Ma non si arrende .
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
15.7.24
Nuova intimidazione alla sua azienda. Ma Patrizia Rodi Morabito resiste: non lascio la Calabria
Ma non si arrende .
26.3.24
Peppino Valarioti Il racconto di Carmela e l’amore che la ’ndrangheta non ha ucciso
- Il Fatto Quotidiano
NANDO DALLA CHIESA
Ascoltavo dunque con qualche impalpabile senso di colpa Carmela, i capelli gentili e ingrigiti, mentre raccontava la sera di quell’11 giugno: la cena passata in un ristorante tra amici a festeggiare un sucelettorale ottenuto sull’onda di una grande mobilitazione antimafiosa, costellata da incendi e altre intimidazioni. Mi sembrava di vedere Peppino mentre lei lo raccontava con parole lente e precise. Di vederlo avviarsi solo in un viottolo a prendere l’auto per tornare a casa, abbattuto alla schiena dai sicari che l’avevano atteso nel silenzio. Raccontava Carmela agli altri familiari, con una qualche tenerezza, che il suo Peppino era morto sentendo il profumo delle zagare poiché il ristorante era in un agrumeto. E lo diceva come se volesse malinconicamente spiegarci che era morto ricevendo quasi una carezza dal destino. Tanto più che l’ultimo rumore che aveva sentito era stato quello delle onde, mandatogli dal mare illuminato di stelle lì accanto. Questo lei sapeva con certezza. Una cosa invece non sapeva e non potrà mai sapere. Quale fosse stato il suo ultimo pensiero “su questa terra”. Chissà se era stato per lei.Quando l’ha detto ho sentito la potenza di un amore irriducibile sollevarsi da quell’altare di Trastevere. Credo, così mi è parso, l’abbia avvertita anche la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo, che dalla prima fila seguiva la testimonianza con rispetto ed emozione, nonostante le arrivasse da una storia “divisiva”. A dimostrazione che a dividere, di fronte alla mafia, non possono mai essere le idee politiche. Pensateci: Falcone e Borsellino, dalla Chiesa e La Torre. A dividere è altro.
4.3.24
storie di antimafia e di mafia istituzonale ., le idiozie della settimana da mary poppins era razzista a Il multimilionario ceo di Kellogg’s - tale Gary Pilnick - ha detto alla Cnbc che “le famiglie povere dovrebbero sfamarsi mangiando cereali per cena
due storie una d'antimafia
la seconda di mafia legalizzata cioè quella delle scomesse e del gioco d'azzardo
Le idiozie del politicamente corretto e non solo della settimana
15.9.23
le bugie del potere l'andrangheta in sardegna Incontro con Nello Trocchia e Cecilia Anesi a cura di Pablo Sole e Diego Gandolfo bookolica 2023
fra gli incontri serali di bookolica ed 2023 Il Festival dei Lettori Creativi cioè
Uno spazio protetto dove sprigionare le moltitudini che abitano ognuno di noi, sperimentando il linguaggio dell’arte.Uno stimolo alla condivisione, per muoversi verso l’Altro in un atto di autodeterminazioneUna tensione esplosiva e vibrante.Un istinto di contatto tra espressioni artistiche. ... . Tutto questo è Bookolica per ulteriori approfondimenti https://www.bookolica.it/festival
si è svolto l'incontro dal titolo LE BUGIE AL POTERE – Il giornalismo d’inchiesta Incontro con Nello Trocchia e Cecilia Anesi a cura di Pablo Sole e Diego Gandolfo . A seguire ( ne parlo e lo documento con video nel post successivo , per non appensantire troppo ) si è svolto il concerto un Live concert Musiche originali di Angelo Trabace (pianoforte) e Alessandro Trabace (violino elettrificato). IL primo incontro Incontro con Nello Trocchia e Cecilia Anesi a cura di Pablo Sole e Diego Gandolfo
26.12.22
Il sogno di una giovane donna: vincere la criminalità seguendo Falcone e Borsellino In "La ragazza che sognava di sconfiggere la mafia" la magistrata Annamaria Frustaci racconta dell'educazione "civica" di Lara, 13enne calabrese con il sogno di fare la giornalista
fonte repubblica del 25\12\2012
Un giorno, in un edificio abbandonato, Lara e Totò trovano un cagnolino bianco e morbido, che guaisce chiedendo aiuto. È lei a vederlo per prima, eppure il ragazzo reclama il suo diritto di tenere il cucciolo tutto per sé. Lo fa con la rabbia e la prepotenza del bullo, del “malacarne” che ha un destino segnato. Non ci sta Totò a farsi portare via il cucciolo da quella ragazzina che lo affronta a testa alta, senza paura. Ma Lara ha ormai intuito che il solo modo per sconfiggere la mafia, che si insinua tra le case e le vie del paese, è guardarla in faccia con onestà e coraggio. Così decide di fare a Totò una proposta che non può rifiutare.
