Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
25.9.23
Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore Condividi di Stefano Zenni fa piazza pulita sugli stereotipi e mitizzazione della musica blues , jazz , soul cioè le origini del rock
26.7.22
intervista alla scrittrice Silvia Ranfagni: “A 13 anni mi disse: sono non binario. Era mia figlia Alba, oggi si chiama Alex”
La sua esperienza non è affatto una tragedia, ma è iniziata come spesso accadono le tragedie, in modo tranquillo e del tutto inaspettato. "Mamma, sono trans. Anzi,
sono non binario" è la frase che è piombata addosso alla scrittrice Silvia Ranfagni un anno fa, mentre scolava gli spaghetti. Di fronte a lei un tredicenne che credeva "figlia" e che lentamente ha imparato a chiamare "figlio", Alex.
Ranfagni, ricorda le parole di suo figlio?
"La metafora che ha usato è stata questa: "Mamma, hai presenti i binari di un treno? Sono due, come maschio e femmina. Io sono come un terzo binario in mezzo che fa come un serpente che si avvicina ora dalla parte della femmina, ora dalla parte del maschio. A volte mi sveglio più maschio, a volte mi sveglio femmina, non lo so nemmeno io da cosa dipende. Mercoledì, per esempio, ero maschio".
Lei come ha reagito?
"Quelle parole hanno avuto per me la violenza del temporale estivo, quello che non ti aspetti. Improvvisamente non ero più sicura di niente, neanche della mia capacità di essere madre. Possibile che non avessi mai capito l'intima natura di Alba, che non l'avessi mai vista, davvero? Chi c'era dietro quella maschera che diceva "ho preso nove in Italiano", "buono il purè". E poi, davvero faceva sul serio? Una settimana prima voleva essere un vampiro".
E allora cosa ha fatto?"Gente più antica di me avrebbe detto: 'Due schiaffoni e via'. Io invece continuavo a domandarmi: quanto un genitore deve contenere e quanto accogliere? Ho trascorso ore su internet e ho divorato libri americani. Poi un'amica mi ha indirizzato al Saifip, il servizio di un ospedale romano dove la dottoressa Maddalena Mosconi e il suo team, da trent'anni, accompagnano bambini e adolescenti con disforia di genere e le loro famiglie".
Quali sono state le cose più difficili da accettare?
"Forse sono state due: la prima albergava proprio dentro di me. Fino a quel momento mi reputavo una donna progressista, di mentalità aperta, avevo scritto un film sui trans, letto molto, incontrato persone. E invece ho scoperto delle resistenze. Quando si tratta di modificare la percezione del proprio figlio c'è sempre in agguato un'ottusa conservatrice".
L'altra difficoltà?
"Quando mio figlio mi ha detto: "Adesso il mio nome è Alex". La scelta del nome è una cosa importante, identitaria. Suo padre e io avevamo impiegato mesi e cura per individuarlo. È stato invano? Credo che la nostra sia la prima generazione in cui, a scegliere i nomi, non sono più i genitori ma i figli stessi. Una rivoluzione copernicana. Cambia l'asse di rotazione".
Lei ci è riuscita?
"A pronunciare il nome di Alex, sì. Anche se non subito. Però ancora oggi non so se chiamarlo figlio o figlia, mi ingarbuglio. Mi hanno consigliato di usare l'asterisco alla fine, oppure la u, oppure di non usare la vocale finale. La storia del non binarismo non è affatto semplice".
E il padre di Alex, in questa storia?
"La sua prima reazione è stata wow: "Sei mia figlia, ti amo e ti amerò sempre. Questa è la tua vita e hai il diritto di viverla come sei". Poi però ha aggiunto che lui di binari non capisce e non ne vuole sapere nulla. In segreto, infine, mi ha confidato: "Se fosse stato suo fratello a sentirsi mezza femmina non ce l'avrei fatta, ma siccome così è più maschio... E vabbuò". Un distillato di patriarcato".
E a scuola?
