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5.10.25

Fabrizia Olianas la libertà sui verdi pascoli ., «Vado sott’acqua contro i pregiudizi» Alessandro Vacca ha la sindrome di down: ottiene il brevetto da sub

unione sarda 5\10\2025





Dall’altopiano si scorge il lago Flumendosa, tutto attorno silenzio e verde. C’è solo lei, con un gregge di capre e una mandria di mucche. Questo è il lavoro che ha scelto: la pastora, lasciando l’attività di famiglia circa dodici anni fa. L’incontro con le caprette è folgorante, non c’è più modo di tornare indietro, segue il suo istinto e il bisogno di una vita all’aria aperta abbandonando una strada già tracciata. «Nella mia famiglia nessuno ha fatto o fa il pastore. Mio padre ha una macelleria dove ho lavorato dall’età di 16 anni fino ai 26, poi ho deciso di cambiare vita», racconta Fabrizia Olianas, 41 anni di Villanova Strisaili.
A prima vista
Un amico pastore le fa conoscere da vicino questo mestiere e l’incontro con gli animali è amore a prima vista, così Fabrizia comincia ad aiutarlo tutti i giorni con le varie mansioni, impara a mungere e a fare il formaggio. «Sono sempre stata amante degli animali fin da piccolina – ricorda -, e anche un po’ ribelle. Non amavo un lavoro chiuso fra quattro mura, così nel 2013 ho iniziato ad allevare capre e mucche. La scelta di lasciare la macelleria non è stata vissuta in maniera molto felice da mio padre, ma poi si è rassegnato». In questo periodo dell’anno il lavoro è meno pesante, principalmente si occupa di dare da mangiare alle capre e alle mucche e di portarle al pascolo; in altre stagioni si dedica anche alla mungitura e a fare il formaggio, anche se i problemi non mancano mai. Burocrazia e malattie che colpiscono gli animali mettono a dura prova Fabrizia: «A volte mi viene voglia di mollare tutto, da quando ho iniziato le cose sono notevolmente peggiorate – spiega -, e il futuro non lo vedo roseo. Lavori tanto, le spese sono sempre più delle entrate e le malattie dimezzano il gregge. Però quando arrivo nelle stalle, loro mi incontrano e mi fanno le feste, mi passa tutto. Continuo per amore verso i miei animali».
Appena nati
Un amore così grande che arriva ad ospitare in casa propria intere famigliole di capretti appena nati, a rotazione, da novembre fino a marzo. Infatti, per tentare di salvarli dalle malattie l’unico modo è tenerli lontani dalle stalle. «Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di aprire un mini caseificio per lavorare il prodotto, ma visti i tempi penso che dovrò abbandonarlo. Non mi sento aiutata burocraticamente. In Trentino, per esempio, i pastori possono fare il formaggio nelle malghe e possono venderlo, qui bisogna per forza avere un caseificio. Ma, se ci pensate, con il caseificio il prodotto diventa “unificato”e uguale per tutti, mi piacerebbe che cambiassero tèle regole», spiega Fabrizia. Ai giovani non consiglierebbe mai di intraprendere questa strada, ma per fortuna il denaro non è l’unico metro di giudizio: «Alla fine dei conti, questo lavoro mi fa stare bene. Mi ha insegnato a stare da sola, a conoscermi meglio, a convivere con me stessa. Sei solo tu e gli animali, la forza me la danno loro», conclude.


Infatti da La storia della pastora Fabrizia Olianas | Ogliastra - Vistanet

«Mestiere difficile, non si stacca mai»: la storia della pastora sarda Fabrizia Olianas



Non ci sono giorni liberi, in alcuni periodi le giornate dovrebbero diventare di 45-50 ore tanta è la mole di lavoro e – soprattutto ultimamente, tra aumenti e difficoltà – tirare avanti non è semplice. A parlarcene è la pastora ogliastrina 38enne Fabrizia OlianasNon ci sono giorni liberi, in alcuni periodi le giornate dovrebbero diventare di 45-50 ore tanta è la mole di lavoro e – soprattutto ultimamente, tra aumenti e altre cose – sopravvivere non è semplice: stiamo parlando della vita dei pastori, lasciati liberi a se stessi.
A parlarcene è la pastora villanovese 38enne Fabrizia Olianas, in attivo fin dal 2013. «Carriera impegnativa senza riposo, non si stacca mai del tutto,» dice «nemmeno la notte. Torni a casa e pensi a quell’animale che sta poco bene, a quello che non ce l’ha fatta Nonostante ciò, mi piace tantissimo.» La motivazione deve essere tanta: «Io la avevo» ammette. «Non nego che ora la stragrande maggioranza dell’entusiasmo se ne sia andata.»
Olianas, che alleva mucche e capre, lamenta la mancanza delle istituzioni nel risolvimento dei problemi
relativi a quello che, nell’Isola, è un settore trainante: «In Sardegna, ormai, gli animali vengono colpiti da tantissime malattie. Siamo lasciati soli, manca proprio un piano preciso di risanamento delle greggi, mancano i veterinari che dicano come fare, che aiutino nell’arginarle. Il problema, ad oggi, è più che altro pratico.»
Ma non manca il problema economico. Olianas è perentoria: con gli attuali prezzi di mangime è difficile poter arrivare a fine mese sereni, senza contare il prezzo bassissimo del latte – che negli anni scorsi portò a una violenta rivolta popolare.
«Le capre si ammalano di CAEV, di paratubercolosi e c’è anche il tumore nasale enzootico che le affligge per il quale non c’è cura, non ci son vaccini. Per i bovini, adesso, ci mancava solo la malattia emorragica epizootica del Cervo, che sta portando conseguenze disastrose. Una moria di animali non indifferente, che rischia di mandare tutto sul lastrico. Senza considerare che quelli che restano in stalla, fermi, non procurano soldi ma solo spese.»
«Le malattie che ci sono sembra quasi non le vogliano debellare, mentre ci si concentra su quelle quasi sparite, a mio parere.»
Oltretutto, in questo periodo non è nemmeno possibile organizzare o partecipare a proteste: «Siamo a novembre, non ci si può allontanare nemmeno mezza giornata. Le proteste si possono fare d’estate, non ora che sarebbe dannoso spostarsi.»
Tanto si parla di biodiversità che Fabrizia aveva anche l’idea, che pensava di concretizzare a breve, di allevare la tipica capra sarda: «Fanno solo un litro di latte, sono molto piccole, ma quel litro è veramente buonissimo. Ho fatto anche corsi per fare il formaggio e altre cose, ma purtroppo ormai si munge poco. Tra prezzo del latte e rincaro sul mangime non è possibile fare passi simili.»
Una situazione disastrosa, come lamenta Olianas, che è destinata ad andare sempre peggio, a meno che le istituzioni, con una mano sul cuore, non si impegnino a salvare quello che è un settore importantissimo per l’Isola.
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  cazzegiando     fra  le  pagine  social  trovo     su L'Eco di Barbagia   -  da  cui  ho    tratto  la  foto  a  sinistra  - e   su  - non  riesco ad  incorporare  il video - :  ALESSANDRO, IL SUB SPECIALE ADOTTATO DAL "COMSUBIN": IERI LA CONSEGNA DEL BREVETTO -  di Videolina 
 Poi oggi    asullì'unione  ho  letto   la sua   storia 

Lui è Alessandro Vacca, uno dei ragazzi della Polisportiva Olimpia Onlus, dove ogni giorno l’amico e fondatore Carlo Mascia promuove l’inclusione sociale delle persone diversamente abili.Dopo mesi di
duro impegno con il suo istruttore Marco Barbarossa, nei giorni scorsi, Alessandro ha ritirato il brevetto da sommozzatore.
Per Alessandro, affetto dalla sindrome di down, il ritiro dell'attestato nella caserma dei Comsubin, le forze speciali della marina italiana, in Liguria. Congratulazioni campione! Sei un esempio per tutti! Poi ogg sull'unione sarda ho letto quest articolo che lo riguarda

