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13.12.24

Ha suscitato indignazione la decisione dell’Amministrazione di Palermo di concedere UN BOSS DI MAFIA, MAI PENTITO, HA PARLATO DEL SUO LIBRO IN COMUNE!

 L'intervento  di nando della chiesa   riportato precedentemente  su questo blog  capita   a fagiolo davanti alla notizia e all'indignazione ed polemiche che ha creato e sta creando la notizia che Antonino Mandalà,detto Nino, 85 anni noto ache come L’Avvocato”, condannato a sette anni e otto mesi per associazione mafiosa,è stato vicino al boss Bernardo Provenzano.Suo !glio Nicola è all’ergastolo per omicidio: fu tra gli uomini di fiducia del capo di Cosa Nostra .  Ora   , non ci sarebbe  niente  di male   se  ,  un  ex denetuto per mafia  pentito  o  non pentito   , non avesse    elogiato    anche se  indirettamente  gli esponenti  mafiosi ,  e quindi mandìcando di rispetto a  familiari   delle  vittime    cosa  che  purtropppo   è  avvenuto    con  la  complicità di un istituzione 



 da Giallo di questa settimana


 A sollevare il caso è Ismaele La Vardera,31 anni, il deputato regionale, nonché ex inviato della trasmissione “Le Iene”, Mandalà sono stati vicinissimi a Provenzano. Eppure ad Antonino Mandalà è stata concessa una sala ufficiale del Comune di Palermo per presentare il suo ultimo libro. Sì, avete capito bene, a un boss che non si è mai pentito e che non ha mai collaborato con la giustizia viene concesso di tornare, in pompa magna, nei luoghi delle istituzioni con tanto di autorizzazione da parte del
Comune. Signor sindaco di Palermo, come è possibile una cosa simile? Mi auguro che prenderà
provvedimenti”. È indignato il deputato regionale nonché ex inviato della trasmissione Le Iene Ismaele La Vardera. C’È CHI LO DIFENDE: «HA SCONTATO LA PENA» In una terra di contraddizioni come la Sicilia, succede che Antonino “Nino” Mandalà, 85 anni, considerato dagli
inquirenti il capomafia di Villabate e vicino al boss Bernardo Provenzano, già condannato nel 2014 in via de"nitiva a seme anni per associazione mafiuosa e mai pentito, l'estate scorsa abbia presentato il suo romanzo “Marika” all'interno dei locali della Real Fonderia Oretea del Comune di Palermo. La vicenda ha suscitato clamore ed è defragrata in questi giorni con la denuncia pubblica da parte di La Vardera. La presentazione era stata organizzata dall'associazione “Amicizia fra i popoli”. Oltre all'autore c'rano il moderatore Antonio Dolce, la scrittrice Sandra Guddo, l'ex provveditore agli studi di Palermo Rosario Gianni Leone e Pino Apprendi, garante comunale per i diritti delle persone detenute. Quest'ultimo ha
difeso l!iniziativa: «Mandalà ha scontato la sua pena. Nei pochi incontri avuti con lui, ha manifestato la volontà di riconciliarsi con la vita a"raverso la scri"ura. Non sono un prete e non do assoluzioni, non sono un magistrato e non condanno nessuno, credo solo nel carcere che riabilita e alla vi"oria dello Stato». Non è però la prima volta che Mandalà, noto anche come “l!Avvocato” per la sua laurea in Giurisprudenza, presentava un proprio libro negli spazi del Comune di Palermo. Era già accaduto nel 2016, sempre alla Real Fonderia Oretea, per “La vita di un uomo”, romanzo dedicato al figlio Nicola all!epoca detenuto in regime di 41bis. In quella occasione al centro del diba"ito c!erano la vita dei detenuti e lo stato delle carceri, temi sempre cari a Nino Mandalà, che nel suo blog ha de#nito il 41bis «una misura disumana che contraddice tu"i gli standard proclamati dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione internazionale sui diriti dell!uomo». La latitanza di Bernardo Provenzano è stata resa possibile da una rete capillare di pizzini, meticolosamente smistati da collaboratori ben rodati, mentre il boss rimaneva nascosto nelle sue masserie, nella sua terra, pronto a fuggire da un covo all!altro. Nicola Mandalà, figlio di Antonino e capo della famiglia di Villabate, condannato all!ergastolo per l!omicidio dell!imprenditore Salvatore Geraci, è stato proprio un uomo di #ducia di Provenzano, al punto da accompagnarlo nei suoi viaggi in Francia, dove veniva sottoposto a delle cure. In tanti oggi si chiedono: a cosa serve la memoria quando la stessa poi magicamente svanisce nelle sedi istituzionali in cui dovrebbe essere saldamente preservata? Nei giorni delle commemorazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lungo le strade di Palermo e nei luoghi della memoria si celebrano manifestazioni e si organizzano concerti e iniziative per sensibilizzare i giovani. Tu"o questo, con la ferma volontà di comunicare alle nuove generazioni la linea di demarcazione tra ciò che è giusto e sbagliato. Ma qualcosa, evidentemente, non ha funzionato.