"Esperienza stupenda. Alle medie Alex aveva un professore che faceva con i ragazzi una cosa speciale, "Il cerchio della fiducia": ognuno a turno parlava di sé, a patto che nulla trapelasse dal cerchio. La sofferenza di Alex è emersa lì per la prima volta. Quel docente era convinto che nella scuola occorra uno spazio di parola che consente una libertà senza conseguenze".
Ora come va?
"Nonostante sia trascorso un anno, io ancora arranco, mi sento smarrita, persa in una selva di nomi, categorie, etichette. Ma l'aver scoperto che Alex maturava pensieri suicidi ha stravolto le urgenze: accogliere è diventato l'unico imperativo. Ammetto però che alcune domande mi tormentano ancora".
Quali?
"In questi mesi mi sono più volte interrogata sulle possibili ragioni di questo suo sentire, essere. Poi un giorno Alex mi ha chiesto: "È un problema come sono, mamma?". La risposta è stata secca: "No, non è un problema". È solo che è tutto nuovo per me".
In che senso?
"I ragazzi oggi si affacciano a un mondo dove il corpo non è un dato fisso, ma è modificabile con la chirurgia, e hanno imparato a concepirsi come "modificabili"; la progressiva conquista di zone di parità tra donne e uomini ha poi reso obsolete categorie millenarie. Alla velocità della luce ogni nostro punto esclamativo si è trasformato in un punto di domanda. Io, invece, ho bisogno di più tempo. Forse non sono l'unica. Perciò, quando Alex esce, io prego. Ci metto tutta la mia speranza laica in questa preghiera: "Che nessuno mai possa farsi scherno di te"".
6.6.22
Andrea Rosas, pastore e cantante: è la nuova star del web
Di Pozzomaggiore, il brano “Anima mia” ha già raggiunto 250mila visualizzazioni. Pecore e cavalli protagonisti di video virali durante la protesta per il prezzo del latte
SASSARI.Il nuovo idolo dei social si chiama Andrea Rosas, è di Pozzomaggiore, ha 35 anni, 200 pecore, sette cavalli, un numero imprecisato di mucche e maiali e tre lavori: impiegato della Asl (igiene e sanità animale, manco a dirlo), pastore-allevatore e cantante. La sua giornata tipo comincia alle 4 del mattino con la mungitura, d’estate la fine coincide con il nuovo inizio,
dal palco di una piazza direttamente alla campagna. Una settimana fa ha pubblicato il video del nuovo pezzo “Anima mia”, in collaborazione con il Tenore Su Remediu di Orosei: una dichiarazione d’amore verso la Sardegna che in brevissimo tempo ha conquistato 200mila visualizzazioni e la patente di nuovo inno alla sardità. Pure lui si stupisce di un successo simile, nonostante da qualche anno ci sia abituato, perché altri suoi post e video sono diventati virali. Il primo nel 2017, quando Andrea Rosas conquistò il popolo del web con il “decalogo della transumanza”, subito dopo con i video di Caterina e Filomena, due delle sue adorate pecore: «La prima purtroppo non c’è più, Filomena invece ha 9 anni, neanche un dente ma produce ancora latte». E poi fu la volta di Imboscata, la cavalla che durante la protesta dei pastori nel 2019 sorseggiò con gusto il latte di pecora. Ma perché si chiama Imboscata? «Perché è nata nel 2003 e per i cavalli di razza anglo arabo sarda era l’anno della I. E mi venne in mente di chiamarla Imboscata: oggi ha 19 anni, non corre più e ha avuto 6 puledri».