Lara sceglie insomma da che parte stare, sceglie il destino suo e, con esso, cambia quello del suo intero mondo. [ ... ]
25.6.22
fuga dall'andrangheta nel nome dei figli \e
« Sono la madre di un ragazzo di 15 anni e uno di 13. Temo che possano finire in carcere o essere ammazzati come è successo a mio padre, mio fratello e mio suocero... Per favore, mi aiuti». Sono proprio i figli, e il desiderio di assicurare loro un futuro lontano da prigione e morte, il filo conduttore fatto d’amore che unisce le storie delle donne di ‘ndrangheta che si rivolgono al programma Liberi di scegliere, il protocollo governativo creato nel 2012peroffrire ai minori di famiglie mafiose la possibilità di una seconda vita lontano dalla criminalità organizzata.
Che cos’hanno in comune queste donne? «Sono vedove bianche. La loro vita è scandita dalle visite in carcere al marito, ai fratelli, ai figli. Sono condannate anche loro. Alcune avevano ruoli chiave, potere e soldi, eppure non godevano di alcuna libertà. Se il marito non c’è, sono controllate dalle suocere o altri parenti. Subiscono una doppia violenza: un’esistenza immersa nella brutalità delle regole del clan e la minaccia costante da parte della “famiglia” perché le prime persone che danno loro la caccia per ammazzarle, quando se ne vanno, non sono i mariti: sono i padri che vogliono salvare l’onore del cognome», continua la Rando, che ha incontrato decine di queste signore del coraggio. «La realtà mafiosa è immutata ma loro sono cambiate nel tempo. Hanno accesso a internet, seguono la tv e hanno maturato una consapevolezza: il diritto alla felicità. La storia di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa per vendetta dall’ex compagno, e il film su di lei (Lea, di Marco Tullio Giordana, 2015, ndr) hanno avuto un effetto dirompente per loro, ne parliamo spesso. Inizialmente quando arrivano da noi si comportano da mafiose, persino nella postura e nel linguaggio. Eppure col passare dei mesi tutte si accorgono di non avere mai sperimentato prima cosa fosse una vita “normale”. “Finalmente riesco a respirare”, è la frase più frequente. Nessuna, in dieci anni, è mai tornata indietro. Sono donne rigenerate, anche nel pensiero», spiega la Rando.
«Stiamo seguendo la storia di una ragazza figlia di un professore universitario e nipote di un magistrato. Ha 27 anni ed è distrutta. Ha interrotto gli studi per sposarsi col rampollo di una famiglia importante, il classico ragazzo belloccio e pieno di soldi. Dopo le nozze sono cominciati i guai ma lei ha voluto nascondere tutto alla sua famiglia. Il marito la picchiava e la ricattava usando il figlio: “Se parli, se scappi…”. La ragazza ha iniziato a soffrire di anoressia e a quel punto i genitori l’hanno convinta a confidarsi. Il marito è finito in carcere e lei ha potuto riflettere e rendersi conto che viveva un inferno anche perché mentre lui era dietro le sbarre era controllata dal clan. Quando è venuta da noi a denunciare, tremava così tanto da non riuscire a stare sulla sedia. Sua madre e suo padre sono stati grandiosi. Le hanno detto: “Lasciamo tutto, casa e lavoro, andiamo via”».
Sono tante le storie rimaste nel cuore del giudice Surace, quelle che Di Bella segue a distanza da anni e quelle che la Rando non molla mai. «Ammiro tutte queste donne. Però c’è una ragazza a cui sono molto legata: suo fratello, in carcere come anche il padre, anni fa ha ucciso la madre e lei è sola. Finito il liceo si è iscritta all’università ed è bravissima. Mi dice spesso che le manca la mamma, anche perché non è mai stato fatto ritrovare il corpo e questo la fa soffrire. Quando i suoi amici fuori sede ricevono la visita dei genitori per lei è un momento difficile ma poco tempo fami ha confidato: “Mia madre mi ha insegnato che ci possono essere tante mamme, persone che ti stanno vicino. Aveva ragione”. Ora è in Inghilterra a fare un corso e mi ha scritto: “Per la prima volta nella vitami sento spensierata”».