21.8.24

quando capiremo che la mafia e anche mentalità oltrechè illegalità essa continuerà ad esistere ed essere endemica . il paese di Corfinio, Comitato contro l’intitolazione della piazza a Falcone e Borsellino. proteste con la Soprintendenza che boccia la proposta di ridenominazione

 La mafia non è  solo  un fenomeno antropologico  nato  nel sud   fra  il XVIII\ XIX  secolo   o  forse  prima   ma  anche un fatto    di mentalità  culturale   che  no fa  distinzioni  fra  nord  e sud    vista   la  sua radicalizzazione  gerografica  e politico\ istituzionale  . Infatti  come    ho detto nel titolo    quando  capiremo  che la  mafia  e  anche  mentalità   oltrechè illegalità  non solo  folkore   essa  continuerà  ad esistere  ed  essere endemica . I fatto come  quello  di  Corfinio  solo per  citare  un esempio   di  sottovalutazione .

da    https://www.ilgerme.it/  tramite  google news   d'oggi  21\8\2024


Corfinio, Comitato contro l’intitolazione della piazza a Falcone e Borsellino. Soprintendenza boccia la ridenominazione

No della Soprintendenza alla ridenominazione della Pizza principale di Corfinio. Il Comitato ri-denominazione del paese peligno ha contestato la decisione presa dalla Soprintendenza ai Beni Culturali, che ha bocciato il ritorno al nome d’origine, mantenendo l’attuale nome di Piazza Falcone e Borsellino. Una decisione che ha fatto storcere il naso, tanto da far scrivere una lettera aperta al Ministro Gennaro Sangiuliano

“per esprimere il profondo sconcerto causato dalla decisione della Soprintendenza ai Beni Culturali, la quale ha espresso parere negativo per la ridenominazione dell’antica Piazza di Corfinio, che sottende un importantissimo Bene Culturale, simbolo del luogo dove è nata l’Italia”.Dagli anni ’30 la piazza ha portato il nome di Piazza Italica. Ciò fino al 2017, quando con delibera della Giunta Comunale il cuore del paese è stato intitolato ai due magistrati, brutalmente uccisi nelle stragi di mafia del 1992. Uno “sfratto” che la popolazione non ha accolto positivamente. Tant’è che la lettera del Comitato ri-denominazione parla di “grave disagio sociale” nell’animo dei cittadini. Termini forti, se accostati a due mostri sacri della legalità italiana, morti per non aver taciuto e non aver arretrato di fronte alla mafia.Non sono bastate le 300 firme raccolte su 980 abitanti per far cambiare idea alla Soprintendenza, che ha bocciato il ritorno alla denominazione delle origini, legato alla Lega Italia, della quale Corfinio fu la capitale.

