrebbero potuto fregiarsi di aver dormito nell’abitazione degli zii di Leonardo Sciascia, dove lo scrittore
visse per quasi quarant’anni, dal 1922 al 1958. Invece è il simbolo virtuoso della gestione di un bene privato fruibile al pubblico. “Questa è stata una casa significativa per Sciascia che era quasi un figlio adottivo per le tre zie. Al piano terra c’era la sartoria dello zio, e lo scrittore dopo la scuola media interruppe gli studi per fare l’apprendista in bottega. Tra queste mura sono state scritte le prime opere: La Sicilia, il suo cuore; Favole della dittatura e Le parrocchie di Regalpetra .E sono nate le sue figlie: Anna Maria e Laura”. È il racconto di Pippo Di Falco, che ora per aver comprato la casa dello scrittore alcuni definiscono un ‘mecenate’. Lui in realtà preferisce dirsi solo “un appassionato di Sciascia, di letteratura e di Racalmuto”. ‘Un compagno d’altri tempi’, che ha avuto come docente universitario a Palermo il sociologo Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia 1988; e che per anni è stato consigliere ed assessore alla cultura di Racalmuto, occupandosi anche della Fondazione Leonardo Sciascia, voluta proprio dallo scrittore nella vecchia centrale elettrica di Recalmuto, in cui è custodita la collezione dell’intellettuale. “L’HO COMPRATA
dopo aver visitato alcune case di scrittori, come quelle di Verga e Pirandello, per 50 mila euro nel 2019 da un parente, ho fatto uno sforzo finanziario con un piccolo mutuo – racconta Di Falco –. Ho atteso più di un anno e mezzo perché l’avrebbe dovuta acquistare il Comune che aveva il diritto di prelazione, ma neanche la Regione era interessata ad acquistarla. La prospettiva non era positiva, c’era il pericolo che potesse prenderla un privato e farne un’attività recettiva, con il rischio di perdere il mobili e gli oggetti dello scrittore. L’ho acquistata per salvarla e farne un luogo visitabile e aperto al pubblico”.
L'acquirente Pippo de Falco
Quando arriviamo a Racalmuto il tempo sembra si sia fermato. La provincia agrigentina negli anni si è spopolata per la forte emigrazione. Neanche i collegamenti funzionano bene. Bisogna attraversare un’autostrada fantasma, figlia dell’incapacità gestionale siciliana, e percorrere centinaia di chilometri di infiniti cantieri, deviazioni, doppi sensi di marcia, tunnel senza illuminazione e ponti sgangherati. A pochi metri da “Casa Sciascia”, c’è l’abitazione dove nacque lo scrittore, vicina al Santuario della Madonna del Monte. La famiglia decise di trasferirsi negli appartamenti delle zie, un anno dopo la nascita dello scrittore. Al suo interno, sembra essere cristallizzato tutto al momento in cui Sciascia e la famiglia decisero di andare via nel 1958. Anche il mobilio è quasi tutto originale.
La passione Di Falco però va oltre Sciascia, negli anni ha collezionato circa 90 mila volumi, 10 mila sulla Sicilia e 3 mila sulla mafia.
“A Casa Sciascia sono catalogate più di 1500 opere che riguardano lo scrittore: prime collezioni di libri, studi, riviste e articoli. In più si possono consultare oltre 5 mila testi di autori, filosofi, fotografi e artisti siciliani. Questo è un luogo di studio, in molti sono venuti qui per la loro tesi su Sciascia e sulle case degli scrittori”, spiega. In cantiere c’è l’idea di creare un database consultabile online. La casa è gestita da un’associazione senza scopo di lucro fondata da Di Falco, che oggi conta circa un centinaio di iscritti in tutta Italia.
“DA NOI L’ACCESSO
è gratuito, basta prendere appuntamento con i volontari. In questi anni abbiamo avuto alcune migliaia di ospiti, grazie anche agli eventi e le iniziative legate al Fondo per l’ambiente italiano (Fai)”, spiega Di
Falco. Così la Casa dello scrittore torna a vivere nuovamente, diventando luogo di incontri, convegni, dibattiti e mostre per parlare di Sciascia e far conoscere gli autori siciliani. E tra le migliaia di visitatori che hanno calcato questo piccolo appartamento, c’è anche chi ha deciso di dare un contributo economico. “Ad Hamilton, in Canada, c’è una grossa comunità di racalmutesi, che dopo aver visitato Casa Sciascia ha donato 8 mila euro, che ci ha permesso di fare dei lavori di ristrutturazione dell’abitazione. Credo abbiano voluto aiutarci perché siamo non profit”.