Viste spesso come l’anello debole della catena, le donne possono essere quello più forte perché lo spezzano. «La madre di due bambini ha scelto il nostro percorso mentre il marito era in carcere e lei in attesa di una sentenza di condanna», prosegue la Rando. «Quando le abbiamo consigliato di lasciare che i piccoli si avvicinassero subito a una famiglia affidataria, ha rifiutato. Era infuriata con noi. Poi ha riflettuto: “È vero, per loro sarà più semplice così”. I bimbi stati dati a una coppia di professori, persone dolcissime. Due anni dopo, quando è arrivata la condanna, la mamma ha spiegato ai figli: “Ho fatto degli errori e devo andare in prigione ma fidatevi di queste persone che vogliono aiutarci”. Quando la signora ha riavuto la libertà, il legame con la famiglia affidataria era così stretto, il suo senso di gratitudine così intenso, che ancora oggi trascorrono le feste e le vacanze insieme».
24.5.22
CAPACI 1992-2022 LA MEMORIA È UTILE: NON PER IL POTERE, MA PER I CITTADINI CHE MERITANO LA VERITÀ
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https://www.tpi.it/cronaca/buchi-indagini-strage-capaci-tracce-mai-seguire-20220519900778/
Ma come di solito tu sei molto puntuale , mi direte , ed in certi casi anticipi ma stavolta arrivi tardi . Vero , ma poiché , Gli anniversari soprattutto quelli come questi sono materia friabile e
delicata. Essenziali nella costruzione e disciplina della memoria, eppure, e insieme, permeabili al rischio di trasformare la ritualità del ricordo in un simulacro. A maggior ragione quello del cratere di Capaci e sulla devastazione di via D'Amelio, acme della stagione stragista di Cosa nostra e punto di svolta della nostra storia repubblicana. Infattida il fatto quotidiano del 22\5\2022
A essere sinceri fino alla brutalità, dobbiamo ammettere che le commemorazioni per le stragi del 1992-’93 sono un rito stanco, ripetitivo, vuoto, noioso, inconcludente. Perché allora dedicare quattro pagine speciali del Fatto al 30° anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? Perché forse, in questa Povera Patria, esiste ancora qualcuno che non lo trova inutile. Ma dev’essere un ben strano soggetto. Guardiamoci intorno. La Sicilia e Palermo stanno per tornare nelle grinfie di Dell’utri e Cuffaro. FI, fondata e guidata da un signore tuttora indagato come mandante delle stragi, è al governo senza che nessuno ricordi quell’agghiacciante indagine, neppure quando l’indagato è candidato dal centrodestra al Quirinale. I pochi pm rimasti a scavare nei rapporti fra mafia e politica, come Gratteri, vengono sistematicamente sabotati e scavalcati, mentre fanno carriera i normalizzatori. La Consulta smantella, con la complicità di governo e Parlamento, il 41-bis e l’ergastolo ostativo: le due armi che, insieme ai pentiti, ci hanno consentito di sapere quel poco che sappiamo sulle stragi. Da otto mesi si attende la motivazione della sentenza d’appello che assolve i colletti bianchi per la trattativa Stato-mafia. Tra un mese si voterà su un referendum per riportare i condannati nelle istituzioni; e si terranno Amministrative al buio, senza che l’antimafia indichi per tempo i candidati impresentabili. Eppure restiamo fra i pochi temerari a pensare che la memoria sia utile. Non per i piani alti del Potere, dediti alla più lurida restaurazione. Ma per quelli bassi: i cittadini che, non avendo nulla da chiedere, da guadagnare e da perdere dai poteri criminali, possono permettersi il lusso di conoscere e cercare la verità. La verità sulle stragi in parte la sappiamo e in parte la intuiamo da quello che non sappiamo. È una verità tridimensionale che si estende in profondità a uomini e apparati politico-istituzionali, anche se troppe sentenze e ricostruzioni la appiattiscono a storia di bassa macelleria criminale.
Io non avrei saputo dirlo meglio sia perchè ero , anche se ricordo benissimo il fatto di Capaci / come quello di Via d'Amelio ) e cosa stavo facendo quando appresi la notizia e vidi quelli immagini agghiaccianti , avevo 16 anni , della figura fi Giovanni Falcone ho solo ricordi non miei ma mediati da : giornali , tv , familiari . E poi come dimostra il link sopra è un caso ancora aperto
9.1.22
Aiutare gli altri. A ogni costo e a ogni prezzo. Questo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita Michele Ammendola, napoletano trapiantato a Bologna, prima di andarsene ieri per un infarto, a 46 anni.
