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22.4.25

diario di bordo n 117 anno III ormai anche i cantautori si vendono alla pubblicità .,Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me» ., Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»

  Concordo    con   l'intervento  pubblicato il   19\4\2025   dal il  Fatto    quotidiano  ma

Sempre più frequentemente il cantautore, un tempo rigidamente schierato contro la commercializzazione della sua musica, rompe il confine fra tradizione e tradimento e vende i suoi diritti alla pubblicità riducendo brani storici a jingle per aziende.
Niente di nuovo, lo fece anche Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, prestandola a Fiat e Alitalia.
Ma quella di De Gregori, Vecchioni, Ligabue, e indirettamente Gaber, è una rivoluzione copernicana non tanto per questioni di opportunità di monetizzazione ma perché toglie alla più nobile canzone d’autore il ruolo di sentinella e testimone del nostro tempo, così come proprio loro l’avevano sempre voluta intendere e trasmettere.
È precipitato improvvisamente il senso critico, quel fare
le pulci alla Storia che connotava nel profondo il loro verbo e la loro azione. L’indignazione e la protesta hanno lasciato il posto a teneri e rassicuranti sguardi sul mondo.
Forse i nostri cantautori si sono distratti, ma i percorsi storici delle aziende con le quali flirtano sembrano per loro improvvisamente essere solo costellati di operai di buona volontà che illuminano case al crepuscolo, di automobili romantiche custodi dei primi amori giovanili e di grandi strade sulle quali sfrecciano famiglie felici verso le vacanze.Tali itinerari invece sono stati anche spesso illuminati dai riflettori della cronaca e della magistratura. L’associazione così leggera di frasi come“la storia siamo noi”, “sogna ragazzo sogna” o “la libertà è partecipazione” a percorsi tanto controversi, sorprende non poco.Gli eredi di quelli che a buona ragione Umberto Eco definiva “cantacronache”, sembrano aver perso la loro stella polare e quel rigore nel procedere in “direzione ostinata e contraria” indifferente all’hit parade.Vasco Rossi tempo fa fece “mea culpa” dopo aver concesso due brani alla pubblicità, ricordando che la canzone non è solo di chi l’ha scritta ma anche di tutti coloro che l’hanno amata e magari impugnata in stagioni complicate per il nostro Paese.Forse questo messaggio nessun grande cantautore che abbia avuto il merito di non allinearsi dovrebbe mai dimenticarlo.

aggiungo     che    bisogna     distinguere     fra     chi    fa  il canta autore   o  cantante   per  mestiere  cioè vive solo  di  quello  e  è  quindi  è costretto a  prestare  il suo  ingegno  per  opere  d'indubbio gusto e   a

 [...] Colleghi cantautori, eletta schiera
che si vende alla sera per un po' di milioni
voi che siete capaci fate bene
a aver le tasche piene e non solo i coglioni
Che cosa posso dirvi? Andate e fate
tanto ci sarà sempre, lo sapete
un musico fallito, un pio, un teorete
un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!
Guccini  -L'avvelenata  


e   fra    quelli   che    lo  fanno  per hobby  e passione    che posso o  essere   coerenti   o totalemente    cioè  a non vendersi   e imanete indietro o di nicchia oppure   ad  aprirsi al   al mondo circostante   cercando    di.  farlo  in maniera  etica    come  i caso  di  Blowin' in the wind' di Bob Dylan diventa uno spot  :  « [... ] della pubblicità del Co-operative Group; è la prima volta che Dylan concede un suo brano al mercato pubblicitario britannico. Il Co-operative Group gestisce vari servizi, tra i quali viaggi e pompe funebri, ma anche una rete di supermarket simile a quella delle Coop italiane; il rappresentante di Dylan ha riferito che la scelta dell'artista è stata influenzata dalla politica del Co- operative Group, che pone l'accento sul mercato equo e solidale e sull'impatto ambientale. »

Quindi attenzione  ⚠️  a giudicare un opera o un cantante

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Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me»


