Teulada piange Pietrino Culurgioni, scomparso all’età di 108 anni: era l’uomo più anziano della Sardegna (mentre la donna più longeva è Luisetta Mercalli, che ha compiuto 110 anni nel febbraio 2025 ed è originaria di Carloforte ma vive a Cagliari). I funerali si sono tenuti ieri a Domus de Maria, dove la salma è stata tumulata nel cimitero comunale, tra la commozione di familiari, amici e dell’intera comunità locale. Aveva festeggiato il compleanno appena tre mesi fa, l’8 luglio, nell’antica casa di famiglia a Capo Spartivento, dove aveva ricevuto la visita di parenti e amici. Nonno Pietrino era il simbolo di una lunga tradizione pastorale che affonda le radici nei secoli e l’ultimo esponente dell’antica aristocrazia pastorale che ha segnato il passato recente di Teulada, Domus de Maria e Sant’Anna Arresi. Figlio e nipote di caprai, discendeva da una famiglia che già nel primo censimento nazionale del 1858 contava sette figli maschi tutti allevatori di bestiame da latte.
grazie per gli incontri stimolanti dell edizione 2023 delfestival Bookolica - Il Festival dei
lettori creativi e dei linguaggi ho appena finito di leggere il libretto : << Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore >> di Stefano Zenni Un libro interesante che mi pone le domande : Esiste una "musica nera"? E quale sarebbe la sua differenza rispetto a quella "bianca"? Sappiamo riconoscere un cantante africano americano al solo ascolto? . Infatti Siamo abituati a pensare che la musica possa avere un carattere razziale, etnico o un "colore", e se vediamo un musicista nero statunitense immaginiamo che sappia swingare con più naturalezza di un bianco, o che intonerà le blue notes con sottigliezze inaccessibili a un europeo e le caricherà di un feeling, di un soul inimitabile. Ma tutto questo ha un fondamento scientifico, storico o culturale? Stefano Zenni affronta per la prima volta in campo aperto una materia così delicata, smontando con argomenti brillanti e aggiornati i molti pregiudizi che non solo infestano il discorso degli appassionati, ma trovano ancora ampio spazio nella critica musicale. Per farlo fa riferimento a concetti in apparenza lontani dalla musica, dal colorism al passing, e introduce stimolanti riflessioni sui rapporti fra le culture africano americana, ebraica e italiana. Attraverso un inedito approccio multidisciplinare che si muove con agilità fra i più diversi campi delle scienze storiche, biologiche e sociali, Zenni dimostra che la musica sa essere un esempio mirabile di collaborazione fra individui e comunità: uno scambio ininterrotto di idee e di risorse che trascende ogni barriera culturale o tentazione
classificatoria. Inoltre la sua presentazione ed il suo stile semplice ed accessibile ed accademico sia nell'eporre sia nella scrittura mi invoglia a comprare o prendere in biblioteca il saggio di Maurizio Bettini contro le radici da lui citato nella presentazione ed a rilleggere e quindi andare a ricercarlo nella mia libreria la storia del Jazz di Walter Mauro da me comprata , come dimostrata la foto sottto , nel lontano 1994 per approfondire e comprendere la muisca jazz che mi facevano ascoltare i miei e i concerti di time in jazz e non solo a cui andavo prima passivamente trascinato dai miei , parenti ed d'amici amannti del genere , poi con interesse in quanto come ho detto nel titolo del post e d'essi che deriva il rock e tutta la musica ( o musicaccia dipende dai gusti e dall'educazione ricevuta da ciascuno di noi ) che acoltiamo oggi
Un ottimo libro d'avere nella libreria di casa . Per capire che la musica non è solo edonismo e divertimento ma anche libertà come fa notare anche il personaggio di Lisa dei Simpson che appunto suona il blues ed il jazz . Credo che mi tocchera rimettere in discussione le mie definizioni di : identità e di radice , espresse più volte nelle diverse pagine del blog
Intervista alla scrittrice: "È stato un temporale estivo, mi credevo
progressista e mi sono scoperta conservatrice. Ma quando ho capito che aveva pensieri suicidi, la priorità è diventata accogliere. Quanto al padre, sulle prime ha detto: ti amo come sei. Ma in segreto ha ammesso: fosse stato il fratello a sentirsi mezza femmina non ce l'avrei fatta"
La sua esperienza non è affatto una tragedia, ma è iniziata come spesso accadono le tragedie, in modo tranquillo e del tutto inaspettato. "Mamma, sono trans. Anzi, sono non binario" è la frase che è piombata addosso alla scrittrice Silvia Ranfagni un anno fa, mentre scolava gli spaghetti. Di fronte a lei un tredicenne che credeva "figlia" e che lentamente ha imparato a chiamare "figlio", Alex. Ranfagni, ricorda le parole di suo figlio? "La metafora che ha usato è stata questa: "Mamma, hai presenti i binari di un treno? Sono due, come maschio e femmina. Io sono come un terzo binario in mezzo che fa come un serpente che si avvicina ora dalla parte della femmina, ora dalla parte del maschio. A volte mi sveglio più maschio, a volte mi sveglio femmina, non lo so nemmeno io da cosa dipende. Mercoledì, per esempio, ero maschio". Lei come ha reagito? "Quelle parole hanno avuto per me la violenza del temporale estivo, quello che non ti aspetti. Improvvisamente non ero più sicura di niente, neanche della mia capacità di essere madre. Possibile che non avessi mai capito l'intima natura di Alba, che non l'avessi mai vista, davvero? Chi c'era dietro quella maschera che diceva "ho preso nove in Italiano", "buono il purè". E poi, davvero faceva sul serio? Una settimana prima voleva essere un vampiro". E allora cosa ha fatto?"Gente più antica di me avrebbe detto: 'Due schiaffoni e via'. Io invece continuavo a domandarmi: quanto un genitore deve contenere e quantoaccogliere? Ho trascorso ore su internet e ho divorato libri americani. Poi un'amica mi ha indirizzato al Saifip, il servizio di un ospedale romano dove la dottoressa Maddalena Mosconi e il suo team, da trent'anni, accompagnano bambini e adolescenti con disforia di genere e le loro famiglie". Quali sono state le cose più difficili da accettare? "Forse sono state due: la prima albergava proprio dentro di me. Fino a quel momento mi reputavo una donna progressista, di mentalità aperta, avevo scritto un film sui trans, letto molto, incontrato persone. E invece ho scoperto delle resistenze. Quando si tratta di modificare la percezione del proprio figlio c'è sempre in agguato un'ottusa conservatrice". L'altra difficoltà? "Quando mio figlio mi ha detto: "Adesso il mio nome è Alex". La scelta del nome è una cosa importante,identitaria. Suo padre e io avevamo impiegato mesi e cura per individuarlo. È stato invano? Credo che la nostra sia la prima generazione in cui, a scegliere i nomi, non sono più i genitori ma i figli stessi. Una rivoluzione copernicana. Cambia l'asse di rotazione". Lei ci è riuscita? "A pronunciare il nome di Alex, sì. Anche se non subito. Però ancora oggi non so se chiamarlo figlio o figlia, mi ingarbuglio. Mi hanno consigliato di usare l'asterisco alla fine, oppure