Una storia piena di umanità, che scuote gli animi di chi non vede il dolore e la solitudine intorno a se e cieco continua a ignorare. Riposa in pace grande uomo



stato il volto dell’antifascismo e dell’antimafia a Bologna, sempre vicino agli ultimi, ai fragili, agli emarginati. Come quando, in pieno lockdown, decise di aprire un giardino per chi in casa non ci poteva stare. “Dovevamo aggiustare l’altalena, tagliare l’erba e dirlo al mondo che non si doveva avere paura della solidarietà anche nei momenti più bui” ha raccontato commosso l’attuale sindaco Lepore, suo grande amico. Se n’è andato un uomo con la schiena dritta, uno di quelli che resiste, non si piega, che crede testardamente nella giustizia sociale anche dove apparentemente non ce n’è più traccia. E, dove non esiste, la porta, la crea, la inventa. L’Italia si regge su persone come Michele Ammendola. E oggi ha perso - abbiamo tutti perso - uno dei suoi figli migliori. Buon viaggio.
5.1.17
Memoria: tra mistificazione e realta'
tra mistificazione e realtà
DI RADIO AUT · PUBBLICATO 5 GENNAIO 2016 · AGGIORNATO 5 GENNAIO 2016
Oggi Peppino avrebbe 68 anni. Sarebbe facile scrivere di come Peppino avrebbe reagito nell’osservare la realtà del 2015. Disgusto, orrore, ribellione. Sarebbe facile. Ma in cosa differirebbe la reazione di Peppino dalla nostra? Di certo, non solo nel nome. “Pinco Pallino è disgustato dall’attuale situazione politica italiana ” sarebbe molto diverso da “Peppino Impastato è disgustato dall’attuale situazione politica italiana”.

Il punto è che Peppino è morto a 30 anni. Nel 1978. In un epoca dove ancora c’era spazio per una politica animata da ideali genuini e davvero rivoluzionari. Per questo Peppino ha un valore. La forza delle sue azioni politiche in un paese, Cinisi, intriso di mafia e omertà, lo rendono “un eroe dell’antimafia”, come molti lo definiscono. E dall’eroe tragicamente ucciso nasce non solo il mito, ma anche la mistificazione.
Di quale antimafia stiamo parlando? Di quell’antimafia che si affanna a sgominare l’economia fiorente del sommerso mafioso per farla dilaniare dalle fauci di nuovi potenti che le sbranano nel giro di pochi anni, talvolta mesi? Di quell’antimafia di facciata di chi poco dopo averne fatto vocazione viene arrestato per associazione a delinquere o corruzione? Di un’antimafia moralmente pezzente, che si adatta a tutte le stagioni e a tutte le bandiere. E che cosa è poi la mafia se non la prevaricazione e l’intimidazione delle persone finalizzate alla concentrazione di potere nelle mani di pochi.
In nulla allora la mafia differisce da un neocapitalismo che costringe intere generazioni a precariato e sofferenza mentre banche e multinazionali si spartiscono i beni dello stato (ultima arrivata Trenitalia, prossima fermata poste italiane). Perché se parliamo di mafia e antimafia in questi termini, allora Peppino era davvero contro la mafia.
Essere contro la mafia non vuol dire solo parlare alla radio e denunciare malaffare, corruzione, intimidazioni. Dietro c’è molto altro.
C’è un Peppino antimilitarista che protesta contro la guerra in Vietnam. C’è un Peppino anticapitalista. C’è un Peppino femminista, uno contro il nucleare, uno ambientalista. E tutti questi possono essere definiti antimafia.
Anche per questo ci ritroviamo a fare dei distinguo fra un Peppino arcinoto, che è quello de “I cento passi” e quello reale. Il film di Marco Tullio Giordana ha l’encomiabile merito di aver fatto conoscere Peppino ad un gran numero di persone. Persone che difficilmente sarebbero venute a conoscenza delle vicende di Peppino e dei suoi compagni. Ma proprio per la trasposizione cinematografica molte cose sono state alterate o soprattutto omesse. Come lo spirito lunatico di Peppino. Il quale scriveva di se stesso in questi termini:
“Ma io mi allontanavo sempre più dalla realtà, diventava sempre più difficile stabilire un rapporto lineare col mondo esterno, mi racchiudevo sempre più in me stesso. Mi caratterizzava sempre più una grande paura di tutto e di tutti e al tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e costruire.”