Il re dei fondali ha casa a San Michele, a Cagliari, gli occhi raggianti e un’evidente avversione per il politicamente corretto: «Sono down, mica scemo». E già questo basterebbe a inquadrare il personaggio, che in tre ore d’intervista tira fuori una sfilza di certezze granitiche in grado d’abbattere luoghi comuni e pregiudizi e un certificato che mette nero su bianco l’impresa appena compiuta: Alessandro Vacca, 41 anni e dodici tra fratelli e sorelle che lo precedono, è il primo down in Sardegna ad aver ottenuto il brevetto ufficiale da sommozzatore. Un primato che ha il sapore dolce del riscatto da una vita che non è stata esattamente gentilissima con lui.
Emozione
Dice che a casa hanno pianto tutti - di felicità, ovviamente -, anche i vicini. Perché nel quartiere cagliaritano che solitamente fa parlare più per il male che per il bene, Alessandro lo conoscono in tanti e fanno il tifo per lui. Scarpe da ginnastica, bermuda blu e t-shirt in tinta, si sistema sulla poltrona, tira fuori il tesserino e lo mostra con orgoglio. Non ha certamente problemi d’autostima. Così se gli chiedi cosa si prova a essere unici non ha neanche bisogno di pensarci: «Sono diventato famoso in tutto il mondo». Poi ritratta: «Magari lo diventerò dopo l’articolo. Ma davvero lo pubblicate sul giornale?». E tra un abbraccio e un altro racconta la sua storia, che alla fine non è poi così diversa da quella di qualunque altra persona normodotata. Fatta di sfide, di cadute, di amicizie e di amore. Tanto. «Quando ero piccolo mi prendevano in giro, soprattutto a scuola. È capitato che anche un’insegnante mi escludesse mandandomi fuori a mangiare il panino». Ricordi dolorosi, che per un istante adombrano il suo volto e testimoniano un passato dove ancora la diversità era vista come un qualcosa da relegare in un angolino, quasi a volerla tenere nascosta. «Per fortuna le cose sono cambiate: ora ci sono meno pregiudizi e vorrei che la mia storia servisse per dimostrare che anche se sono down posso fare tutto».
I due mondi
E in quel tutto non manca nulla. Ci sono le bombole, la tuta da sub e tanta determinazione, che dopo cinque mesi di immersioni gli hanno permesso di ottenere il tanto atteso brevetto. Come se tra i fondali trasparenti come il suo animo avesse abbattuto uno di quei limiti di chi s’ostina a vedere soltanto le difficoltà e non le straordinarie potenzialità di Alessandro e di tanti altri ragazzi diversamente abili. Che come lui, passo dopo passo, sono riusciti a integrarsi perfettamente nella società. «Nel mondo c’è spazio per tutti e un posto comodo per ognuno di noi».
Lui forse lo ha capito grazie alla polisportiva Olimpia Onlus, fondata da Carlo Mascia, che è andato a prenderselo a casa dieci anni fa. Perché, come dice sempre, la vita è fuori, anche per i disabili. Non dentro gli istituti o tra le mura di una cameretta. Da allora Alessandro non si è più fermato. Ha una vita super impegnata, a casa aiuta mamma Franca che fa l’ambulante al mercato di Sant’Elia. Contribuisce alle spese familiari con la sua pensione di invalidità, e gli altri soldi li mette da parte per le trasferte, dentro una borraccia. Niente salvadanaio: «È la prima cosa che ruberebbero i ladri». Sorride ancora. Anche mentre pensa al sua papà che non c’è più: «Se fosse ancora qui sarebbe stato tanto orgoglioso del brevetto».
L’amore e le amicizie
«Vorrei che la gente sapesse che anche i disabili si innamorano. Cioè, voglio dire che l’amore non è un’esclusiva dei normodotati». Un concetto a cui Alessandro tiene particolarmente. Lo dice a modo suo, e lo dimostra benissimo con i fatti. «Ho conosciuto Veronica quattro anni fa, al mare. È stato un colpo di fulmine, la amo tantissimo». Sentimento ricambiato, da lei che ha trent’anni, e con Alessandro condivide quella stessa sindrome di down che evidentemente non ferma la vita. «Puoi scriverlo per favore che le ho anche chiesto di sposarmi?». E siccome è uno che le cose le fa seriamente, si è messo in ginocchio, le ha regalato l’anello e guardandola dritta negli occhi le ha chiesto di diventare sua moglie. Così, dopo la discesa nei fondali ora è pronto a salire sull’altare. Ci saranno anche i suoi amici, ad accompagnarlo. Quelli della polisportiva, e tanti altri che gli vogliono bene per ciò che è. Un 41enne che ha dimostrato a se stesso e a chiunque altro che con buona volontà, impegno e un’assistenza che dovrebbe essere garantita a tutti, si può arrivare in altro. Sempre di più. Anche se sei down.

28.9.25

«Qui l’autistico non è un malato» Paolo Usai: in Francia scelte diverse, non lo curiamo ma lo accompagniamo



non ricordo quale giornale o pagina social dela sardegna abbia riportato tale articolo










La sua vita è nel sud della Francia da oltre dieci anni. La missione: aiutare bambini, adolescenti e adulti con disabilità. Paolo Usai, classe 1986 di Baunei, lavora come psicologo all’interno di un’associazione che si chiama Unapei 66, originariamente nata negli anni ’50 come movimento di genitori con figli che avevano delle disabilità mentali, i quali lamentavano la mancanza di servizi di sostegno, presa in carico e di cura. Come psicologo presta servizio in un Sessad, servizio medico-sociale che fornisce supporto a bambini e giovani adulti dai 4 ai 20 anni con ritardo mentale lieve e medio. Qui, oltre all’attività clinica rivolta ai beneficiari e alle loro famiglie, supervisiona l’équipe educativa e i progetti personalizzati di accompagnamento, in relazione con tutti gli ambiti di vita dei bambini e dei ragazzi. Accompagna anche un gruppo di adulti con disabilità intellettiva grave e disturbi associati - come autismo, disabilità fisica, sindrome di down, epilessia - all’interno di una MAS, una struttura residenziale.
La missione
«Presto passerò ad un’altra unità di sei posti riservati ad adulti autistici in situazione molto complessa – spiega -, con gravi disturbi del comportamento, aggressività, autolesionismo, o altri comportamenti a rischio per gli altri e per sé stessi. Non uso mai la parola “pazienti” quando parlo di loro, perché in francese evoca l’idea di una persona “malata”. Accompagniamo prima di tutto persone, con bisogni particolari senza dubbio, ma pur sempre persone. La malattia è qualcosa da curare, mentre l'autismo o la sindrome di down non si curano, si accompagnano e si sostengono, con adattamenti del contesto di vita in modo da permettere la massima espressione della loro indipendenza e autodeterminazione». Approccio diverso
Nella cultura e nell’approccio francese alla disabilità si trovano alcune differenze rispetto all’Italia. I bambini e i ragazzi seguiti dal Sessad frequentano scuole tradizionali, ma all’interno di queste scuole esistono delle classi speciali con sostegno “Ulis”, che possono accogliere fino a 12 bambini, dove un insegnante specializzato adatterà gli insegnamenti al livello e al profilo cognitivo dell’alunno. Ma questo non significa che siano esclusi o discriminati. «Non si tratta di classi differenziali nel senso tradizionale del termine – specifica Paolo Usai -, gli alunni sono inclusi in una classe ordinaria in base alla loro età, ma hanno come riferimento l’Ulis, dove possono svolgere parte delle attività con un insegnante specializzato. Ad esempio: un bambino che non sa contare le dita della sua mano, anziché subire ore di lezione di matematica sulle frazioni – concetti che per lui saranno astratti e incomprensibili – farà queste ore nella classe Ulis, dove potrà lavorare su un programma più adatto alle sue capacità».

