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1.8.25

diario di bordo n 139 anno III Reham, rapita a 9 anni, fatta schiava da al-Baghdadi e tornata libera a 20 ., Agata pedretti, 18 anni, di Cherò (Piacenza) unica donna in azienda agricola di cherò: tra trattori e lavoro manuale in officina ., Olbia un diploma da 100 di un ragazzo con lo spettro autistico ,

da  avvenire  tramite msn.it

Reham, rapita a 9 anni, fatta schiava da al-Baghdadi e tornata libera a 20




© Fornito da Avvenire

Essere rapiti da piccoli vuol dire dimenticare volti, lingua, identità. I genitori yazidi lo temono quanto la morte: potrebbero non ritrovare mai più i propri figli. Nei ricordi offuscati di Reham Haji Hami, cresciuta nelle mani dei suoi aguzzìni, c’erano ancora i visi dei fratelli. Rapita a 9 anni da Khanasor, nel Sinjar (Iraq) ad agosto 2014, insieme a sua sorella, cinque fratelli e altri 6.700 donne e bambini, è tornata a casa 11 anni dopo, ventenne.
Ha resistito a traumi, indottrinamento e violenze, certa che non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia: invece pochi giorni fa l’Unità di protezione delle donne (Ypj), la milizia curda femminile, l’ha trovata nel campo di al-Hol, in Siria, dove vivono 39mila sfollati radicalizzati, soprattutto le mogli e i figli dei miliziani del Califfo. «Sono rimasta con la moglie di Abu Bakr al-Baghdadi per quasi sette mesi», ha raccontato a Kurdistan24. «Alla fine, lui in persona mi ha detto che voleva che fossi sua e voleva farmi diventare sua figlia, ma che dovevo dimenticare le mie origini, la mia religione, tutto ciò che riguardava l'essere yazida».
Le commemorazioni dell’11esimo anniversario del genocidio degli yazidi, la minoranza religiosa curdofona trucidata durante l’avanzata del Daesh nell’estate 2014, con Reham sono nel segno della resilienza. Ma anche del bisogno di giustizia.
Il genocidio è in corso perché a fronte di 12mila vittime e 220 fosse comuni, ne sono state scavate solo 64, dopo l’interruzione della missione investigativa UNITAD dalle Nazioni Unite. Perché oltre 200mila sfollati, soprattutto yazidi, non hanno fatto ritorno nelle loro case (l’80% delle infrastrutture è distrutto), e i campi profughi nel Kurdistan iracheno periodicamente sono sotto minaccia del governo regionale che vorrebbe chiuderli con la scusa dell’emergenza finita. Perché manca la sicurezza: gli Accordi di Sinjar del 2020, secondo cui tutta l’area dove storicamente vivevano yazidi, cristiani, sciiti, Shabak, Mandei e Kakai sarebbe dovuta tornare sotto il controllo di Baghdad, non sono stati applicati: restano i quartier generali locali di Ybs, Unità di resistenza di Shingal (e le Ypj), legati al Pkk turco e gli sciiti delle Forze di mobilitazione popolare. Perché i tribunali iracheni, secondo la “Yazidi female survivors law” che stabilisce protezione e risarcimenti per le vittime, periodicamente condannano a morte membri del Daesh per i loro crimini (l’ultimo lo scorso 24 luglio) ma condannare a morte non è giustizia. Solo la Germania, in base al principio di giurisdizione universale, nel 2019 ha condannato all’ergastolo marito e moglie per crimini contro l’umanità: avevano ridotto in schiavitù una donna yazida e fatto morire di sete sotto il sole la figlia di 5 anni.
Non basta: anche larga parte dei fanatici e delle fanatiche che dall’Europa si unirono al Daesh restano parcheggiati il più a lungo possibile dalle cancellerie dei propri Paesi nei campi di accoglienza di al-Hol e Roj: difficile gestire la loro radicalizzazione, che indottrina anche i loro figli. E soprattutto, non c’è giustizia perché mancano ancora all’appello oltre 2mila donne e bambini, catturati per essere schiave sessuali e giovani combattenti. Molte di quelle che non tornano è per non abbandonare i figli nati dalle violenze: la comunità non può accettarli. A fine giugno sono tornati dalla prigionia anche Dima Amin, 23 anni: i suoi aguzzini l’avevano portata in Turchia. E Rawand Nayif Hamid, preso a sette anni insieme a 77 membri della sua famiglia. Anche i loro ricordi sono offuscati, ma sono stati più forti dell’indifferenza del mondo.

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da www.   Gaeta.it
 
Agata pedretti, 18 anni, unica donna in azienda agricola di cherò: tra trattori e lavoro manuale
Agata Pedretti, diciottenne di Cherò (Piacenza), rompe gli stereotipi lavorando come unica donna in un’azienda agricola, trasformando la passione per i trattori in un contratto stabile e una carriera concreta.









