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22.4.25

diario di bordo n 117 anno III ormai anche i cantautori si vendono alla pubblicità .,Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me» ., Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»

  Concordo    con   l'intervento  pubblicato il   19\4\2025   dal il  Fatto    quotidiano  ma

Sempre più frequentemente il cantautore, un tempo rigidamente schierato contro la commercializzazione della sua musica, rompe il confine fra tradizione e tradimento e vende i suoi diritti alla pubblicità riducendo brani storici a jingle per aziende.
Niente di nuovo, lo fece anche Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, prestandola a Fiat e Alitalia.
Ma quella di De Gregori, Vecchioni, Ligabue, e indirettamente Gaber, è una rivoluzione copernicana non tanto per questioni di opportunità di monetizzazione ma perché toglie alla più nobile canzone d’autore il ruolo di sentinella e testimone del nostro tempo, così come proprio loro l’avevano sempre voluta intendere e trasmettere.
È precipitato improvvisamente il senso critico, quel fare
le pulci alla Storia che connotava nel profondo il loro verbo e la loro azione. L’indignazione e la protesta hanno lasciato il posto a teneri e rassicuranti sguardi sul mondo.
Forse i nostri cantautori si sono distratti, ma i percorsi storici delle aziende con le quali flirtano sembrano per loro improvvisamente essere solo costellati di operai di buona volontà che illuminano case al crepuscolo, di automobili romantiche custodi dei primi amori giovanili e di grandi strade sulle quali sfrecciano famiglie felici verso le vacanze.Tali itinerari invece sono stati anche spesso illuminati dai riflettori della cronaca e della magistratura. L’associazione così leggera di frasi come“la storia siamo noi”, “sogna ragazzo sogna” o “la libertà è partecipazione” a percorsi tanto controversi, sorprende non poco.Gli eredi di quelli che a buona ragione Umberto Eco definiva “cantacronache”, sembrano aver perso la loro stella polare e quel rigore nel procedere in “direzione ostinata e contraria” indifferente all’hit parade.Vasco Rossi tempo fa fece “mea culpa” dopo aver concesso due brani alla pubblicità, ricordando che la canzone non è solo di chi l’ha scritta ma anche di tutti coloro che l’hanno amata e magari impugnata in stagioni complicate per il nostro Paese.Forse questo messaggio nessun grande cantautore che abbia avuto il merito di non allinearsi dovrebbe mai dimenticarlo.

aggiungo     che    bisogna     distinguere     fra     chi    fa  il canta autore   o  cantante   per  mestiere  cioè vive solo  di  quello  e  è  quindi  è costretto a  prestare  il suo  ingegno  per  opere  d'indubbio gusto e   a

 [...] Colleghi cantautori, eletta schiera
che si vende alla sera per un po' di milioni
voi che siete capaci fate bene
a aver le tasche piene e non solo i coglioni
Che cosa posso dirvi? Andate e fate
tanto ci sarà sempre, lo sapete
un musico fallito, un pio, un teorete
un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!
Guccini  -L'avvelenata  


e   fra    quelli   che    lo  fanno  per hobby  e passione    che posso o  essere   coerenti   o totalemente    cioè  a non vendersi   e imanete indietro o di nicchia oppure   ad  aprirsi al   al mondo circostante   cercando    di.  farlo  in maniera  etica    come  i caso  di  Blowin' in the wind' di Bob Dylan diventa uno spot  :  « [... ] della pubblicità del Co-operative Group; è la prima volta che Dylan concede un suo brano al mercato pubblicitario britannico. Il Co-operative Group gestisce vari servizi, tra i quali viaggi e pompe funebri, ma anche una rete di supermarket simile a quella delle Coop italiane; il rappresentante di Dylan ha riferito che la scelta dell'artista è stata influenzata dalla politica del Co- operative Group, che pone l'accento sul mercato equo e solidale e sull'impatto ambientale. »

Quindi attenzione  ⚠️  a giudicare un opera o un cantante

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Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me»


