Visualizzazione post con etichetta chi ancora resiste. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta chi ancora resiste. Mostra tutti i post

28.2.20

I 200 negozi di dischi che resistono alla crisi “Salvati dal vinile"

 da repubblica del  Febbraio 27.2. 2020

Da Internet agli acquisti su Amazon, la contrazione nelle vendite va avanti da più di vent’anni. Senza parlare della pirateria
Passavamo i pomeriggi da Consorti, come si chiamava quel negozio che vendeva dischi in viale Giulio Cesare, a Roma. In quelle cabine con sottili pareti di vetro si stava ore, seduti a terra, ad ascoltare dischi appena usciti, o magari soltanto sfuggiti alla bulimia musicale che negli anni Settanta contagiava tutti i ragazzi. Un long playing a 33 giri costava fra 4 e 5 mila lire. Una discreta sommetta: rapportata a oggi, una quarantina di euro. Ne compravamo uno di tanto in tanto, e quando su...
Passavamo i pomeriggi da Consorti, come si chiamava quel negozio che vendeva dischi in viale Giulio Cesare, a Roma. In quelle cabine con sottili pareti di vetro si stava ore, seduti a terra, ad ascoltare dischi appena usciti, o magari soltanto sfuggiti alla bulimia musicale che negli anni Settanta contagiava tutti i ragazzi. Un long playing a 33 giri costava fra 4 e 5 mila lire. Una discreta sommetta: rapportata a oggi, una quarantina di euro. Ne compravamo uno di tanto in tanto, e quando succedeva sembrava una grande conquista.
I pomeriggi ad ascoltare musica. Quei pomeriggi erano qualcosa di più, la scoperta miracolosa di un mondo magico destinato però a scomparire. Finiva la scuola e si diventava grandi, mentre tutto cambiava. I dischi di vinile morivano, soppiantati dai compact disc. La pirateria, che già aveva invaso il mercato, prese subito confidenza con il nuovo mezzo e dilagò. Le cabine sparirono, qualche negozio falliva e chiudeva. Poi, un bel giorno, arrivò internet e fu il patatrac.
Confesercenti dice che nel 2006 i negozi indipendenti che vendevano dischi e video in Italia erano 1.391. Di quelli ne sarebbero rimasti secondo gli ultimi dati disponibili, 258. Ma i dati di cui parliamo sono del 2017. E come per le librerie e per le edicole, neppure questa emorragia si è arrestata. Con una differenza non da poco: perché la chiusura delle edicole ha a che fare con la crisi della carta stampata e quella delle librerie è anche la conseguenza logica di un Paese che non ama la lettura, la musica non è affatto in difficoltà. Tutt’altro.
L’ultimo a chiudere è stato lo storico rivenditore di dischi di Chivasso, città piemontese di 27 mila abitanti. Non va meglio tuttavia nelle metropoli. «Qui a Milano», dice Mario Buscemi che gestisce una rivendita in Corso Magenta, «il nostro è praticamente l’unico negozio indipendente rimasto, se si eccettua qualcuno che vende dischi usati».
Il suo negozio ha cinquant’anni. Ma Buscemi sa che durerà fino a quando dietro il bancone ci sarà lui: «Per me è come fosse una sfida. Il mestiere mi piace e vado avanti finché me la sento. Non penso però di lasciare l’attività a qualcuno in condizioni di continuarla, una volta che sarò andato in pensione». La situazione si è fatta per molti insostenibile. «Il fatturato sarà sì e no il 30 per cento di quello di un tempo. La musica non si ascolta quasi più dai supporti fisici. La scaricano da internet con costi modestissimi senza dire della pirateria. E quello che si compra, si compra per corrispondenza da Amazon, che ha ormai la metà del mercato italiano. Ma il fatto è che la crisi», insiste Buscemi, «va avanti da più di vent’anni».