Peppino scrive queste frasi come autoanalisi, riferendosi al periodo dei suoi vent’anni. Un periodo certamente turbolento, ma di certo enormemente formativo per la sua personalità e il suo agire politico.
Di sicuro non sono frasi che mettereste in bocca al Peppino cinematografico, all'”eroe” che, grazie all’abile penna degli sceneggiatori, parla di bellezza osservando dall’alto la costruzione dell’autostrada. Dialogo mai avvenuto ma strombazzato ai quattro venti, osannato e mercificato come verbo proferito dall’ “eroe”.
Peppino era benaltro. Non era un giornalista e neanche uno speaker radiofonico né tanto meno un giullare. Insieme ai suoi compagni non si limitava ad usare la radio per burlarsi dei mafiosi, ma agiva con un poderoso lavoro di inchiesta e controinformazione. Lavoro che sfociò, poco prima della sua morte, in un dossier dettagliato sugli scempi ambientali effettuati nella zona di Cinisi e Terrasini.
Le acque si intorbidiscono attorno alla figura di Peppino. Molti vedono solo il riflesso che la luce rimanda di Peppino dal fondale della memoria. Ma basta guardare attentamente, informandosi, leggendo i suoi scritti e i libri che su di lui hanno scritto le persone a lui più vicine, per fare emergere la vera natura di Peppino Impastato. Non certo quella di un “ribelle”, bensì quella di un uomo che in un periodo e in un luogo difficile come Cinisi negli anni 70, ha scelto la sua parte: quella di rivoluzionario comunista.
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26.2.13
trattitiva con la mafia ante litteram un inedito di Leonardo sciascia sulla mafia SULLAMAFIA L’INEDITO DI SCIASCIA UN SAGGIO DIMENTICATO PER CAPIRE COSA PENSAVA DAVVERO LO SCRITTORE SU COSA NOSTRA
UN SAGGIO DIMENTICATO PER CAPIRE COSA PENSAVA DAVVERO LO SCRITTORE SU COSA NOSTRA.
I RAPPORTI TRA POTERI PUBBLICI E POTERI ILLEGALI. QUASI UNA PREISTORIA
DELLA FANTOMATICA «TRATTATIVA», OGGI AL CENTRO DI CRONACHE E POLEMICHE
Da allora era dispersa. Appena 35 pagine, che diventano 65 con l’intervista di Giancarlo Macaluso a Stefano Vilardo (amico di Sciascia dal ‘36) e un’analisi di Salvatore Ferlita. L’operazione di recupero la si deve alla casa editrice Barion, resuscitata dalla «pancia» della storica
Mursia. È un tesoro nascosto.Sciascia, anzitutto, scopre nel suo studio che la parola mafia già appare nel primo vocabolario siciliano di Traina (1868) come importata dal Piemonte, sulle ali della spedizione
dei Mille di Garibaldi. Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè era solo «una ipertrofia» dell’ego ribellista. Poi arriva Giuseppe Rizzotto. Nel 1862 scrive I mafiosi di la Vicaria (una prigione di Palermo) e la mafia diventa «associazione».
Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore,Alessandro Mirabile, che nelle sue requisitorie parlerà di setta».Sciascia, a questo punto, sottolinea:«Alcuni, anche in buona fede,credono che applicando la parola
alla cosa si tenda a creare un pregiudizio». È ingiusto,affermano costoro, che a Milano una banda di rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca («la cosca» ricorda «è la corona
di foglie del carciofo»).
Sciascia, su questo, è netto: «La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa... questa distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di
don Pietro Ulloa, allora procuratore generale a Trapani». E cosa scrive Ulloa nel 1838? Parla di «oscure fratellanze», «sette segrete che diconsi partiti», un popolo che le fiancheggia, magistrati che le proteggono. E «al centro di tale dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX». Commenta Sciascia:«Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia,una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?».
Sciascia sposa la tesi dello storico inglese Eric Hobsbawm: in Sicilia la «rivoluzione francese» l’ha fatta la mafia. Ifeudi passano di mano, dai baroni ai borghesi.
