Esso è il mio primo libro di barbara Baraldi che leggo. MaXi solito se un libro mi attrae , cime questo , nel giro diuna massimo sue lo finisco . Ma qui ci ho impiegato un estate. Infatti esso è scritto magistralmente / talmente bene che si legge tutto d'un fiato un capitolo dopo l’altro, salvo che non siate sensibili ed impressionabili alle storie tristi da leggerlo con lentezza .
Durante la lettura sembra di riascoltare ( a scoltare per chi non la conoscesse o non la ricorda ) la sua voce della Joplin che esplode in un torrente di colori e sensazioni, è ruvida e levigata allo stesso tempo, possiede la solennità del gospel, la grinta del rock e il dolore del blues. Un romanzo avvincente con punte di poesia . Sembra se vogliamo essere fiscali \ pignoli nonostante il genere sia diverso , una eccellente sceneggiatura cinematografica del tipo di ray donovan [ serie di netflix ] o di un una di una storia dylan dog fumetto di cui è curatrice editoriale La sua scrittuta è talmente : intensa , realistica ed suggestiva , credo che prenderò o in biblioteca o acquisterò gli altri suoi romanzi , che sembra che fosse amica della stessa JJ o abbia visto le sue vicende dal vivo \ indiretta o deve a ver gfatto dei sopraluoghi o reali o virtuali in california per come descrive i locali e la città . Un libro inteso ed vissuto che rifugge , o almeno lo fa talmente bene che non si nota esplicitamete nelle note a fine libro in particolare nelle ultime 18 rghe di pagina 426 e tutta 427
, da quel processo di revevail \ santificazione \ mitizzazione iconoclastica del personaggio di certi artisti e protagonisti delle generazioni passate . Infatti ha evitato , se non un lieve accenno sia durante la presetazione a cui ho assistito sia nell'appendice la vita dopo te in cui c'è come si fa nelle fitcion e in certi film una discalia per spiegare cosa hanno fatto i personaggi dellla vicenda narrata , per spiegare l'importanza e del perchè JJ sia ancora viva nella storia del rock
E' valsa la pena fare il rompiscatole con amici\che comuni e non , conoscienti , estranei per avere un passaggio per poi alla fine costringere i miei a d accompagnarmi loro per vederla quest'estate a time in jazz
<< Non le piacciono i suoi occhi, così piccoli e sperduti nell’ovale del viso. Non le piacciono le sue labbra, sottili come l’orlo di un abito cucito male. Il naso è troppo grosso e l’acne deve essere una punizione divina per essere atea. La sua faccia è un campo di battaglia, ma lei è già stanca di combattere.Eppure , c'è una cosa che le piace di se' . La sua voce >> quarta di copertina del libro
Seguire la storia della Baraldi, che ha mischiato eventi reali ad altri di pura invenzione lo ha fatto cosi magistralmente \ talmente bene che chi non conosce e s'avicina per la prima volta a Janis Joplin da non riesce a distinguerli . Ma è stato anche affascinante ed catarchico ( vedere il mio post : << il mio fuoco dentro e miei sensi di colpa >> ) perchè mi ha anche spronato a conoscere meglio la JJ oltre le sue canzoni . Infatti e forse quello che mi ha colpito di più è stato scoprire che non solo la Joplin, ma molti degli artisti di quegli anni avevano lo stesso animo distrutto dalla realtà che vivevano. Mi viene da chiedermi se cio' sia stato perché tutti loro cercavano di colmare un vuoto doloroso (che è quello che li ha resi più grandi e unici) o se siano stati invece il frutto di quegli anni così aggressivi e potenti ed il desiderio di aprire