Pastore e cantante. La polemica sul prezzo del latte pagato troppo poco ribolliva già quando Andrea Rosas iniziò a raccontare nei suoi video le difficoltà che un pastore deve affrontare ogni giorno, in balìa di una costante incertezza economica, delle bizze del tempo, di ristori non versati, di pagamenti al ribasso e spese che lievitano. Il giovane pastore spiegò quanto è complicato «fare un mestiere così importante» e lo scrisse pure ad alcuni politici, chiedendo un’attenzione diversa per la categoria. E poi lo disse in musica: il brano “Cantende che pastore” (testo e musica di Maria Luisa Congiu) fece il botto: circa 160mila visualizzazioni e più di 4mila condivisioni «per una canzone che rappresenta l’orgoglio di un categoria simbolo della Sardegna da secoli, antica e fiera come i nuraghi. E che ha voglia di riscatto». Poi a febbraio del 2019, alla vigilia delle elezioni regionali, scoppiò la protesta sulle strade, il blocco dei camion che trasportavano il latte e lo stesso latte versato sull’asfalto dai pastori: «Era giusto, aveva un senso: meglio gettarlo che regalarlo agli industriali, a quel prezzo era veramente un regalo». Qui entra in scena Imboscata: «Ci accusavano di sprecare il latte invece di darlo a chi ne aveva bisogno – racconta Andrea Rosas –. Ma quando mai? Queste persone io le chiamo i “fenomeni” perché parlano a vanvera: non sanno che il latte di pecora non è come quello vaccino, è molto più grasso e viene trasformato in formaggio. Per questo lo feci bere a Imboscata, fu una provocazione la mia». Ma soprattutto, in un periodo di tensione alle stelle, tra scontri, atti di violenza ed esasperazione, «ho cercato di sdrammatizzare, raccontando la protesta sacrosanta in maniera più leggera, ironica, cercando di spargere un po’ di sano ottimismo». La strategia ebbe effetto: il giovane pastore-cantante attirò l’attenzione dei media nazionali «vennero a intervistarmi, alcuni trascorsero una giornata con me e mio padre in campagna, sono fiero di avere smontato la convinzione che i pastori sardi siano semi analfabeti che non sanno coniugare un verbo». Poi la protesta del latte finì, furono raggiunti degli accordi mentre all’orizzonte spuntava la pandemia che avrebbe cambiato il mondo: «Un periodo durissimo, ma il brutto doveva ancora venire». Il giorno prima della fine del lockdown Andrea Rosas chiamò a raccolta Filomena e le altre: «Allora ragazze, Conte (l’allora premier ndr) ha detto che la quarantena è finita, siamo liberi». Anche qui pioggia di like, una ventata di freschezza rigenerante grazie a quelle pecore in festa. E liberazione fu, ma la tranquillità è ancora da conquistare. «Il prezzo del latte è aumentato, ora lo pagano da 1 euro a 1 euro e 20 al litro. Ma nel frattempo sono arrivati i rincari: tutto costa di più, dai mangimi al carburante all’energia. Il caro prezzi ha di fatto annullato l’aumento del latte e nelle campagne si vivacchia, esattamente come prima, anzi come sempre. Ma quello del pastore resta il mestiere più bello del mondo: dopo due o tre giorni lontano dalla campagna mi prende la nostalgia, è qualcosa di incontrollabile, sento il bisogno di stare tra i miei animali, anche dopo una giornata di lavoro durissimo, anche dopo avere cantato sino alle due del mattino».
La Sardegna sul palco. In Anima mia c’è tutto questo: «Volevo raccontare il mio amore per la Sardegna. Ho buttato giù un po’ di pensieri, Nicola Cancedda li ha trasformati in un testo bellissimo, Davide Guiso e Francesca Lai hanno pensato alle musiche. Abbiamo registrato a Nuoro alla fine del 2021, una settimana fa ho pubblicato il video e non riuscivo a credere a quello che stava succedendo..... più di 250mila visualizzazioni, una valanga di complimenti. La spiegazione c’è: il mio orgoglio è quello di tantissimi sardi, perché la bellezza della nostra terra è qualcosa che ti rapisce». Anima mia è l’anticipazione del disco (omonimo e autoprodotto) in uscita nel mese di giugno: tra gli altri brani, duetti con Maria Luisa Congiu, con Gigi Sanna degli Istentales e un pezzo dedicato all’Ardia di Pozzomaggiore. Il suo paese, dove il pastore-cantante ha mosso i primi passi «a 10 anni, quando mi esibii alla festa di San Cristoforo». Poi, sfumato il sogno di entrare ad Amici «arrivai vicinissimo a occupare un banco nella scuola», l’ingresso nella scuderia dell’agenzia Applausi di Oristano, con cui Andrea porta in giro lo spettacolo itinerante di musica pop sarda Iskidos . Serate su serate in piazza, la musica che si spegna a notte fonda. Giusto in tempo per la mungitura.