Autonomi

Un’altra differenza che in Italia faticheremmo a comprendere è la tendenza dei figli a lasciare il nido e vivere ognuno la propria vita, anche di chi ha delle disabilità. Verso i 30 anni le famiglie fanno domande d’ammissione verso strutture residenziali come quella in cui lavora Paolo, uno dei motivi è la mancanza di una rete parentale. «Le famiglie non lo vivono come un abbandono, è il corso della vita. L’Istituzione diventa la loro casa, in queste strutture vivono un’esistenza piena e felice, e nel fine settimana tornano a fare visita ai genitori». Intanto Paolo continua a formarsi, perché in Francia lo psicologo ha un tempo di documentazione, informazione, ricerca, valutazione, supervisione previsto nel contratto di lavoro, per essere sempre aggiornato.

12.8.25

la vita da Grandi di Greta Scarano (2025)



in convalescienza per una frattura alla caviglia , ho visto su Netflix La vita da grandi, regia di Greta Scarano (2025) era dalla mia visione di : Mio fratello rincorre i dinosauri film del 2019 diretto da Stefano Cipani un adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo autobiografico di Giacomo Mazzariol e dalla serie Tutto chiede salvezza composta da due stagioni tratta dall'omonimo romanzo di Daniele Mencarelli. ch non vedevo film di tale genere .Un buon folm sull'autismo , toccante , poetico , delicato , non pietoso . Il film è stato accolto con recensioni positive da parte della critica cinematografica, che ne ha apprezzato regia e sceneggiatura, oltre che le capacità attoriali di De Angelis e Tuci.
Concordo con Manuela Santacatterina di Movieplayer.it scrive che la tematica dell'autismo viene raccontata «con autenticità, rispetto e ironia e senza forzature, [...] una riflessione sul terrore del fallimento e sulla necessità di iniziare a pensare che essere felici - o almeno provarci - è più importante che "sistemarsi"» trovando che nella sceneggiatura non vi sia alcun «calo narrativo o una stonatura», apprezzandone scenografie, costumi e la fotografia.Azzeccata è anche la recensione diMatteo Pivetti, per Sentieri selvaggi definisce il film «un’opera quadrata, che nei canoni del genere funziona perfettamente», trovando la regia «molto efficace nei vari passaggi».Cosi come quella di Camillo De Marco di Cineuropa apprezza la regia di Scarano, scrivendo che «dirige con sensibilità ed empatia» e ritenendo che «la pianeggiante sceneggiatura [...] non offre momenti particolarmente drammatici come ci si aspetterebbe visto l’argomento» poiché affronta una «neurodiversità lieve» ma  che «fornisce allo spettatore una buona riflessione sulla responsabilità, sui legami familiari e la consapevolezza».
Vittoria Sertori su CineFacts loda il film sostenendo che «ci spinge a guardare al di là delle etichette e delle diagnosi come autismo, disabilità ma anche responsabilità, e a liberarsi da una serie di sovrastrutture [...] per ritrovare il gusto di scoprirsi liberi e mutevoli, capaci di riconoscere i propri desideri senza vergognarsi di esprimerli.». Alcuni   come  Lorenzo Ciofani del Cinematografo si   soffermano sulla capacità attoriale di De Angelis, descrivendola come garante di «credibilità» e «capace di incarnare il carattere complessivo di un territorio, e che nella sua presenza sempre magnetica, [...] perfino buffa quando si concede la possibilità di essere difettosa», facendo un parallelismo con il testo del brano Litoranea interpretato dall'attrice con Elisa, facente parte dell'album Ritorno al futuro/Back to the Future.
Voto 7

1.8.25

diario di bordo n 139 anno III Reham, rapita a 9 anni, fatta schiava da al-Baghdadi e tornata libera a 20 ., Agata pedretti, 18 anni, di Cherò (Piacenza) unica donna in azienda agricola di cherò: tra trattori e lavoro manuale in officina ., Olbia un diploma da 100 di un ragazzo con lo spettro autistico ,

da  avvenire  tramite msn.it

Reham, rapita a 9 anni, fatta schiava da al-Baghdadi e tornata libera a 20




© Fornito da Avvenire

Essere rapiti da piccoli vuol dire dimenticare volti, lingua, identità. I genitori yazidi lo temono quanto la morte: potrebbero non ritrovare mai più i propri figli. Nei ricordi offuscati di Reham Haji Hami, cresciuta nelle mani dei suoi aguzzìni, c’erano ancora i visi dei fratelli. Rapita a 9 anni da Khanasor, nel Sinjar (Iraq) ad agosto 2014, insieme a sua sorella, cinque fratelli e altri 6.700 donne e bambini, è tornata a casa 11 anni dopo, ventenne.
Ha resistito a traumi, indottrinamento e violenze, certa che non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia: invece pochi giorni fa l’Unità di protezione delle donne (Ypj), la milizia curda femminile, l’ha trovata nel campo di al-Hol, in Siria, dove vivono 39mila sfollati radicalizzati, soprattutto le mogli e i figli dei miliziani del Califfo. «Sono rimasta con la moglie di Abu Bakr al-Baghdadi per quasi sette mesi», ha raccontato a Kurdistan24. «Alla fine, lui in persona mi ha detto che voleva che fossi sua e voleva farmi diventare sua figlia, ma che dovevo dimenticare le mie origini, la mia religione, tutto ciò che riguardava l'essere yazida».
Le commemorazioni dell’11esimo anniversario del genocidio degli yazidi, la minoranza religiosa curdofona trucidata durante l’avanzata del Daesh nell’estate 2014, con Reham sono nel segno della resilienza. Ma anche del bisogno di giustizia.
Il genocidio è in corso perché a fronte di 12mila vittime e 220 fosse comuni, ne sono state scavate solo 64, dopo l’interruzione della missione investigativa UNITAD dalle Nazioni Unite. Perché oltre 200mila sfollati, soprattutto yazidi, non hanno fatto ritorno nelle loro case (l’80% delle infrastrutture è distrutto), e i campi profughi nel Kurdistan iracheno periodicamente sono sotto minaccia del governo regionale che vorrebbe chiuderli con la scusa dell’emergenza finita. Perché manca la sicurezza: gli Accordi di Sinjar del 2020, secondo cui tutta l’area dove storicamente vivevano yazidi, cristiani, sciiti, Shabak, Mandei e Kakai sarebbe dovuta tornare sotto il controllo di Baghdad, non sono stati applicati: restano i quartier generali locali di Ybs, Unità di resistenza di Shingal (e le Ypj), legati al Pkk turco e gli sciiti delle Forze di mobilitazione popolare. Perché i tribunali iracheni, secondo la “Yazidi female survivors law” che stabilisce protezione e risarcimenti per le vittime, periodicamente condannano a morte membri del Daesh per i loro crimini (l’ultimo lo scorso 24 luglio) ma condannare a morte non è giustizia. Solo la Germania, in base al principio di giurisdizione universale, nel 2019 ha condannato all’ergastolo marito e moglie per crimini contro l’umanità: avevano ridotto in schiavitù una donna yazida e fatto morire di sete sotto il sole la figlia di 5 anni.
Non basta: anche larga parte dei fanatici e delle fanatiche che dall’Europa si unirono al Daesh restano parcheggiati il più a lungo possibile dalle cancellerie dei propri Paesi nei campi di accoglienza di al-Hol e Roj: difficile gestire la loro radicalizzazione, che indottrina anche i loro figli. E soprattutto, non c’è giustizia perché mancano ancora all’appello oltre 2mila donne e bambini, catturati per essere schiave sessuali e giovani combattenti. Molte di quelle che non tornano è per non abbandonare i figli nati dalle violenze: la comunità non può accettarli. A fine giugno sono tornati dalla prigionia anche Dima Amin, 23 anni: i suoi aguzzini l’avevano portata in Turchia. E Rawand Nayif Hamid, preso a sette anni insieme a 77 membri della sua famiglia. Anche i loro ricordi sono offuscati, ma sono stati più forti dell’indifferenza del mondo.