Multinazionali contro negozi
Risale a quell’epoca l’appello all’Antitrust del Forum cultura e spettacolo dei Verdi che denunciavano un accordo delle grandi multinazionali sul prezzo dei dischi in grado di danneggiare i piccoli negozi. La denuncia aveva preso le mosse da un procedimento innescato in 28 stati americani nei confronti delle stesse multinazionali. Ma già nel 1997 l’Antitrust italiano aveva sanzionato con una multa di 8 miliardi di lire il cartello ritenuto responsabile, come ricordò un articolo di Carlo Moretti su Affari&Finanza di Repubblica nel 2003, di aver falsato “in maniera consistente la concorrenza sul mercato discografico in Italia mediante la definizione di una struttura e un livello uniforme dei prezzi praticati ai rivenditori”.

La crociata contro la pirateria
E nel 2002 fu la Confesercenti a tentare di avviare una crociata contro la pirateria, rivelando che in Italia il 20 per cento del mercato dei compact disc era controllato dalla contraffazione. L’anno seguente la crisi era già conclamata, con chiusure a ripetizione dei negozi specializzati. Allora il fenomeno di Amazon non si era ancora palesato, e i rivenditori indipendenti puntavano il dito contro la grande distribuzione. Al punto che Norina Rossi, già presidente del comparto che fa capo alla stessa Confesercenti, avanzò la proposta di vendere i dischi anche nelle edicole: non potendo immaginare quello che sarebbe accaduto in seguito alla rivendite dei giornali.
Oggi anche lei, titolare di un negozio di Arezzo, dice che «la crisi è nella lettera A, quella di Amazon». E poi la contraffazione, «che è diventata un meccanismo perfetto». Il bilancio: «in Toscana siamo rimasti una dozzina di negozi indipendenti. Sono spariti a Siena, sono spariti a Viareggio, stanno sparendo a Pisa. Il fenomeno è così serio che a questo punto non so cosa debba accadere perché se ne occupi il governo».
Una piccola boccata d’ossigeno è venuta dalla riscoperta del vinile. Che però, avverte Buscemi, «è comunque un fenomeno limitato, e certo non compensa la paurosa flessione delle vendite». C’è quindi chi cerca di tenersi a galla organizzando incontri con musicisti e cantanti. E intorno a questi eventi si è costruito anche un discreto mercato. Ma non può essere questa la soluzione.
La verità è che siamo di fronte a una questione di portata globale. Sul Sole 24 Ore Simone Filippetti ha raccontato sei mesi fa che a Londra, nella centralissima Oxford street, ha chiuso nientemeno che Hmv: His master’s voice. Per gli italiani, la Voce del padrone. Era il più famoso negozio di dischi della capitale britannica, fondato addirittura nel 1921. Ha resistito finché ha potuto, più di Megastore di Richard Branson, e decisamente più di Tower records, che ha abbassato le saracinesche ormai da più di un decennio.
In Italia la resistenza ha provato a sfondare con il Fisco. Finora però inutilmente. All’inizio del 1997, per decisione del primo governo di Romano Prodi che oltre ad aver introdotto l’eurotassa stava raschiando il fondo del barile per riuscire a entrare nel gruppo di testa della moneta unica, l’Iva su dischi e compact venne portata dal 9 al 20 per cento. Le case discografiche lamentarono subito che avrebbe quindi fatto impennare anche i prezzi. Senza esito.