30.4.22
CONCERTO DI PIAZZA SAN GIOVANNI ROMA 1 Maggio dietro le quinte: gli aneddoti di chi lo organizza ma non è per le barracopoli il caso di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, c’è una baraccopoli i
VITA DA BRACCIANTI
- Oggi
- di Marianna Aprile
Buon 1º maggio,
(ma non per loro)
A Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, c’è una baraccopoli in cui vivono 4 mila braccianti agricoli privi di tutto. Di posti così in Italia ce ne sono in 37 Comuni. Una condizione molto vicina alla schiavitù, che un gruppo di giovani filmaker ha raccontato in un film. Che però nessuno vuole
I migranti raccontati nel film provano a riscattarsi in molti modi: c’è chi, dopo dieci ore nei campi, prova a imparare l’italiano, chi studia la frequenza con cui escono i numeri al Lotto per capire quali giocare: «Nel ghetto è successo che qualcuno vincesse. Io ne ho conosciuto uno che però con quei soldi ha perso il suo fragile equilibrio; ne ha mandati la metà nel suo Paese e l’altra metà l’ha bevuta e spesa in prostitute. È andato via di testa perché ha avuto la prova che il problema, qui dove manca tutto, non sono i soldi: per quanti ne potrai vincere, continuerai a non poter avere documenti, quindi una casa e un lavoro regolari», dice Parenti. È per questo che anche quando viene data loro la possibilità di lasciare il ghetto alla fine non lo fanno: «È un limboma anche una rete di protezione. A ottobre scorso, un neurochirurgo del policlinico di Bari mi ha telefonato perché Abu, uno dei ragazzi del film, era stato colpito con un’ascia alla testa e appena arrivato in ospedale aveva dato il mio numero. Sono sceso a Bari per aiutarlo con le denunce e gli ho proposto di tornare a Milano con me, per sottrarsi al ghetto. Mi ha detto di sì, poi ci ha ripensato: in quel posto non hai nulla ma quel posto è l’unica cosa che hai; lì ti senti al sicuro anche se ti piantano un’ascia in testa, perché lì le persone sono come te, non ti giudicano, parlano la tua lingua. È un’assurda comfort zone in cui c’è posto persino per la gratitudine: i ragazzi che ho conosciuto ci sono grati per averli salvati dalmare e in cambio di questo accettano di essere, come dicono loro, “cittadinidi serieC”. Qualcuno di loro lo ritiene persino giusto. Ma lo accettano finché possono coltivare la speranza di diventare almeno di serie B. Ed è lecito chiedersi se frustrare questa speranza non renda esplosive situazioni come quella di Borgo Mezzanone». Persino la storia di One day one day parla di lavoro: il collettivo di Parenti lo ha prodotto e girato, ma non ha trovato nessuno che volesse distribuirlo: «Così, via Instagram tramite Will Media, abbiamo lanciato la campagna Vietato ai maggiori. Il senso era: “gli adulti” non lo vogliono? E noi portiamo i filmnelle scuole che ne faranno richiesta, dai ragazzi». Le scuole che rispondono sono 500 in pochi giorni: «Siamo partiti allora per un tour di unmese che, da Foggia, ci ha portati in tutta Italia, toccando 52 scuole e facendo vedere il film a oltre 6.700 ragazzi. A quel punto, abbiamo fatto un altro passetto: abbiamo invitato i maggiorenni a firmare una “dichiarazione di interesse” nei confronti del film dicendo che a 5 mila richieste avremmo fatto in modo di far arrivare il film nelle sale. Ne sono arrivate più del doppio, quindi ora lo proietteremo nei cinema delle città da cui provengono quelle mail. E tramite cinema@ willmedia.it altre sale possono chiederci di averlo», dice Parenti. Che si è inventato la distribuzione popolare, fai da te, porta a porta e on demand.