Agata pedretti, giovane diciottenne di cherò, in provincia di piacenza, ha scelto un percorso insolito rispetto ai coetanei. Qui, tra campi e macchine agricole, è l’unica ragazza dell’azienda dove lavora. Da sempre appassionata di trattori e meccanica, ha trovato una strada professionale lontana dagli stereotipi femminili. Dopo aver concluso la scuola superiore, è entrata nel mondo del lavoro con un contratto stabile, dimostrando che le passioni possono diventare mestieri solidi.
Un lavoro tra polvere, tute da lavoro e nessuna attenzione alla moda
Agata pedretti ha chiarito subito cosa significa per lei il lavoro: “Non ho problemi a sporcarmi le mani, non ho nemmeno il problema di farmi le unghie”. Le sue giornate passano con la tuta da lavoro addosso, a sistemare trattori e macchine agricole. Non le interessa inseguire mode o seguire le tendenze di bellezza che tante ragazze della sua età cercano di rispettare. Preferisce rimboccarsi le maniche e affrontare compiti che richiedono forza fisica e attenzione tecnica, in un ambiente dove sono quasi esclusivamente uomini. Questo atteggiamento ha fatto di lei un punto di riferimento nell’azienda di cherò, rendendo chiaro che il lavoro manuale non conosce discriminazioni di genere.
La passione che nasce in famiglia tra campi e motori
Fin da piccola, agata è cresciuta a contatto con i trattori. “Con mio papà e mio fratello, che abitano in campagna, mi chiamavano sempre a guidare trattori e a mettere mano alle riparazioni”, racconta lei stessa. Questo coinvolgimento precoce le ha permesso di sviluppare competenze tecniche e una confidenza rara con macchine complesse. La famiglia ha giocato un ruolo decisivo nel suo percorso, stimolando un interesse concreto per il lavoro agricolo in senso pratico. La quotidianità vissuta tra i campi e i mezzi agricoli ha fatto crescere in lei una passione autentica, che si è tradotta in una scelta professionale.
Dal diploma al contratto stabile: un giovane talento nel lavoro agricolo
Agata pedretti ha appena terminato la scuola superiore, ma ha già un contratto di lavoro stabile con l’azienda di cherò. Questo passo testimonia quanto la sua preparazione pratica e la sua dedizione siano state apprezzate dal datore di lavoro. Non si tratta di una scelta temporanea, ma di un investimento sul futuro di una ragazza che sa destreggiarsi con trattori e macchinari agricoli complessi. Il territorio piacentino, con la sua tradizione agricola radicata, offre spazio anche a giovani donne come agata, che dimostrano che l’esperienza e la passione possono aprire strade in settori tradizionalmente maschili.
Essere donna e tecnico in un ambiente prevalentemente maschile
Nel contesto dell’azienda di cherò, agata si distingue come unica donna tra colleghi principalmente uomini. Questa condizione l’ha portata a misurarsi con un ambiente poco usuale per una giovane di 18 anni. La sua presenza testimonia come il lavoro agricolo stia lentamente evolvendo, accogliendo figure femminili che non si sottraggono ai compiti più impegnativi. Non si limita a un ruolo simbolico: agata dimostra quotidianamente la propria competenza, affrontando problemi tecnici e interventi su trattori senza riserve. L’esperienza di una giovanissima operatrice come lei potrebbe essere l’anticipo di una più ampia partecipazione femminile nei lavori agricoli manuali, tradizionalmente riservati ai maschi.
Agata pedretti conferma nel territorio di piacenza come motivazione e preparazione si traducano in opportunità di lavoro concrete, persino in ambiti meno battuti dalle nuove generazioni e dalle ragazze. La sua storia rappresenta un esempio chiaro di come determinazione e talento sappiano fare la differenza.

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18.6.25

indifferenza ed apatia il caso della morte di Mariano Olla di Claudia Sarritzu Ghironi

 E quindi un tuo amico in tarda notte entra in acqua o comunque sparisce da una festa, non lo vedi più uscire dall’acqua, o meglio non lo vedi proprio più, ma non se ne è andato perché non vi siete neppure salutati. Ma a te che importa? Mica ti viene in mente di scrivergli un messaggio su quel telefono che abbiamo sempre in mano, per sapere dove si fosse cacciato. Continui la serata e non ci pensi proprio di lanciare l’allarme. Non è cattiveria badate. È proprio non conoscere i sentimenti. È non sapere cosa sia l’amicizia perché non esiste più l’intelligenza emotiva.Sarà un pescatore a ritrovare il corpo la mattina dopo in una spiaggia cittadina. La città è Cagliari. Il ragazzo ritrovato ha solo 16 anni. Sappiamo che c’era una festa, si sa che lui è morto annegato ma ha le scarpe e i pantaloncini. Se è entrato in acqua così, forse non era lucido o magari è caduto dopo un malore. Qualcuno forse ha visto, qualcuno no. Non si sa. Tutto tace.Mariano era solo. Nel senso che nessuno si è preoccupato per lui. Come la maggior parte dei ragazzini di oggi. Dicono che è la generazione devastata dal lockdown. Non lo so. Questo di dare sempre alibi all’egoismo, alla mancanza di empatia, non so se salverà questi adolescenti e questo mondo. Perché i grandi disastri nascondo dalle piccole scelte personali. I piccoli gesti di indifferenza poi diventano orrori collettivi.

1.9.24

Perché Olimpiadi e Paralimpiadi non si fanno in contemporanea ed altre storie paraolimpiche



Oggi quarto giorno di Paralimpiadi .
Chi vince una medaglia può fare due cose, quando passa da un metal detector: togliersela, per non farlo suonare, oppure approfittarne per pavoneggiarsi un po'  come  il  caso  dell'italiano Antonino Bossolo, bronzo nel taekwondo -63 kg . 




Ma  veniamo     al  quesito che   si pongono  molti  ( compreso il sottoscritto ) Perché Olimpiadi e Paralimpiadi non si fanno in contemporanea  ? 