le porte della percezione . Amici e critici sono d’accordo nel sostenere che Janis Joplin aveva un fuoco dentro quando cantava, che sapeva infiammare le folle. E questa è stata forse una delle cause del suo turbamento: quando scendeva dal palco e l’adrenalina si stemperava, non le restava altro che un grande buco da colmare; tornava la ragazza insicura di sempre. E’ come se la musica che le bruciava dentro l’abbia consumata, lasciandola ogni volta più carica di dolore. Un gran peccato che una voce così straordinaria e una donna così rivoluzionaria siano andate perse nel caos di quegli anni; rimangono le sue canzoni, con la sua voce bassa e graffiante che sembra salti fuori dai vinili per entrarti nel sangue, e questo splendido romanzo della Baraldi, cupo e noir che ci ha fatto entrare per un po’ nel suo mondo, nel suo dolore, ma anche nel suo paradiso.Un classico esempio di quando un romanzo è meglio di una biografia . Sarebbe ineressante , e qui concludo , vederlo a fumetti magari per Dylan Dog . Una artista rock ( per parafrasare Adriano Celentano ) , e qui concludo , un autrice completa e non inquadrabile in un solo genere letterario . Una di quegli autori che smonta la convenzione che il noir debba per forza parlare di omicidi e assasini o d crimini . Un libro fiero ed indigesto insomma . Potrei continuare a parlarne ancora ma : 1) sarei troppo prolisso e noioso ., 2) rischierei di essere scambiato per un lachè . Quindo mi fermo qui . Con questo è tutto augurandovi buona lettura o rilettura se lo avete già letto
Hanno detto che era stanca, depressa, umiliata per un fisico che non rispondeva più, che sentiva inutile. Non per un fatto estetico. La decadenza la tormentava perché le avrebbe impedito di dedicare alle figlie, ai nipoti il tempo e l'energia che desiderava. Questo hanno detto e forse è vero, M. L., come tutte le nonne e le donne, era stata educata così: a pensare agli altri e non a sé stessa, a pensare sé stessa in rapporto agli altri. Soprattutto alla famiglia. Ma la famiglia non c'era il 20 luglio, antivigilia della festa dei nonni. Le figlie, i nipoti erano appena partiti in vacanza e lei, M. L., smarrita da tempo, doveva improvvisamente fare i conti con la propria in-utilità. Quegli anni gratuiti, gli anni della vigoria e del dono, gli anni delle estati in Liguria, dove le voci garrule dei bimbi al mare restituiscono una breve infanzia, quegli anni erano diventati un ricordo crudele e scialato. Inutile anch'esso, perché M. L. era rimasta lì, involontaria stilita, come una vecchia misantropa, in un silenzio senza storia.E in silenzio è volata giù, dalla finestra spalancata che ha gridato per lei. Non è stata una caduta accidentale. È scesa per esserci ancora, fra l'erba verde, presso gli alberi da frutto. Una tomba "antica", ché tutti ormai non lasciamo che cenere, e le nostre case sono sarcofaghi dei quali non rispettiamo la sacertà. È scesa perché era finita, perché finita si sentiva, perché finita non voleva finire. Nessuno conosce il guazzabuglio del cuore umano, a nessuno è lecito giudicare. Ma le tombe mute dei vecchi, come il disonore delle salme degli anziani ospiti della Rsa milanese, morti in un rogo e abbandonati anche durante le esequie, sono l'accusa concreta, starei per dire vivente, dei nostri anni ingrati. La lezione del covid non ci ha resi migliori. In questi anni "che mai non fur vivi" seppelliamo anzitempo gli anziani "in-utili", precludendoci così il futuro.