La sua è una resurrezione metaforica dall'inferno della galera, grazie allo studio, che ben si inquadra nel clima dei giorni di Pasqua. Accusato di mafia, anche se lui si è sempre dichiarato innocente, condannato a quasi dieci anni di carcere, è riuscito ad ottenere la laurea magistrale in Scienza della Formazione «frequentando» l'università da dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza. Lunedì scorso, 14 aprile, la discussione della tesi e la proclamazione del titolo di dottore nel campus di Arezzo dell'università di Siena.
Il titolo della ricerca con la quale il protagonista si è presentato davanti alla commissione è già significativo dell'intento con il quale lui ha affrontato gli ultimi due anni dei corsi accademici: «La formazione e il lavoro rendono l'uomo libero». La sintesi di un lavoro che nella sua seconda parte è in gran parte autobiografico, come spiega il professor Gianluca Navone, responsabile del polo universitario penitenziario senese, cui sono iscritti un centinaio di detenuti, che lo ha seguito da vicino nel suo percorso universitario.
Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell'isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l'ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni dei carceri più duri della penisola.
Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all'esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell'università un'alternativa di vita capace di restituirgli la speranza.
Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all'università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche.
Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l'ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l'ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto.Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c'è un'ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. «Ma quello che mi ha emozionato di più – racconta il docente – è stato l'impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell'operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico al verità. Al suo posto non ce l'avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia».
Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c'erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all'università, l'anziano padre, i fratelli e i nipoti. L'altra figlia doveva affrontare l'ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario.
C'è stata anche una festicciola con i parenti, l'hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. «Ce l'ho fatta - tra le sue poche parole – ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale».
Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: «Di recente – spiega – il Dap (il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nei carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all'università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto».




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Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»



Questa storia inizia a Bologna, anno 2018. Michael Petrolini compie 25 anni. È l’età, secondo la legge n.184/83, in cui ogni figlio adottato riconosciuto alla nascita può richiedere informazioni sui genitori biologici. Michael, quei nomi, li vuole sapere. Ma ci tiene soprattutto a
sapere che cosa abbia spinto sua madre a lasciarlo. Fa richiesta al tribunale per i minorenni di Bologna. Sul sito sono riportati i costi: 27 euro per la marca da bollo più 98 euro contributo unificato per la pratica. Lui paga, compila i moduli e aspetta: giorni, mesi. «Le tempistiche sono bibliche. Dopo quasi un anno, il tribunale finalmente mi contatta per dirmi che ho la possibilità di accedere al fascicolo. Vado e sembra di essere in edicola, ricevo un papiro di fogli con le informazioni sul mio passato e stop… Aiuti psicologici? Zero. Assistenti sociali? Zero. Dovevo cavarmela da solo, ero io e il mio passato».