Le Olimpiadi e le Paralimpiadi non si svolgono contemporaneamente per diverse ragioni storiche, logistiche e organizzative.  Infatti   se  si legge   la storia  delle  parolimpiadi   è  dal 2001,   che  il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e il Comitato Paralimpico Internazionale (IPC) hanno firmato un accordo che stabilisce che la città ospitante delle Olimpiadi deve anche organizzare le Paralimpiadi1. Questo accordo è stato pensato per garantire che entrambe le manifestazioni abbiano la giusta attenzione e risorse, utilizzando le stesse strutture e infrastrutture
Inoltre, tenere i due eventi separati permette di dare maggiore visibilità agli atleti paralimpici e di celebrare le loro imprese senza che vengano oscurate dalle Olimpiadi3. Questo approccio aiuta a promuovere l’inclusione e a sensibilizzare il pubblico sulle capacità e i successi degli atleti con disabilità  .  Infati  
 

  dalla     NW  di paris   di ilpost.it

Quando la città di Boston provò ad aggiudicarsi l'organizzazione dei Giochi del 2024 – ritirò la candidatura nel 2015 – propose di invertire l'ordine dei due eventi: prima le Paralimpiadi, poi le Olimpiadi. L'idea era che le Paralimpiadi ne avrebbero guadagnato in visibilità, e allo stesso tempo le Olimpiadi avrebbero avuto un evento per “testare” su scala ridotta la macchina organizzativa. Fu una proposta presto respinta, come avviene tutte le volte in cui ciclicamente si parla della possibilità che Olimpiadi e Paralimpiadi vengano fatte nello stesso periodo, in teoria con la speranza di dare più visibilità alle Paralimpiadi: fu una questione molto dibattuta prima delle Paralimpiadi di Rio 2016, quando il comitato organizzatore ebbe molti problemi a vendere i biglietti per le gare (ma poi ci riuscì).
Secondo entrambi i Comitati internazionali, olimpico e paralimpico, queste proposte non solo non funzionerebbero, ma non sarebbero nemmeno praticabili: organizzare i due eventi in contemporanea richiederebbe uno sforzo logistico enorme e rischierebbe di produrre l'effetto opposto sul pubblico, cioè di togliere attenzione alle Paralimpiadi. Per Andrew Parsons, presidente del Comitato paralimpico internazionale, è invece un bene che ci sia «un momento unico per celebrare gli atleti paralimpici». Parsons rifiuta anche la proposta di anticipare le Paralimpiadi, che secondo lui non dovrebbero in alcun modo «essere viste come un test per le Olimpiadi».
Ecco quind  che   , semre  secondo  la   Nw , nel 2001 i due comitati firmarono un accordo per tutelare i Giochi paralimpici, stabilendo che da Pechino 2008 in poi dovessero tenersi sempre poco dopo quelli olimpici, usando lo stesso villaggio, facendo le gare negli stessi posti (più o meno) e coprendo le spese di entrambi gli eventi con lo stesso budget.


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La saltatrice in lungo Tara Davis e il velocista paralimpico Hunter Woodhall, che sono sposati e si allenano spesso insieme (AP Photo/Michael Woods)

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Il rugby in carrozzina è uno sport in cui scontri, contatti fisici al limite e ribaltamenti delle carrozzine stesse sono talmente frequenti che è stato soprannominato murderball: e non vi sfuggirà che “murder” in inglese significa “omicidio”. È in effetti uno sport all'apparenza piuttosto violento, anche se i giocatori sembrano impassibili a qualsiasi cosa gli capiti: appena ci si abitua, comunque, diventa molto divertente perché è estremamente rapido e dinamico.
È uno sport che mischia elementi del rugby ad altri del basket e della pallamano, e come nel rugby i punti si fanno oltrepassando una linea di meta in fondo al campo. La palla però è rotonda. Si gioca su un campo al chiuso grande quanto quello da basket, e infatti fu inventato negli anni Settanta proprio come alternativa al basket in carrozzina. È uno sport misto, in cui uomini e donne giocano insieme: ogni squadra ha 4 giocatori e giocatrici a cui viene assegnato un coefficiente da 0,5 a 3,5 in base al livello di limitazione fisica o della capacità di gioco dovuto alla disabilità, e la somma dei coefficienti in campo non può superare 8 (per ogni donna in campo però si ha uno 0,5 in più).
Il rugby in carrozzina sta avendo un crescente successo negli ultimi 10 anni soprattutto grazie a una regola che dal 2008 lo ha reso più intenso e spettacolare: quella per cui ogni squadra ha al massimo 40 secondi per un'azione d'attacco (ogni giocatore, poi, non può tenere la palla per più di 10 secondi senza passarla o palleggiare).
Le carrozzine sono diverse a seconda del tipo di giocatori: quelli di difesa ne hanno una con una sporgenza davanti per permettere di contrastare gli avversari (gli vanno proprio addosso alla massima velocità), mentre quelli d'attacco ne hanno una più adatta all'agilità di manovra in spazi stretti. La fisicità è una delle cose che giocatori e giocatrici preferiscono di questo sport, e ciascuno ha le sue storie di cicatrici, dita maciullate e ossa rotte durante le partite da raccontare con fierezza. Le carrozzine si ribaltano spesso, sì: e altrettanto spesso sono da aggiustare.