la u, oppure di non usare la vocalefinale. La storia del non binarismo non è affatto semplice". E il padre di Alex, in questa storia? "La sua prima reazione è stata wow: "Sei mia figlia, ti amo e ti amerò sempre. Questa è la tua vita e hai il diritto di viverla come sei". Poi però ha aggiunto che lui di binari non capisce e non ne vuole sapere nulla. In segreto, infine, mi ha confidato: "Se fosse stato suo fratello a sentirsi mezza femmina non ce l'avrei fatta, ma siccome così è più maschio... E vabbuò". Un distillato di patriarcato". E a scuola? "Esperienza stupenda. Alle medie Alex aveva un professore che faceva con i ragazzi una cosa speciale, "Il cerchio della fiducia": ognuno a turno parlava di sé, a patto che nulla trapelasse dal cerchio. La sofferenza di Alex è emersa lì per la prima volta. Quel docente era convinto che nella scuola occorra uno spazio di parola che consente una libertà senza conseguenze". Ora come va? "Nonostante sia trascorso un anno, io ancora arranco, mi sento smarrita, persa in una selva di nomi, categorie, etichette. Ma l'aver scoperto che Alex maturava pensieri suicidi ha stravolto le urgenze: accogliere è diventato l'unico imperativo. Ammetto però che alcune domande mi tormentano ancora". Quali? "In questi mesi mi sono più volte interrogata sulle possibili ragioni di questo suo sentire, essere. Poi un giorno Alex mi ha chiesto: "È un problema come sono, mamma?". La risposta è stata secca: "No, non è un problema". È solo che è tuttonuovo per me". In che senso? "I ragazzi oggi si affacciano a un mondo dove il corpo non è un dato fisso, ma è modificabile con la chirurgia, e hanno imparato a concepirsi come "modificabili"; la progressiva conquista di zone di parità tra donne e uomini ha poi reso obsolete categorie millenarie. Alla velocità della luce ogni nostro punto esclamativo si è trasformato in un punto di domanda. Io, invece, ho bisogno di più tempo. Forse non sono l'unica. Perciò, quando Alex esce, io prego. Ci metto tutta la mia speranza laica in questa preghiera: "Che nessuno mai possa farsi scherno di te"".
Di Pozzomaggiore, il brano “Anima mia” ha già raggiunto 250mila visualizzazioni. Pecore e cavalli protagonisti di video virali durante la protesta per il prezzo del latte
SASSARI. Il nuovo idolo dei social si chiama Andrea Rosas, è di Pozzomaggiore, ha 35 anni, 200 pecore, sette cavalli, un numero imprecisato di mucche e maiali e tre lavori: impiegato della Asl (igiene e sanità animale, manco a dirlo), pastore-allevatore e cantante. La sua giornata tipo comincia alle 4 del mattino con la mungitura, d’estate la fine coincide con il nuovo inizio, dal palco di una piazza direttamente alla campagna. Una settimana fa ha pubblicato il video del nuovo pezzo “Anima mia”, in collaborazione con il Tenore Su Remediu di Orosei: una dichiarazione d’amore verso la Sardegna che in brevissimo tempo ha conquistato 200mila visualizzazioni e la patente di nuovo inno alla sardità. Pure lui si stupisce di un successo simile, nonostante da qualche anno ci sia abituato, perché altri suoi post e video sono diventati virali. Il primo nel 2017, quando Andrea Rosas conquistò il popolo del web con il “decalogo della transumanza”, subito dopo con i video di Caterina e Filomena, due delle sue adorate pecore: «La prima purtroppo non c’è più, Filomena invece ha 9 anni, neanche un dente ma produce ancora latte». E poi fu la volta di Imboscata, la cavalla che durante la protesta dei pastori nel 2019 sorseggiò con gusto il latte di pecora. Ma perché si chiama Imboscata? «Perché è nata nel 2003 e per i cavalli di razza anglo arabo sarda era l’anno della I. E mi venne in mente di chiamarla Imboscata: oggi ha 19 anni, non corre più e ha avuto 6 puledri».
Pastore e cantante. La polemica sul prezzo del latte pagato troppo poco ribolliva già quando Andrea Rosas iniziò a raccontare nei suoi video le difficoltà che un pastore deve affrontare ogni giorno, in balìa di una costante incertezza economica, delle bizze del tempo, di ristori non versati, di pagamenti al ribasso e spese che lievitano. Il giovane pastore spiegò quanto è complicato «fare un mestiere così importante» e lo scrisse pure ad alcuni politici, chiedendo un’attenzione diversa per la categoria. E poi lo disse in musica: il brano “Cantende che pastore” (testo e musica di Maria Luisa Congiu) fece il botto: circa 160mila visualizzazioni e più di 4mila condivisioni «per una canzone che rappresenta l’orgoglio di un categoria simbolo della Sardegna da secoli, antica e fiera come i nuraghi. E che ha voglia di riscatto». Poi a febbraio del 2019, alla vigilia delle elezioni regionali, scoppiò la protesta sulle strade, il blocco dei camion che trasportavano il latte e lo stesso latte versato sull’asfalto dai pastori: «Era giusto, aveva un senso: meglio gettarlo che regalarlo agli industriali, a quel prezzo era veramente un regalo». Qui entra in scena Imboscata: «Ci accusavano di sprecare il latte invece di darlo a chi ne aveva bisogno – racconta Andrea Rosas –. Ma quando mai? Queste persone io le chiamo i “fenomeni” perché parlano a vanvera: non sanno che il latte di pecora non è come quello vaccino, è molto più grasso e viene trasformato in formaggio. Per questo lo feci bere a Imboscata, fu una provocazione la mia». Ma soprattutto, in un periodo di tensione alle stelle, tra scontri, atti di violenza ed esasperazione, «ho cercato di sdrammatizzare, raccontando la protesta sacrosanta in maniera più leggera, ironica, cercando di spargere un po’ di sano ottimismo». La strategia ebbe effetto: il giovane pastore-cantante attirò l’attenzione dei media nazionali «vennero a intervistarmi, alcuni trascorsero una giornata con me e mio padre in campagna, sono fiero di avere smontato la convinzione che i pastori sardi siano semi analfabeti che non sanno coniugare un verbo». Poi la protesta del latte finì, furono raggiunti degli accordi mentre all’orizzonte spuntava la pandemia che avrebbe cambiato il mondo: «Un periodo durissimo, ma il brutto doveva ancora venire». Il giorno prima della fine del lockdown Andrea Rosas chiamò a raccolta Filomena e le altre: «Allora ragazze, Conte (l’allora premier ndr) ha detto che la quarantena è finita, siamo liberi». Anche qui pioggia di like, una ventata di freschezza rigenerante grazie a quelle pecore in festa. E liberazione fu, ma la tranquillità è ancora da conquistare. «Il prezzo del latte è aumentato, ora lo pagano da 1 euro a 1 euro e 20 al litro. Ma nel frattempo sono arrivati i rincari: tutto costa di più, dai mangimi al carburante all’energia. Il caro prezzi ha di fatto annullato l’aumento del latte e nelle campagne si vivacchia, esattamente come prima, anzi come sempre. Ma quello del pastore resta il mestiere più bello del mondo: dopo due o tre giorni lontano dalla campagna mi prende la nostalgia, è qualcosa di incontrollabile, sento il bisogno di stare tra i miei animali, anche dopo una giornata di lavoro durissimo, anche dopo avere cantato sino alle due del mattino».