Beatrice Zott, la 19enne che accudisce le capre di Agitu Gudeta: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa» – L’intervista: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa» – L’intervista
Per dedicarsi alla sua passione, la ragazza ha lasciato la scuola e sacrificato i suoi fine settimana, specialmente in estate. «Non mi importa più di niente, vado in giro così, con i capelli spettinati, libera, finalmente sono me stessa» Beatrice Zott ha 19 anni. È lei che si occuperà delle capre di Agitu Gudeta, imprenditrice etiope barbaramente uccisa da un collaboratore nella sua casa a Frassilongo, in Trentino. Un’occupazione insolita per una ragazza così giovane che – confida a Open – passa «tutta la mattina e tutta la sera a lavorare»: «Prima stavo sempre sui social, ero la classica persona a cui piaceva vestirsi bene. Ora, invece, non mi importa più niente, vado in giro così, con i capelli spettinati, libera. Ho ritrovato me stessa e, passando molte ore da sola, ho più tempo per conoscermi meglio». Certo, un profilo Instagram e uno Facebook ce l’ha – «sono comunque una ragazza di 19 anni» – ma ci trascorre «pochissimo» tempo. La natura e gli animali hanno la «priorità assoluta». «Devo preoccuparmi di loro che non hanno più un padrone»
Due volte al giorno – racconta – si sposta dal suo paesino a quello di Agitu Gudeta, sale fin lassù dove prepara «cinque balle di fieno», ovvero i pasti per gli animali per tutta la giornata. Macina chilometri e chilometri non solo per dar loro da mangiare ma anche per «tenerle pulite e soprattutto per gestire le caprette gravide che rischiano di partorire tutte negli stessi giorni». Quando le hanno chiesto di prendersi cura degli animali, a cui Agitu Gudeta era particolarmente attacca, non ci ha pensato un attimo: «La richiesta mi è arrivata dal sindaco di Frassilongo (che a Open ha assicurato massimo impegno nel prendersi cura degli animali, ndr) a cui ho detto subito di sì. Non potevo fare altrimenti, devo preoccuparmi di queste caprette che non hanno un padrone. Poi io per Agitu avevo un grande rispetto. L’ho conosciuta quattro anni fa ed era diventata anche un’amica di mia madre». «Ho interrotto gli studi, andavo al liceo artistico»
BEATRICE ZOTT | In foto la 19enne con le capre
Per Beatrice Zott quello di accudire gli animali non è affatto un lavoro nuovo o improvvisato. Nonostante la giovane età, infatti, ha già fatto esperienza in Svizzera, Valle d’Aosta e l’anno scorso nelle valli trentine dove ha gestito un grande gregge. Papà e nonno sono pastori, è cresciuta «a natura ed animali». Certo, questo le è costato l’interruzione degli studi. «Fino a due anni fa andavo al liceo artistico, poi ho lasciato per dedicarmi a questo. Non tornerei indietro, non sono pentita perché questo lavoro mi dà libertà. Certo, non c’è sabato e domenica, specialmente in estate quando si lavora tanto
e, dunque, devo rinunciare alle uscite. Ma, credetemi, sono felice». L’eredità che lascia Agitu Gudeta Le caprette di Agitu Gudeta, dunque, sono in buone mani. L’imprenditrice etiope è stata uccisa da un suo collaboratore che l’avrebbe presa a martellate per uno stipendio che lui riteneva non essere stato pagato. Il colpo alla testa le è stato fatale. Per lei – che era fuggita dall’Etiopia a causa di violenze e persecuzioni e che, in Italia, si era integrata fin da subito – non c’è stato niente da fare. Il suo sogno – ed è questo ciò che lascia in eredità – era quello di allargare la sua azienda di allevamento, la “Capra felice”, magari con la costruzione di un agriturismo. Aveva già aperto due punti vendita in cui vendeva formaggi e prodotti cosmetici a base di latte di capra. Ma il suo desiderio, quello più intimo, era che le caprette che lei adorava venissero trattate bene, che fossero felici. Ed è questo il compito affidato ora a Beatrice Zott.
La seconda invece
Sono aperte le candidature per accaparrarsi l'unico biglietto disponibile per partecipare alla più importante rassegna cinematografica di Scandinavia: siete pronti a finire (da soli, esiliati in un faro, a 5 stelle però) su un'isola in mezzo al mar ?
Guardare sessanta film per sette giorni consecutivi su un'isola deserta. È l'esperimento sociale di distanziamento estremo, chiamato The Isolated Cinema, ideato dal Göteborg Film Festival, il più grande evento cinematografico in Scandinavia, ora in versione online a causa del Covid-19. Un appassionato o un'appassionata di cinema potrà trascorrere una settimana, in totale isolamento, in un lussuoso boutique hotel sull'isolotto di Pater Noster, al largo della costa occidentale della Svezia. Senza cellulare, senza computer né libri. A fare compagnia al prescelto saranno solo le sessanta pellicole (numero decisamente ridotto a causa della pandemia) selezionate dal festival. L'obiettivo è esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che può avere la visione di un film in solitudine. C'è tempo fino al 17 gennaio per fare domanda.