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Anche nelle paraolimpiadi ci sono donne incinte che hano scelto di gareggiare


Sette mesi


Non sono molte nella storia delle Olimpiadi le atlete che hanno gareggiato mentre erano incinte, e fino a questa edizione non ce n'era mai stata nemmeno una alle Paralimpiadi (o almeno non che si sapesse): poi è arrivata l'arciera britannica Jodie Grinham, che si è presentata a Parigi 2024 al settimo mese di gravidanza. Se in un certo senso il tiro con l'arco può sembrare uno sport più adatto di altri a essere praticato anche in gravidanza, perché richiede meno movimenti, per altri versi non lo è affatto. Nel momento del tiro le arciere hanno bisogno del massimo della concentrazione, di abbassare il proprio battito cardiaco e di
controllare la respirazione in modo da scoccare la freccia solo quando sono completamente ferme: ecco, pensate dover fare tutto questo con un feto di sette mesi in pancia.
Ieri Grinham (  foto  a  sinistra  ) ha vinto la medaglia di bronzo nel torneo individuale dell'arco compound (un tipo di arco che ha alcuni accorgimenti per limitare gli sforzi fisici), ed è stata in qualche modo storica. Durante la gara «il bambino non ha smesso di muoversi», ha detto Grinham, che ha spiegato di aver fatto allenamenti specifici per controllare quella situazione. Sarà difficile dopo di lei vedere alle Paralimpiadi atlete con gravidanze più avanzate. Nella storia delle Olimpiadi moderne si ha notizia di 25 atlete che hanno gareggiato incinte, ma nessuna al settimo mese.


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La più giovane di tutta la delegazione italiana


Dei 141 atleti e atlete italiani a queste Paralimpiadi, la più giovane in assoluto è Giuliana Chiara Filippi  ( foto  a   destra )  , che è del 2005 e deve ancora compiere 19 anni. Gareggia nei 100 metri e nel salto in lungo della categoria T64, per atlete con disabilità a un arto inferiore sotto al ginocchio: a Filippi manca il piede destro dalla nascita.
Nonostante sia molto giovane, quest'anno ha già fissato i record nazionali praticamente in tutte le sue specialità: 60, 100 e 200 metri, oltre al salto in lungo. Ieri è arrivata nona nella finale di salto in lungo e il 5 settembre tornerà a gareggiare nei 100 metri. Qualche settimana fa lei stessa aveva detto di andare a queste Paralimpiadi «senza aspettative», perché «comunque sono ancora giovane»: ma è una di quelle atlete da cominciare a tenere d'occhio.




Infatti    è  leggendo  le  sue  dichiarazioni    che non vedo  una  grande   sostanziale     differenza , in qiuanto  lo  spirito olimpico   è lo stesso  ,   tra  i  giochi olimpici  e  paraolimpici 

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Un'altra medaglia per Carlotta Gilli, una delle atlete di punta della nazionale italiana a queste Paralimpiadi: è la terza, e nei prossimi giorni gareggerà ancora.


Un'altra medaglia per Carlotta Gilli, una delle atlete di punta della nazionale italiana a queste Paralimpiadi: è la terza, e nei prossimi giorni gareggerà ancora.

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Gli esseri umani fanno ricorso a protesi di vario tipo fin dall'antichità, ma per molto tempo il loro scopo è stato più che altro quello di nascondere la mancanza di un arto. Affinché siano utili e funzionali, invece, in tempi più recenti si è capito che le protesi non devono per forza assomigliare agli arti umani.











 



10.1.21

nuove forme di libertà Göteborg Film Festival, il distanziamento sociale è estremo: un solo spettatore su un'isola deserta e Beatrice Zott, la 19enne che accudisce le capre di Agitu Gudeta: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa»

Leggi anche  
Per  la  prima storia  

per    la  seconda  
 https://goteborgfilmfestival.se/en/ sito del festival  

da    https://www.open.online/ 7 GENNAIO 2021 - 08:48
                                      di Fabio Giuffrida



Beatrice Zott, la 19enne che accudisce le capre di Agitu Gudeta: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa» – L’intervista: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa» – L’intervista








Per dedicarsi alla sua passione, la ragazza ha lasciato la scuola e sacrificato i suoi fine settimana, specialmente in estate. «Non mi importa più di niente, vado in giro così, con i capelli spettinati, libera, finalmente sono me stessa»
Beatrice Zott ha 19 anni. È lei che si occuperà delle capre di Agitu Gudeta, imprenditrice etiope barbaramente uccisa da un collaboratore nella sua casa a Frassilongo, in Trentino. Un’occupazione insolita per una ragazza così giovane che – confida a Open – passa «tutta la mattina e tutta la sera a lavorare»: «Prima stavo sempre sui social, ero la classica persona a cui piaceva vestirsi bene. Ora, invece, non mi importa più niente, vado in giro così, con i capelli spettinati, libera. Ho ritrovato me stessa e, passando molte ore da sola, ho più tempo per conoscermi meglio». Certo, un profilo Instagram e uno Facebook ce l’ha – «sono comunque una ragazza di 19 anni» – ma ci trascorre «pochissimo» tempo. La natura e gli animali hanno la «priorità assoluta».
«Devo preoccuparmi di loro che non hanno più un padrone»