Dopo il risorgimento e la grande guerra ,la radio durante il fascismo , televisione durante il periodo repubblicano , ad unire l'italia , ci ha pensato la pizza
da repubblica del 24\4\2021
Dagli anni 50 ad oggi circa 2000 pizzaioli sono emigrati dal paese affacciato sulla Costiera amalfitana. La loro storia, a partire da quella prima pizzeria aperta a Novara
di Lara De Luna
“Tramonti negli anni ‘50 contava circa 6000 abitanti, e in poco più di un decennio è scesa a quota 4000”. Dove sono finiti quei 2000 “scomparsi” dal pittoresco borgo a pochi chilometri dal cuore della Costiera Amalfitana, su cui si affaccia? La risposta ce la dàGiovanni Mandara, pizzaiolo titolare della pluripremiata Piccola Piedigrotta di Reggio Emilia e Vice Presidente dell’Associazione Pizza Tramonti nel
mondo: “Tutti emigrati al Nord, con in tasca poco più di un disco di pasta”. Quello per fare la pizza integrale tipica del paese d’origine. Nasce così la storia poetica dei Pizzaioli di Tramonti, la scuola che non è mai stata davvero tale, nata per caso e per necessità e che dall’allora sconosciuta provincia di Salerno ha portato involontariamente la pizza oltre la linea della Capitale ben prima che ci arrivassero i pizzaioli-star degli ultimi 15 anni. "Prima eravamo quasi tutti tramontani o salernitani. Siamo stati noi ad aver portato e insegnato la pizza al Nord. Ma non abbiamo saputo raccontare la nostra storia”.
Una storia che come tutte le avventure nasce per caso, poco dopo la II Guerra Mondiale, mentre l'Italia cercava di capire da dove potesse ripartire e si ponevano le basi per il boom economico. Pioniere, nel 1947, fu Luigi Giordano, giovane di Tramonti in servizio di leva che arrivò a Loreto di Novara per “assolvere ai suoi doveri di cittadino. Fu il primo di tanti di noi a trovarsi in terre che con la nostra avevano in comune la produzione casearia -Tramonti è storicamente una delle contendenti ad Agerola del monopolio del fiordilatte -, elemento fondamentale per la pizza ma soprattutto per la nostra cultura. Lui iniziò con il fratello Amedeo a produrre mozzarella, e solo dopo un po’ di tempo aprì la pizzeria vera e propria”. Essere i primi è sempre importante, i pionieri sono un faro nella notte, dimostrano che ciò che prima era un vuoto può assolutamente essere riempito, ma il lavoro di Giordano ha avuto un quid in più: “Per una popolazione come la nostra, dove siamo tutti tanto legati che mio figlio, nato in Emilia Romagna, la sente come casa propria, avere un punto di riferimento della terra natia è fondamentale”.
Amedeo Giordano (foto: famiglia Giordano)
E così seguendo Giordano sono partiti molti altri ragazzi “appoggiandosi spesso a parenti o amici che erano già in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto. Il tutto funzionò a ondate, la seconda dagli anni ‘60 in poi, quando partirono i miei genitori. Io sono emigrato due volte, una da bambino e una seconda a 15 anni”. “Lo sviluppo - racconta Luciano Pignataro nel capitolo dedicato a Tramonti del suo “La pizza, una storia contemporanea” (Hoepli) -, si ebbe a macchia di leopardo, cioè da Novara nacquero pizzerie con le seguenti direttrici: da Novara verso Pavia, Vercelli, Varese, Milano; da Vercelli verso Ivrea, Biella, Como; da Pavia verso Bergamo, Brescia, Cremona, Piacenza…”. E così via fino ad arrivare a Udine, Vicenza, Venezia.