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da www.   Gaeta.it
 
Agata pedretti, 18 anni, unica donna in azienda agricola di cherò: tra trattori e lavoro manuale
Agata Pedretti, diciottenne di Cherò (Piacenza), rompe gli stereotipi lavorando come unica donna in un’azienda agricola, trasformando la passione per i trattori in un contratto stabile e una carriera concreta.









Agata pedretti, giovane diciottenne di cherò, in provincia di piacenza, ha scelto un percorso insolito rispetto ai coetanei. Qui, tra campi e macchine agricole, è l’unica ragazza dell’azienda dove lavora. Da sempre appassionata di trattori e meccanica, ha trovato una strada professionale lontana dagli stereotipi femminili. Dopo aver concluso la scuola superiore, è entrata nel mondo del lavoro con un contratto stabile, dimostrando che le passioni possono diventare mestieri solidi.
Un lavoro tra polvere, tute da lavoro e nessuna attenzione alla moda
Agata pedretti ha chiarito subito cosa significa per lei il lavoro: “Non ho problemi a sporcarmi le mani, non ho nemmeno il problema di farmi le unghie”. Le sue giornate passano con la tuta da lavoro addosso, a sistemare trattori e macchine agricole. Non le interessa inseguire mode o seguire le tendenze di bellezza che tante ragazze della sua età cercano di rispettare. Preferisce rimboccarsi le maniche e affrontare compiti che richiedono forza fisica e attenzione tecnica, in un ambiente dove sono quasi esclusivamente uomini. Questo atteggiamento ha fatto di lei un punto di riferimento nell’azienda di cherò, rendendo chiaro che il lavoro manuale non conosce discriminazioni di genere.
La passione che nasce in famiglia tra campi e motori
Fin da piccola, agata è cresciuta a contatto con i trattori. “Con mio papà e mio fratello, che abitano in campagna, mi chiamavano sempre a guidare trattori e a mettere mano alle riparazioni”, racconta lei stessa. Questo coinvolgimento precoce le ha permesso di sviluppare competenze tecniche e una confidenza rara con macchine complesse. La famiglia ha giocato un ruolo decisivo nel suo percorso, stimolando un interesse concreto per il lavoro agricolo in senso pratico. La quotidianità vissuta tra i campi e i mezzi agricoli ha fatto crescere in lei una passione autentica, che si è tradotta in una scelta professionale.
Dal diploma al contratto stabile: un giovane talento nel lavoro agricolo
Agata pedretti ha appena terminato la scuola superiore, ma ha già un contratto di lavoro stabile con l’azienda di cherò. Questo passo testimonia quanto la sua preparazione pratica e la sua dedizione siano state apprezzate dal datore di lavoro. Non si tratta di una scelta temporanea, ma di un investimento sul futuro di una ragazza che sa destreggiarsi con trattori e macchinari agricoli complessi. Il territorio piacentino, con la sua tradizione agricola radicata, offre spazio anche a giovani donne come agata, che dimostrano che l’esperienza e la passione possono aprire strade in settori tradizionalmente maschili.
Essere donna e tecnico in un ambiente prevalentemente maschile
Nel contesto dell’azienda di cherò, agata si distingue come unica donna tra colleghi principalmente uomini. Questa condizione l’ha portata a misurarsi con un ambiente poco usuale per una giovane di 18 anni. La sua presenza testimonia come il lavoro agricolo stia lentamente evolvendo, accogliendo figure femminili che non si sottraggono ai compiti più impegnativi. Non si limita a un ruolo simbolico: agata dimostra quotidianamente la propria competenza, affrontando problemi tecnici e interventi su trattori senza riserve. L’esperienza di una giovanissima operatrice come lei potrebbe essere l’anticipo di una più ampia partecipazione femminile nei lavori agricoli manuali, tradizionalmente riservati ai maschi.
Agata pedretti conferma nel territorio di piacenza come motivazione e preparazione si traducano in opportunità di lavoro concrete, persino in ambiti meno battuti dalle nuove generazioni e dalle ragazze. La sua storia rappresenta un esempio chiaro di come determinazione e talento sappiano fare la differenza.

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27.6.25

Rain Man con Tom Cruise e Dustin Hoffman: la vera storia di Kim Peek che ha ispirato il film

Di solito odio la tv d'estare fatta di repliche , film visti è stravisti ( come quello di ieri ) . Ieri se non fossi andato ad Aggius Le ricamatrici" di Maeve Brennan e Gaza Fights For Freedom di Abby Martin avrei rivisto volentieri   perchè è dei miei film preferiti nonostante l'antipatia verso Tom cruise 
Rain Man - L'uomo della pioggia film del 1988 diretto da Barry Levinson che si è portato a casa ben quattro premi Oscar, tra cui quello al Miglior Film e quello al Miglior Attore Protagonista per Dustin Hoffman. Esso è liberamente ispirato al romanzo di Barry
Morrow Bill on his own, il film in onda questa sera alle 21.35 su TV8 racconta la storia di Charlie (Tom Cruise), un uomo pieno di debiti che, quando suo padre muore, scopre non solo di non poter ereditare il suo patrimonio, ma anche di avere un fratello maggiore di nome Raymond (Dustin Hoffman). Ray, che è affetto da autismo, vive in una clinica psichiatrica di Wallbrook ed è l'unico erede del patrimonio di famiglia. Proprio per questo Charlie decide di "rapirlo", nella speranza di poter entrare in possesso dei soldi che gli sarebbero utili per liberarsi dei suoi creditori. Ogni suo piano, però, si riduce in un buco nell'acqua, che lo porta a inimicarsi non solo il medico di Ray, ma anche la propria fidanzata (Valeria Golino). Rendendosi conto, però, che Ray è un genio nei calcoli, Charlie decide di partire con lui alla volta di Las Vegas, dove grazie al fratello maggiore ritrova una certa serenità economica. Soprattutto, però, il viaggio permette a Charlie di riscoprire Ray e di riappropriarsi di ricordi che non sapeva nemmeno di avere.
Nonostante il film di Barry Levinson abbia vinto il premio Oscar alla Miglior Sceneggiatura originale e nonostante sia liberamente ispirato a un romanzo, la più grande fonte di ispirazione alla base di Rain Man è un'incredibile storia vera. Come riporta GeoPop, Kim Peek era un savant con incredibili capacità mnemoniche. Con Savant o Sindrome del Savant, si indica una persona che, a dispetto di un'evidente disabilità mentale o cognitiva, ha delle capacità fuori dal comune, che la portano ad eccellere in ambiti come la matematica, l'arte e, appunto, la memoria. Si tratta di una condizione medica molto rara, che porta alla creazione di quelle che vengono definite "isole del genio", ossia parti del cervello con abilità cognitive superiori anche rispetto a chi non ha alcuna disabilità. Nato nel 1951 e morto nel 2009, Kim Peek aveva anomalie cerebrali congenite, tra cui la mancanza del corpo calloso, vale a dire quella struttura che connette i due emisferi di cui è composto il cervello e che permette a loro di comunicare, portando al funzionamento corretto dell'organo. Incapace di vestirsi, prendersi cura di sé o prepararsi da mangiare, Kim Peek aveva bisogno di essere seguito costantemente per espletare i bisogni quotidiani di un essere umano. Con problemi a socializzare, Kim Peek possedeva però una capacità mnemonica che, ancora oggi, risulta ineguagliata. Sapeva leggere due pagine alla volta, memorizzare interi libri e la sua memoria fattuale aveva ben 15 aree di competenza, che andavano dalla geografia alla letteratura, dalla storia all'astronomia. Come riporta il sito dell'Internet Movie Data Base, Dustin Hoffman decise di passare moltissimo tempo insieme a Kim Peek, che aveva già incontrato Barry Morrow, lo sceneggiatura del film e autore del romanzo, nel 1986. Grazie alle continue visite a Peek, Dustin Hoffman promise a suo padre - il caregiver di Peek - che avrebbe condiviso Kim con il resto del mondo. E così è stato.