23.2.22
Sul Pollino ho imparato a sopravvivere in Alaska., Petali che curano: il prezioso zafferano., Una vita per il flipper, 50 anni di passione vintage.,
Sul Pollino ho imparato a sopravvivere in Alaska
Ha trionfato in tutto il mondo nelle maratone estreme sui ghiacci. come riporta quest articolo di http://www.abmreport.it/sport/
Lo si conosce per gli usi alimentari, ora in Abruzzo si sperimentano le sua proprietà antinfiammatorie per le malattie croniche intestinali. Sfruttando gli scarti
Una vita per il flipper, 50 anni di passione vintage Due generazioni di artigiani milanesi portano avanti un'impresa che resiste al boom delle console.
E si godono la rinascita di un gioco che conserva il suo fascino
2.4.21
storie dalla sardegna i nuovi sardi , sardegna e continente , OLTRE LA CRONACA
Nicola, il sogno di una vita sulle ali dell’aquila reale
Giornalista e amazzone, per Damiana l’isola è un ritorno alle origini
Papà di Muravera, è nata e cresciuta in provincia di Padova. Vive con il compagno a Porto Corallo e gestisce un maneggio
SASSARI. Un cognome che più sardo non si può, un padre che si commuove quando pensa alla sua infanzia e adolescenza in Sardegna, un amore fortissimo verso l’isola delle vacanze, delle avventure, della libertà che ti inebria e ti fa sentire viva. Si chiama Damiana Schirru, ha 48 anni e sino a qualche anno fa si considerava sarda a metà: ora lo è almeno per tre quarti, perché nella sua vita la Sardegna è finita al centro. Merito anche di chi non ha neppure una goccia di sangue isolano eppure si sente sardo sino al midollo: da quando un giorno, atterrato a febbraio dalla nebbiosa e gelida Treviso, si è ritrovato a mangiare spaghetti ai ricci al Poetto di Cagliari e ha detto «chi se ne va più? Questo è il paradiso».
Sorride Damiana quando ripensa a quei giorni, allo stupore dipinto sul volto del suo compagno Leonardo, dentista veneto innamorato dei cavalli, della pesca, della vita all’aria aperta, del silenzio che ti riempie il cuore e la mente. «Quando ha capito che cosa poteva offrirgli la Sardegna, soprattutto d’inverno, non è più tornato indietro: ha acquistato un gommone, ha iniziato a pescare e ogni occasione era buona per venire nell’isola». Destinazione Muravera, la cittadina d’origine della famiglia di Damiana, a venti chilometri da Castiadas dove nacque il padre Arnaldo Schirru e dove tutto è iniziato: «Il mio papà è nato in carcere, perché mio nonno Antonio era comandante della vecchia colonia penale. Poi fu trasferito sull’isola dell’Asinara e la famiglia viveva nel borgo di Cala d’Oliva: mi incanto ad ascoltare i racconti, i ricordi di un’infanzia così felice. Poi la vita li ha portati altrove, prima in Piemonte e poi in Veneto, a Cadoneghe in provincia di Padova. Lì mio padre e mia padre si sono conosciuti e sposati, lì siamo nate io e mia sorella, lì ho studiato e costruito la mia carriera professionale da giornalista e consulente della comunicazione. Una vita piena, in cui la Sardegna c’è sempre stata sino a diventare, a un certo punto, “dominante”». È il 29 maggio del 2012, mancano pochi minuti alle 9 e Damiana Schirru è in diretta nello studio di Tv7 a Padova come tutte le mattine quando il pc si muove, le luci dello studio oscillano. È il terremoto, la prima scossa di una giornata che sarebbe diventata devastante per mezza Italia, in particolare per l’Emilia Romagna. Damiana non ci pensa un istante, ha paura e scappa, via dallo studio. «Terrore puro – ricorda – pensavo che tutto crollasse sopra le nostre teste». È andata bene per fortuna, ma quella è stata una scossa anche per lei. «Lo stesso anno mi sono dimessa, ho rinunciato a un contratto a tempo indeterminato: ero stanca, sotto stress per la sveglia all’alba ogni mattina e per l’impossibilità di conciliare lavoro e passioni, i cavalli, i viaggi e la Sardegna. Mi sentivo in gabbia, avevo bisogno di libertà». Damiana è già fidanzata con Leonardo e dopo avere girato mezzo mondo decide di fargli conoscere la sua terra d’origine. «È estate, andiamo a Muravera, il mare è fantastico, le spiagge affollate. La Sardegna gli piace ma non ne resta colpito. Quando torniamo d’inverno cambia tutto: il caos è sparito, il clima è tiepido, scoppia un amore folle».