La sua è una resurrezione metaforica dall'inferno della galera, grazie allo studio, che ben si inquadra nel clima dei giorni di Pasqua. Accusato di mafia, anche se lui si è sempre dichiarato innocente, condannato a quasi dieci anni di carcere, è riuscito ad ottenere la laurea magistrale in Scienza della Formazione «frequentando» l'università da dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza. Lunedì scorso, 14 aprile, la discussione della tesi e la proclamazione del titolo di dottore nel campus di Arezzo dell'università di Siena.
Il titolo della ricerca con la quale il protagonista si è presentato davanti alla commissione è già significativo dell'intento con il quale lui ha affrontato gli ultimi due anni dei corsi accademici: «La formazione e il lavoro rendono l'uomo libero». La sintesi di un lavoro che nella sua seconda parte è in gran parte autobiografico, come spiega il professor Gianluca Navone, responsabile del polo universitario penitenziario senese, cui sono iscritti un centinaio di detenuti, che lo ha seguito da vicino nel suo percorso universitario.
Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell'isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l'ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni dei carceri più duri della penisola.
Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all'esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell'università un'alternativa di vita capace di restituirgli la speranza.
Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all'università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche.
Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l'ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l'ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto.Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c'è un'ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. «Ma quello che mi ha emozionato di più – racconta il docente – è stato l'impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell'operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico al verità. Al suo posto non ce l'avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia».
Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c'erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all'università, l'anziano padre, i fratelli e i nipoti. L'altra figlia doveva affrontare l'ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario.
C'è stata anche una festicciola con i parenti, l'hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. «Ce l'ho fatta - tra le sue poche parole – ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale».
Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: «Di recente – spiega – il Dap (il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nei carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all'università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto».




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Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»



Questa storia inizia a Bologna, anno 2018. Michael Petrolini compie 25 anni. È l’età, secondo la legge n.184/83, in cui ogni figlio adottato riconosciuto alla nascita può richiedere informazioni sui genitori biologici. Michael, quei nomi, li vuole sapere. Ma ci tiene soprattutto a
sapere che cosa abbia spinto sua madre a lasciarlo. Fa richiesta al tribunale per i minorenni di Bologna. Sul sito sono riportati i costi: 27 euro per la marca da bollo più 98 euro contributo unificato per la pratica. Lui paga, compila i moduli e aspetta: giorni, mesi. «Le tempistiche sono bibliche. Dopo quasi un anno, il tribunale finalmente mi contatta per dirmi che ho la possibilità di accedere al fascicolo. Vado e sembra di essere in edicola, ricevo un papiro di fogli con le informazioni sul mio passato e stop… Aiuti psicologici? Zero. Assistenti sociali? Zero. Dovevo cavarmela da solo, ero io e il mio passato».