19.5.24

Sardegna “batteria”, affari & scatole cinesi nell'eolico e nel fotovoltaico Ecco la mappa: 14 società anonime da diecimila euro di capitale con uno “strano” pegno della multinazionale di Stato

la strofa : <<.... Oggi contessa ha cambiato sistema  \  si muove fra i conti cifrati\Adotta i potenti ed amici importanti  .... >>  di   mia  dolce  rivoluzionaria  (  qui il testo  integrale  ) di Mcr   trova  conferma      sia  nelle  dichiarazioni  , niente  di  nuovo o meglio per  parafrasare la  famosa  canzone  Una storia  sbagliata    De  andrè   << ....  Storia diversa per gente normale \Storia comune per gente speciale .... >>  , di  Carbone (Direttore Dia): « Il modello F24 è il nuovo kalashnikov della criminalità»   ed  in quest  dell'unione sarda d che  propongo sotto  . Esse sono Operazioni ai limiti della legalità (???) che agli occhi di noi comuni cittadini appaiono fumose e incomprensibili. E' comunque evidente che tutti questi giri e raggiri non hanno nulla a che fare con il progresso e la transizione ecologica, ma perseguono ben altri interessi.
È proprio il gioco delle scatole cinesi,ma con Draghi e l'altra alla regione(dove adesso reclama tutti insieme contro), hanno dato campo libero a questo scempio...
Ecco l'articolo di cui parlavo

da  www. unionesarda.it  del  18 maggio 2024 alle 14:41

Sardegna “batteria”, affari & scatole cinesiEcco la mappa: 14 società anonime da diecimila euro di capitale con uno “strano” pegno della multinazionale di Stato    
Le società clonate gravate del pegno Enel e lo schema societario (L'Unione Sarda)



Non guardatelo così, non è un garage, nonostante le sembianze. Non fatevi ingannare nemmeno dal vicolo cieco spacciato per via Simplicio Spano, nello sterrato dove solitamente ci spediscono le giostre. Nelle mappe è periferia di Olbia. Nelle carte dell’assalto energetico, invece, è un crocevia mimetizzato di affari, pegni, scalate memorabili da nord a sud dell’Isola, scatole cinesi e intrecci societari da far impallidire i reticolati finanziari dei “Panama Papers”.


Quel finto “garage”

Quando arrivi nell’agro di Quartucciu e sbatti lo sguardo su quei primi container verdi con l’indelebile marchio «Made in China» capisci che i signori della “EnergyQ1Bess”, quelli dell’apparente garage di Olbia, non stavano scherzando. Nel 2021, quando l’assalto eolico e fotovoltaico all’Isola era ancora agli albori, stavano già pianificando come riempire la Sardegna di “batterie” cinesi per conservare in quella sorta di celle elettrochimiche l’energia prodotta senza motivo da pale e pannelli da spargere impunemente nei promontori più suggestivi della terra dei Nuraghi. Mai, anche chi come il nostro giornale, due anni fa, intercettò quel progetto nascosto nei meandri dei Palazzi di Roma, avrebbe potuto minimamente immaginare quel che si celava dietro quella che appariva una velleità da quattro soldi.

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Da Olbia all’antica Roma

Un’operazione destinata a dissolversi in un attimo, davanti all’incedere di colossi e multinazionali, non foss’altro che quella società del vicolo di Olbia aveva un capitale versato di appena diecimila euro. Una “solidità” aziendale nemmeno sufficiente a coltivare l’illusione di poter costruire una distesa di Litio cinese alle porte di Cagliari. Invece, la storia racconta tutto un altro copione. La società che sta realizzando la più grande batteria elettrochimica d’Italia, da 180 megawatt, è nominalmente la stessa registrata alla periferia di “Terranova”, ma il 18 dicembre del 2023 ha cambiato soci e sede. Dal vicolo cieco della città gallurese al cuore potente dell’antica Roma. Il passo è stato breve, giusto il tempo per i vecchi soci, quelli di Olbia, di farsi approvare dal Ministero dell’Ambiente e Sicurezza Energetica il progetto della mega batteria.