La Sardegna sul palco. In Anima mia c’è tutto questo: «Volevo raccontare il mio amore per la Sardegna. Ho buttato giù un po’ di pensieri, Nicola Cancedda li ha trasformati in un testo bellissimo, Davide Guiso e Francesca Lai hanno pensato alle musiche. Abbiamo registrato a Nuoro alla fine del 2021, una settimana fa ho pubblicato il video e non riuscivo a credere a quello che stava succedendo..... più di 250mila visualizzazioni, una valanga di complimenti. La spiegazione c’è: il mio orgoglio è quello di tantissimi sardi, perché la bellezza della nostra terra è qualcosa che ti rapisce». Anima mia è l’anticipazione del disco (omonimo e autoprodotto) in uscita nel mese di giugno: tra gli altri brani, duetti con Maria Luisa Congiu, con Gigi Sanna degli Istentales e un pezzo dedicato all’Ardia di Pozzomaggiore. Il suo paese, dove il pastore-cantante ha mosso i primi passi «a 10 anni, quando mi esibii alla festa di San Cristoforo». Poi, sfumato il sogno di entrare ad Amici «arrivai vicinissimo a occupare un banco nella scuola», l’ingresso nella scuderia dell’agenzia Applausi di Oristano, con cui Andrea porta in giro lo spettacolo itinerante di musica pop sarda Iskidos . Serate su serate in piazza, la musica che si spegna a notte fonda. Giusto in tempo per la mungitura.
A Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, c’è una baraccopoli in cui vivono 4 mila braccianti agricoli privi di tutto. Di posti così in Italia ce ne sono in 37 Comuni. Una condizione molto vicina alla schiavitù, che un gruppo di giovani filmaker ha raccontato in un film. Che però nessuno vuole
La speranza di una vita migliore può essere una trappola che la vita congela in un’attesa potenzialmente infinita. Almeno, è così che sembra andare a Borgo Mezzanone, ghetto (il nome giusto sarebbe “insediamento informale”) in provincia di Foggia, dove circa 4mila braccianti coltivano speranze nelle ore e nei giorni lasciati vuoti dai campi. A thing by, collettivo di ragazzi tra i 23 e i 28 anni, ci è entrato nel 2020 e ci ha vissuto per tre mesi spalmati su un anno, realizzando One day one day, racconto delle vite sospese di alcuni di quei 4 mila. Il regista è Olmo Parenti, il più “vecchio” del gruppo di filmaker,
che i soldi per il film li ha trovati girando i videoclip di Gabbani, Sfera e Basta e soprattutto Tananai, che firma le musiche del film. Da Sanremo a Borgo Mezzanone passando per George Floyd: «Nel 2020 ho visto un servizio sul ghetto a le Iene. Poco dopo, a Minneapolis hanno ucciso George Floyd e mentre ero in piazza a Milano a manifestare per lui mi sono detto: e per gli schiavi di casa mia cosa posso fare? Poco dopo eravamo a Borgo Mezzanone: non sembra Italia.
Manca tutto, luce, acqua, diritti. Ma a colpire di più è l’immobilità sociale: non c’è redenzione, per quanto brutale il ghetto è l’unico posto che accoglie questi ragazzi
Ci siamo tornati nel corso di un anno per dare alle cose la possibilità di cambiare, invece abbiamo documentato fallimenti: ogni volta che i nostri “protagonisti” facevano un passo per migliorare la propria vita – affittare una casa, cercare un altro lavoro, aprire una
PostePay – trovavano un muro di gomma. La maggior parte di loro è arrivata in Italia tra il 2014 e il 2016, alcuni sono a Borgo Mezzanone da anni e senza possibilità di uscirne: non hanno il permesso di soggiorno, non possono andare in un altro Paese europeo per gli accordi di Dublino, verrebbero rispediti in Italia, ndr), non vengono rimpatriati, come prevede la legge». Un limbo esistenziale, burocratico, legale, noto a tutti, da anni. George, Abu e gli altri intervistati, rispondono a ogni domanda sul futuro col mantra diventato il titolo del film: « One day, un giorno, le cose andranno meglio.Se lo ripetono per non impazzire all’idea di rimanere il tavolino su cui un intero Paese banchetta. Ma “un giorno” è anche la foglia di fico di un Paese che spera che il problema si risolva da sé. E invece, complice il cambiamento climatico, non potrà che peggiorare», dice Olmo Parenti.