L’appello contro l’Iva
Cinque anni più tardi, con un appello al presidente del consiglio Silvio Berlusconi e ai ministri dell’Economia e dei Beni culturali Giulio Tremonti e Giuliano Urbani, 150 artisti, da Salvatore Accardo a Zucchero Fornaciari, chiesero di abbattere l’Iva su dischi e compact disc dal 20 al 4 per cento. Portandola allo stesso livello dell’imposta applicata su giornali e libri. «Sembra un paradosso», scrivevano, «ma ad un libro che racconta la vita di Giuseppe Verdi si applica il 4 per cento di Iva; tuttavia, se volessimo acquistare un disco che contiene l’opera del grande compositore italiano, dovremmo pagare un’Iva del 20 per cento». Ma pure quello, nonostante il peso di tutti quei nomi, fu un buco nell’acqua.
Finché a gennaio del 2005 un deputato dell’opposizione di centrosinistra presentò una proposta di legge per accogliere quell’appello. Il suo nome? Dario Franceschini, attuale ministro dei Beni culturali. Anche la sua proposta cadde però nel vuoto. Da allora la pratica è finita nei fatti su un binario morto. Con il risultato che l’Iva sui dischi e i cd attualmente è al 22 per cento, il livello più alto d’Europa.                                                                         

30.4.16

IN MEMORIA di © Daniela Tuscano


Mohammed avrebbe voluto una famiglia e dei figli ma non immaginava ne avrebbe avuti tantissimi. Non in quel modo. O forse sì. Forse, a un certo punto, ha smesso d’immaginare, perché la realtà travalica i nostri piccoli sogni, anche quando sono grandi. Quello di Mohammed il pediatra, anzi, l’ultimo pediatra di Aleppo (e come titolo d’un moderno "feuilleton" suonerebbe pure bene) era indubbiamente immenso, la sua realizzazione umana. Ma ne ha raggiunta un’altra, rimanendo nella sua martoriata città, assieme ai suoi fratelli, tutti medici, tutti ancor vivi, tutti con famiglia. Lui no, lui la sua l’aveva rimandata, perché i bambini li aveva già: erano quelli altrui, ormai di nessuno. Li aveva in cura e per loro non sognava, ma agiva. Era già un padre e lo capiamo dalla tenerezza compresa e pudica con cui posava lo sguardo sui piccoli pazienti.


 
L’ospedale di al-Quds, dove prestava servizio, è crollato sotto l’ennesima bomba infame seppellendo lui e i suoi “figli”. Mohammed era un padre, un medico, un mistico, un dottore dell’anima e del corpo. Solo in questi giorni, mentre ci sfuggiva, abbiamo scoperto la sua eroica normalità. Di quanti, e quante, non conosceremo mai nulla, quanti volti resteranno sepolti al mondo? Quanto ancora durerà l’odio, la divisione? Ricorderemo sempre Bin Laden o il macellaio di Bagdad autoproclamatosi califfo, mentre chi fa risplendere la bellezza dell’uomo, a ogni latitudine, sono gl’innumerevoli Mohammed e i loro sguardi silenziosi e pazienti. Anche questa è la guerra, la sua idiozia totale. Ma vorremmo rivolgere un pensiero a qualcun altro che non vedremo mai. La misteriosa fidanzata di Mohammed. È rimasta la donna dell’attesa e la immaginiamo frugale, discretamente graziosa, una ragazza come tante al giorno d’oggi. Normale anch’essa, malgrado tutto. Malgrado noi, ché della guerra ognuno a suo modo è responsabile, fosse pure con la sua indifferenza. È il nostro essere distratti, affaccendati. È quel senso d’impotente noia. È quel nostro percorso tutto assurdo, tutto sbagliato.

© Daniela Tuscano

15.3.13

una prima vittoria della biblioteca condominiale di via rembrant 12 a Milano

apro il  secondo   account  di  facebook ( http://www.facebook.com/redbeppeulisse2 il primo  è pieno ) e da  , vedere  post  precedenti ( chi non avesse  tempo o voglia   di cercarli   trova  un sunto nel video sotto )   , Biblioteca Rembrandt 12  Leggo   questa bella notizia 
  
 ALT   fermi tutti  .
Per  chi  non spesse  di cosa  stiamo parlando  o  l'avesse dimenticato  o  non  avesse  voglia  d'andare in archivio  e  cercare i  post in cui  si parla  di ciò  ecco qui  sotto  un  sunto  della vicenda  