In quei fogli, Michael rintraccia parte della sua infanzia. Scopre il nome di sua madre e quello di suo padre. Scopre che sua madre è napoletana, suo padre tunisino e non lo ha riconosciuto. Scopre di avere due fratelli e due sorelle. Racconta: «In quel momento ho completato un piccolo pezzo di puzzle, era pura curiosità sapere le mie origini, però si era aperto un altro capitolo. Mi chiedevo: e adesso, che cosa devo fare?». Fino a quel momento Michael-adulto conosce poco di Michael-bambino piccolo: sa che è nato a Torino, che ha vissuto con la madre biologica due anni e poi in una casa di accoglienza. Si interroga sulle sue origini già a scuola quando i compagni gli domandano: «Sei nordafricano? Sei brasiliano?». Lui è consapevole di avere dei lineamenti diversi, ma non risponde altro che «sono di Parma», città dove abita allora con i genitori e una sorella. Spiega agli amici che è stato adottato e ne va fiero.
Iniziare un viaggio dentro (e fuori) sé stesso significa sentire meno quel vuoto, che lui definisce durante l’intervista «buco da colmare». Come lui, sono in tanti e tante a chiedersi il perché dell’adozione. Un’indagine dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e Regione Toscana inquadra il fenomeno prima del Covid. I dati risalgono al 2019. Non ci sono studi recenti a livello nazionale, assicurano a 7. Delle 226 persone che si sono rivolte allo sportello Ser.I.O. – il Servizio per le informazioni sulle origini – 140 sono uomini e donne adottate.
Il motivo prevalente: ricerca dell’identità familiare e la comprensione delle ragioni dell’abbandono (153 persone su 226 contatti). Altre ragioni: sapere l’identità della madre biologica (53 persone), conoscenza di eventuali fratelli e sorelle (12 persone), ricerca del luogo/regione di provenienza della famiglia (6 persone). Altre ancora: indicazioni sul padre «che non si è fatto carico del suo ruolo» (2 persone). Oltre a conoscere la famiglia naturale, in molti chiedono l’anamnesi familiare. Domandiamo a Michael perché è stato così importante per lui ricercare le origini. «Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è per costruire la sua identità, non mi sentirei mai completo se non sapessi che cosa è successo nel mio passato, è un buco da colmare che rimarrebbe vuoto, mentre obiettivamente la madre biologica lo sa, conosce le motivazioni per cui ti ha lasciato». Adesso sente di aver chiuso il cerchio? «Non del tutto, ma so che cosa è successo nei primi tre anni della mia vita, non è banale».
Per scoprirlo, appena riceve il fascicolo, Michael va a uno degli indirizzi segnati. Parte da Bologna e arriva a Reggio Emilia. Si ricorda che lì si trova anche la sua casa di accoglienza. La via riportata nel documento però non esiste più. Lui entra in un bar del quartiere e chiede se qualcuno conosce sua madre. Un tizio si ricorda di lei e della sorella. Dice a Michael di aspettare un altro cliente del bar. Questo signore arriva, lo riconosce, gli dice che lo guardava sempre da bambino, che conosce sua zia e sua madre. «Quel signore mi dà il contatto di mia zia, io la chiamo e in 20 minuti lei si precipita al bar». Sua madre è l’ultima persona che Michael incontra. Lei si presenta con il figlio più piccolo. «Non avevo ricordi insieme a lei, non me la ricordavo. Mi ha fatto piacere sapere come fosse fatta fisicamente. I miei parenti biologici per me erano stranieri, degli estranei, mi sono difeso molto a livello emotivo», ammette.
Michael abbassa appena la voce, fa un accenno su suo padre - «uno spacciatore di Reggio Emilia, che entra ed esce di galera» - e si sofferma invece a lungo su sua madre: «Le somiglio molto. Ho gli occhi, il naso e la bocca uguali ai suoi. Lei è una senzatetto, vive in una roulotte abbandonata, è cresciuta a Scampia e ha fatto parte della camorra. Mi hanno prelevato gli assistenti sociali perché vivevamo in mezzo alle macchine. Mia madre ha cinque figli da cinque uomini diversi, solo il minore è rimasto con lei, gli altri sono tutti stati adottati. Vive a Torino. Ora mia madre ce l’ha a morte con gli assistenti sociali, ancora crede che avrebbe potuto tirarmi su da sola. Però lei è una persona buona, cresciuta in un contesto disagiato, e questo aspetto mi ha fatto avvicinare». Vi sentite? «Abbiamo instaurato un rapporto, se la vedo ci abbracciamo, mi sono affezionato. Mi scrive per chiedermi soldi per pagarsi le visite o la ricarica telefonica. Io se posso l’aiuto, altrimenti no. Le ho fatto capire sin da subito che non sono qui per darle supporto economico». Michael spesso va a Torino a trovarla, lui è un regista e sta facendo le riprese per un documentario sulla sua storia.
Cita spesso i suoi genitori «che sono quelli adottivi». «Mi hanno fatto sentire amato, mi hanno lasciato spazio per indagare sul mio passato. Da loro ho preso l’umiltà e l’educazione. Ma ho preso tanto senza volere anche da mia madre biologica: il bisogno di spostarmi, la creatività, l’adattamento in situazioni difficili». Anche sua sorella aspetta di conoscere i nomi dei genitori biologici. Ricorda: «Sono quasi tre anni che è in attesa del fascicolo dal tribunale per i minorenni di Bologna. C’è molto menefreghismo. Si parla tanto dell’accompagnamento alle famiglie, ma dovrebbe esserci anche un percorso per i giovani-adulti alla ricerca delle proprie origini».