Ma la storia di questi duemila pizzaioli emigranti non è fine a sé stessa, ma fondamentale per l’evoluzione della gastronomia in Italia, per la creazione di una realtà trasversale, meticcia nel gusto, che oggi, si dà per scontata. Facendo diventare la pizza un piatto nazionale prima, e internazionale poi. “Di fatto - spiega Mandara - siamo stati noi tramontani a portarla al Nord e a creare il rapporto di gusto con questo piatto particolare. Non siamo stati consegnati alla storia per questa piccola grande rivoluzione solo per un nostro errore: tutte le pizzerie che venivano a mano a mano fondate avevano nomi che richiamavano alla tradizione napoletana, città più conosciuta, da Marechiaro a Bella Napoli. Io stesso, che ho iniziato questo lavoro ormai più di trent’anni fa, ho chiamato la mia pizzeria Piccola Piedigrotta”. Per arginare questo “difetto” della storia gastronomica, da anni lavorano fianco a fianco la Corporazione dei pizzaioli di Tramonti - fondata a cavallo tra gli anni '80 e '90 da Gaetano Generale e oggi di gestione prettamente politica - e l’Associazione Pizzaioli di Tramonti di cui Mandara è il Vice Presidente: “Noi siamo una costola della Corporazione originaria, la nostra non è stata una diaspora. Semplicemente siamo tutti pizzaioli, ci confrontiamo e proviamo ad agire giorno dopo giorno per diffondere la nostra tradizione e mantenerla sempre viva”. Alla Corporazione si deve anche la creazione del primo Festival della Pizza, organizzato a Tramonti l’8 agosto del 1991, da allora ogni anno, racconta Pignataro “in migliaia si ritrovano l’8 e 9 agosto, date che ricordano i giorni in cui furono inaugurate “A Marechiaro” a Novara e “La Violetta”, la prima pizzeria di Tramonti, nel 1953”.
Il rapporto tra la pizza di Tramonti e quella diffusasi nella parte più a nord del nostro Paese viaggia anche sul filo del gusto e delle tecnicità del lievitato. “La nostra era una pizza integrale - spiega Giovanni Mandara -, tradizionalmente preparata nel giorno dei morti prima dell’infornata di pane e condita con prodotti semplici del territorio: pomodoro, olio e fior di latte”. E se è vero che oggi il versante impasti si è evoluto, andando a smussare gli angoli rigidi della farina integrale pura con nuovi grani a cui a volte viene aggiunto il finocchietto, la vera anima della pizza di Tramonti, il suo genoma distintivo, è la cottura “A differenza della napoletana tradizionale, noi cuociamo più lentamente e a temperature più basse. Ci attestiamo a circa 300-350 gradi, realizzando non una pizza umida, ma più croccante fuori e morbida dentro”. Un anello di congiunzione, storico e organolettico, tra la pizza di origine campana e quella della Scuola Veneta (la “pizza gourmet”, come viene più comunemente definita). Un trait d’union unico tra Nord e Sud, fatto di cibo e di uomini, quelli che sono andati e che sono tornati, rendendo “Tramonti uno strano paese, nel cuore della Campania ma con la mentalità nordica degli emigranti di ritorno”. Una realtà culturale unica. Un motivo in più per rendere onore a quei circa 2000 pizzaioli che ignari della rivoluzione che stavano compiendo, hanno lasciato il Paese natio in cerca di fortuna “con in tasca solo un disco di pasta”.
leggo su alcune bacheche di fb il post ( news confermata e verificata leggendo online i giornali locali fra cui https://www.casertafocus.net/ da cui ho tratto una foto del post ) .
del sindaco di Parete (CE) un sindaco di una lista civica che pensa ai suoi cittadini. Chissà se da noi si farà altrettanto. Sicuramente queste festività natalizie imminenti saranno diverse , nonostante l'invito a comprare i regali in rete , da tutti gli altri ma cerchiamo anche noi visto che lo stato non riesce completamente nei migliori dei modi di uscire da questa emergenza sanitaria che sta distruggendo la vita di tante persone ed dando ad alcune d'esse con patologie pregresse il colpo di grazia . Quindi oltre a quanto già detto ( chi mi segue su i social salti pure e prosegua nella lettura del post ) precedentemente in un mio post
. Quindi oltre a quanto già detto ( chi mi segue su i social salti pure e prosegua nella lettura del post ) precedentemente in un mio post
o in una elle mie condivisioni
Cari amministratori ( non solo comunali ) appena eletti o in carica prendete esempio da lui . Un sindaco , indipendentemente dall'appartenenza politica , che ha interesse ai cittadini e alla cittadinanza Non poteva fare scelta migliore . Infatti , peccato che non sia nella mia città un sindaco del genere , sono pienamente d’accordo. Anzi anche noi concittadini dovremmo dare il nostro contributo. Aiutiamoci ad abbattere questo emico. E a molti direi anche usate la mascherina e non portatela solo come una collana o braccialetto . Concludo con un commento trovato sul suo account
Ecco la politica del fare. E del fare bene! A dispetto degli altri Comuni (vedasi, ahimè, Trentola Ducenta) che si disperdono nell'inseguimento dei ragazzini, Parete insegue il concetto di "priorità". Dei fatti e non delle scene fantozziane.
concludo complimentandomi con lui perchè non avrebbero senso le luminarie se x via del covid saremmo spenti dentro.... Meglio un'iniziativa sanitaria visto che il nostro sistema sanitario è al tracollo.....