Nel Pnrr, il Piano di Ripresa e Resilienza del programmaNext GenerationEu, ci sono circa200milioni di euro stanziati per lo smantellamento degli "insediamenti informali" sparsi in37Comuni italiani e la costruzione di insediamenti abitativi più umani. Per quello diBorgo Mezzanone, il più popoloso, lo stanziamento è di circa 50 milioni: «L’intervento rientra in un progetto di integrazione e regolarizzazione più ampio», dice Tatiana Esposito, Direttrice generale dell’immigrazione del ministero del Lavoro (foto), che dettaglia anche i tempi: «Entro marzo 2023 le amministrazioni locali devono presentarci il piano di intervento e, una volta che lo avremo approvato, avranno 2 anni per realizzarlo». C’è poi il problema della regolarizzazione dei braccianti che ci vivono: anche quando avranno una casa, come faranno coi documenti? «Abbiamo condotto una ricerca approfondita sulla composizione dei braccianti impiegati in agricoltura in Italia: la stragrande maggioranza di loro è composta da stranieri regolari». La quota di irregolari è però quella che popola i ghetti: «Per gli irregolari ci sono già due strumenti, poco utilizzati: l’art. 22 del Testo Unico sull’Immigrazione, che garantisce un permesso di soggiorno a chi collabora con la giustizia per contrastare lo sfruttamento; l’art. 18 dello stesso Testo, che assicura protezione e documenti anche a chi non denuncia, se vittima di tratta», spiega Espostito. È un limbo esistenziale e burocratico da cui non si può uscire. E che può solo peggiorare
I migranti raccontati nel film provano a riscattarsi in molti modi: c’è chi, dopo dieci ore nei campi, prova a imparare l’italiano, chi studia la frequenza con cui escono i numeri al Lotto per capire quali giocare: «Nel ghetto è successo che qualcuno vincesse. Io ne ho conosciuto uno che però con quei soldi ha perso il suo fragile equilibrio; ne ha mandati la metà nel suo Paese e l’altra metà l’ha bevuta e spesa in prostitute. È andato via di testa perché ha avuto la prova che il problema, qui dove manca tutto, non sono i soldi: per quanti ne potrai vincere, continuerai a non poter avere documenti, quindi una casa e un lavoro regolari», dice Parenti. È per questo che anche quando viene data loro la possibilità di lasciare il ghetto alla fine non lo fanno: «È un limboma anche una rete di protezione. A ottobre scorso, un neurochirurgo del policlinico di Bari mi ha telefonato perché Abu, uno dei ragazzi del film, era stato colpito con un’ascia alla testa e appena arrivato in ospedale aveva dato il mio numero. Sono sceso a Bari per aiutarlo con le denunce e gli ho proposto di tornare a Milano con me, per sottrarsi al ghetto. Mi ha detto di sì, poi ci ha ripensato: in quel posto non hai nulla ma quel posto è l’unica cosa che hai; lì ti senti al sicuro anche se ti piantano un’ascia in testa, perché lì le persone sono come te, non ti giudicano, parlano la tua lingua. È un’assurda comfort zone in cui c’è posto persino per la gratitudine: i ragazzi che ho conosciuto ci sono grati per averli salvati dalmare e in cambio di questo accettano di essere, come dicono loro, “cittadinidi serieC”. Qualcuno di loro lo ritiene persino giusto. Ma lo accettano finché possono coltivare la speranza di diventare almeno di serie B. Ed è lecito chiedersi se frustrare questa speranza non renda esplosive situazioni come quella di Borgo Mezzanone». Persino la storia di One day one day parla di lavoro: il collettivo di Parenti lo ha prodotto e girato, ma non ha trovato nessuno che volesse distribuirlo: «Così, via Instagram tramite Will Media, abbiamo lanciato la campagna Vietato ai maggiori. Il senso era: “gli adulti” non lo vogliono? E noi portiamo i filmnelle scuole che ne faranno richiesta, dai ragazzi». Le scuole che rispondono sono 500 in pochi giorni: «Siamo partiti allora per un tour di unmese che, da Foggia, ci ha portati in tutta Italia, toccando 52 scuole e facendo vedere il film a oltre 6.700 ragazzi. A quel punto, abbiamo fatto un altro passetto: abbiamo invitato i maggiorenni a firmare una “dichiarazione di interesse” nei confronti del film dicendo che a 5 mila richieste avremmo fatto in modo di far arrivare il film nelle sale. Ne sono arrivate più del doppio, quindi ora lo proietteremo nei cinema delle città da cui provengono quelle mail. E tramite cinema@ willmedia.it altre sale possono chiederci di averlo», dice Parenti. Che si è inventato la distribuzione popolare, fai da te, porta a porta e on demand.
Faldoni, proteste e multe: come nasce il concertone
Dal 1989 a oggi è sinonimo di 1 Maggio. Pochi, però, conoscono le 'grane' che si celano dietro le quinte: gli aneddoti di chi lo organizza
di Camilla Romana Bruno
Nel museo del lavoro tre chilometri di ricordi
Andrea Lattanzi
I manifesti del 1 Maggio sono tra i documenti conservati nell'Archivio Storico del Lavoro di Sesto San Giovanni, che racconta le battaglie per i diritti in Italia.
Sul Pollino ho imparato a sopravvivere in Alaska Ha trionfato in tutto il mondo nelle maratone estreme sui ghiacci. come riporta quest articolo di http://www.abmreport.it/sport/
TERRANOVA DEL POLLINO - La storia di Pasquale La Rocca è quella di un sognatore, innamorato della montagna, dalla quale è stato "generato", che lo ha portato a trionfare in un ambiente ostile e solitario per la maratona invernale tra le più difficili ed estreme che l'uomo possa affrontare.E' lui il trionfatore della Iditasport, la ultramatarona tra le nevi dell'Alaska, sui sentieri della corsa per cani da slitta più famosa al mondo, la Iditarod. In solitaria per 160 miglia, oltre 257 chilometri, tra neve, ghiaccio e vento giorno e notte, a decine di gradi sotto lo zero, con gli sci ai piedi e trainando una slitta. Una impresa epica che lo sportivo di Terranova del Pollino ha compiuto tra laghi e fiumi ghiacciati, senza fermarsi se non poche ore per riscaldarsi, riposare e alimentarsi in uno dei diversi check-point lungo il percorso. Una gara estrema, dove è sufficiente perdere l’orientamento, avere un piccolo imprevisto (anche piccolissimo) per restare all’agghiaccio e rischiare seriamente la pelle. Scelta dei materiali, dispositivi elettronici per l'orientamento, ma anche alimentazione, gestione delle proprie forze e tanta tanta forza di volontà per arrivare al traguardo da primo assoluto. Una traversata infinita che è il risultato anche di tanto allenamento, una grande preparazione fisica e una determinazione eroica hanno commentato i suoi amici. Lo scorso anno stravinse anche in Svezia la Arctic Winter Race Rovaniemi 150, travalichi di molto l’ambito tecnico sportivo. Ciò che regala a tutto il Pollino l'avventura sportiva di Pasquale La Rocca è che le imprese sono alla portata di tutti, basta crederci, stringere i denti, essere pronti con umiltà a continui sacrifici, lavorare giorno e notte. Una storia che qualcuno già spera sia raccontata, come esempio virtuoso del Sud, ai ragazzi delle scuole.