Quest’altra storia invece comincia a Bergamo, anno 2021. Sara (nome di fantasia) cerca le sue origini vari anni dopo la morte dei genitori. È per loro che ci chiede di proteggere la sua identità con l’anonimato, «una questione di rispetto». In tutta l’intervista ripete molte volte di essere fortunata. «Ho avuto una storia adottiva felicissima». Lei, il vuoto descritto da Michael, non lo ha mai sentito. «Non mi sono mai sentita abbandonata, i miei genitori mi hanno adottata neonata e mi hanno detto quel poco che sapevano sulla famiglia d’origine». Il suo è stato un parto in anonimato, sua madre biologica non l’ha riconosciuta quando è nata. Varrebbe il comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 che impedisce a figli e figlie di conoscere il nome della madre biologica che ha deciso di «non voler essere nominata», a meno che la madre non sia deceduta.
Ma quanti sono i bambini abbandonati alla nascita? In Italia se ne contano quasi 300 ogni anno, secondo un vecchio studio della Società italiana di Neonatologia. Contattata da 7, la Sin evidenzia che adesso «non ci sono dati abbastanza aggiornati» e quei numeri non comprendono i neonati lasciati fuori dalle strutture ospedaliere.
Il caso di Sara pone sotto un cono di luce una questione molto discussa: il diritto della madre di non voler essere nominata prevale sul diritto del figlio di conoscere le proprie origini? Nel 2012, la storia di Anita Godelli, che a 69 anni si oppone al divieto della legge 184 di conoscere l’identità della madre, segna un prima e un dopo nella giurisprudenza. In quell’anno, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione, definendo la normativa italiana più a favore della tutela dell’anonimato della madre biologica. L’anno dopo, un’altra sentenza della Corte costituzionale dichiara in parte illegittima la legge perché non consente al figlio di fare interpello.
Nel 2024 l’associazione ItaliaAdozioni (italiaadozioni.it) depone una proposta di legge in Senato per modificare la normativa sulle adozioni. Tra i vari punti c’è anche quello di uniformare gli iter in tutti e 29 tribunali per i minorenni e consentire l’interpello della madre biologica nei casi non riconosciuti alla nascita. «Adesso chi è nato con parto in anonimato e vuole andare alla ricerca della propria storia può recarsi in tribunale e chiedere di interpellare la madre biologica per sapere se è ancora intenzionata a mantenere l’anonimato. Questa però non è una legge, è una soluzione che hanno trovato i tribunali e si applica in modo diverso da Regione a Regione», spiega Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni. Poi sottolinea: «Adesso in tanti portano avanti ricerche sulle proprie origini in totale autonomia. Vanno sui social e cercano nomi e cognomi dei familiari. Questa pratica è pericolosa, potrebbe diventare un gesto violento nei confronti di chi non vuole essere rintracciato. Online si possono comprare anche i test genetici che fanno scoprire le provenienze. Che cosa si aspetta a cambiare la legge italiana? Ormai è anacronistica».
A 51 anni Sara vuole chiudere il cerchio. Quando avvia la ricerca assicura di non avere nessuna urgenza. Da Bergamo parte per Milano, città dove è nata. «Vado all’archivio storico e chiedo di accedere ai miei dati personali per ragioni sanitarie. Non mi interessavano i dati sensibili di mia madre o di un eventuale padre. L’archivista mi dà il fascicolo sanitario e mi propone di fare la domanda al tribunale per i minorenni. Mi dice: “La vedo così risolta che dovrebbe provarci”». Sara usa più volte le parole «risolta» ed «equilibrata» quando si descrive. «Risolta» ed «equilibrata» glielo dice anche la giudice onoraria con cui fa il colloquio conoscitivo al tribunale per i minorenni di Brescia (il tribunale di riferimento per chi vive nella provincia di Bergamo).
«A quella giudice racconto della mia vita felice di figlia adottiva, le dico che essere adottata non era né un assillo, né un problema. E le preciso anche che vorrei sapere le circostanze per le quali mia madre biologica avesse deciso di lasciarmi», racconta. Sara aspetta due anni prima di avere delle risposte, la sua pratica rimane a lungo nei cassetti del tribunale. Lei chiede aiuto a un avvocato. «Loro ti dicono che non serve un legale, invece io lo consiglio: al tribunale si erano dimenticati del mio caso perché la giudice era stata trasferita. Poi si sono scusati». Nel 2023 ottiene il fascicolo e scopre che sua madre biologica è lombarda ed è morta molti anni prima che lei iniziasse la ricerca. Scopre che lei, Sara, è nata in casa e quando sua mamma è rimasta incinta lavorava fuori dal paese e non era coniugata.
Sara abbassa gli occhi per leggere qualche appunto che tiene sotto il mento. Dal fascicolo scopre di avere un fratello più grande, anche lui deceduto molti anni prima. Le chiediamo quali emozioni le abbia suscitato. Risponde prima «dispiacere», poi «gratitudine»: «Dopo un po’ di tempo sono andata al cimitero del paese di mia madre e le ho portato un fiore sulla tomba, almeno ho visto una sua foto. Un gesto così vuol dire doppia gratitudine, significa grazie per avermi dato la vita potendo decidere diversamente e grazie per avermi permesso di avere i miei genitori».