Lui decide di cambiare vita e il mondo abituale si rovescia: la Sardegna non è più il punto d’arrivo ma di partenza, è dall’isola che ci si sposta e non il contrario. «Poco più di tre anni fa, io a Padova e lui in Sardegna, mi chiama: “Sei seduta? Tieniti forte. Ho comprato casa”. Sono quasi svenuta, ma che felicità». La casa è un bilocale nel residence di Porto Corallo, comune di Villaputzu, ampia terrazza vista mare, a due passi dal porticciolo e dalla spiaggia. «Un angolo di paradiso, la nostra nuova casa – dice Damiana – residenza fissa da quando è scoppiato il Covid: nel febbraio scorso eravamo in Sardegna quando sono iniziati i primi casi. Io avevo un impegno: presentare il libro di un’amica in Veneto e volevo approfittarne per stare un po’ con la mia famiglia e miei amici. Ma il mio compagno mi ha detto: “Vai via subito, sta per scoppiare il finimondo”. Gli ho dato retta per fortuna, pochi giorni dopo Vo’ Euganeo, due passi dal mio paese, è diventato zona rossa». Ed ecco che la Sardegna, Porto Corallo e il suo mare sono diventati un rifugio dolce durante il lockdown e ancora lo sono con la pandemia in corso. «Stiamo benissimo qui – dice Damiana – anche se mi manca non poter vedere i miei adorati genitori quando voglio. Ma finirà quest’incubo». Nel frattempo continua a fare la giornalista e consulente delle comunicazione e continua anche ad andare a cavallo: lei e Leo hanno da poco aperto un maneggio a San Priamo, «unica stazione di monta nell’isola», e dal Veneto è arrivato Silvio, «il mio meraviglioso stallone». La vita è come un’onda e Damiana la cavalca con entusiasmo e «con un senso enorme di gratitudine verso quest’isola che quando ti entra dentro non ti lascia più».
DI LUCA URGU
La moglie sarda: «Il mio amore da Oscar con Riccardo, l’altro Fellini»
17.11.20
dal profondo nord al profondo sud . la storia di Isabella Ferrigato che da Schio paese del veneto è venuta a Carloforte paese del sulcis -iglesiente sud sardegna
A volte basta una semplice intervista ( in realtà è una chiacchierata ) per rimuovere pregiudizi e preconcetti localistici provinciali anche se non cosi violenti ( anche se il confine soprattutto quando non hai strumenti culturali alle spalle è labile ) come quelli di
che spesso ci facciamo sugli abitanti di una determinata regione dopo una esperienza negativa . Ma soprattutto a sfatare che le persone sia attratte dalla tua terra solo perchè ne sentono parlare in maniera mitizzata ed esaltata per stereotipi ed luoghi comuni .Quando invece , come dimostra sia la storia , ne avevo parlato nel post : << benvenuta al sud dal veneto al sud della Sardegna la storia di Isabella Ferrigato >> della stesa protagonista . Dopo aver visto , oltre il servizio della trasmissione di sabato scorso ed esplorato un po' i suoi profili facebook ed istangram ( da cui ho tratto le foto per questo post ) , ho deciso di altre a metterla fra i contatti d'invitarla nella nostra pagina facebook di farci una chiacchierata che trovate sotto .
1) hai scelto tu di venire qui ho ti hanno mandato loro ?
Ho visto la Sardegna grazie alla conoscenza di quello che oggi è un fratello, più che un ex fidanzato. Un sardo del sulcis che vive da 25 anni in Veneto. Con lui, ogni estate ho visiato tutta l'isola. A ogni rientro dalle vacanza vivevo un dramma, il Veneto non mi apparteneva più, sentivo la Sardegna che mi chiamava come le sirene per Ulisse.