Cedono passo e azioni



Ford costruirà un impianto di batterie EV con un partner cinese


Da quel momento hanno tolto il disturbo per cedere passo e quote azionarie al colosso energetico di Stato, l’Enel. Un pacchetto “chiavi in mano” che non lascia adito a dubbi: l’operazione è da sballo. Le cifre riportate nel cancello d’ingresso del cantiere sulla nuova Statale 554 non lasciano spazio a sotterfugi: opere previste per 78 milioni di euro. Duecento containers “elettrochimici” di produzione cinese destinati, secondo i piani di Stato, ad una batteria da 180 megawatt di potenza capace di generare una montagna di incentivi di Stato pari a 183 milioni di euro in vent’anni. Un affare con molti zeri, per un gigantesco accumulo energetico destinato, però, a trasformarsi nel breve-medio periodo in una devastante “cattedrale nel deserto”, non solo per l’evoluzione tecnologica sempre più rapida, ma soprattutto per la provenienza cinese di quelle scatole d’acciaio piene di Litio.

Quel “pegno” sconosciuto

Quella consumata nell’agro di “Separassiu” è, però, solo la prima operazione di uno scacchiere ben più ampio capace di coinvolgere decine di società satellite e altrettanti accordi circospetti tutti “nascosti” nei meandri dei Palazzi “elettrici” della Capitale. Una partita tutta giocata sul triangolo Quartucciu-Olbia-Roma, con intermediari, uffici e meccanismi pianificati a tavolino per tenere tutto sottotraccia, a partire dal valore del “pegno”, quello apposto da Enel Green Power sul progetto della batteria cinese a ridosso dell’area metropolitana di Cagliari.

Il contratto segreto

Non un pegno di medioevale memoria, niente a che vedere con il “Monte della Pietà” di francescana ispirazione. Quella che i soci di “EnergyQ1bess”, Stefano Floris e Cinzia Nieddu, iscrivono obbligatoriamente nel “curriculum” societario è molto di più di una “garanzia”. Non un’ipoteca, ma quasi, visto che si tratta di «beni mobili», come le quote azionarie di una società a responsabilità limitata, solo apparentemente insignificante. Quello che “appone” Enel Green Power sulla società gallurese è un “pegno” da Codice Civile, un vero e proprio diritto reale di garanzia su un bene nominalmente altrui, ma che attribuisce al colosso elettrico un potere immediato e diretto, indipendentemente dalla persona che ne ha la disponibilità materiale. Un “pegno” che consente la massima copertura al creditore, in questo caso l’Enel, permettendogli nel contempo di omettere negli atti pubblici il valore dell’operazione.

Il sistema del “garage”

Il meccanismo che adottano si rivela in uno dei “pegni” sottoscritti davanti a Notaio e ceralacca: la società del “finto” garage di Olbia ha «concluso un contratto di sviluppo "progetto BESS di Quartucciu” – per 180 megawatt con la società "Enel Green Power Italia S.r.l.", con socio unico, soggetta a direzione e coordinamento da parte di "Enel S.p.A.", con sede in Roma, capitale sociale 272 milioni di euro».

Formica & elefante



Ford costruirà un impianto di batterie EV con un partner cinese


In pratica un “elefante” finanziario come la multinazionale elettrica di Stato chiede ad una “formica” societaria, costituita da qualche mese, con un capitale di appena diecimila euro, di “sviluppare” nientemeno che un progetto da 78 milioni di euro, esattamente il costo della batteria cinese di Quartucciu. Di cifre, nemmeno nel contratto di pegno parlano mai. Il tutto è rimandato ad un “contratto” che, negli atti ufficiali, viene omesso con la formula del «che qui si intende per riportato», ma di cui non si fa mai cenno. Il meccanismo non lascia margini: «a garanzia delle obbligazioni la concedente si è obbligata a costituire apposito diritto di pegno sulla totalità delle quote della società veicolo, fino all'importo massimo garantito pari al prezzo di acquisto del singolo progetto come calcolato nel contratto». Lo “slang” giuridico-finanziario consente di dire tutto, ma ammette di negare le cifre di quel contratto. La chiosa finale è ancora più esplicita: «Il pegno è concesso fino all'importo massimo garantito pari al prezzo di acquisto del singolo progetto come calcolato nel contratto».