25.9.21

come parlare della violenza sulle donne ? il caso Come bisogna parlare di violenza sulle donne? IL «CASO PALOMBELLI» RIPROPONE IL TEMADEL VOCABOLARIO GIUSTO PER AFFRONTARE FEMMINICIDI E NON SOLO

 La televisione  nonostante   sia  sorpassata  dalla  rete    come mezzo   è un posto infido. Ti ascoltano e  leggono   moltissime persone, e spesso ti credono solo per il fatto che parli   seduto dentro casa loro.Per questo, le parole dette in televisione pesano persino più di quelle scritte. La giornalista Barbara Palombelli a Lo Sportello di Forum, introducendo una lite coniugale, ha detto: «A volte è lecito domandarsi se questi uomini erano completamente fuori di testa  se c’è stato un comportamento esasperante, aggressivo, anche dall’altra parte».Il giorno dopo, nella bufera, la stessa giornalista è stata costretta a prendere le distanze da sé stessa: «Non sono quella persona lì», e il giorno dopo ancora ha annunciato querele per diffamazione. Penso che fosse stanca, che fosse distratta, è sempre stata molto vigile sulla violenza contro le donne. Ma quella domanda resta. << E occorre, concordo con Antonella Boralevi scrittrice , io credo,dimostrare perché è sbagliata. Gli uomini che uccidono le donne non sono “fuori di testa”. Sono lucidamente convinti che quella donna lì, la loro,sia un oggettodi loro proprietà. Infatti, questi assassini uccidono quando lei si ribella, quando li lascia. Questo è un fatto. >>E i fatti non si espongono mettendoci dopo un punto interrogativo. La frase di Palombelli, su  cui non mi dilungo ulteriormente  ne  ho  già parlato qui e   qui  nel  blog  , credo, non è una domanda . Ma è una trappola  semantica  . Infatti  contiene ( senza alcuna intenzione  ed  in maniera  involontaria in questo caso   ) uno strumento di giustificazione agli assassini. Fornisce loro un format di comportamento: «L’ho uccisa sì, ma è stata colpa sua». Tanto più adesso, che nella società monta  senza    risulti  concreti   l’insofferenza per un racconto giudicato eccessivo dei femminicidi. Teniamo alta la guardia. Ma sopratutto  agiamo   e  non  limitiamoci solo a parlare  . Perchè di strada ne  bisogna  fare ancora   molto visto che  :



Redazione ANSA TARANTO13 luglio 202015:05
Foto sexy candidata, polemiche  Foto sexy candidata, polemiche E' bufera su scelta comunicazione elettorale candidata in Comune





(ANSA) - TARANTO, 13 LUG - Quel generoso décolleté sul manifesto elettorale e la scritta "contattami, cerco te" fanno ancora discutere. E' bufera sulla scelta di comunicazione elettorale di Caterina Zilio, candidata al consiglio comunale di Laterza (Taranto), nominata il 13 giugno scorso coordinatrice cittadina dei dipartimenti di "Puglia Popolare".
Nel pomeriggio dell'1 luglio scorso, Zilio - che lavora come operatrice socio sanitaria - ha postato su Facebook il manifesto elettorale che la ritrae in décolleté, accostata al logo di Puglia Popolare, con il messaggio "Cerco te! Se hai voglia di cambiare, contattami. Insieme si può" e in minuscolo il suo nome: Caterina. Nel post ha "taggato" Massimiliano Stellato, presidente provinciale del partito guidato dal senatore Massimo Cassano. Il manifesto "sexy" ha scatenato polemiche e reazioni sui social network con battute sessiste da parte degli uomini e aspre critiche soprattutto da parte del mondo femminile. E' una strategia di comunicazione studiata a tavolino? "Personalmente - scrive una donna commentando il post della Zilio - penso che lei abbia fatto un manifesto elettorale sessista, una specie di autogol per se stessa e per tutte le donne che combattono quotidianamente per accedere a qualifiche decisionali per le loro capacità. L'immagine da lei scelta unita peraltro a un linguaggio in linea è sessista, si 'autooggettifica', usa il richiamo sessuale in modo poco equivocabile per invitare a essere votata. Donne evitiamo di farci autogol".