 

11.10.12

Donna d'ogni tempo




Non solo è bella, ma ha lo sguardo fiero, diretto. Questo la rende al tempo stesso adulta e bambina. Solo i bambini, o i poeti, o gli eroi riescono a levare gli occhi, a snudare l'altrui ipocrisia con la schiettezza inconsapevole e audace delle anime primitive. Lo sguardo dei bambini, dei poeti, degli eroi non ha bisogno di veli. Somiglia molto allo sguardo di Dio, dal quale non si può scappare. Ecco perché i malvagi, i falsi, i violenti non lo sopportano. Lo evitano; e, se non riescono a domarlo, non hanno alcuno scrupolo a farlo tacere per sempre.
Malala Yousafzai ha quattordici anni. Sono tanti, sono pochi? La misurazione del tempo è molto relativa, soprattutto se si tratta di adolescenti. Non bambini ma nemmeno propriamente adulti, considerati impropriamente "terra di mezzo" e invece alla disperata ricerca di un posto per sé nel mondo, gli adolescenti incutono paura a un mondo invecchiato e rigido. Malala, di paura ne infonde tanta. E' pachistana e, dall'età di undici anni, quando si è ancora del tutto bambini, tiene un blog, un semplice blog come fanno altri bambini e adolescenti in ogni parte del mondo. Solo che, dal suo blog, Malala non sfogava frustrazioni da figlia insoddisfatta, non lo riempiva di cuoricini né, come accade ad alcune teenager italiane, aspirava a diventare velina. Malala scriveva altro: "Dateci penne per scrivere, prima che qualcuno metta armi nelle nostre mani"; e protestava perché nella sua provincia certi maschi barbuti, che sotto il pretesto della religione mascherano la propria violenza e ignoranza, aggredivano le ragazze, impedendo loro di frequentare la scuola. Secondo costoro, l'unico compito delle donne è quello di servire il loro padrone, con gli occhi bassi e col silenzio.
"Diffonde idee laiche, ci attacca, è una fan di Obama" gridavano i barbuti. L'hanno seguita, scovata su un autobus diretto a scuola, e le hanno sparato, ferendola gravemente alla testa e al collo.
Ma non sono riusciti a fermarla. Quel suo sguardo, per loro così insopportabile e odioso ("osceno", l'hanno definito), continuerà ad accusarli e a perseguitare la loro cattiva coscienza.
"Da anni Malala aspettava quel killer, ma ha continuato a difendere il futuro, il suo e anche il nostro", scrive Corradino Mineo di Rainews.
Perché il "nostro"? In fondo, potrebbe obiettare qualcuno, Malala vive in un Paese lontano, è immersa in una cultura molto arretrata. Qui, da noi, certe cose non accadrebbero mai. Qui, da noi, le donne sono rispettate. Sono pari agli uomini.
Ora, a parte il fatto che non si capisce perché il metro per giudicare "pari" una persona debbano essere gli uomini, informatevi un po' come vivevano le donne del nostro Sud fino a pochi anni fa, e, in qualche caso, ancor oggi. Chiedete da quanto tempo le donne italiane hanno diritto di voto. Non lo sapete? Dal 1946; in Myanmar, tale diritto risale al 1922.
Fate un'inchiesta su quanti lavori erano preclusi alle donne italiane in un recente passato. Domandate a quanto risale il nuovo diritto di famiglia, per cui l'uomo non è più capo della donna e della famiglia. Cercate di sapere quando è stato abolito lo jus corrigendi, che permetteva al marito di picchiare la moglie e i figli "a scopo correttivo". Scoprite come mai l'adulterio di un uomo veniva sanzionato con una multa, e quello della donna con la galera. Sappiate che, per una donna che commetteva un delitto "d'onore", si aprivano le porte dell'ergastolo; un uomo rischiava, al massimo, cinque o sei anni. Questo fino al 1981.