21.6.25

bambino autistico e diabetico per i medici non parlera ma la madre si laurea con lui e lo fa parlare appliccando la terapia ABA

 Morena vive a Rescaldina, vicino Milano. Sin da bambina sogna di diventare avvocato, lo dice con la certezza di chi sente quella strada già scritta dentro. Ma la vita, a volte, prende direzioni inaspettate. A 23 anni, infatti, Morena si ritrova a lavorare in banca. Diventa mamma di Manuel, ed è una gioia immensa. Ma il sogno di studiare Legge finisce in un cassetto. Qualche anno dopo, arrivano due diagnosi che le tolgono il fiato. Suo figlio è autistico e ha il diabete. Morena ha paura, si sente persa. Le cure sono costose, e la sua vita cambia all’improvviso. I primi tempi sono durissimi. I medici dicono che Manuel non parlerà mai.Morena, però, non vuole arrendersi a quel verdetto. Studia per conto suo, si affida a specialisti privati e applica la terapia ABA, che lavora direttamente sul comportamento e le abitudini dei pazienti. Paga tutto di tasca propria, perché il servizio pubblico spesso non basta. Così Manuel, piano piano, migliora. Comincia a parlare, a scrivere, a riconoscere le emozioni, a cercare compagnia.E mentre lui mette tutto il suo impegno per imparare a comunicare, Morena decide di fare altrettanto. Rispolvera quel vecchio sogno e si iscrive a Giurisprudenza. Dopo il lavoro, Morena apre i libri. Studia con Manuel in braccio, ripete a bassa voce, rinuncia agli svaghi, al riposo. A volte legge in sala d’attesa, altre tra un panino fatto al volo e una lavatrice. Ma non molla.Nel 2020 fonda un’associazione per aiutare famiglie come la sua, offrendo ciò che a lei è mancato. Supporto psicologico, formazione, consulenze legali. Morena si laurea nel 2024. È un traguardo meraviglioso, che raggiunge con suo figlio accanto. Prende anche un Master con una specializzazione in Diritto della disabilità.
Oggi Manuel ha 16 anni, con i suoi piccoli e grandi traguardi continua a sorprendere tutti. Morena accompagna le famiglie nella ricerca di tutele e diritti, con la forza di chi certe battaglie le ha vissute sulla propria pelle. È felice, e non si ferma. Sogna di diventare magistrato per poter proteggere, custodire e capire. Grazie a suo figlio ha scoperto una forza che non sapeva di avere.

9.4.25

Autistici, autonomi e felici lanuova vita di Daniele&Daniele . Porto torres I due amici sono andati ad abitare da soli

  da  la nuova  7\4\2025

 Una casa accessibile a Port Torres, adattabile alle necessità, per vivere in cormpletà autonomia per cinque giorni alla settimana.Si  chiama la casadi D&D - ovvero Daniele Buorigiorno e DanieleFrassu- due ragazzi autistici che hanno intrapreso un percorso importante per vivere da soli la quotidianità e la conoscenza della propria città.Nei loro percorso di crescita  cisono gli educatori Paolo Gaspa e Angela Pudda ma soprattutto o le due mamme  coraggio   che   in  questi   anni sono andate oltre le difficoltà, la burocrazia e leistituzioni. «ll mio obiettivo subito era che mio figlio a  una  certa età andasse a vivere da solo - ricorda Caterina Puliga  madre  di Daniele Frassi - « ed è stata un'idea talmente forte che ho dovuto combattere contro tutto e tutti: la casa è stata acquistata due anni fa e sono stati eseguiti alcuni


lavori per rendilaefficiente e autonoma  per  i due  ragazzi. All'interno ci sono  quattero  stanze da letto, tre bagni  bagni, una sala musita e i soggiorni. Perarrivare a questo obiettivo c'èstato un lungo lavoro, tutto  deciso insieme ai ragazzi e con la supervisione del giudice tutelare », Per Emilia Masala, madre di Daniele Buongiorno, la crescita dei ragazzi è cominciata, e continua, con le associazioni Il Risveglio e Progetto Filippide: «Prima Si lavorava in comune attraverso vari progetti - raconta- una volta che i ragazzi sono  diventati  adulti è nato  quel   rapporto  fifucias  tra  genitori ed  educatori  Un passo importante che, dopo tante ricerche, ci ha permesso di individuare la  casa  dove  la  casa     dover  poter    creare  la  loro  indipendenza  . Daniele  Buongiornoi   41   anni è diplomato al liceo scientifico dilorto Torres e tra i due è quello che si occupa dei pasti: «   la mia giornata tipo prevede  sveglia   alle 7.30, poi segue l'attività sportiva allo stadio di Viale delle Vigne o il viaggio nella sede di Sassari. A fine mattina il ritorno a casa per preparare pranzo   il decidiamo insieme cosa cucinare, Nel pomeriggio mi dedico invece all'esercizio di canto o altre atttività  quindi  il corso d'inglese e le prove di canto all associazione Il Risveglio. La  sera  rientro a casa  per  preparare la  cena  » Daniele Frassu, 36  anni  , è diplomato  all'istiuto professionale di   via lungo mare. È rientrato    domenica   scorsa da Roma   dove  ha  partecipato     con il  progetto Filippide  alla maratona dei 10km. «I pasti della giornata sono decisi in
sintoniacon Daniele, io mi occupoogni giorno di provvedere  alla raccolta differenziata e agli usi domestici. L'attrezzarua msicale ci è stata data in concessione   da altre associazioni,per custodirla nella nuova casa e poterla anche utilizzare».Alla nascita dell'open day casa D&D hanno contribuito non poco i due educatori, sempre inprima linea nel supportare i due giovani. Cominciata diveri anni fa e proseguita nel periodo dela  lo della maturità. «La loro autonomia nella casa è come  spiega Paolo Gaspa la nostra presenza c'è sol per qualche ora, magari perpranzare insieme o chiacchierare.La loro giornata prevede inoltre dei viaggi a Sassaro  per raggiungere altri  conoscenti nella sede di  un associazione   viaggiano autonomamente  con il pulman di  linea   La casa permette  loro di avere autonomia e  libertà consentendo una se-renità  emotiva   anche ai genitori  Due mamme instancabili che hanno superato tante difficoltà burocratiche per poter dare un presente e un   futuro ai  loro figli.


   

  

  


 


 





26.3.25

anche l'autismo ha la sua giornata ipocrita è il 2 aprile

  anche  l'autismo    ha  la  sua  giornata   ipocrita  è il 2  aprile  


All'istituzione    della giornata   ( il 2  aprile  )  per  la giornata    dell'autismo  . Mi  chiedo   , come  ho

già fatto  per quella  sul bullismo  ,   ma se  invece  di  fare  queste  giornate  celebrative  per  lo  più ipocrite  e lavacoscienza  perchè   non  si  fanno  progetti   ed iniziative  per  tutto l'anno ?