Ogni volta che viene uccisa una donna ( madre , sosa , convivente , ecc ) Insieme allo sconcerto, però, sifa strada l’indignazione per come i media ( a prescindere dalll'orientamento politico culturale ) riportano i fatti, guardandosene bene (salvo rarissime eccezioni!) dall’usare il termine preciso per parlarne e questo termine, piaccia o no, è “femminicidio”. È come se non si riuscisse a far venir fuori dalla gola (o dalla tastiera) questa parola, morsi dal timore inconscio di infrangere qualcosa di malsanamente radicato nella nostra società. Evidentemente, nominando il fatto non come femminicidio bensì come un generico caso di omicidio-suicidio, o un ancor più generico dramma famigliare, ci si mette al riparo dall’ eventualità che il mandante si senta, forse, offeso? Smascherato? E chi è mai questo mandante, se non il patriarcato imperante che governa a piene mani la nostra società che insiste nel considerare le donne come esseri subalterni agli uomini? Ebbene, il termine “femminicidio” lo afferma; tutto il resto sono parole per fare un titolo che una volta ancora neghi l’esistenza di un fenomeno orribile, da curare e da prevenire.
La parola femminicidio non è stata inventata da poche ore. Sulla “Treccani” si legge tra l’ altro che femminicidio “…è un termine forte ma che rende l’idea: è l’olocausto patito dalle donne che subiscono violenza: da Nord a Sud, per aggressioni domestiche o fuori di casa, finendo all’ospedale quando non al cimitero. Per mano di famigliari, compagni, congiunti, per lo più”. Come riporta anche l’Accademia della Crusca, “con femminicidio s’intende non solo l’uccisione di una donna o di una ragazza, ma anche qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.
I giornalisti e le persone in genere fanno una scelta etica, buona o cattiva, quando comunicano e quando
decidono di tacere, censurare, di non servire la verità dei fatti. E comunque, anche quando tacciono, comunicano - se non altro la loro scarsa aderenza alla verità.Oppure sono intrisechi , salvo rarissime eccezioni , di una detterminata cultura ( vedere foto a sinistra ) . Ecco un estratto da ’articolo a firma di Marina Corradi del 22 maggio 2018 dal titolo “L’ultima battaglia di un uomo” perché descrive il duplice femminicidio avvenuto a Francavilla in modo distorto, santificando l'omicida come un eroe e, per questo, fornendo un’informazione gravemente pericolosa per l’idea di totale mancanza di discredito sociale verso un’azione tanto deprecabile, ma anche perché lo stesso è in aperto contrasto col Manifesto di Venezia e col documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) a proposito di violenza sulle donne, elaborato nel solco della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993.
Bisogna  attirare  sempre  , scrivendo lettere   al  giornale  , all'ordine del  giornalisti  , non  comprando  o abbonarsi più a quel giornale  ,  l’attenzione sull’uso di una terminologia vecchia, fuorviante e ingiusta nei confronti delle vittime. È necessario portare un cambiamento nel lessico perché le parole contano, le parole hanno un peso. Basta parlare di “dramma”, “raptus di gelosia”, “omicidio passionale” ed  menate  varie come il titolo riportato sotto   


Per risolvere un problema, per sradicarlo dalla nostra società, bisogna prima nominarlo e riconoscerlo, definirlo. Altrimenti come lo si può combattere e prevenire?
A proposito delle responsabilità dei media, Francesco Pellegrinelli sul Corriere del Ticino del 29 marzo 2021, cita Alessia Di Dio del Collettivo “Io l’8 ogni giorno”, secondo cui “femminicidio” è un termine che costringe a guardare l’accaduto oltre il singolo episodio, inquadrando la violenza di genere come un fenomeno strutturale; in questo caso, sul banco degli imputati ci sarebbe tutta la società con i suoi retaggi culturali e non solamente il carnefice e questo inevitabilmente fa paura.
Potrebbe essere l’inizio della volontà di prevenzione chiedersi infine se il femminicidio sia conseguenza solo del patriarcato, oppure anche di altri fenomeni come un certo maschilismo arrogante, la cattiva educazione, il “machismo”, come una "cultura" nutrita solo di violenza e prevaricazione, come l'immaturità di certi uomini (si può chiamarli così?) che si illudono di imporre la forza e invece smascherano la propria incapacità di controllare i propri sentimenti e le proprie azioni.
Usiamole, le parole che conducono ad un principio di cambiamento. Smettiamola di tentennare per non infastidire, perché la società intera è colpevole di omertà, non facendolo. E in primis i media.
Non solo negli articoli  ma  anche in certe pubblicita da  

https://www.change.org/p/giuseppe-conte-femminicidio-sociale-0a29ae86-96c0-4f94-a53a-b2b32cecb132



Sud Protagonista ha lanciato questa petizione e l'ha diretta a Mario Draghi (Presidente del Consiglio dei Ministri) e a 2 altri/altre


C’è un problema di utilizzo umiliante del genere femminile, che preferirei allargare al genere umano, perché anche gli uomini teoricamente destinatari del messaggio vengono trattati da incivili. Occorre porre dei limiti all’uso del corpo della donna nella comunicazione. A poco poi serve punire i responsabili. Sono proprio questi tipi di pubblicità che contribuiscono a “creare il mostro”. Queste violenze indirette e subdole promuovono una mentalità deviante. La pubblicità, apparsa in questi giorni su un cartellone pubblicitario, che propone di usare la lavatrice a 90 gradi nel giorno di San Valentino con chiari riferimenti sessisti, va vietata cosi come ogni forma di violenza, travestita anche da messaggio pubblicitario.