Il suo segreto? Gli allenamenti sulla montagna dove è cresciuto. E dove ha scelto di restare a lavorare
Petali che curano: il prezioso zafferano
Lo si conosce per gli usi alimentari, ora in Abruzzo si sperimentano le sua proprietà antinfiammatorie per le malattie croniche intestinali. Sfruttando gli scarti
Una vita per il flipper, 50 anni di passione vintage
Due generazioni di artigiani milanesi portano avanti un'impresa che resiste al boom delle console.
E si godono la rinascita di un gioco che conserva il suo fascino
per gli amici della penisola continentali come gli chiamiamo noi che mi chiedono della Sardegna
Iniziamo con
la storia di Giuseppe Cugusi che fa il pastore, ma sulla cartà d'identità non si può scrivere. Lo impedisce la burocrazia italiana per cui la professione più vecchia della storia semplicemente non esiste. Il programma automatico dell'anagrafe suggerisce "coltivatore diretto". Un altro modo per cancellare l'identità? Studiato o meno che sia, Giuseppe, non vuole accettarlo.
Scrive di lui Gianni Mura, giornalista di Repubblica: « ...I suoi pecorini si trovano da Pinchiorri a Firenze e da Beck a Roma, e fortunatamente anche nelle mie due tane milanesi. Come il whisky Laphroaig trent'anni fa, il suo pecorino affumicato e stagionato segna il radioso punto del non ritorno
gli altri sono tratti dalla nuova Sardegna
DI DOMENICO RUIU
01 APRILE 2021
Nicola, il sogno di una vita sulle ali dell’aquila reale
Il giovane falconiere di Gavoi innamorato del volo libero dei rapaci
Locorra è una collina molto panoramica che sovrasta le ultime case di Gavoi. Il paesaggio è aperto, le due cime di Pizzuri sullo sfondo arricchiscono la scenografia. In una radura declinante un giovane snello e vigoroso indossa sulla mano sinistra, tesa verso l’alto, un robusto guantone di cuoio. Sul guantone è posato uno stupendo esemplare di aquila reale, possente e imponente, che urla in continuazione. Il giovane ruota con energia il braccio in avanti, lancia in volo il rapace e l’aria si carica dell’elettricità che accompagna sempre le planate della regina dei cieli. Lei è una giovane aquila reale di nove mesi; lui è Nicola, un gavoese innamorato dei rapaci. Di cognome fa Marcello, sia da parte del padre Raffaele di Sarule che della madre Franca di Gavoi.
E proprio dalla madre, che già da ragazzina raccoglieva ogni animale ferito o abbandonato, ha preso la grande passione per la natura e in particolar modo per i rapaci. Una volta il padre, esasperato dal suo desiderio di vedere l’aquila, lo portò con se nel cantiere forestale sotto Punta la Marmora, dove lavorava e dove il bambino per tutta la mattina avrebbe potuto guardare il cielo sperando di realizzare il suo sogno. Le prime esperienze dirette con i rapaci arriveranno più tardi. Molto intensa quella con un pulcino di gheppio caduto dal nido che mamma Franca allevò a casa, in assoluta libertà.
Al momento dell’involo il giovane gheppio, perfettamente in salute, andò via ma, per almeno un paio di mesi, continuò a frequentare il davanzale dove era cresciuto per cibarsi della carne posizionata lì per lui. Un altro contatto diretto fu con una poiana ardimentosa che si infilò nel pollaio della zia Filomena creando scompiglio e danno tra le galline. La zia, furiosa, entrò armata di un robusto randello decisa a fare giustizia sommaria. Fortunatamente intervenne Nicola che, con una mano parò i colpi della donna mentre con l’altra riuscì ad afferrare e portar via la poiana.
Per ampliare le sue conoscenze Nicola iniziò ben presto a frequentare la locale stazione del Corpo Forestale e l’ambulatorio del veterinario dove si recava ogni qual volta venisse portato un rapace ferito o malandato. Ma si tratta di episodi, pur se di forte coinvolgimento, sempre troppo fugaci. Nicola vuole di più, aspira al contatto diretto con il rapace e pensa alla falconeria. Appena può frequenta un corso organizzato dall’Associazione Falconieri di Eleonorae di San Gavino; pur se il corso dura solo 3 giorni, è tuttavia un primo importantissimo passo. Il resto lo faranno la sua determinazione, la pazienza infinita e la capacità di sperimentare. Dall’Associazione sangavinese prende una poiana di Harris, rapace molto diffuso nel continente americano, che per le sue qualità caratteriali ben si presta all’iniziazione dei falconieri neofiti. Finalmente un rapace sul pugno! Qualche buona lettura specialistica e via con le varie tappe necessarie per instaurare un rapporto di fiducia e di dipendenza col falco. Ma è solo il primo passo. Nicola sogna un futuro di totale convivenza con i rapaci. Chiede ed ottiene l’utilizzo dei locali di un agriturismo in disuso a Zoccai, a poca distanza dal paese, da utilizzare come giardino per tanti rapaci di diverse specie. Parte alla grande con due esemplari di gufo reale, perfetta incarnazione del fascino misterioso dei rapaci notturni, provenienti dall’allevamento austriaco di Markus Plattner. Ed ecco che brucia le tappe e dall’allevamento cecoslovacco di Vojtech Skrba arriva Zulemma (così la battezza) un pulcino di aquila reale della sottospecie daphanea . E la vita di Nicola cambia e prende i ritmi dettati dalle esigenze dell’aquilotta. Ogni momento libero dal lavoro (fa l’operaio in un caseificio) è dedicato a lei per ammansirla, nutrirla, farla salire sul pugno e iniziare a provare a farla volare. Bisogna vederli, lui e Zulemma che si guardano negli occhi, per capire l’affiatamento che li lega. E vedendo la naturale maestria con la quale questo apprendista falconiere lancia l’aquila in volo e come lei ritorna sul pugno, si rimane stupiti pensando come tutto ciò sia stato possibile in così poco tempo.