Due volte al giorno – racconta – si sposta dal suo paesino a quello di Agitu Gudeta, sale fin lassù dove prepara «cinque balle di fieno», ovvero i pasti per gli animali per tutta la giornata. Macina chilometri e chilometri non solo per dar loro da mangiare ma anche per «tenerle pulite e soprattutto per gestire le caprette gravide che rischiano di partorire tutte negli stessi giorni». Quando le hanno chiesto di prendersi cura degli animali, a cui Agitu Gudeta era particolarmente attacca, non ci ha pensato un attimo: «La richiesta mi è arrivata dal sindaco di Frassilongo (che a Open ha assicurato massimo impegno nel prendersi cura degli animali, ndr) a cui ho detto subito di sì. Non potevo fare altrimenti, devo preoccuparmi di queste caprette che non hanno un padrone. Poi io per Agitu avevo un grande rispetto. L’ho conosciuta quattro anni fa ed era diventata anche un’amica di mia madre».
«Ho interrotto gli studi, andavo al liceo artistico»


BEATRICE ZOTT | In foto la 19enne con le capre

Per Beatrice Zott quello di accudire gli animali non è affatto un lavoro nuovo o improvvisato. Nonostante la giovane età, infatti, ha già fatto esperienza in Svizzera, Valle d’Aosta e l’anno scorso nelle valli trentine dove ha gestito un grande gregge. Papà e nonno sono pastori, è cresciuta «a natura ed animali». Certo, questo le è costato l’interruzione degli studi. «Fino a due anni fa andavo al liceo artistico, poi ho lasciato per dedicarmi a questo. Non tornerei indietro, non sono pentita perché questo lavoro mi dà libertà. Certo, non c’è sabato e domenica, specialmente in estate quando si lavora tanto
e, dunque, devo rinunciare alle uscite. Ma, credetemi, sono felice».
L’eredità che lascia Agitu Gudeta
Le caprette di Agitu Gudeta, dunque, sono in buone mani. L’imprenditrice etiope è stata uccisa da un suo collaboratore che l’avrebbe presa a martellate per uno stipendio che lui riteneva non essere stato pagato. Il colpo alla testa le è stato fatale. Per lei – che era fuggita dall’Etiopia a causa di violenze e persecuzioni e che, in Italia, si era integrata fin da subito – non c’è stato niente da fare. Il suo sogno – ed è questo ciò che lascia in eredità – era quello di allargare la sua azienda di allevamento, la “Capra felice”, magari con la costruzione di un agriturismo. Aveva già aperto due punti vendita in cui vendeva formaggi e prodotti cosmetici a base di latte di capra. Ma il suo desiderio, quello più intimo, era che le caprette che lei adorava venissero trattate bene, che fossero felici. Ed è questo il compito affidato ora a Beatrice Zott.

La  seconda   invece  

Sono aperte le candidature per accaparrarsi l'unico biglietto disponibile per partecipare alla più importante rassegna cinematografica di Scandinavia: siete pronti a finire (da soli, esiliati in un faro, a 5 stelle però) su un'isola in mezzo al mar ?

da  https://www.repubblica.it/spettacoli/cinema   e   del 07 GENNAIO 2021

                               di  
 Clarissa Cancelli  e  Valeria Rusconi

Guardare sessanta film per sette giorni consecutivi su un'isola deserta. È l'esperimento sociale di distanziamento estremo, chiamato The Isolated Cinema, ideato dal Göteborg Film Festival, il più grande evento cinematografico in Scandinavia, ora in versione online a causa del Covid-19. Un appassionato o un'appassionata di cinema potrà trascorrere una settimana, in totale isolamento, in un lussuoso boutique hotel sull'isolotto di Pater Noster, al largo della costa occidentale della Svezia. Senza cellulare, senza computer né libri. A fare compagnia al prescelto saranno solo le sessanta pellicole (numero decisamente ridotto a causa della pandemia) selezionate dal festival. L'obiettivo è esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che può avere la visione di un film in solitudine. C'è tempo fino al 17 gennaio per fare domanda.




 

Il Göteborg Film Festival, con la sua storia ormai più che quarantennale (è attivo dal 1979), trampolino di lancio per i nuovi lungometraggi nati nel grembo di ghiaccio della penisola scandinava con destinazione resto del mondo grazie a un concorso e un premio tutto suo, il Dragon Award Best Nordic Film, non si lascia abbattere dalle circostanze infauste e sfida la pandemia autoesiliandosi. Proprio così: in tempi in cui è fondamentale cambiare le proprie, vecchie (ahimè) abitudini adottando un comportamento giudizioso che preveda il minor numero di contatti con altri esseri umani stando alla larga da ambienti affollati, il Festival di Göteborg fa uno sgambetto al virus e segue alla lettera le norme imposte dal coronavirus. Che, per una volta almeno, riescono a trasfigurare un contenitore culturale in un'opera d'arte nell'opera d'arte. Povera, quasi brutalista e quindi estremamente affascinante nella sua essenzialità.

Una rassegna cinematografica che, da evento in cui gli assembramenti rappresentavano una consuetudine gioiosa poiché mezzo necessario per compiere appieno il rito della collettività, di unione tra tanti sconosciuti davanti a uno schermo – ovvero cinema – diventa unica. Unica intesa proprio come 'uno'. Solitaria. Non più 160mila visitatori ma un solo spettatore, con a disposizione un biglietto di andata (e di ritorno, state tranquilli) per la remota isola svedese di nome Hamneskär. Più che una vera e propria isola, però, si tratta di un cumulo di scogli, circondati da macchie sparute di vegetazione strinata dal vento e dalle intemperie, con un faro nel mezzo riconvertito in hotel. Un hotel che, come va di moda oggi, viene definito 'boutique', cioè di lusso, un 5 stelle caldo e accogliente per combattere il gelo.