1.12.18

red land - rosso d'istria censura \ boicottaggio o pessima distribuzione ? vittimismo o incapacità d'agire ?

red land
Inizialmente ero un po' incerto sia se parlarne e farci un post dedicato al film red land - rosso istria , a causa degli articoli vittismisti del tipo al lupo al lupo presenti sui giornali destra e d'estrema destra che invocano la censura ed il boicotaggio , quando a mio avviso è ancora prematura tale cosa , in quanto si tratta di una pessima e disorganica distribuzioone ( vedere url cosa successe a nuovo cinema paradiso ) . Ma poi dopo aver visto tra i risultati di una mia ricerca su google sia questo articolo de ilfattoquotidiano sia questa scheda sul  film  di    wikipedia . Infatti eesa dice che : << Mymovies ha dato al film 3 stelle e mezzo su 5 scrivendo che: "Maximiliano Hernando Bruno è riuscito a trovare in buona misura la chiave giusta per raccontare quei giorni e quelle vicende, cioè per adempiere ad uno dei molteplici compiti del cinema: fare memoria. Diciamo in buona misura perché qualche accentuazione melodrammatica non manca (il capobanda titino è il Male assoluto così come al comunista italiano vengono offerti i tratti del traditore della propria gente, anche per risentimento amoroso, con possibilità di riscatto finale come nell'opera lirica). Nel complesso però la sceneggiatura sa mostrare con equilibrio sia la sensazione di smarrimento conseguente all'8 settembre, sia ciò che anima nell'intimo le varie parti in causa. Il generale Esposito espone tutte le perplessità dell'Esercito dinanzi a una guerra sbagliata voluta dal fascismo così come non viene taciuta l'italianizzazione forzata dell'area condotta negli anni dal regime." >> . Ora concordo con l'articolo  prima linkato  de ilfattoquotidiano perchè  quando  certi dolorosi  eventi storici    che  ancora  dividono e  su  cui le  rispetive parti in causa  non  sono riusciti  o   non vogliono fare  completamente  fare  i conti  con quello    che  hanno fatto      ed    tali  vicende   vengono strumentalizzate è come se le vittime    (   dirette  e  indirette    delle  pulizie  etniche    e delle violenze    sia  di una parte  sia  dell'altra   )   venissero uccise due volte. Lo stesso accade quando vengono ignorate e condannate all’indifferenza  o relegate in libri  di nicchia  per  specialisti e    non scolastici o per  il grande  pubblico  . 
Anpi e Anppia danno voce alle vittime delle Foibe
 Infatti  le celebrazioni ufficiali    del  10 febbraio giornata     del ricordo   dimenticando    quello che   succedesse  prima    e  se   e  parla   o se  ne accena    si viene accusati   d'essere  anti italiani      o revisionisti   .  E quindi  ci   si concentra  solo     sulle orribili    e  crudeli    vicende  che   sul finire della Seconda Guerra Mondiale, furono circa 7.000 gli Italiani vittime delle Foibe: donne, vecchi, bambini, partigiani italiani, intellettuali e contadini, militari e civili. Si stimano in 350.000 gli italiani che dovettero abbandonare le loro case e la loro terra. Iniziata come una rivalsa contro il regime fascista, l’ondata di esecuzioni portata avanti tra il 1943 e il 1947 dai partigiani Titini si trasformò in un’operazione di vera e propria pulizia etnica.Dmenticando     che     essa  ci fu  anche prima   ad  iniziare   dal  primo  dopo guerra  . 
red land
Per oltre settant’anni questa pagina della storia è stata posta sotto silenzio  per  motivi  politici   interni     ed  internazionali    dovuti  alla  guerra fredda   ed   utilizzata in modo fazioso da una singola parte politica. Non puo' più consentire che  simili tragedie   come  quelle   sul  confine    orientale  e  di cui le  foibe    e l'esodo   sono  la parte  culminante  venga usata per scopi certamente non disinteressati, non possiamo più permettere che   tali vicende  siano soffocate dal timore di incrinare facili stereotipi manichei, o  memoria  e     ricorrenze  a  senso unico   negando la possibilità   e l'evidenza   che il Male possa annidarsi ovunque.
Concludo  non riuscendo  a spiegarmi    , come dicevo  dal  titpolo  ,  del  perchè gli autori invece di lamentarsi , non provino come ha fatto il film documentario su riace , a metterlo free per tre quatro giorni in rete o  nelle  web tv  a  pagamento  come  netflix  cosi lo si possa guardare e magari creare opinione pubbllica per fare pressioni sulla ri perchè lo trasmetta o magari ottenga una maggiore e capillare diffusione nelle sale italiane . 


9.7.13

Intervista Donne e spot, cambiamo marcia intervista di Francesca Sironi a una delle pioniere dell'advertising italiano, Anna Maria Testa.