In quei fogli, Michael rintraccia parte della sua infanzia. Scopre il nome di sua madre e quello di suo padre. Scopre che sua madre è napoletana, suo padre tunisino e non lo ha riconosciuto. Scopre di avere due fratelli e due sorelle. Racconta: «In quel momento ho completato un piccolo pezzo di puzzle, era pura curiosità sapere le mie origini, però si era aperto un altro capitolo. Mi chiedevo: e adesso, che cosa devo fare?». Fino a quel momento Michael-adulto conosce poco di Michael-bambino piccolo: sa che è nato a Torino, che ha vissuto con la madre biologica due anni e poi in una casa di accoglienza. Si interroga sulle sue origini già a scuola quando i compagni gli domandano: «Sei nordafricano? Sei brasiliano?». Lui è consapevole di avere dei lineamenti diversi, ma non risponde altro che «sono di Parma», città dove abita allora con i genitori e una sorella. Spiega agli amici che è stato adottato e ne va fiero.
Iniziare un viaggio dentro (e fuori) sé stesso significa sentire meno quel vuoto, che lui definisce durante l’intervista «buco da colmare». Come lui, sono in tanti e tante a chiedersi il perché dell’adozione. Un’indagine dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e Regione Toscana inquadra il fenomeno prima del Covid. I dati risalgono al 2019. Non ci sono studi recenti a livello nazionale, assicurano a 7. Delle 226 persone che si sono rivolte allo sportello Ser.I.O. – il Servizio per le informazioni sulle origini – 140 sono uomini e donne adottate.
Il motivo prevalente: ricerca dell’identità familiare e la comprensione delle ragioni dell’abbandono (153 persone su 226 contatti). Altre ragioni: sapere l’identità della madre biologica (53 persone), conoscenza di eventuali fratelli e sorelle (12 persone), ricerca del luogo/regione di provenienza della famiglia (6 persone). Altre ancora: indicazioni sul padre «che non si è fatto carico del suo ruolo» (2 persone). Oltre a conoscere la famiglia naturale, in molti chiedono l’anamnesi familiare. Domandiamo a Michael perché è stato così importante per lui ricercare le origini. «Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è per costruire la sua identità, non mi sentirei mai completo se non sapessi che cosa è successo nel mio passato, è un buco da colmare che rimarrebbe vuoto, mentre obiettivamente la madre biologica lo sa, conosce le motivazioni per cui ti ha lasciato». Adesso sente di aver chiuso il cerchio? «Non del tutto, ma so che cosa è successo nei primi tre anni della mia vita, non è banale».
Per scoprirlo, appena riceve il fascicolo, Michael va a uno degli indirizzi segnati. Parte da Bologna e arriva a Reggio Emilia. Si ricorda che lì si trova anche la sua casa di accoglienza. La via riportata nel documento però non esiste più. Lui entra in un bar del quartiere e chiede se qualcuno conosce sua madre. Un tizio si ricorda di lei e della sorella. Dice a Michael di aspettare un altro cliente del bar. Questo signore arriva, lo riconosce, gli dice che lo guardava sempre da bambino, che conosce sua zia e sua madre. «Quel signore mi dà il contatto di mia zia, io la chiamo e in 20 minuti lei si precipita al bar». Sua madre è l’ultima persona che Michael incontra. Lei si presenta con il figlio più piccolo. «Non avevo ricordi insieme a lei, non me la ricordavo. Mi ha fatto piacere sapere come fosse fatta fisicamente. I miei parenti biologici per me erano stranieri, degli estranei, mi sono difeso molto a livello emotivo», ammette.
Michael abbassa appena la voce, fa un accenno su suo padre - «uno spacciatore di Reggio Emilia, che entra ed esce di galera» - e si sofferma invece a lungo su sua madre: «Le somiglio molto. Ho gli occhi, il naso e la bocca uguali ai suoi. Lei è una senzatetto, vive in una roulotte abbandonata, è cresciuta a Scampia e ha fatto parte della camorra. Mi hanno prelevato gli assistenti sociali perché vivevamo in mezzo alle macchine. Mia madre ha cinque figli da cinque uomini diversi, solo il minore è rimasto con lei, gli altri sono tutti stati adottati. Vive a Torino. Ora mia madre ce l’ha a morte con gli assistenti sociali, ancora crede che avrebbe potuto tirarmi su da sola. Però lei è una persona buona, cresciuta in un contesto disagiato, e questo aspetto mi ha fatto avvicinare». Vi sentite? «Abbiamo instaurato un rapporto, se la vedo ci abbracciamo, mi sono affezionato. Mi scrive per chiedermi soldi per pagarsi le visite o la ricarica telefonica. Io se posso l’aiuto, altrimenti no. Le ho fatto capire sin da subito che non sono qui per darle supporto economico». Michael spesso va a Torino a trovarla, lui è un regista e sta facendo le riprese per un documentario sulla sua storia.
Cita spesso i suoi genitori «che sono quelli adottivi». «Mi hanno fatto sentire amato, mi hanno lasciato spazio per indagare sul mio passato. Da loro ho preso l’umiltà e l’educazione. Ma ho preso tanto senza volere anche da mia madre biologica: il bisogno di spostarmi, la creatività, l’adattamento in situazioni difficili». Anche sua sorella aspetta di conoscere i nomi dei genitori biologici. Ricorda: «Sono quasi tre anni che è in attesa del fascicolo dal tribunale per i minorenni di Bologna. C’è molto menefreghismo. Si parla tanto dell’accompagnamento alle famiglie, ma dovrebbe esserci anche un percorso per i giovani-adulti alla ricerca delle proprie origini».