 1..  2 ... 3  stormshift   e  accuse di cinismo  in arrivo  .  Ma sinceramente    non m'importa  perchè  so   di non esserlo  ma  soprattutto    come  riporto  dal botta  e risposta  ripreso  dal Fq  del 24\3\2025    non sono  l'unico a  pensarla  cosi  

Autismo Un giorno di celebrazioni, poi la Politica dorme sonni tranquilli

Si parla  di    “cambiamento”, ma resta solo una parola vuota, usata anche per la disabilità, settore sempre più trascurato. Con l’avvicinarsi del 2 aprile, torneranno le solite celebrazioni ipocrite: un solo giorno dedicato all’autismo, mentre per i restanti 364 non si fa nulla di concreto. Non bastano documenti inutili, tavoli di lavoro politici o convegni autoreferenziali: servono impegni reali, tempi certi e il rispetto dei diritti, senza doverli elemosinare. Chi non ha il coraggio di lottare per questo dovrebbe farsi da parte. Le famiglie continuano a combattere un sistema che, invece di garantire i diritti, li ostacola. Investire oggi nell’autonomia di un bambino autistico significherebbe garantirgli indipendenza domani, ma le leggi esistono solo sulla carta e restano inapplicate. Il prezzo lo pagano sempre le famiglie, sempre più sole. Il “Dopo di Noi” è lasciato alle fondazioni private, l’inserimento lavorativo si trasforma in sfruttamento, mentre il progetto di vita personalizzato diventa un business per consulenti a pagamento. La disabilità è diventata un affare per chi specula sulle difficoltà altrui, ma la dignità umana non può dipendere dalle possibilità economiche. Non devono esistere servizi e vite di serie A e B. Il 2 aprile sarà solo una vetrina per politici e associazioni in cerca di visibilità. Le famiglie dovrebbero boicottare queste celebrazioni vuote e trasformarle in una vera lotta. Dobbiamo unirci per un obiettivo comune: garantire ai nostri figli il diritto a una vita dignitosa e felice.

GIANFRANCO VITALE (PADRE DI UN ADULTO AUTISTICO GRAVE)


CARO GIANFRANCO, il problema delle “Giornate per” purtroppo non riguarda solo l’autismo. Pensi al 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, quando tutti si ricordano dell’“emergenza”. Ma certo, nei casi come la disabilità, la presa in giro appare maggiore. Da sempre, la politica si riempie la bocca di intenti, promesse, provvedimenti che rimangono tali solo sulla carta e la sensazione, come scrive, è che ci siano cittadini di serie A (che si possono permettere cure e prestazioni) e cittadini di serie B, abbandonati a loro stessi. Io non so se boicottare le celebrazioni serva a svegliare la classe dirigente. So che la nostra Costituzione prevede che nessuno debba rimanere indietro e che, se la politica non è in grado di garantirne l’applicazione, i cittadini dovrebbero quanto meno scegliersi dei rappresentati diversi.

11.11.24

«Per mia figlia autistica ho aperto una pasticceria dove tutto è preciso e matematico. E qui esercita il suo talento»

 Si chiama Lolelì ed è la realizzazione di un sogno perseguito con ostinazione e coraggio.
 Il sogno 
di Amelia Montedoro, di sua figlia Lorena e del fratello minore Manuele. 

Amelia è ingegnere dei materiali, lavora in un’azienda metalmeccanica, Manuele fa il quarto anno del liceo scientifico ed è uno sportivo, Lorena ha 20 anni, si è diplomata quest’anno in pasticceria al Beccari con 100/100 e il plauso della commissione. Ed è autistica.


«Quando in terza media è arrivato il momento di capire il futuro che avrebbe avuto – racconta Amelia - ricordo la frase che mi è stata detta dagli specialisti dopo la diagnosi di disabilità cognitiva: dovete individuare i talenti dei vostri figli e su quelli costruire la loro vita. Mia figlia è metodica, ama le sequenze: cosa poteva esserci di meglio della pasticceria, un’arte matematica, precisa. E così è nata l’idea: aprire un laboratorio di pasticceria per lei».
In realtà Amelia ha fatto molto di più: ha rilevato una ex ferramenta in Borgo Vittoria, al n. 50 di via Bibiana, l’ha presa in affitto, l’ha ristrutturata completamente creando un grande laboratorio di pasticceria e uno spazio bar-ristorazione. Con l’associazione cui fa riferimento, la Onlus Associazione di Idee, ha selezionato altri ragazzi e ragazze con autismo, e anche ragazzi e ragazze normodotati, che ha regolarmente assunto, per il laboratorio e per la sala. È così ieri ha inaugurato Lolelì, unione dei loro nomi: Lo come Lorena, Le per Manuele, Lì per Amelie, alla francese. 
Detto così, sembra tutto facile. In realtà è stata un’impresa epica, Amelia dopo il lavoro si è buttata per mesi, ogni giorno, nella ristrutturazione, ha fatto colloqui, ha organizzato gli spazi… Qualche aiuto dalle istituzioni? Ha bussato a tutte le porte, niente. Adesso pare che appoggiandosi all’Associazione di Idee possa accedere a un bando regionale che le consentirà di avere qualche aiuto e di poter inserire come stagisti i «fragili» (lei avendo partita IVA non ne aveva diritto). Ha fatto tutto da sola insomma, con i figli e con i ragazzi e le ragazze che ora qui possono immaginare il loro futuro.Il bar-pasticceria (la pasticceria è il core-business di tutto il progetto) sarà aperta tutti i giorni tranne il martedì dalle 7 di mattina alle 19.30. Colazione con croissanteries tutte prodotte internamente - Lorena come coadiuvante - e prossimamente, dolci regionali: «Questo è un quartiere di immigrazione, soprattutto dal Sud, e vogliano riproporre dolci dei luoghi di origine». A pranzo insalate, panini, focacce e la sera l’aperitivo, spritz, i classici, anche no alcool, con taglieri, stuzzichini. Un posto dove ci si sente a casa e dove l’inclusione è la regola. Per Lorena e i suoi compagni e compagne , il futuro.

28.2.22

Autismo, in sala il road movie 'Sul sentiero blu': sulla via Francigena con 12 ragazzi speciali, tra falsi miti e vita vera

 Il documentario diretto da Gabriele Vacis racconta il cammino di nove giorni di un gruppo di giovani autistici verso Roma, dove incontrano papa Francesco, cercando di proporre un punto di vista diverso sulla loro disabilità, oltre ogni stigma e pregiudizio


Un "road movie" per raccontare l'autismo da un punto di vista diverso, finalmente libero da luoghi comuni e pregiudizi. Esce oggi nelle sale (con Wanted Cinema, in

collaborazione con CAI - Club Alpino Italiano) Sul sentiero blu, il documentario diretto da Gabriele Vacis che accompagna il viaggio di un gruppo di 12 giovani autistici sulla via Francigena.

Il film

segue i protagonisti, insieme a medici ed educatori, nel loro percorso a piedi di nove giorni e oltre duecento chilometri lungo l'antica - e splendida - strada  dei pellegrini. Fino all'arrivo a Roma, dove incontreranno papa Francesco. Una piccola grande "avventura" che è soprattutto un cammino di crescita - tra stanchezza, momenti di sconforto ma soprattutto di grande divertimento - in cui i ragazzi si trovano a dover gestire emozioni e difficoltà con l'ausilio di specifici programmi abilitativi per sviluppare le competenze sociali. La pellicola, infatti, è anche il racconto di un progetto scientifico, "Con-tatto", lanciato lo scorso anno dal Rotary International Distretto 2031 e curato dalla Asl di Torino - Centro Regionale Per I Disturbi Dello Spettro Autistico In Età Adulta.