Dopo la denuncia di Boldrini sull'abuso del corpo femminile nella pubblicità parla una delle pioniere dell'advertising italiano, Anna Maria Testa. Che dice: usare lo stereotipo 'velina' fa male all'economia (08 luglio 2013)
Auto, yogurt, telefonini. Vacanze, gelati, spedizioni postali. Non importa il prodotto quanto il mezzo. E nelle pubblicità italiane il mezzo è quasi sempre lo stesso: la donna. Non la donna scienziato, esperto, dottore, astronauta. Ma la donna "Fidati, te la do gratis", "Montami a costo zero", "Metti il tuo pacco in buon mani", oppure zitta, un bell' arredo, un porta-qualcosa utile per una radio come per una marca di vestiti.
E se a maggio il tema dell'abuso dell'immagine femminile in tv era stato sollevato dalla presidente della Camera Laura Boldrini ( «Serve porre dei limiti all'uso del corpo della donna nella comunicazione», aveva detto l'ex portavoce dell'Unhcr: «Basta all'oggettivazione, perché passa il messaggio che con un oggetto puoi farci quello che vuoi»), ora a rispondere è una delle più famose pubblicitarie d'Italia, Anna Maria Testa. «La nostra televisione espone molto le belle ragazze, ma rappresenta poco l'universo delle donne», sostiene la titolare di "Progetti nuovi", che ha dedicato a questo tema il suo intervento alla riunione annuale dell'Upa - utenti pubblicitari associati: «E' l'Osservatorio di Pavia a dirci, per esempio, che tra gli esperti intervistati nei TG italiani l'86 per cento è uomo». Solo il 14 invece appartiene al "sesso debole".
Il punto, sostiene Testa, non è quindi inquadrare meno tanga in primo piano o proibire le scollature in tv, quanto «mostrare più scienziate, più imprenditrici, più professioniste, più manager: è importante che le donne entrino a pieno titolo, e non solo da veline, nella rappresentazione che di se stesso dà il nostro Paese. Abbiamo bisogno di meno stereotipi e più modelli di ruolo». Proprio contro gli stereotipi la pubblicità potrebbe avere un ruolo importante, se invece di continuare a usare tette, sguardi e gambe femminili come una macelleria iniziasse a riflettere la realtà italiana in modo diverso: «Chiariamo una cosa: educare non è compito della pubblicità. Devono farlo le famiglie, la scuola, le istituzioni. Ma la pubblicità può e oggi forse dovrebbe dare una mano, perché è una forma efficace, pervasiva, di comunicazione e perché è espressione delle imprese che sono» o dovrebbero essere «la parte attiva del paese, quella proiettata verso la crescita, il futuro».
Anche se qualcosa sta cambiando, negli spot televisivi gli stereotipi sono ancora lì, ben saldi, «E non parlo delle pubblicità offensive: quelle che possono essere condannate dal Giurì, e che giocano sporco sulla provocazione sessuale per conquistare una notorietà da scandalo. Per fortuna, si tratta quasi sempre di fenomeni marginali. Sto parlando della pubblicità mainsteam delle grandi marche. Quella che davvero orienta l'immaginario collettivo del paese» e che ancora rappresenta la donna come la madre che porta in tavola la cena, che è in ansia per il bucato dei bambini, che in fondo appartiene a un modello non così lontano da quello con cui negli anni '50 sono state vendute milioni di lavatrici: «C'è un intero universo femminile e familiare da raccontare», continua Testa: «Nel 2011, in Italia, su 546mila nuovi nati il 25 per cento era da genitori stranieri, il 7,7 da madri over 40 e il 24 da mamme non sposate. Tra i trentenni, circa una ragazza su 4 e meno di un uomo su 6 sono laureati. E più di metà delle donne fra i 25 e i 50 anni che hanno figli lavora».
Tutte figure che nei nostri spot entrano poco. Ma i messaggi non potranno rimanere solo questi, conclude Anna Maria Testa, soprattutto se le imprese vorranno continuare a vendere: «Secondo l'indagine Cermes Bocconi del 2012 le donne attuano o influenzano oltre il 94% degli acquisti di prodotti per la casa, alimentari, cosmetici e oltre il 64% di quelli di banche, assicurazioni, utenze e automobili». E probabilmente sono più contente a farlo se non si vedono spiattellate sul cofano ma al volante.
spot
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donne
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Anna Maria Testa

3.4.08

Senza titolo 400

  sempre  dall'amico  www.censurato..splinder.com




Stavolta  la  censura  mi sembra immotiviata ed ipocrita  oltre che ingiusta 


Un'inquietante pubblicità progresso tedesca nata per sensibilizzare la società all'aiuto verso i bambini vittime di abusi sessuali, i quali sono destinati a portarsi dentro questo dramma fino alla morte. Non si tratta di uno spot censurato, ma in Italia non si è mai andati così a fondo su questo problema a livello mediatico. Noi del Censurato riteniamo sia giusto pubblicarlo su queste pagine.


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