Quest’altra storia invece comincia a Bergamo, anno 2021. Sara (nome di fantasia) cerca le sue origini vari anni dopo la morte dei genitori. È per loro che ci chiede di proteggere la sua identità con l’anonimato, «una questione di rispetto». In tutta l’intervista ripete molte volte di essere fortunata. «Ho avuto una storia adottiva felicissima». Lei, il vuoto descritto da Michael, non lo ha mai sentito. «Non mi sono mai sentita abbandonata, i miei genitori mi hanno adottata neonata e mi hanno detto quel poco che sapevano sulla famiglia d’origine». Il suo è stato un parto in anonimato, sua madre biologica non l’ha riconosciuta quando è nata. Varrebbe il comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 che impedisce a figli e figlie di conoscere il nome della madre biologica che ha deciso di «non voler essere nominata», a meno che la madre non sia deceduta.
Ma quanti sono i bambini abbandonati alla nascita? In Italia se ne contano quasi 300 ogni anno, secondo un vecchio studio della Società italiana di Neonatologia. Contattata da 7, la Sin evidenzia che adesso «non ci sono dati abbastanza aggiornati» e quei numeri non comprendono i neonati lasciati fuori dalle strutture ospedaliere.
Il caso di Sara pone sotto un cono di luce una questione molto discussa: il diritto della madre di non voler essere nominata prevale sul diritto del figlio di conoscere le proprie origini? Nel 2012, la storia di Anita Godelli, che a 69 anni si oppone al divieto della legge 184 di conoscere l’identità della madre, segna un prima e un dopo nella giurisprudenza. In quell’anno, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione, definendo la normativa italiana più a favore della tutela dell’anonimato della madre biologica. L’anno dopo, un’altra sentenza della Corte costituzionale dichiara in parte illegittima la legge perché non consente al figlio di fare interpello.
Nel 2024 l’associazione ItaliaAdozioni (italiaadozioni.it) depone una proposta di legge in Senato per modificare la normativa sulle adozioni. Tra i vari punti c’è anche quello di uniformare gli iter in tutti e 29 tribunali per i minorenni e consentire l’interpello della madre biologica nei casi non riconosciuti alla nascita. «Adesso chi è nato con parto in anonimato e vuole andare alla ricerca della propria storia può recarsi in tribunale e chiedere di interpellare la madre biologica per sapere se è ancora intenzionata a mantenere l’anonimato. Questa però non è una legge, è una soluzione che hanno trovato i tribunali e si applica in modo diverso da Regione a Regione», spiega Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni. Poi sottolinea: «Adesso in tanti portano avanti ricerche sulle proprie origini in totale autonomia. Vanno sui social e cercano nomi e cognomi dei familiari. Questa pratica è pericolosa, potrebbe diventare un gesto violento nei confronti di chi non vuole essere rintracciato. Online si possono comprare anche i test genetici che fanno scoprire le provenienze. Che cosa si aspetta a cambiare la legge italiana? Ormai è anacronistica».
A 51 anni Sara vuole chiudere il cerchio. Quando avvia la ricerca assicura di non avere nessuna urgenza. Da Bergamo parte per Milano, città dove è nata. «Vado all’archivio storico e chiedo di accedere ai miei dati personali per ragioni sanitarie. Non mi interessavano i dati sensibili di mia madre o di un eventuale padre. L’archivista mi dà il fascicolo sanitario e mi propone di fare la domanda al tribunale per i minorenni. Mi dice: “La vedo così risolta che dovrebbe provarci”». Sara usa più volte le parole «risolta» ed «equilibrata» quando si descrive. «Risolta» ed «equilibrata» glielo dice anche la giudice onoraria con cui fa il colloquio conoscitivo al tribunale per i minorenni di Brescia (il tribunale di riferimento per chi vive nella provincia di Bergamo).
«A quella giudice racconto della mia vita felice di figlia adottiva, le dico che essere adottata non era né un assillo, né un problema. E le preciso anche che vorrei sapere le circostanze per le quali mia madre biologica avesse deciso di lasciarmi», racconta. Sara aspetta due anni prima di avere delle risposte, la sua pratica rimane a lungo nei cassetti del tribunale. Lei chiede aiuto a un avvocato. «Loro ti dicono che non serve un legale, invece io lo consiglio: al tribunale si erano dimenticati del mio caso perché la giudice era stata trasferita. Poi si sono scusati». Nel 2023 ottiene il fascicolo e scopre che sua madre biologica è lombarda ed è morta molti anni prima che lei iniziasse la ricerca. Scopre che lei, Sara, è nata in casa e quando sua mamma è rimasta incinta lavorava fuori dal paese e non era coniugata.
Sara abbassa gli occhi per leggere qualche appunto che tiene sotto il mento. Dal fascicolo scopre di avere un fratello più grande, anche lui deceduto molti anni prima. Le chiediamo quali emozioni le abbia suscitato. Risponde prima «dispiacere», poi «gratitudine»: «Dopo un po’ di tempo sono andata al cimitero del paese di mia madre e le ho portato un fiore sulla tomba, almeno ho visto una sua foto. Un gesto così vuol dire doppia gratitudine, significa grazie per avermi dato la vita potendo decidere diversamente e grazie per avermi permesso di avere i miei genitori».