I contadini promossi campieri ne diventano l’esercito. E rilegge (altro punto importante) Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in chiave «antimafia ». Il passaggio epocale, spiega, è chiaro nel personaggio di Calogero Sedara e nella famosa frase del principe di Salina: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno le iene e gli sciacalli».Iene e sciacalli, per Sciascia, si annidarono tanto nella spedizione dei Mille quanto nella «neutralità» verso il fascismo.
Anzi, vista la presenza del prefetto Mori, inviato dal Duce in Sicilia a combattere la mafia, se ci fosse stata una Resistenza nell’Isola, «i boss sarebbero stati partigiani». Sempre iene e sciacalli si alleeranno con gli americani per favorirne lo sbarco in Sicilia, ancora loro faranno sparire nel ’70 il cronista dell’Ora Mauro De Mauro e uccideranno il procuratore Pietro Scaglione nel ’71. Non mutano mai pelle, i picciotti di Cosa Nostra. Per farli vedere bene agli italiani, lo scrittore li paragona ai bravi dei Promessi Sposi di Manzoni. Infine, la famosa «equazione» di Sciascia su Cosa Nostra: «La mafia è una associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento... che si pone come intermediazione parassitaria,con mezzi di violenza, tra proprietà e lavoro, produzione e consumo,cittadino e Stato».
Leonardo Sciascia, deputato nelle liste radicali tra il 1979 e il 1983, espresse diciannove volte il suo pensiero in Parlamento.
Tre volte parlò di mafia e utilizzò la sua Storia della mafia come base per i suoi interventi. Grazie ad Andrea Camilleri,che li ha riordinati di recente, sappiamo che nel primo intervento (20 febbraio 1980) disse che diciotto anni dopo le sue denunce «il fenomeno anziché diminuire» lo avevano visto crescere. Nel secondo (6 febbraio ’80) accusò i colleghi: «Tutti avete detto che la mafia insorge nel vuoto dello Stato. E invece insorge nel pieno dello Stato!».
Nel terzo (27 gennaio ’83), dopo l’omicidio del giudice di Trapani Ciaccio Montalto, tuonò verso il ministro dell’Interno,Virginio Rognoni:«Lei parla della mafia come di un fatto fisiologico. Ritengo invece che bisogna guardarlo come un fatto patologico,e lei che è ministro dell’Interno deve guardarlo da medico internista».
Che voleva dire? Se cercate la malattia mafia, dovete curare il cuore dello Stato. Il saggio di Leonardo Sciascia, che salta fuori dal lontano 1972, riporta nell’attualità quegli interventi in Parlamento. Il libretto è importante per parecchi motivi. Intanto, è l'unico saggio «organico» sul tema firmato dallo scrittore di Racalmuto.
Poi contiene per la prima volta la sua celebre «equazione» sulla mafia, che lui non abiurò fino alla morte e che citerà apertamente nei suoi interventi parlamentari.
Non solo. Ne citerà anche altri passi, tra cui la relazione del procuratore di Trapani Pietro Ulloa del 1837, che lo scrittore ritenne sempre attualissima: «Descriveva la mafia come l'abbiamo conosciuta
noi, ed era una mafia di procuratori del re, di segretari comunali e di preti», dirà nella solennità del Parlamento.
La sciasciana Storia della mafia ci restituisce un intellettuale per intero, lo scrittore che «contraddisse e si contraddì », come ebbe a definirsi, non limitandosi a impiccarlo all’articolo sul Corriere della
Sera del 10 gennaio dell’87 contro «i professionisti dell’antimafia». In quell’intervento,
come noto, Sciascia criticò (senza nominarlo) il «protagonismo» del sindaco di Palermo (oggi rieletto) Leoluca Orlando, ma soprattutto sparò a zero contro la decisione del Csm di promuovere Paolo Borsellino procuratore di Marsala,in barba ai criteri di anzianità fin lì seguiti. Successivamente spiegò che,quando aveva redatto il suo intervento,non sapeva nulla di Borsellino, ma aveva criticato «l’assenza di regole» da parte del Csm, arma poi usata in senso inverso,per bocciare la candidatura di Giovanni Falcone. Soprattutto, Sciascia chiarì che aveva scritto sull’onda di eventi traumatici.
Il primo, pur rimasto sottotraccia, è il caso di Enzo Tortora, il presentatore tv arrestato nell’83 e coinvolto nel processone di Napoli contro la camorra.