Il Göteborg Film Festival, con la sua storia ormai più che quarantennale (è attivo dal 1979), trampolino di lancio per i nuovi lungometraggi nati nel grembo di ghiaccio della penisola scandinava con destinazione resto del mondo grazie a un concorso e un premio tutto suo, il Dragon Award Best Nordic Film, non si lascia abbattere dalle circostanze infauste e sfida la pandemia autoesiliandosi. Proprio così: in tempi in cui è fondamentale cambiare le proprie, vecchie (ahimè) abitudini adottando un comportamento giudizioso che preveda il minor numero di contatti con altri esseri umani stando alla larga da ambienti affollati, il Festival di Göteborg fa uno sgambetto al virus e segue alla lettera le norme imposte dal coronavirus. Che, per una volta almeno, riescono a trasfigurare un contenitore culturale in un'opera d'arte nell'opera d'arte. Povera, quasi brutalista e quindi estremamente affascinante nella sua essenzialità.
Una rassegna cinematografica che, da evento in cui gli assembramenti rappresentavano una consuetudine gioiosa poiché mezzo necessario per compiere appieno il rito della collettività, di unione tra tanti sconosciuti davanti a uno schermo – ovvero cinema – diventa unica. Unica intesa proprio come 'uno'. Solitaria. Non più 160mila visitatori ma un solo spettatore, con a disposizione un biglietto di andata (e di ritorno, state tranquilli) per la remota isola svedese di nome Hamneskär. Più che una vera e propria isola, però, si tratta di un cumulo di scogli, circondati da macchie sparute di vegetazione strinata dal vento e dalle intemperie, con un faro nel mezzo riconvertito in hotel. Un hotel che, come va di moda oggi, viene definito 'boutique', cioè di lusso, un 5 stelle caldo e accogliente per combattere il gelo.
Un luogo necessario per rendere tutto più allettante e permettere al fortunato, unico spettatore del Göteborg Film Festival che verrà (è programmato da venerdì 29 gennaio a lunedì 8 febbraio, in versione online-streaming tramite abbonamento, mentre lo spettatore rimarrà sull'isola per sette giorni), di vedere, lontano dal rumore e dai problemi del mondo, la selezione in concorso. Anche se a causa della pandemia il festival ha dovuto ridurre drasticamente la sua programmazione, passando da una media di 450 titoli ad appena 60, l'Italia può gioire: tra i film è infatti presente anche Molecole, il documentario di Andrea Segre girato a Venezia durante il primo lockdown. Il titolo dell'iniziativa, che per assonanza ricorda una delle più interessanti nel nostro paese, Il cinema ritrovato di Bologna, è Il cinema isolato, e può definirsi – oltre le definizioni canoniche – anche un esperimento sociale: siamo davvero pronti a guardare scorrerci davanti agli occhi delle storie, vere, fantastiche, sognanti, felici o drammatiche introiettando ogni singola emozione custodendola – anzi, obbligatoriamente, tenendola – solo per noi stessi? L'intento (dichiarato) del festival, infatti, non è solo quello di promuovere la settima arte ma di esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che la visione di un film in solitudine ha su di esso.
Venezia 77 - Il doc 'Molecole' sulla Venezia in lockdown preapre la Mostra
In passato, il Göteborg Film Festival aveva già portato agli 'estremi' l'idea più scontata di fruizione del cinema. Un altro peculiare progetto era stato quello che aveva in cartellone titoli esclusivamente a tema religioso da far proiettare in luoghi sacri, a ogni latitudine di culto: in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga. E se agli spettatori di sesso maschile, poi, fosse stato richiesto di guardare alcuni specifici lungometraggi seduti non su calde e comode poltroncine di velluto rosso ma distesi con le gambe spalancate su un lettino di ferro, di quelli usati dai ginecologi durante le loro visite? Anche questo è stato uno dei molti esperimenti della rassegna nordica. Parallelamente a questa iniziativa, il festival organizzerà due altre esclusive proiezioni 'per uno' in due iconici luoghi di Göteborg: lo Scandinavium, una delle arene più note in Svezia dove si svolge il campionato mondiale di hockey su ghiaccio, e il Draken Cinema, la sala dove solitamente vengono presentate le anteprime. Ad Hamneskär, e in particolare nel faro-hotel di Pater Noster (si chiama proprio così, 'Padre Nostro', ecco, non allarmatevi ulteriormente), una sola cosa è certa: non sono ammessi i cellulari – e dunque ogni contatto con l'Oltremare – e neppure i libri, altra 'finestra' verso l'esterno. Chi verrà scelto per questa impresa affascinante ma non così emotivamente semplice da sostenere dovrà accettare di abbandonare tutto, ma siamo sicuri per trovare molto.