L'isola di Hamneskär circondata dai flutti
 

Un luogo necessario per rendere tutto più allettante e permettere al fortunato, unico spettatore del Göteborg Film Festival che verrà (è programmato da venerdì 29 gennaio a lunedì 8 febbraio, in versione online-streaming tramite abbonamento, mentre lo spettatore rimarrà sull'isola per sette giorni), di vedere, lontano dal rumore e dai problemi del mondo, la selezione in concorso. Anche se a causa della pandemia il festival ha dovuto ridurre drasticamente la sua programmazione, passando da una media di 450 titoli ad appena 60, l'Italia può gioire: tra i film è infatti presente anche Molecoleil documentario di Andrea Segre girato a Venezia durante il primo lockdown. Il titolo dell'iniziativa, che per assonanza ricorda una delle più interessanti nel nostro paese, Il cinema ritrovato di Bologna, è Il cinema isolato, e può definirsi – oltre le definizioni canoniche – anche un esperimento sociale: siamo davvero pronti a guardare scorrerci davanti agli occhi delle storie, vere, fantastiche, sognanti, felici o drammatiche introiettando ogni singola emozione custodendola – anzi, obbligatoriamente, tenendola – solo per noi stessi? L'intento (dichiarato) del festival, infatti, non è solo quello di promuovere la settima arte ma di esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che la visione di un film in solitudine ha su di esso.

Venezia 77 - Il doc 'Molecole' sulla Venezia in lockdown preapre la Mostra

In passato, il Göteborg Film Festival aveva già portato agli 'estremi' l'idea più scontata di fruizione del cinema. Un altro peculiare progetto era stato quello che aveva in cartellone titoli esclusivamente a tema religioso da far proiettare in luoghi sacri, a ogni latitudine di culto: in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga. E se agli spettatori di sesso maschile, poi, fosse stato richiesto di guardare alcuni specifici lungometraggi seduti non su calde e comode poltroncine di velluto rosso ma distesi con le gambe spalancate su un lettino di ferro, di quelli usati dai ginecologi durante le loro visite? Anche questo è stato uno dei molti esperimenti della rassegna nordica.
Parallelamente a questa iniziativa, il festival organizzerà due altre esclusive proiezioni 'per uno' in due iconici luoghi di Göteborg: lo Scandinavium, una delle arene più note in Svezia dove si svolge il campionato mondiale di hockey su ghiaccio, e il Draken Cinema, la sala dove solitamente vengono presentate le anteprime. Ad Hamneskär, e in particolare nel faro-hotel di Pater Noster (si chiama proprio così, 'Padre Nostro', ecco, non allarmatevi ulteriormente), una sola cosa è certa: non sono ammessi i cellulari – e dunque ogni contatto con l'Oltremare – e neppure i libri, altra 'finestra' verso l'esterno. Chi verrà scelto per questa impresa affascinante ma non così emotivamente semplice da sostenere dovrà accettare di abbandonare tutto, ma siamo sicuri per trovare molto.

Hamneskär, situata al largo della costa occidentale svedese, può essere raggiunta esclusivamente in gommone (o in elicottero, se il tempo è buono. Se...) dal paesino da 1.400 abitanti circa di Marstrand, frazione del comune di Kungälv, nella contea di Västra Götaland, o da Göteborg, la seconda città più popolosa della Svezia dopo Stoccolma e la quinta del Nord Europa.

Una sala dell'hotel Pater Noster 

Una volta là, a parte lo schermo allestito all'interno del resort Pater Noster, potrete fare i conti solo con i vostri demoni (o angeli). Certo, l'hotel 5 stelle, a vederlo sulla carta, fa spuntare subito un sorriso: l’agenzia di design svedese Stylt ha infatti trasformato la casa del maestro del faro del XIX secolo dell’isola rocciosa – per la precisione si tratta di una struttura in ferro dipinta di uno sgargiante rosso costruita nel 1868, automatizzata nel 1964 e poi caduta definitivamente in disuso nel decennio tra il 1977 e il 1987 – in un alloggio da sogno. Quella luce che un tempo illuminava l’orizzonte per guidare i marinai attraverso le nere, pericolose acque nordiche ora profuma di legno e folklore, grazie anche ai dettagli rustici originali, ai cimeli marittimi d'epoca, ai mobili tradizionali nordici e alle tonalità ispirate alle acque circostanti. Con le sue sole nove camere doppie per un massimo di 18 ospiti (ma voi sarete soli, ve lo ricordiamo!) e una zona notte realizzata all'esterno, sugli scogli e sotto la volta celeste limpidissima, disponibile ai turisti a un costo di circa 435 dollari a notte inclusi i pasti principali, Pater Noster più che un hotel sembra davvero il set di un film.

Volete dormire sugli scogli, a bordo mare? Il Pater Noster ve lo propone 

Stiamo tutti guardando il cinema in isolamento, ora, e questo cambia il nostro rapporto con esso; abbiamo visto nuovi tipi di lungometraggi in questo periodo che hanno assunto un significato diverso a causa della pandemia”, ha dichiarato Jonas Holmberg, il giovane critico cinematografico svedese e direttore artistico, dall'aprile 2014, della rassegna. “Una scena in cui le persone abbracciano uno sconosciuto, ad esempio, sembra molto diversa in un momento in cui non ci si può abbracciare”, ha continuato Holmberg.