Per curiosità chiedo a Nicola come si comporta Zulemma con le altre persone. Mi guarda e il volto si trasfigura, colgo lo smarrimento e la fatica di fermare le lacrime. Capisco di aver varcato involontariamente un confine personalissimo, dove ogni parola ha un suo peso preciso. «L’unica persona da cui si lascia accarezzare è comare Maria Laura» mormora con un filo di voce. E vengo a conoscenza di una storia umana che riveste di nobiltà assoluta quanto ho visto sinora. Luigi è un ragazzino vivace, appassionato di rapaci, fan di Nicola. Sognano insieme un’Aquila da far volare. Così è quasi scontato che Luigi scelga Nicola come padrino di cresima. A volte la vita è molto crudele e Luigi muore per un tragico incidente a soli 15 anni. Per Nicola è una sofferenza terribile. E sarà proprio
questa sofferenza a spingerlo ad anticipare i tempi e prendere l’aquila pensando a lui. E quando scopre che Zulemma è nata il 4 maggio del 2020, proprio un anno esatto dal giorno della cresima di Luigi, vede un preciso segno del destino. Racconta, come stesse parlando a se stesso, che quando fa volare l’aquila a Perda Liana, sul Gennargentu o in altri posti di intensa naturalezza, dopo aver lanciato Zulemma, si distende in silenzio in assoluta solitudine e osserva la loro aquila volare; la guarda come se a farlo fossero gli occhi del suo giovane amico e magari pensa, con dolce consolazione «...deo l’isco, ses tue...», incarnando in quel leggiadro librarsi l’anima di Luigi.
31 MARZO 2021
SILVIA SANNA Giornalista e amazzone, per Damiana l’isola è un ritorno alle origini Papà di Muravera, è nata e cresciuta in provincia di Padova. Vive con il compagno a Porto Corallo e gestisce un maneggio
SASSARI. Un cognome che più sardo non si può, un padre che si commuove quando pensa alla sua infanzia e adolescenza in Sardegna, un amore fortissimo verso l’isola delle vacanze, delle avventure, della libertà che ti inebria e ti fa sentire viva. Si chiama Damiana Schirru, ha 48 anni e sino a qualche anno fa si considerava sarda a metà: ora lo è almeno per tre quarti, perché nella sua vita la Sardegna è finita al centro. Merito anche di chi non ha neppure una goccia di sangue isolano eppure si sente sardo sino al midollo: da quando un giorno, atterrato a febbraio dalla nebbiosa e gelida Treviso, si è ritrovato a mangiare spaghetti ai ricci al Poetto di Cagliari e ha detto «chi se ne va più? Questo è il paradiso». Sorride Damiana quando ripensa a quei giorni, allo stupore dipinto sul volto del suo compagno Leonardo, dentista veneto innamorato dei cavalli, della pesca, della vita all’aria aperta, del silenzio che ti riempie il cuore e la mente. «Quando ha capito che cosa poteva offrirgli la Sardegna, soprattutto d’inverno, non è più tornato indietro: ha acquistato un gommone, ha iniziato a pescare e ogni occasione era buona per venire nell’isola». Destinazione Muravera, la cittadina d’origine della famiglia di Damiana, a venti chilometri da Castiadas dove nacque il padre Arnaldo Schirru e dove tutto è iniziato: «Il mio papà è nato in carcere, perché mio nonno Antonio era comandante della vecchia colonia penale. Poi fu trasferito sull’isola dell’Asinara e la famiglia viveva nel borgo di Cala d’Oliva: mi incanto ad ascoltare i racconti, i ricordi di un’infanzia così felice. Poi la vita li ha portati altrove, prima in Piemonte e poi in Veneto, a Cadoneghe in provincia di Padova. Lì mio padre e mia padre si sono conosciuti e sposati, lì siamo nate io e mia sorella, lì ho studiato e costruito la mia carriera professionale da giornalista e consulente della comunicazione. Una vita piena, in cui la Sardegna c’è sempre stata sino a diventare, a un certo punto, “dominante”». È il 29 maggio del 2012, mancano pochi minuti alle 9 e Damiana Schirru è in diretta nello studio di Tv7 a Padova come tutte le mattine quando il pc si muove, le luci dello studio oscillano. È il terremoto, la prima scossa di una giornata che sarebbe diventata devastante per mezza Italia, in particolare per l’Emilia Romagna. Damiana non ci pensa un istante, ha paura e scappa, via dallo studio. «Terrore puro – ricorda – pensavo che tutto crollasse sopra le nostre teste». È andata bene per fortuna, ma quella è stata una scossa anche per lei. «Lo stesso anno mi sono dimessa, ho rinunciato a un contratto a tempo indeterminato: ero stanca, sotto stress per la sveglia all’alba ogni mattina e per l’impossibilità di conciliare lavoro e passioni, i cavalli, i viaggi e la Sardegna. Mi sentivo in gabbia, avevo bisogno di libertà». Damiana è già fidanzata con Leonardo e dopo avere girato mezzo mondo decide di fargli conoscere la sua terra d’origine. «È estate, andiamo a Muravera, il mare è fantastico, le spiagge affollate. La Sardegna gli piace ma non ne resta colpito. Quando torniamo d’inverno cambia tutto: il caos è sparito, il clima è tiepido, scoppia un amore folle». Lui decide di cambiare vita e il mondo abituale si rovescia: la Sardegna non è più il punto d’arrivo ma di partenza, è dall’isola che ci si sposta e non il contrario. «Poco più di tre anni fa, io a Padova e lui in Sardegna, mi chiama: “Sei seduta? Tieniti forte. Ho comprato casa”. Sono quasi svenuta, ma che felicità». La casa è un bilocale nel residence di Porto Corallo, comune di Villaputzu, ampia terrazza vista mare, a due passi dal porticciolo e dalla spiaggia. «Un angolo di paradiso, la nostra nuova casa – dice Damiana – residenza fissa da quando è scoppiato il Covid: nel febbraio scorso eravamo in Sardegna quando sono iniziati i primi casi. Io avevo un impegno: presentare il libro di un’amica in Veneto e volevo approfittarne per stare un po’ con la mia famiglia e miei amici. Ma il mio compagno mi ha detto: “Vai via subito, sta per scoppiare il finimondo”. Gli ho dato retta per fortuna, pochi giorni dopo Vo’ Euganeo, due passi dal mio paese, è diventato zona rossa». Ed ecco che la Sardegna, Porto Corallo e il suo mare sono diventati un rifugio dolce durante il lockdown e ancora lo sono con la pandemia in corso. «Stiamo benissimo qui – dice Damiana – anche se mi manca non poter vedere i miei adorati genitori quando voglio. Ma finirà quest’incubo». Nel frattempo continua a fare la giornalista e consulente delle comunicazione e continua anche ad andare a cavallo: lei e Leo hanno da poco aperto un maneggio a San Priamo, «unica stazione di monta nell’isola», e dal Veneto è arrivato Silvio, «il mio meraviglioso stallone». La vita è come un’onda e Damiana la cavalca con entusiasmo e «con un senso enorme di gratitudine verso quest’isola che quando ti entra dentro non ti lascia più». DI LUCA URGU
27 MARZO 2021
La moglie sarda: «Il mio amore da Oscar con Riccardo, l’altro Fellini»
Lina Chelo e Riccardo Fellini nel giorno del loro matrimonio
Il fratello del celebre regista è sepolto a Bosa, città d’origine di Lina Chelo: «Lì ci siamo conosciuti prima di andare a Roma: è stato come riportarlo a casa»
BOSA. L’altro Fellini, Riccardo, riposa nel cimitero monumentale di Bosa. La sua tomba rivestita di marmo scuro è nella cappella di famiglia della moglie Lina Chelo. Attore prima e regista dopo come il suo ben più illustre fratello Federico (maggiore di un anno) che con i suoi film ha fatto incetta di Oscar e contribuito a far conoscere il cinema italiano in tutto il mondo,
Riccardo Fellini, a destra, con Franco Fabrizi, Alberto Sordi e Leopoldo Trieste sul set de "I vitelloni"
Riccardo, morto a Roma, il 26 marzo del 1991 è stato sepolto in Sardegna per volontà della consorte. «Volevo che stessimo ancora vicini, non ho mai smesso di dargli carezze», dice la vedova. Proprio parlando con lei ad Alghero, appena quaranta chilometri più a nord della sua Bosa, a vent’anni di distanza dalla morte, di quello che si può definire senza se e senza ma, l’uomo della sua vita, emerge di Riccardo Fellini, un ritratto particolare e a tratti inedito.