30.3.20

beato chi riesce ad essere produttivo e creativo nella quarantena . io a malapena riesco ad mettere ordine in me e fra le mie cose . il caso di Murder Most Foul di bob dylan

“Era un giorno buio a Dallas, nel novembre 1963. Un giorno segnato dall’infamia. Il presidente Kennedy era su di giri, era una buona giornata per vivere e una buona giornata per morire”. Comincia così, con un attacco da manuale, il nuovo brano di Bob Dylan, pubblicato a sorpresa nella notte tra il 26 e il 27 marzo. 
S’intitola Murder most foul (L’omicidio più disgustoso, sembra una citazione dell’Amleto di Shakespeare) e dura quasi diciassette minuti. È il pezzo più lungo che abbia mai pubblicato ed è il primo inedito che fa ascoltare al pubblico negli ultimi otto anni.Murder most foul parla dell’assassinio del presidente statunitense John F. Kennedy, avvenuto a Dallas nel 1963. Parte da lì, ma poi si trasforma in una carrellata di istantanee in bianco e nero degli anni anni sessanta, il periodo nel quale Bob Dylan diventò una star internazionale della musica, in cui passò dall’essere il cantautore simbolo dei diritti civili all’inventore del moderno folk-rock.Il fatto che Dylan abbia deciso di pubblicare Murder most foul in questi giorni, nel pieno della pandemia globale di Covid-19, potrebbe non essere una coincidenza. Il messaggio del cantautore di Duluth sembra essere: era dai tempi dell’omicidio Kennedy che non mi capitava di vivere un evento così scioccante. Qualcuno potrebbe interpretarlo come un commiato dal suo pubblico perché sta male (non fare scherzi Bob), ma la cosa non risulta a nessuno al momento quindi è da escludere. Consiglio comunque di ascoltare il brano con il testo a fronte, altrimenti ci si perde e non lo si apprezza completamente. [....]  Ed  aggiungo  a quanto  detto  da  questo  toccante articolo  de  https://www.internazionale.it/  da    fare     per  chi      non conosce  o  conosce  a stento  ( come  me   )  la  profonda  ed  variegata  cultura  Usa  di   cui   non  tutto      , specie  quella  non commerciale  e  " specialistica "  ,      giunge  a noi   in occidente ,      con le note    soprattutto    quella  della traduzione    di    https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=60926&lang=it

Ecco che   

10.11.13

mio reportage dai concerti dei concerti ( 2 data di bvob dylan ) e dei Pixies , delle mostre di Pollock e gli irascibili ,ed Warhol a Milano . \ MioSoggiorno a Milano dal 3-5 novembre 2013






Musica in sottofondo
per  il :
  •   3  novembre The Bootleg Series Vol. 7: No Direction Home: The Soundtrack  del film omonimo di Martin scorzese  su Bob dylan 
  • 4 novembre Where is my Mind - Pixies 
  •  5  novembre   Sunday Morning VELVET UNDERGROUND

Causa  "arretrato" ed  a  grande  richiesta  di amici\  che   di Facebook  e non sono   su maggiori dettagli  dei  miei tre  giorni( il  3-4-5 )  a Milano  pubblico  qui  la mia cronaca   dei  concerti : 1) la 2 data di bob Dylan all'Arcimboldi   ., 2)  l'unica  data italiana  dei Pixies  all'alcatraz  ., 3)  le mostre   di pollok e  gli irascibili   ed warhol  a palazzo reale .
Nonostante la  levataccia  la  domenica   l'Olbia-Milano (Linate  )  c'è solo alle  7 del mattino
il mal di testa     alla cervicale  , che  non mi permesso di godermi in pieno il concerto di  bob dylan
il non aver portato nè macchina fotografica ( per paura  di perderla  e perchè    non riesco a fare  foto  \  video   ,  dove  è proibito senza  farmi sgamare  ) né  video  camera    che avrei potuto usare  al concerto dei  pixies   visto   gli scarsi controlli all'ingresso e dentro il locale  .
Mi  sono divertito  un casino  ed  ho assistito  a  dei  bellissimi eventi  : 1    i due  concerti   ., 2)  le belle  , anche  se  mi  è piaciuta  di più  quella  di Waarhol che quella  di Pollok  e  gli irascibili , mostre  del palazzo reale  .