Il direttore della rassegna Jonas Holmberg foto: Göteborg Film Festival

Il direttore ha dunque tracciato il profilo, anzi, i requisiti assolutamente necessari, che deve possedere il candidato – che verrà scelto dopo un colloquio diretto realizzato in videocollegamento – di questa esperienza cultural-sociologica: Essere amanti del cinema, accettare di registrare un video-blog giornaliero ed essere emotivamente e psicologicamente in grado di trascorrere una settimana in questo tipo di isolamento. Con l'esplosione degli schermi e le immagini in movimento che possono essere viste ovunque e in ogni tipologia di situazione, vogliamo proporre una riflessione non solo sul cinema e su chi lo fa ma anche su come lo fruiamo in questa nuova epoca”, ha aggiunto Holmberg. Fiero sponsor dell'annuncio (guardate la clip sopra, in questo articolo) che promuove l'iniziativa di cine-isolamento: “Niente telefono. Niente amici. Niente famiglia. Nessuno. Solo tu. E 60 film in anteprima”. E se, come diceva Wim Wenders, “i grandi film cominciano quando usciamo dal cinema”, l'isola che risuona tra i venti come una 'preghiera del Signore' è lì per dimostrarlo.

22.4.18

Gabriele Clima: "Bullismo? Noi adulti abbiamo delle responsabilità"




Lo scrittore Gabriele Clima, premio Andersen 2017, parla del rapporto tra adolescenti, adulti e libri. Toccando anche l'aspetto del bullismo nelle scuole. Intervista di Davide Berti, video di Gino Esposito. sotto  l'intervista   completa  presa   grazie  alla pagina  fb  di geolocal    da  http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/2018/04/21/news/
























MODENA. Il viaggio di uno scrittore comincia quando le sue pagine, dagli scaffali di una libreria, finiscono nelle mani di chi ha sete di parole.
Il viaggio di uno scrittore per ragazzi inizia quando capisce che per parlare a loro deve prima di tutto capire ciò che per lui hanno significato l’infanzia e l’adolescenza.
Il viaggio di Gabriele Clima, scrittore premio Andersen 2017 per “Il sole fra le dita”, mette la vita nei libri, la sua vita, torna la sua rabbia adolescenziale e la traduce in pagine.


Persona schietta e pragmatica, quando ci vuole la parolaccia la scrive - «perché, non è forse il linguaggio reale?», sottolinea - ricorda che la vita non è mai una passeggiata e lui preferisce dirlo subito ai ragazzi. Perchè non c’è passeggiata più bella di quella che ti fa fare anche un po’ di fatica: «Io parlo solo di storie di ragazzi perchè le storie sono... ragazze. Nei ragazzi c’è una vita da una parte pura e dall’altra crudele, che è ciò che costituisce anche la nostra vita da adulti. Ma noi, spesso, non ricordiamo la nostra vita da ragazzi, anche quando diventiamo educatori. E allora le storie possono aiutare questo processo di riavvicinamento di noi adulti ai ragazzi e dei ragazzi ai libri». In due giorni ha incontrato centinaia di studenti grazie alla libreria San Paolo di Modena tra scuole Calvino, Leopardi e Lanfranco, sempre mettendosi in gioco.Quando ha deciso di raccontare se stesso?
«Io racconto storie vere, non sempre tutti gli episodi sono successi ma cerco sempre di essere autobiografico perché io ho vissuto una adolescenza irrequieta, inquieta, anche problematica. Quello che conta è che i ragazzi oggi vivono in una serie di problemi che noi adulti buttiamo sulle loro spalle attraverso la televisione, Facebook, internet. Raccontare storie ai ragazzi di quello che succede intorno a loro è un modo per avvicinarli a noi e ripescare quei processi fondamentali che fanno crescere anche noi adulti. Quanti adulti si credono maturi? Dov’è la linea di demarcazione che separa l’adolescenza dalla maturità? Quando cessa il processo di aggiornamento delle mappe con cui navighiamo la realtà? Io spero mai, perché sarebbe la morte dell’anima e del pensiero. Oggi, invece, vedo i ragazzi estremamente attivi nel pensiero e consapevoli di quanto questo possa modificare la realtà che vivono».
Il bullismo è un tema presente nei suoi libri: come si arriva a questi fatti?
«Le responsabilità sono ripartite. Noi adulti ne abbiamo molte di più di quante pensiamo. Il problema non è tanto l’esplosione di rabbia, l’odio o la follia che comunque c’è ed è presente, sta dilagando in questi ultimi tempi. Il problema è il mancato percorso essenziale di educazione emotiva che nelle scuole non si fa, in famiglia non si fa, non si fa in genere. Il problema non è la rabbia che poi esplode, il problema è la gestione delle emozioni. La rabbia è un sentimento buono, positivo come tutte le emozioni. È la sua mancata gestione che può fare dei disastri, come quelli che vediamo. Io racconto storie non per creare un percorso in cui i ragazzi possano identificarsi, ma per raccontare il mio, che è esattamente un percorso attraverso la rabbia, la mia rabbia adolescenziale, forte, attraverso una strada che io faticosamente mi sono scavato e aperto tra le fronde della vita, una strada dal buio alla luce ».
Cosa manca ai ragazzi?
«L’educazione sentimentale, l’educazione alle proprie emozioni, che vanno conosciute. Conoscere anche la rabbia, anche le emozioni di cui si vergognano e hanno paura. Esplorare quei mondi remoti del proprio animo in cui il buio si forma, perché conoscendo il buio si può anche ingabbiare in qualche modo».
Quando finiranno gli adulti di nascondersi dietro al ritornello “questi giovani non hanno voglia di fare niente”?
«Molto comodo per gli adulti, ci salva da percorsi che sono quelli che non abbiamo battuto fino ad ora. È molto comodo per noi ripercorrere sempre gli stessi passi: oggi occorre cambiare strada, cambiare ottica, cambiare mentalità. Lo fanno i ragazzi, perchè noi adulti non ci riusciamo ?».