Per inciso, Giovanni Falcone pensava che non avere stralciato la posizione di un personaggio così famoso da un processone contemporaneo al maxiprocesso di Palermo contro la mafia fosse «una trappola ben organizzata» a Napoli per scatenare «pretese di impunità» per i boss anche a Palermo. Il secondo trauma,dichiarato invece apertamente:il suicidio del segretario della Dc siciliana Rosario Nicoletti, rimasto un mistero.Quanto a Borsellino,dopo la
pubblicazione dell’articolo, i due si riappacificarono e, successivamente,rimasero in contatto. Il giudice si disse certo che qualcuno «che gli voleva male» aveva giocato il ruolo del suggeritore. Tuttavia non replicò mai allo scrittore. «Ho amato troppo i suoi romanzi sulla mafia, ci sono cresciuto». Ma di quell’articolo resta la carta e il piombo, per una volta solo tipoche avvolge una tragedia siciliana. Si ha un bel dire che Sciascia e Borsellino si chiarirono. Il giudice, nel suo ultimo intervento pubblico prima di sacrificarsi in via D’Amelio, disse che Falcone aveva cominciato a morire il giorno della pubblicazione dell’atto d’accusa di Sciascia. Il che da solo dovrebbe bastare a spiegare gli «eroici furori» di chi ha utilizzato in questi anni Sciascia in esclusiva chiave antimagistrati. Ma la vedova di Borsellino, Agnese, ha detto di recente che Sciascia «aveva capito tutto vent’anni prima».La figlia dello scrittore, Anna Maria, ha sottolineato che il padre non voleva colpire Borsellino,ma che mal sopportava «una certa retorica dell’antimafia ». Disonesto sarebbe però anche affermare che l’articolo sarebbe
stato scritto «sotto dettatura». O che fosse incoerente. La faccenda, comunque la si giri, resta complicata. E tragica. La simbiosi. La metastasi. La peste.Resta il fatto che Sciascia vede incubare un’Italia futura «mafizzata», con quello «sguardo distaccato di un entomologo» che gli attribuisce, a ragione, l’amico Vilardo.
A 23 anni aveva assistito all’omicidio del sindaco di Racalmuto, Baldassare Tinebra. Poi aveva visto, a Caltanissetta,il popolo far ressa per baciare la mano al boss don Calò Vizzini. Nel 1965 aveva intervistato Giuseppe Genco Russo,padrino di Mussomeli. E aveva studiato,«osservandolo» mentre si occupava del caso De Mauro, il capo della squadra Mobile, Boris Giuliano, ucciso nel luglio del’79. Freddo non per cuore duro,ma per «osservare» bene. Confidava all’amico Vilardo: «Quando la mafia si arricchisce,e ci vuol poco con la ricchezza che muove, sforna avvocati, medici, imprenditori,professionisti. Colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre quella».
L’entomologo Sciascia divenne, con timore,quasi un profeta. In Todo Modo descrisse la futura dissoluzione della Dc e il caso Moro. «Ho paura di dire cose che possono avvenire» spiegava. Di più. Nel’72, l’anno in cui scrisse La storia della mafia (aprile), a febbraio aveva licenziato Il contesto. Lo aveva tenuto fermo due anni.
Ne aveva paura. L’ispettore del romanzo, Americo Rogas,sembrerà a tutti Boris Giuliano,l’amico poliziotto ucciso. E la trama? Un complotto per occultare omicidi eccellenti,in nome della «ragion di Stato ». Dentro ci sono tutti, anche l’opposizione. Questo valse a Sciascia una raffica di sei articoli di critica sui giornali di area comunista (dall’Unità a Rinascita). Ma era ben peggio il vaticinio finale del suo ispettore: «Il potere in Sicilia, in Italia, nel mondo, sempre più degrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa ». Sembra che si parli delle inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia. Leonardo Sciascia, nel 1986, ascoltò la deposizione del pentito Tommaso Buscetta al maxiprocesso di Palermo. Ne uscì sgomento. Ma poi, dopo la sentenza,scrisse: «Il verdetto cancella l’impressione di allora. Vi si intravede quell'osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine».
Non capì la nuova Cosa Nostra. Non poteva sapere che il mostro che lui aveva avvistato tanti anni prima, quei picciotti sempre uguali, le iene e gli sciacalli di ogni tempo, stavano tornando sotto forme nuove. Dopo la breve parentesi della mafia corleonese di Totò Riina, che dichiarò guerra allo Stato, dalle sue ceneri sono risorte, all’ombra delle grandi corruzioni e di equilibri impenetrabili, le mafie invisibili, aristocrazie più simili a quelle dei primordi. Muovono un fatturato annuo (secondo lo studioso Francesco Barbagallo) di 70 miliardi di euro. E, dopo il tramonto dei corleonesi, hanno ripreso a vivere all’ombra delle istituzioni.