Hamneskär, situata al largo della costa occidentale svedese, può essere raggiunta esclusivamente in gommone (o in elicottero, se il tempo è buono. Se...) dal paesino da 1.400 abitanti circa di Marstrand, frazione del comune di Kungälv, nella contea di Västra Götaland, o da Göteborg, la seconda città più popolosa della Svezia dopo Stoccolma e la quinta del Nord Europa.
Una volta là, a parte lo schermo allestito all'interno del resort Pater Noster, potrete fare i conti solo con i vostri demoni (o angeli). Certo, l'hotel 5 stelle, a vederlo sulla carta, fa spuntare subito un sorriso: l’agenzia di design svedese Stylt ha infatti trasformato la casa del maestro del faro del XIX secolo dell’isola rocciosa – per la precisione si tratta di una struttura in ferro dipinta di uno sgargiante rosso costruita nel 1868, automatizzata nel 1964 e poi caduta definitivamente in disuso nel decennio tra il 1977 e il 1987 – in un alloggio da sogno. Quella luce che un tempo illuminava l’orizzonte per guidare i marinai attraverso le nere, pericolose acque nordiche ora profuma di legno e folklore, grazie anche ai dettagli rustici originali, ai cimeli marittimi d'epoca, ai mobili tradizionali nordici e alle tonalità ispirate alle acque circostanti. Con le sue sole nove camere doppie per un massimo di 18 ospiti (ma voi sarete soli, ve lo ricordiamo!) e una zona notte realizzata all'esterno, sugli scogli e sotto la volta celeste limpidissima, disponibile ai turisti a un costo di circa 435 dollari a notte inclusi i pasti principali, Pater Noster più che un hotel sembra davvero il set di un film.
“Stiamo tutti guardando il cinema in isolamento, ora, e questo cambia il nostro rapporto con esso; abbiamo visto nuovi tipi di lungometraggi in questo periodo che hanno assunto un significato diverso a causa della pandemia”, ha dichiarato Jonas Holmberg, il giovane critico cinematografico svedese e direttore artistico, dall'aprile 2014, della rassegna. “Una scena in cui le persone abbracciano uno sconosciuto, ad esempio, sembra molto diversa in un momento in cui non ci si può abbracciare”, ha continuato Holmberg.
Il direttore ha dunque tracciato il profilo, anzi, i requisiti assolutamente necessari, che deve possedere il candidato – che verrà scelto dopo un colloquio diretto realizzato in videocollegamento – di questa esperienza cultural-sociologica: “Essere amanti del cinema, accettare di registrare un video-blog giornaliero ed essere emotivamente e psicologicamente in grado di trascorrere una settimana in questo tipo di isolamento. Con l'esplosione degli schermi e le immagini in movimento che possono essere viste ovunque e in ogni tipologia di situazione, vogliamo proporre una riflessione non solo sul cinema e su chi lo fa ma anche su come lo fruiamo in questa nuova epoca”, ha aggiunto Holmberg. Fiero sponsor dell'annuncio (guardate la clip sopra, in questo articolo) che promuove l'iniziativa di cine-isolamento: “Niente telefono. Niente amici. Niente famiglia. Nessuno. Solo tu. E 60 film in anteprima”. E se, come diceva Wim Wenders, “i grandi film cominciano quando usciamo dal cinema”, l'isola che risuona tra i venti come una 'preghiera del Signore' è lì per dimostrarlo.