Ma  andiamo con ordine

 3  novembre
La  seconda  data   Milanese  di  Bob Dyaln si  è  tenuta  nel bellissimo  ed  armai storico  teatro Arcimboldi    Un teatro  molto bello  architettonicamente con un    ottima l'acustica  anche in alto

foto mie   del palco  prima del concerto  la  1  salendo  .,  a  2  da seduti  ., la  3  nell'intervallo  se  non ricordo male 



A causa  di una sottovalutazione  poi smentita dall'ottimo concerto  e  dal  tutto esaurito    sia  alla serata precedente  sia   a questa  , che  i biglietti si sarebbero trovati  anche il giorno prima    e  che  ci sarebbero andati solo i fans  più incalliti   e che  Bob dyaln  avrebbe  fatto un mediocre  concerto visto ormai l'età avanzata  , abbiamo preso i biglietti all'ultimo  e  quindi   di conseguenza  abbiamo trovato posto  sopra  alla 37  fila  . Un buon concerto  , un dylan  pimpante  nonostante l'età  e  la  tournèè  che porta  avanti dal 1989  , ottimo affiatamento con la band  ,  stravolgimenti   funzionali  . confermo in pieno  , sia   quando  hanno  detto  mio cugino ( deluso dalla  sua esibizione precedente  di  4\5  anni fa al  forum d'ìasago  )  e  i suoi amici  con cui  sono andato al concerto , sia  le  recensioni    di  : 1) corriere della sera  ., 2)  onstaweb.com  ., 3 )  . dopo un ora  e mezzo di concerto  il pubblico  ha  chiesto  il bis  in maniera  cosi  fragorosa   che  sembra  che    momenti crollasse   il teatro dell'Arcimboldi  


4 novembre  


 Poiché il mal  di testa  continuava  ho chiesto a mi cugino    un aspirina  ( dimenticandomi che  sono  fabico e  che  tale  farmaco mi  fatale  ) poi mio  cugino  mi ha  guardato  con aria interrogativa  : <<  ma  se  sei fabico  >>    allora  ci siamo fatti  dele risate  e mi ha dato  due tachipirina  in pastiglie  . Siam arrivati   nella  via  dell'Alcatraz  alle  20.15   l'ingresso sul biglietto era per  le  20.30 , e  c'era  già  un caos  di gente  , poi  quasi alla fine del marciapiede   40\50 metri prima dell'ingresso  abbiamo  trovato la  fine della  fila  . ci siamo messi in fila . Dopo quasi un ora   alle  20.55\21   siamo riusciti ad entrare  .  Nonostante   fossimo abbastanza  vicini , ma  è  inevitabile e nei concerti in piedi  ,   c'era  gente  alta   e  cellulari  (  smartphone  e   ipad  a manetta  per  filmare , mettere  online  e   non  )    che avevo difficoltà  a  vedere  il gruppo  come dimostrano le  foto  fatte  con il mio  android  , a vedere  bene  (  ma  meglio di Dylan  )  il gruppo in questione  . Ma pazienza  sono gli effetti collaterali dei concerti di massa  . L'alcatraz  stra pieno  ,  infatti era la loro unica  data italiana  . Concerto  da  




( ANSA) - MILANO, 5 NOV - Il segno che i Pixies hanno lasciato tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, quando con cinque album in cinque anni hanno influenzato tutta la scena dell'alternative rock, è di quelli che non si cancellano. E infatti, nonostante non abbiamo prodotto un disco dal 1991, i loro concerti fanno sempre il pieno. Non ha fatto eccezione l'unica data italiana del loro nuovo tour mondiale, all'Alcatraz di Milano, dove ieri sera la band di Boston ha registrato il tutto esaurito.



Un concerto   trascinante ,  gente  cje pogava  di brutto  a non solo adolescenti  e ventenni  , un tuffo  nella mia  adolescenza  . Ringrazio mio cugino per  avermi fatto riscoprire (  anzi  scoprire    in quanto li ricordavo  vagamente  ,  lo  scoperto durante il concerto  che  erano gli autori di questa  soundtrack    colonna  sonora   del  film  fight  club 



 un gruppo  di tale periodo . Un gruppo importante  , i Pixes  , dal punto di vista storico . Infatti  , i Pixies sono unanimemente riconosciuti tra i precursori di un particolare stile musicale che combina elementi di garage rock, noise, surf e power pop.Inoltre   artisti e band quali David Bowie, Radiohead e U2 espressero infatti il loro apprezzamento per il lavoro del gruppo e lo stesso Kurt Cobain ammise l'influenza del quartetto di Boston sulla musica del suo gruppo, i Nirvana.  la band è stata accolta con straordinario affetto, con la devozione dovuta ai maestri, perché in fin dei conti di questo si tratta.