PIERO MELATI
28.8.12
cara valentina nappi la mafia non è cultura ma merda

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5.8.09
Gli ecologisti su facebook :la politica non vuole una legge sulla trasparenza per tenere sotto controllo i cittadini!
Nessuno ci potrà convincere del contrario ,ovvero che qualsiasi potere politico che governa senza trasparenza non ha alcuna legittimazione , né sovranità , e non potrà mai garantire né giustizia , né democrazia reale, ma solo asservimento delle folle ai suoi voleri. Questa in realtà è la sfida , di questo nuovo secolo , questo è il vero obiettivo , dare alle persone gli strumenti per essere esse stesse soggetti di diritto e non di “dritti”. Per questo riteniamo che la trasparenza amministrativa sul modello svedese ed una riforma elettorale su criteri quantitativi , sia una opportunità per tutti , perché permetterà a chiunque interessato alla gestione della cosa pubblica ed al bene comune , un controllo effettivo . Una democrazia ,per essere tale, deve essere condivisa . Non è un caso che nelle antiche democrazie delle città greche , i cittadini , a turno, partecipavano alla vita della “Polis” e tutti erano soggetti alla stessa legge, e tutti venivano coinvolti a partecipare alla vita pubblica attraverso la rotazione e il sorteggio nella partecipazione alle cariche politiche . Questo stava ad indicare che tutti godevano della medesima “arete”, ovvero di quella virtù che è in ogni uomo di eccellere in qualsiasi attività , trovando così ognuno il senso e la giusta dimensione nella partecipazione alla comunità. Oggi diversamente , sembra evidente il contrario , ovvero ,che la legge , sia terreno di conquista per assicurare l’impunità!
Nella pieghe di uno stato senza trasparenza si garantisce e si permette il diffondersi di mafie, si premia coloro che non meritano , si assicurano gare ed appalti agli amici , si permette al vicino di casa di costruire balconi e verande solo perchè collusi con le amministrazioni.....si assicura solo ingiustizia e tensioni sociali....si permette ad una classe politica senza curricula di rappresentarci senza averne merito!!!!
La trasparenza amministrativa è la nostra unica arma per scardinare un sistema marcio e diventare finalmente soggetti a pieno titolo e non usati solo per bieche operazioni elettorali. Questi sono i motivi per i quali i nostri politici si interessano a noi ogni cinque anni , solo in vista del voto....una volta incassata una delega in bianco possono rubare incontrastati. La trasparenza permetterà ad ogni cittadino di accedere agli atti dei comuni , ai bandi, alle gare, ai bilanci e tenere sotto controllo le casse che vengono beffardemente svuotate a nostre spese!!!
QUESTO E' IL MOTIVO PER IL QUALE IL NOSTRO PARLAMENTO NON VUOLE APPROVARE UNA LEGGE SULLA TRASPARENZA IMPRONTATA SUL MODELLO SVEDESE, MA QUAL'E' LA DIFFERENZA TRA LA SVEZIA E L'ITALIA!!! Molto semplice , in Svezia , i cittadini possono ad esempio verificare se i criteri adottati dalla pubblica amministrazione per una determinata fornitura ed appalto sono congrui, verificare tutte le spese dei parlamentari, dei consiglieri regionali, praticamente il cittadino viene considerato di diritto come un cittadino di serie A. Nel nostro paese diversamente possiamo accedere solo a quegli atti che interessano direttamente il singolo cittadino. Ad esempio non si può accedere e verificare appalti e spese , ed è questo il vero nodo!!! Per questo la TRASPARENZA AMMINISTRATIVA sul modello svedese è uno strumento reale nelle mani del cittadino che potrà finalmente controllare i propri eletti ed evitare di essere continuamente ZIMBELLO dei partiti!!!!
Vi invito pertanto ad iscrivervi numerosi ed invitare i vostri amici , formando una catena numerosissima che ci permetta di condizionare il parlamento al fine di approvare una legge sulla trasparenza sul modello svedese aderendo alla nostra raccolta firme su facebook al seguente link http://www.facebook.com/board.php?uid=113198880867#/group.php?gid=113198880867
emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello
Apro l'email e tovo queste "lettere " di alcuni haters \odiatori , tralasciando gli insulti e le solite litanie ...

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