Un profilo dolce e deciso. Il loro è un amore senza tempo, che sopravvive anche alla morte di uno dei due. E malgrado dalla sua dipartita siano trascorsi quattro lustri, irradia la vedova di una bella luce. Le sue parole, quando parla e si riferisce all’uomo che ha sposato dopo una convivenza di oltre undici anni, diventano carezze pronunciate da una voce calda resa giusto un po’ ruvida dalle tante bionde accese.
L’incontro a Bosa. «Federico ha vinto gli Oscar del cinema, ma mia mamma quelli della cucina. Faceva una zuppa di aragosta conosciuta ovunque. E ancora oggi chi la nomina ha l’acquolina in bocca», dice con orgoglio la signora Lina Chelo dall’appartamento a pochi passi dalla chiesa di Sant’Agostino. Chissà se Riccardo Fellini, all’epoca ospite dell’hotel ristorante Chelo a Bosa Marina, durante una tappa sarda del suo tour nazionale per un documentario in fieri (Gli animali degli italiani), che stava realizzando per la Rai, non si sia infatuato prima di quel piatto di crostacei prelibato e poi della figlia dei proprietari.
Tra i due, è cosa certa, malgrado i venti anni di differenza anagrafica, scoppiò l’amore. Quello vero, fatto di passione, rispetto e di una complicità durata fino agli ultimi giorni di vita di Riccardo, portato via presto da un male apparentemente banale ma rivelatosi letale. La vita insieme a Roma. «È vero, Riccardo era molto più grande di me, ma non è mai stato un problema. Aveva un carattere vivo e forte, entusiasmo e uno spirito che potremmo definire giovanile associato alla maturità, tanto che io non mi sono mai resa conto di questa differenza di età», racconta Lina Chelo.
«Ci siamo conosciuti a Bosa marina nell’albergo della mia famiglia, poi scritti per mesi come si usava allora. Lettere su lettere che ci facevano desiderare nuovi incontri. Poi io ho lasciato la Sardegna per raggiungerlo a Roma. Ormai era quello che volevamo entrambi». La coppia ha condotto una bella vita. Sicuramente ricca di eventi e di incontri. Il mondo era quello del cinema e Roma la città effervescente e vitale dove ogni cosa nasceva. «Abbiamo trascorso dodici anni insieme prima che morisse dopo un breve periodo di ricovero in una stanza dell’ospedale Umberto I di Roma, la stessa dove ebbe la stessa sorte un anno più tardi suo fratello e mio cognato Federico. Per me quegli anni furono almeno il doppio tanto fu intensa quella stagione soprattutto per la bellezza del nostro rapporto e per una complicità che sazia», racconta la signora Fellini.
«Si, lo posso dire. Eravamo felici». Un amore unico e grande il suo verso il marito romagnolo: un amore da Oscar verrebbe da dire. «Quando è mancato Riccardo ero ancora giovane, potevo sicuramente rifarmi una vita, ma non ne ho mai sentito il bisogno», dice Lina, come se la presenza del suo uomo, di suo marito, seppure per una stagione della sua esistenza, bastasse. Non richiedesse appendici e corollari. «Dopo la sua morte mi è sembrato naturale portarlo a Bosa, nella mia Bosa. Quando me lo chiese Federico glielo dissi. Lo porto in Sardegna. Anche io sarei tornata a casa ed era un modo per averlo vicino – spiega Lina – per poterlo andare a trovare con facilità».
I fratelli Fellini. Riccardo era stato anche attore: per Federico uno dei “vitelloni” (1953), poi regista e documentarista. Aveva una luce propria ma il successo del regista della Dolcevita sembrava non contemplare un altro Fellini. Il rapporto tra i due non fu sempre idilliaco, ma si ricompose di affetto e attaccamento negli ultimi anni quando la malattia stava iniziando a minare il fisico di Riccardo. «Qualche incomprensione c’è stata – ricorda Lina Chelo – ma si volevano un gran bene. Federico e Giulietta erano molto affettuosi anche nei miei confronti.
Riccardo aveva una sensibilità particolare, per alcuni aspetti era anche troppo avanti per l’epoca, era un animalista ante litteram: “Quegli animali degli italiani” è il titolo di un film che realizzò per la televisione». Il destino dopo un fugace passaggio ha riportato lui, “l’altro Fellini”, in “un’altra sabbia”: quella ferrosa di Bosa davanti a un mare turchese lontana dai clamori della sua Rimini d’infanzia dove invece riposa suo fratello Federico. Strana sorte per entrambi che pur essendo nati al mare non lo amavano affatto
A volte basta una semplice intervista ( in realtà è una chiacchierata ) per rimuovere pregiudizi e preconcetti localistici provinciali anche se non cosi violenti ( anche se il confine soprattutto quando non hai strumenti culturali alle spalle è labile ) come quelli di
che spesso ci facciamo sugli abitanti di una determinata regione dopo una esperienza negativa . Ma soprattutto a sfatare che le persone sia attratte dalla tua terra solo perchè ne sentono parlare in maniera mitizzata ed esaltata per stereotipi ed luoghi comuni .Quando invece , come dimostra sia la storia , ne avevo parlato nel post : << benvenuta al sud dal veneto al sud della Sardegna la storia di Isabella Ferrigato >> della stesa protagonista . Dopo aver visto , oltre il servizio della trasmissione di sabato scorso ed esplorato un po' i suoi profili facebook ed istangram ( da cui ho tratto le foto per questo post ) , ho deciso di altre a metterla fra i contatti d'invitarla nella nostra pagina facebook di farci una chiacchierata che trovate sotto .