E guardate, soprattutto, i dati: gli stupri nell'ultimo periodo sono aumentati del 60%, quasi tutti commessi in famiglia o da fidanzati abbandonati, che non potevano tollerare l'idea che la "loro proprietà" decidesse da sola, e senza di loro. Del resto, questi delitti restano quasi sempre impuniti, anche perché fino al 1992 la violenza sessuale era un "reato contro la morale" che comportava pochi anni di carcere. Il pregiudizio, però, che tutto sommato la donna "se la sia cercata" è ancora molto diffuso.
Se poi guardiamo gli attuali modelli televisivi, e anche politici, quel che viene proposto come "ideale" alle ragazze è la donna che si concede a tutti, che usa sé stessa solo per il proprio corpo e si vende al miglior offerente per ottenere soldi facili e agevolazioni d'ogni tipo.
Per molto tempo ha furoreggiato una trasmissione dall'eloquente titolo La pupa e il secchione. Vi siete mai domandati perché Il pupo e la secchiona sarebbe stato improponibile?
A Sesto San Giovanni il Comune ha lanciato il progetto Toponomastica femminile, per l'intitolazione di quattro parchi cittadini a donne importanti del passato. E, in effetti, vie, piazze, luoghi pubblici delle città italiane recano spessissimo nomi maschili, come i libri scolastici e le grammatiche; e ciò in barba alla realtà, dove le donne sono state spesso protagoniste in vari campi della cultura, dell'arte, della scienza e della religione, e in un Paese come il nostro, dove il 90% dei laureati sono donne e non uomini. Donne che, peraltro, difficilmente trovano impieghi all'altezza della loro preparazione. In compenso, in caso di crisi, sono le prime a venir licenziate; e fate una ricerca sui "licenziamenti in bianco" che molte donne sono costrette a firmare preventivamente, in spregio a tutte le leggi vigenti.
Quando poi l'insegnante propone questi argomenti a scuola non è raro trovare il furbetto o furbetta di turno, di solito impegnato/a nei fatti suoi, che a un certo punto salta su e chiede, con una punta d'ironia: "Scusi prof, ma lei è femminista?". Ignorando il significato dell'aggettivo, per costoro "femminista" è sinonimo di donna isterica, odiatrice di uomini.
Chiederemmo mai a una persona che sta annegando: "Scusa, ma a te non piace l'acqua?"?
Che le donne abbiano dei diritti non è infatti per nulla assodato, non presso la mentalità maschile ma, talvolta, nemmeno tra le stesse donne.
Ecco perché lo sguardo di Malala oggi interessa tutte. E tutti. Non è "faccenda del suo Paese" né tantomeno della sua religione, l'Islam, che non vieta da nessuna parte l'istruzione alle ragazze. E' faccenda comune. Perché dietro i pretesti dell'onore, della modestia, della politica, della religione si nasconde la pretesa antica, e barbara, degli uomini a dominare altri esseri viventi, la natura, le cose. Ecco perché Malala scrive: "Dateci penne e non armi". Ella sa bene, dal poco/tanto dei suoi quattordici anni, che l'ignoranza è sinonimo di violenza, di sopraffazione, di guerra. E, in un mondo globale come il nostro, non si può più distinguere tra vicini e lontani. Il benessere delle donne comporta, automaticamente, una maggior felicità degli uomini perché significa maggiori diritti per tutti, sempre e comunque.
Malala è un'eroina dei nostri tempi e di ogni tempo. I diritti, infatti, non sono un dato acquisito una volta per sempre. Malala ci ricorda che sono il frutto di sacrifici e di lotte e che, per essi, molte e molti hanno perso la vita a cui pure tenevano tanto.
I ragazzi italiani che si trascinano stancamente a scuola e le ragazze che durante l'ora di grammatica sbuffano sognando bamboleggianti il fidanzatino di turno è bene che si sveglino.

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...