4.4.18

“Un mestiere antico per un ragazzo moderno”"A 24 anni corono il mio sogno, fare il calzolaio" Giuseppe Magnani da settembre ha rilevato una calzoleria in via Porta Brennone. «Fare scarpe su misura mi dà grandi soddisfazioni.

  ci sono  giovan  che  riportano  in auge   mestieri  che sembrano destinati alla scomparsa  .  E'  il casdo  di  Giusepe  Magnani   . Ecco la  sua  storia  presa   grazie alla pagina fb  di geolocal da   http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2018/04/04/

"A 24 anni corono il mio sogno, fare il calzolaio"
Giuseppe Magnani da settembre ha rilevato una calzoleria in via Porta Brennone. «Fare scarpe su misura mi dà grandi soddisfazioni. Altroché mestiere da vecchi»
                            di Chiara Cabassa


REGGIO EMILIA. “Un mestiere antico per un ragazzo moderno” si legge sul sito. “Calzoleria Magnani-Art and Craft in Shoes” è scritto sulla vetrina di via Porta Brennone 4
 Tutto quadra quando, sbirciando dentro, vedi un ragazzo giovanissimo, due grandi occhi scuri, una testa di capricciosi riccioli neri. È lui il ragazzo moderno che fa un mestiere antico. È lui Giuseppe Magnani, 24 anni, che dal settembre scorso gestisce una calzoleria che fa la differenza: appena entri, un salotto in piena regola con divano, tappeto, lampade e pezzi d’antiquariato; dall’altra parte, il laboratorio dove Giuseppe non solo ripara ma soprattutto realizza scarpe su misura. Un sogno realizzato che arriva dopo anni di studio appassionato. Un punto d’arrivo e insieme uno splendido punto di partenza.



Giuseppe, quando ha deciso che da grande (ma neanche troppo) avrebbe fatto il calzolaio?

«Premesso che da sempre considero le scarpe un accessorio importante che può fare la differenza, devo ammettere che fare il calzolaio non è stato da sempre il mio sogno. Nonostante un mio bisnonno facesse proprio il calzolaio... ma io non ci credo tanto nell’ereditarietà dei talenti».

Quindi è stata una scelta meditata, non un colpo di fulmine.

«È accaduto che ho frequentato l’Istituto d’arte Chierici seguendo l’indirizzo architettura e design, niente a che fare con il disegnare e realizzare scarpe. Però, nell’ultimo anno, mi sono avvicinato a materiali come il cuoio e la pelle e ho iniziato ad apprezzarli. Ho iniziato realizzando dei portafogli in casa e ho scoperto di avere una certa manualità, insomma di essere portato».



Il passo successivo?

«Per un anno mi sono trasferito a Vicenza dove ho frequentato la Scuola d’Arte e Mestieri e seguito un corso di pelletteria. Nel frattempo ho fatto stage in diverse aziende per poi diplomarmi come operatore e modellista per la pelletteria. Tornato a Reggio Emilia, dopo due giorni ho trovato lavoro a Montecchio, nella calzoleria di Federico Mori. Poi due anni fa Rossano Chiari, che aveva intenzione di trasferirsi in Corso Garibaldi, per un anno mi ha dato in gestione la sua calzoleria in via Porta Brennone e, nel settembre scorso, l’ho rilevata. Se devo ringraziare qualcuno? I miei maestri Mori e Chiari, sicuramente».

Una calzoleria, quella di via Porta Brennone, che ha rilevato e trasformato.

«Volevo creare una cosa diversa. Non la solita calzoleria. Chi entra deve avere l’impressione di trovarsi in una casa: per questo aperta la porta ci si trova di fronte a una sorta di salotto mentre il mio laboratorio è in una posizione subalterna. L’ingresso è un biglietto da visita. L’impressione che vorrei dare è quella di un luogo giovanile e insieme di un posto che trasmetta l’idea di un prodotto di nicchia».

Cosa le piace di più del suo lavoro?

«Creare un paio di scarpe su misura è ciò che dà maggiore soddisfazione. Vedere un cliente che indossa quel paio di scarpe è bellissimo. Ma è chiaro (sorride, ndr) che al momento ciò che mi permette di mangiare è riparare le scarpe».

Ma quanto costa un paio di scarpe su misura?

«Dipende. Dal pellame, dalla forma, dai particolari... Non c’è un listino. Se sono prezzi accessibili? Anche in questo caso, dipende dal tipo di cliente».

E ora?

«Ho un lavoro che mi piace e ho solo 24 anni: lo considero un privilegio. Così come trovo confortante che si inizi a prestare attenzione ad un lavoro, quello del calzolaio, che qualcuno pensava forse destinato all’estinzione. Evidentemente, non è così».




Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...