 Confermo in pieno   quanto   <>   dice     repubblica  del 5\11\2013     Hanno mantenuto quanto promesso  ciooè  quella  di  : <<  offrire al pubblico una scaletta estesa e completa capace di ripercorrere la carriera della band. 
 
“Insieme ai pezzi adorati dai fans, presenteremo anche brani che non suoniamo da secoli o che non abbiamo addirittura mai suonato dal vivo” afferma Black Francis. “Canzoni come  ’Brick is Red,’ ‘Havalina,’ ‘Tony’s Theme.’ e ‘Sad Punk.’ “ >>  (  sempre  da    repubblica  Milano  del  4\11\2013  )  


il 5   novembre  

Mi sarebbe piaciuto  vedermi lvisitare  il duomo  o la scala  e  vedere  con più calma  le  due  mostre    con più calma ,  ma   sto diventando vecchio (  fra  3 mesi sono  38 )  non ce  la faccio più a tornare  alle  3  e poi rialzarmi   se prima    non ho dormito  9  ore   .  Dato che  dopo il concerto siamo andati a mangiare  al ristorante messicano  li vicino  . 
Quando mi è  stato proposto: <<  cosa  vuoi vedere pollok  o  Warhol  ? >>   io ho risposto entrambi  . Ci siamo informati e per  19 € (  11  la  prima  e  8 la  seconda  )  le  ho viste  entrambe  visto  che entrambe  m'interessavano  perchè di W  conoscevo solo i ritratti pop (  la copertina del  1  disco del  velvet  and  underground    e i ritratti di mao e  marilyn monroe ) 




  di pollock  il classico  


(Jackson Pollock, Number 27, 1950, 1950. Oil, enamel, and aluminum paint on canvas, 49 × 106 in. (124.5 × 269.2 cm).




mentre del movimento  gli irascibli poco  e niente   se  non per  via letteraria  cioè  la  1  storia  di  topolino  2969