"Questo film rappresenta un vero cambiamento di paradigma per quanto riguarda gli interventi sull'autismo", spiega a Repubblica Roberto Keller, direttore del Centro Regionale per i Disturbi dello spettro autistico in età adulta della Asl di Torino. "I trattamenti che di solito vengono attuati nel chiuso degli ambulatori, qui sono invece messi in atto nella vita vera e portati avanti nelle 24 ore, con la presenza degli operatori insieme ai ragazzi. E questo serve proprio a rafforzare quelle competenze sociali di cui le persone autistiche sono più carenti". La risposta dei giovani protagonisti a questa "sfida" è stata persino migliore delle aspettative: "Siamo andati anche al di là di quanto avevamo previsto. Durante il viaggio sono nate profonde interazioni umane, di complicità e solidarietà. Una piccola comunità viaggiante grazie alla quale i giovani hanno potuto affrontare meglio le difficoltà che si presentavano durante il cammino, anche su un piano fisico".

Sul sentiero blu è un film toccante, ma anche un'occasione per guardare all'autismo con occhi diversi: "Si vede che cos'è davvero", spiega ancora il dottor Keller. "Nell'immaginario comune pensiamo a una persona autistica come chiusa, anaffettiva, isolata dagli altri. Invece, grazie a questo film, si capisce come queste persone siano ricche di emozioni. Sono solo un po' inadeguate nel modo di comunicarle e di leggerle negli altri, ma questo può essere loro insegnato". Una pellicola che sfata tanti falsi miti e che probabilmente in molti farebbero bene a vedere. "È anche un po' una lotta contro lo stigma che spesso c'è nei confronti della disabilità - conclude Roberto Keller - perché è un documentario molto divertente, i ragazzi sono simpatici, a loro modo ironici. E soprattutto si ammira la grande forza con la quale riescono a superare le difficoltà". Il film è prodotto da Michele Fornasero per Indyca, con il sostegno di MIC e Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund. Ecco l'elenco delle sale dove è possibile vederlo

7.7.21

Sebastiano Vitale Il poliziotto che fa il rapper ed La disabilità li aveva allontanati, l’arte li ha riuniti. La storia di due fratelli che hanno trovato il modo di superare le barriere

 Sebastiano  vitale    in arte    Revman   È nato a Palermo ed è cresciuto a Lecce, ma la voglia di imparare, di studiare e di migliorarsi lo hanno spinto ancora più lontano dalla sua città di nascita, infatti grazie al suo lavoro oggi Sebastiano  vive a Milano. Un  rap  secondo  https://fai.informazione.it/



Sicuramente, il cantante rap Revman è riuscito a catturare l'attenzione di un
asto pubblico con i suoi giochi di parole e le frasi veloci e accattivanti. Il suo vero nome è Sebastiano Vitale e di professione fa il poliziotto a Milano. La sua candidatura a Sanremo e la successiva ingiustificata esclusione ha fatto alzare i toni ai suoi fans.
Il rapper Revman ha un parlare veloce e accattivante che va oltre il rap.
Revman è certamente una delle più grandi sorprese della musica per ragazzi e anche per i meno giovani, poiché sta ottenendo grandi successi sulle piattaforme digitali a partire da Youtube, Facebook, Instagram, Twitter, Linkedin e tanti altri, grazie alle sue canzoni belle e appassionanti e, soprattutto ai sapienti testi caratterizzati da un vasto uso di termini "polizieschi" che vanno contro la malavita.

  Infatti     a  confermarlo    è     questa  intervista     rilasciata   a  https://www.ioacquaesapone.it/ di luglio  2021


«Ho cominciato ad appassionarmi al movimento artistico e culturale definito Hip Hop all’età di 16 anni, ballando
break dance insieme ad altri ragazzi vicino ad una chiesa, precisamente in una piazzetta che un sacerdote ci aveva messo a disposizione. A causa di un lieve infortunio procuratomi durante gli allenamenti, dopo anni di movimenti rotatori caratteristici di questa danza ho dovuto mettere in pausa la mia attività di ballerino. In quel breve periodo, però, non mi sono fermato e ho iniziato a canticchiare le canzoni sulle quali prima ballavo, capendo che cantare sulle note Hip Hop mi piaceva di più che ballarci su, così ho iniziato a scrivere i miei primi testi rap. Mi sono sempre piaciuti  i messaggi sociali contenuti in quel genere musicale, soprattutto quelli affrontati nel rap più antico».

Così è nato Revman, il tuo nome d’arte: cosa vuol dire? 
«Non ha un significato particolare. L’ho creato perché mi piace la sonorità che produce, nel tempo però ho pensato che potesse essere un acronimo in cui R sta per Rispetto, E per Energia, V per Verità, M per Musica, A per amore, N per Natura, parole che per me sono molto importanti». 

Cosa vuoi comunicare?
«Sono cresciuto in Salento, dove la musica popolare è ricca di significato e questo ha influenzato molto il mio modo di scrivere: in effetti i miei testi sono ricchi di contenuti e sensibilizzano su vari temi. Voglio trasmettere dei messaggi positivi, con la speranza che possano essere di sostegno a chi si trova in difficoltà». 

Tu sei diventato anche poliziotto. La divisa, come la musica, può essere un’alternativa alla strada?
«Far appassionare i ragazzi a qualcosa come l’arte, la cultura e la musica può dare loro un obiettivo e quindi non farli finire in brutte strade. Il rap racconta la strada mentre un uomo in divisa la vive, ci lavora. Quindi, più che un alternativa, entrambe le cose possono rappresentare degli strumenti per vedere la vita in modo differente, dalla parte della legalità». 

La tua attenzione alla legalità si evidenza anche da uno dei primi brani che hai composto. 
«Esatto. Uno dei primi brani che ho scritto è intitolato “Musica contro le mafie”. Con questo singolo ho riscosso un discreto successo e tanti sono venuti a conoscenza della mia passione per la musica rap e del mio lavoro di poliziotto. Quando pubblicai questo brano fu molto condiviso da amici, colleghi, associazioni e vari utenti del web. Con quell’estratto ho partecipato al concorso “Musica contro le mafie” dell’associazione Libera. Una parte del singolo l’ho utilizzata per dare il mio contributo per la premiazione del premio denominato Annalisa Durante, conferitomi dall’omonima associazione a febbraio 2021. L’evento attraverso diverse metrologie ha trasmesso messaggi di giustizia e rispetto delle regole». 
Nei tuoi brani tratti il tema della legalità e non solo.
«Sì. Ho scritto un brano sull’inquinamento ambientale causato dal rilascio spropositato di plastiche in natura, di Cyberbullismo e in un brano intitolato “Il gelo” ho parlato anche di quest’ultimo, intimo e freddo anno». 

Sei un ragazzo di periferia: quanto può essere pericolosa?
«Le periferie di solito sono un po’ più abbandonate e trascurate. Il Sud ha le sue trappole e penso sia difficile affermarsi se il luogo dove vivi è limitante. Alle nuove generazioni, però, voglio dire che c’è sempre un’alternativa a quella vita priva di significato che alcuni luoghi propongono. Tutti abbiamo la possibilità di essere migliori e di essere utili al prossimo e per fare questo bastano piccoli gesti quotidiani. Insieme possiamo acquisire sane abitudini che portano un beneficio comune. Io vengo dalle periferia  e ho studiato in un istituto professionale alberghiero e, pur non avendo chissà quali studi alle spalle, sono riuscito a vincere il concorso nella Polizia di Stato con il massimo dei voti in tutte le prove. Inoltre, ho continuato a fare musica e ho avuto tante soddisfazioni. Ho vinto vari premi come quello dedicato a chi tramite l’arte e la cultura ha portato lustro alle forze dell’ordine, denominato “Premio Apoxiomeno”. Un’altra grande soddisfazione è stata cantare al teatro Massimo di Palermo, il terzo teatro più grande d’Europa dopo quello di Vienna e Parigi». 