Avendo una famiglia stupenda alle spalle, e sentendo che non avrei lasciato nulla e nessuno, ho chiesto il trasferimento del luogo di lavoro. E dopo tre anni, da Padova sono arrivata nel Sulcis, meta da me scelta.
2) quale è stato il primo impatto con una regione che magari conoscevi solo per turismo ? e quindi la lontananza dalla tua regione ?
L'impatto con il territorio sulcitano è stato duro, aspro, difficile. Sono laureata al dams, ho 4anni di scuola di specializzazione di aarteterapia post laurea, ho lavorato con centinaia di pazienti come arteterapeuta, ho instaurato infinite relazioni per empatia e comprensione posso dire di esser stata d'aiuto a molti, ma l'impatto con questa terra ha azzerato e stravolto ogni mia esperienza e conoscenza
3 ) Come ti sei trovata con la lingua sarda fatta di numerose varianti e di due lingue estranee come il tabarchino e il catalano ?
Prima di tutto si trattava proprio di una questione di tempo. In Veneto si cerca di ottimizzare tutto, anche un dialogo, una discussione, una chiacchierata deve sempre avere un fine, dev'essere utile a qualcos'altro, deve servire. In Veneto tutto si misura col FARE, non c'è parola o argomento che regga se non supportato con un gesto, un fatto, un accadimento. Mentre qui la Parola assume i connotati del FARE, ogni parola detta è un fatto, una certezza, ed è da considerarsi sacra. Questo mi ha totalmente destabilizzato perché il linguaggio, in Veneto, è assolutamente un "in più" una decorazione a ciò che è stato fatto, quindi non può reggere da solo, non corrisponde a realtà, non ha identità. Mentre per il sardo ogni parola è legge sacrosanta, è verità, è molto di più di un fatto. E questo ho impiegato mesi per capirlo, mesi di scontri, di incomprensioni, di arrabbiature. Poi, cercando il più possibile di comprendere dove sbagliavo, ho deciso di pormi il problema. Perché non riesco a spiegarmi? Perchè fatico a farmi capire? Con una buona dose di umiltà mi sono messa in discussione e ho compreso cosa era veramente importante e cosa invece richiedeva meno sforzo. E così mi sono ambientata benissimo e ho iniziato a stimare ed essere stimata, con affetto reciproco. La leggerezza qua non è mai stata un problema perché qui, nel Sulcis, si parla perfettamente la lingua italiana. Poi quando usavano la lingua sarda ero io che cercavo di capire e farmi tradurre per imparare piano piano.
6) commentando e ringraziando per il servizio su rai tre ( vedere precedente Post dici sulla bacheca facebook : << A me sembra tutto così normale. >> Spiega meglio questo concetto
7 presumo dai tuoi post e foto che metterai radici qui ed non te ne vorrai andare finchè prenderai l'accento sardo
Carloforte è stata una scelta dell'azienda, si è liberato il posto e mi hanno chiesto di dirigerlo. Prima ero a Villaperuccio, un paesino incantevole del sulcis dove mi hanno accolto e trattato come una regina, poi l'arrivo a Carloforte ha destabilizzato quelle poche certezze che avevo acquisito. Qui, possiamo dire, che si definiscono "diversamente sardi ". Per storia e cultura loro sono una comunità lifura che da secoli vive a Carloforte, ma la tradizione, gli usi, i costumi, il cibo sono assolutamente liguri. Quindi per me parlare e capire il carlofortino è stato semplice, ha molto del dialetto Veneto. E mi sono trasferita qui perché navigare ogni giorno mi era impossibile. Vedremo l'azienda dove mi manderà, certamente non rimarrò qui tutta la vita, tornerò nel Sulcis dell'isola madre, un po' qui mi manca.
7.5.20
anche le tradizioni si possono adeguare al coronavirus il caso del costume è quello tradizionale di Calangianus (ribucculata), gruppo folk “lu rizzatu caragnanesu».
https://www.galluranews.org/
«La mascherina artistica nasce per le donne sarde, forti, fiere e solide»
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