La prima mostra una mezza delusione infatti ha ragione : << La mostra di Pollock al Palazzo Reale di Milano ben sotto le aspettative. Miglior titolo sarebbe: “gli Irascibili, due Rothko e un Pollock” (!)
Ma andiamo con ordine nello spiegare il perche’ di questa mia delusione, non solitaria e già condivisa con diversi avventori della “mostra”.Iniziamo col dire che se avete un’ora di tempo libero e 11 euro da spendere, comunque, vi consiglio di andare, perche’ un Pollock (ripeto e sottolineo, 1 Pollock, il “numero 27“), idue Rothko, la splendida “porta sul fiume” di De Kooning e “territorio blu” dellaFrankenthaler saranno capaci di ripagarvi ampiamente del tempo e denaro investito. Questa e’ la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che sono grandi opere, nonostante il misero allestimento riescono comunque ad emozionare. Ma, ahime’, le note positive finiscono qui.[.....] - Pollock, dove’? A parte alcune (penso 5), sicuramente fondamentali, “piccole” opere di Pollock, l’unico quadro esposto e’ il “numero 27″. E’ nella prima parte della mostra. Questa evidente “pochezza” (scarsità) di opere dell’artista cui la mostra viene intitolata – sicuramente la fonte di maggiore attrazione – viene “tamponata” con la proiezione di un paio di rari video dell’artista all’opera. Potete trovarli qui (visibili senza pagare 11 euro!): “Jackson Pollock working on a glass surface” – filmed by Hans Namuth in late 1950. Music by Martin Feldman, performed by Daniel Stern; “Jackson Pollock dripping and action painting“. E’ interessante il filmato – che sono riuscito a vedere solo alla mostra – della ricostruzione graduale (per passaggio di colore) della tela “numero 27″.(...) - L’illuminazione delle opere e’ un’altra cosa molto difficile per chi espone in musei e gallerie (soprattutto quando i locali non sono nati per essere spazi espositivi, ma ormai nel 2013 ci sono soluzioni e competenze utili a superare ogni “sfida”). Il problema di riflessi dovuti ai vetri oppure ai pigmenti spesso creano rompicapo a coloro che si occupano di predisporre la migliore illuminazione.Proprio sul “numero 27″ (e poi su molte altre opere) la luce dei faretti va a creare delle vistose alonature blu/azzurre sui bordi della tela, tanto che in un primo momento mi sono avvicinato per verificare se fosse un effetto voluto da Pollock (ovvero pittura) o cosa. Ho fatto presente la cosa agli addetti “forse qualche dado si e’ allentato“. Spero che la cosa sia risolta per i prossimi avventori (!). Ovviamente non era solo Pollock vittima di questi dadi allentati, nelle restanti 50 tele esposte altre 10, almeno, presentavano vistosi problemi di illuminazione.- Lo spazio a disposizione delle opere e quindi anche dei visitatori per osservarle dalla giusta distanza e’ angusto. Parliamo di opere dalle dimensioniragguardevoli, che vanno osservate da vicino (per gustare le pennellate, piuttosto che gli effetti delle varie tecniche pittoriche sulla tela, ecc) ma, anche e sicuramente, da unadistanza adeguata. Assurdo, ad esempio, che per guardare un’opera di Gottlieb (The Crest) una tela di quasi 3 metri per 2, debba allontanarmi e andare a pormi in fronte ad altre opere perpendicolari alla stessa. Per fortuna l’orario in cui ho visitato la mostra – dopo pranzo di un venerdi’ pomeriggio – era stranamente poco frequentato(non più di 5 visitatori per ambiente espositivo), quindi non si sono generate ingorghi e situazioni assurde, ma poco e’ mancato e in certi casi qualche commento per lo spazion “angusto” e’ stato condiviso con i “compagni” di visita.Nell’ultima sala, infine, francamente non capisco, ma sarà una mia mancanza, il perche’ della costruzione di un muro che cela in una sorta di nicchia le due opere di Rothko. E’ noto, mi e’ noto, che il maestro suggerisse una visione delle sue opere anche a soli 45 centimetri, per favorire una totale e completa immersione nel colore (cit. pag 46 “Rothko” di Jacob Baal-Teshuva, Taschen); ritengo, forse erroneamente, che le sue opere siano comunque interessanti anche da lontano, molto lontano; una distanza sicuramente superiore a quella definita dall’allestimento che obbliga – non capisco il perche’ – ad un massimo di 3 o 4 metri (non avevo la bindella!). [....] continua qui >>l'autore di http://ilradar.wordpress.com


http://www.mostrapollock.it/


La seconda . Certo monotematica  , cioè dedicata  ad  un artista  solo , ma   bellissima   con  un esposizione   azzeccata  . Peccato che   ero solo di passaggio   ed  non abbia potuto  godere   al meglio  le  occassioni e  gli extra di tale mostra  . Infatti   : <<  In orari diversi da quelli della normale apertura al pubblico, la mostra apre le porte ad un evento speciale per le esigenze istituzionali e di pubbliche relazioni delle aziende. L’evento potrà essere articolabile nella sola visita riservata alla mostra, con servizio di guida-accompagnatore, oppure nella visita riservata abbinata ad un momento conviviale esclusivo.>> ( per  ulteriori dettagli http://www.warholmilano.it/visite-guidate-didattica/  ) . Ma ho avuto la fortuna di aver visto  Andy Warhol per  a prima  volta  in mosra  e per  giunta  la  raccolta  della   Brant Foundation è un occasione rarissima per il pubblico di poter vedere uno dei gruppi di opere più importanti dell’artista Americano padre della Pop Art, raccolto non da un semplice collezionista, ma da un personaggio, Peter Brant, intimo amico di Warhol con il quale ha condiviso gli anni artisticamente e culturalmente più vivaci della New York degli anno ’60 e ’70. Ancora ventenne nel 1967 Peter Brant acquistò la sua prima opera di Warhol, un disegno della famosa Campbell’s Soup, iniziando quella che sarebbe diventata una delle più importanti collezioni di arte contemporanea del mondo.


http://www.warholmilano.it




Le  due mostre possono   sintetizzarsi  con questa   frase  di  Warhol appesa   durante  il percorso dela  mostra  prima  delle opere  , subito dopo i pannelli      storici  didascalici  del periodo in cui  W    a fece  le  sue opere  .





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