Senti che c’è stato un momento in cui la tua vita è cambiata?
«Un cambio di passo sicuramente è arrivato quando ho raggiunto la mia stabilità economica e sono arrivato a Milano. Prima però ho vissuto a Bologna, dove ho fatto il militare per due anni, questi ultimi fondamentali nel mio percorso di vita, perché mi hanno permesso di vivere in una città universitaria che mi ha fatto crescere tanto. Per un breve periodo della mia vita ho anche vissuto in Canada per poi trasferirmi definitivamente a Milano: questa città dà tante possibilità e a me piace molto». 

Vai anche nelle scuole?
«Prima del Covid sì. Faccio l’insegnate di musica rap, insegno ai ragazzi a scrivere dei testi riguardanti l’ inclusione e insieme affrontiamo diversi temi sociali. Nell’ultimo anno ho provato a incontrare i ragazzi attraverso la Dad, ma è difficile trasmettere questi messaggi a distanza. Con alcuni di loro abbiamo scritto un brano sul  tema del bullismo, sono stati bravissimi perché hanno espresso i propri pensieri, io ho sistemato i loro versi e insieme abbiamo creato una canzone. L’intero progetto è stato realizzato nell’ambito del progetto LexBulli del Comune di Milano. Quando vado nelle scuole non dico subito che lavoro faccio, rompo prima il ghiaccio attraverso la musica rap: utilizzando un linguaggio molto vicino a loro riesco a conquistarli e alla fine quando svelo che sono un poliziotto tutti i pregiudizi verso la divisa vengono abbattuti. Questo è importante perché avvicina i ragazzi alle istituzioni».                                                                                    

oltre  a ver  ascoltato   la  canzone 

che   A febbraio ha ricevuto il Premio Annalisa Durante categoria Istituzioni
“Non mi aspettavo di essere contattato per un premio così importante. Sono onorato di averlo ricevuto. Il quadro che mi è stato spedito ha un significato simbolico molto forte. Ricorda lo splendido sorriso della piccola Annalisa Durante, giovane vittima innocente di Camorra. Quella di Annalisa è una storia di profonda tristezza e che deve farci riflettere perché questi fatti non accadano mai più..


Ora Non sono un granchè amante di questo genere e delle sue corrennti ma questi due brani sono molto belli

Infatti Solo chi lavora in strada( forze dell'ordine o disordine dipende da casi , 118 , associazioni per i senza tetto , ecc ) capisce queste parole !! ma soprattuttto uno di quelli che non è usa violenza verbale gratuita , misoginia , ecc come quelli del genere trap . Sta riscutendo ottime recensioni tra i fruitori del genere . Infatti secondo <<
Rappa meglio della maggior parte degli emergenti e chi lo nega è solo perché guarda la sua divisa piuttosto che la sua abilità. Poi per carità, ha molto da migliorare ma ho sentito molto di peggio. Parliamo del testo? Bel testo, dice cose oggettivamente giuste e condivisibili che i finti gangsta non possono capire a causa della loro ignoranza. Tutti gangsta a chiacchiere, ma per lo più siete minchioncelli che, come fa intendere nella canzone, appena si trovano spalle al muro cantano tutto piangendo.>> ironitaly96

l'altra storia    è  quella  degli   EMOTIONAL COLOR 
Simone, diplomato in architettura e design, e Leonardo, affetto da un ritardo cognitivo con aspetti dello spettro autistico, vivono a Rozzano (Milano). Il progetto di gioco-arte “Emotional Color”, ideato da Simone, sostiene e attiva progetti di inclusione sociale e autonomia per ragazzi affetti da disabilità, attraverso attività, mostre ed eventi organizzati nelle scuole, locali, gallerie d’arte e associazioni. Dal 2018 sono state realizzate più di 200 opere personali e oltre 20 opere collettive. Sulla pagina Facebook e Instagram _emotionalcolor_ Simone condivide video e immagini dei momenti di pittura con Leonardo, i quadri realizzati e notizie degli eventi. Il sito è www.emotionalcolor.com. 
sempre  da    ioacquaesapone  giugno\luglio 

Mio fratello non è figlio unico

La disabilità li aveva allontanati, l’arte li ha riuniti. La storia di due fratelli che hanno trovato il modo di superare le barriere





Una stanza riempita di tele, barattoli di vernice e pennelli, e un unico ordine: divertiti! Nasce così Emotional Color, un progetto di arteterapia destinato a finanziare progetti di inclusione sociale e autonomia per bambini e ragazzi disabili, che ha avuto la forza di ricucire un legame tra due fratelli reso difficile dal ritardo cognitivo del più piccolo, incapace di esprimere le proprie emozioni. Simone Manfreda, 26 anni, e Leonardo, 17, sono sempre stati molto uniti, ma con il trascorrere del tempo le diverse esigenze e interessi li hanno allontanati. «Non condividevamo le stesse cose come fanno due fratelli “normali”. Io non frequentavo le sue numerose visite in ospedale e lui non frequentava il campetto da calcio con me. Vedevo gli amici che con i fratelli facevano di tutto, io invece con il mio non riuscivo a relazionarmi. Appena maggiorenne, ho iniziato a viaggiare, ho vissuto in Spagna e a Londra, anche per evadere da questa situazione». 
 
Fino al 2018 quando hai deciso di affrontarla. 
«Ero tornato dalla Spagna, stavo per ripartire, ma non me la sono sentita. Dovevo trovare qualcosa che mi permettesse di relazionarmi con Leo. Ho cominciato a sperimentare varie attività, dalla piscina alle carte da gioco, ma senza risultati. Poi un pomeriggio ho provato a coinvolgerlo in una mia passione: l’arte. Con lo scotch ho plastificato pareti e soffitto di una stanza della casa, ho comprato tele e colori e ho chiamato Leonardo. I suoi occhi si sono illuminati appena ha visto la stanza. Non ho avuto il tempo di dirgli “dai Leo entra” che c’era già colore ovunque. Io giravo le tele, gli passavo i colori e lui si è divertito a sporcarsi di colori. Per la prima volta ero suo compagno di giochi». 
 
A ispirarti è stata una mostra vista a Londra. 
«L’artista credo fosse un papà che faceva una cosa simile con il figlio in una stanza grande. Ho provato a farlo a casa. Non avevo mai visto prima Leo divertirsi così tanto. Senza rendermi conto tramite quel gioco Leo stava dando vita a tele coloratissime, piene della sua energia. Parenti e amici hanno iniziato a chiederci se i quadri fossero in vendita, da lì ho pensato che poteva nascere qualcosa di bello per tanti ragazzi come Leo». 
 
Quali sono gli obiettivi e i progetti in corso?
«L’obiettivo è finanziare, attraverso il ricavato dei quadri e la nostra partecipazione a eventi pubblici, progetti di inclusione sociale e autonomia per ragazzi disabili. Per seguire con più costanza il progetto nel 2019 mi sono licenziato. Abbiamo sostenuto delle iniziative sociali con alcune associazioni e stiamo coinvolgendo le scuole per sensibilizzare i ragazzi al tema. Sogno di avere un atelier nostro, con una parte adibita a galleria dove esporre i quadri di Leo e quelli realizzati da altri ragazzi durante gli eventi, e un laboratorio, dove realizzare eventi e ospitare chiunque voglia esserci».
 
Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
«A vedere le cose fuori dagli schemi convenzionali e scoprire che la disabilità può essere un’opportunità di confronto e crescita».       

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