1) hai scelto tu di venire qui ho ti hanno mandato loro ?
Ho visto la Sardegna grazie alla conoscenza di quello che oggi è un fratello, più che un ex fidanzato. Un sardo del sulcis che vive da 25 anni in Veneto. Con lui, ogni estate ho visiato tutta l'isola. A ogni rientro dalle vacanza vivevo un dramma, il Veneto non mi apparteneva più, sentivo la Sardegna che mi chiamava come le sirene per Ulisse.
Avendo una famiglia stupenda alle spalle, e sentendo che non avrei lasciato nulla e nessuno, ho chiesto il trasferimento del luogo di lavoro. E dopo tre anni, da Padova sono arrivata nel Sulcis, meta da me scelta.
2) quale è stato il primo impatto con una regione che magari conoscevi solo per turismo ? e quindi la lontananza dalla tua regione ?
L'impatto con il territorio sulcitano è stato duro, aspro, difficile. Sono laureata al dams, ho 4anni di scuola di specializzazione di aarteterapia post laurea, ho lavorato con centinaia di pazienti come arteterapeuta, ho instaurato infinite relazioni per empatia e comprensione posso dire di esser stata d'aiuto a molti, ma l'impatto con questa terra ha azzerato e stravolto ogni mia esperienza e conoscenza
3 ) Come ti sei trovata con la lingua sarda fatta di numerose varianti e di due lingue estranee come il tabarchino e il catalano ?
Prima di tutto si trattava proprio di una questione di tempo. In Veneto si cerca di ottimizzare tutto, anche un dialogo, una discussione, una chiacchierata deve sempre avere un fine, dev'essere utile a qualcos'altro, deve servire. In Veneto tutto si misura col FARE, non c'è parola o argomento che regga se non supportato con un gesto, un fatto, un accadimento. Mentre qui la Parola assume i connotati del FARE, ogni parola detta è un fatto, una certezza, ed è da considerarsi sacra. Questo mi ha totalmente destabilizzato perché il linguaggio, in Veneto, è assolutamente un "in più" una decorazione a ciò che è stato fatto, quindi non può reggere da solo, non corrisponde a realtà, non ha identità. Mentre per il sardo ogni parola è legge sacrosanta, è verità, è molto di più di un fatto. E questo ho impiegato mesi per capirlo, mesi di scontri, di incomprensioni, di arrabbiature. Poi, cercando il più possibile di comprendere dove sbagliavo, ho deciso di pormi il problema. Perché non riesco a spiegarmi? Perchè fatico a farmi capire? Con una buona dose di umiltà mi sono messa in discussione e ho compreso cosa era veramente importante e cosa invece richiedeva meno sforzo. E così mi sono ambientata benissimo e ho iniziato a stimare ed essere stimata, con affetto reciproco. La leggerezza qua non è mai stata un problema perché qui, nel Sulcis, si parla perfettamente la lingua italiana. Poi quando usavano la lingua sarda ero io che cercavo di capire e farmi tradurre per imparare piano piano.
6) commentando e ringraziando per il servizio su rai tre ( vedere precedente Post dici sulla bacheca facebook : << A me sembra tutto così normale. >> Spiega meglio questo concetto
é talmente forte , come hai precedenti potuto notare sia nelle righe precedenti sia nell'interistata da te citata , è l'amore che nutro per questa terra che ho sentita subito mia, di appartenerle, di esserle figlia. Quindi posso dire che è la Sardegna che mi ha scelto e non viceversa. Con la frase "a me sembra tutto normale" intendo che non ci vedo nulla di speciale nella mia scelta. Ho 49 anni, tutti vissuti in Veneto, una terra meravigliosa che mi ha cresciuto, mi ha dato lavoro, studio, cultura, amici, famiglia. A questa età fai un po' il punto della tua vita, e la cosa che più mi mancava era il mare, i colori, i profumi della mia nuova terra, la Sardegna. Ho un a famiglia di fratelli e nipoti che amo e che mi viene spesso a trovare. Mio padre che parte ogni volta che ne sente il bisogno e io faccio lo stesso. Non ci manca nulla
e non ho abbandonato nulla. Non sono scappata come molti qui pensano. È talmente poco il valore che questa terra ha di set stessa, da pensare che se una viene a viverci è perché è stata allontanata di proposito dal suo mondo o lei ne sta scappando. Ed è esattamente questo che leggo negli occhi di molte persone. Il vostro attaccamento alla terra, alla famiglia, ai parenti, la vostra esperienza dell'immigrazione, vi porta a pensarla con una accezione negativa, come una scelta obbligata, e lo capisco. Chi cerca lavoro per vivere deve per forza migrare da qui. Ma il mio caso è assolutamente molto più semplice, più normale. Chi non verrebbe a vivere in Sardegna avendo lo stesso lavoro che svolgeva in Veneto? È una situazione di comodo la mia, non una scelta da ripartire da zero, non ha rischiesro chissà che cambiamento o sforzo o messa in discussione. Capisci che per me è come vivere in paradiso, tra un paesaggio che amo e tra persone vere, sincere, autentiche.
7 presumo dai tuoi post e foto che metterai radici qui ed non te ne vorrai andare finchè prenderai l'accento sardo
Carloforte è stata una scelta dell'azienda, si è liberato il posto e mi hanno chiesto di dirigerlo. Prima ero a Villaperuccio, un paesino incantevole del sulcis dove mi hanno accolto e trattato come una regina, poi l'arrivo a Carloforte ha destabilizzato quelle poche certezze che avevo acquisito. Qui, possiamo dire, che si definiscono "diversamente sardi ". Per storia e cultura loro sono una comunità lifura che da secoli vive a Carloforte, ma la tradizione, gli usi, i costumi, il cibo sono assolutamente liguri. Quindi per me parlare e capire il carlofortino è stato semplice, ha molto del dialetto Veneto. E mi sono trasferita qui perché navigare ogni giorno mi era impossibile. Vedremo l'azienda dove mi manderà, certamente non rimarrò qui tutta la vita, tornerò nel Sulcis dell'isola madre, un po' qui mi manca.