La moltiplicazione dei pegni

L’importo di quel “pegno”, però, non deve essere di poco conto se la società del “finto garage” di Olbia ci prende gusto, sino a trasformare lo studio “Alchemist”, al numero dieci di via Simplicio Spano della città gallurese, in una vera e propria moltiplicatrice di pegni e società, disegnando “militarmente” la scalata energetica all’Isola di Sardegna. La mappa e il grafico che riportiamo in questa inchiesta è la rappresentazione più eloquente di quel che è stato pianificato in ogni minimo dettaglio. Non una “compulsiva” declinazione alla costituzione di società da quattro soldi, ma un vero e proprio piano d’azione con dietro il più imponente dei colossi elettrici di Stato, l’Enel.

La “scalata” sarda

Uno scacchiere da tenere rigorosamente mimetizzato, contemplando un’ulteriore scissione societaria della multinazionale, con la costituzione di punto in bianco della destinataria delle azioni di “EnergyQ1bess”, la neonata “Enel Libra Flexsys s.r.l.”. La strategia, però, a quel punto era già dispiegata: dal 2021 sino a fine 2023 la “Alchemist srl” ha messo in piedi ben 14 società destinate a mettere le mani su incentivi milionari, attraverso “progetti specchio”, in grado di replicare il meccanismo efficacemente collaudato a Quartucciu. Una dietro l’altra nascono le società satellite del “sistema pegno” messo in piedi in gran segreto dalla società gallurese con Enel.

La mappa dello “scacco"

La maggior parte conferma la sede nella periferia di Olbia, qualche altra divaga verso il Poetto di Cagliari, da via Isola di Pantelleria a via Isola di San Pietro. Non sono originali con i nomi, salvo la localizzazione del progetto, cifrata e criptata, da ”Energymac3 srl” dedicata a Macchiareddu a “Energymac4bess srl" destinata alle batterie per la zona a ridosso di Monte Arcosu, da “Energyvallermosa2” con il comune destinatario delle attenzioni riportato per esteso a “Energyut1 Srl”, che sta per Uta. Uno scacchiere che va da nord a sud dell’Isola con almeno tre costanti: tutte società inattive, con capitale da diecimila euro, non sempre interamente versato, tutte “gravate” dal “pegno” di Stato, quello dell’Enel Green Power. Uno “scacco” dell’Isola nato in un garage di periferia, consumato nei piani alti dei palazzi di Roma.


10.3.24

ancora a saperlo sei Nicola Gratteri: “Ora le mafie comunicano con Tik Tok”




niente di nuovo sotto il sole nelle parole di #nicolaGratteri . ma è sempre bene precisarlo anche se ormai la mafia è diventata stato e anche i politici consumano droga . Ma ipocriticamente la combattono con il proibizionismo e la repressione , no intervenendo con politiche sociali per ridurne l'uso e il consumo

da the  social post   del 10/03/2024 16:47
Nicola Gratteri: “Ora le mafie comunicano con Tik Tok”

                                              di Giorgio Renzetti 

“Le mafie oggi utilizzano i social per fare proseliti tra i più giovani. Come fanno gli influencer”. Così il magistrato Nicola Gratteri intervistato questa mattina a “Timeline”, rubrica settimanale di Rai3. Il procuratore capo di Napoli, che ha da poco pubblicato un nuovo libro (“Il Grifone”, Mondadori) scritto con Antonio Nicaso, ha risposto con la consueta schiettezza alle domande. Come a quelle sulla diffusione delle sostanze stupefacenti riscontrata sul territorio.E’ di questa settimana la notizia che la cocaina è tra le polveri rilevate dalle centraline per l’inquinamento a Roma: per Gratteri non c’è da stupirsi. “Anni fa nelle analisi delle acque dei fiumi Tevere e Arno si trovarono tracce consistenti di cocaina, e che oggi si riscontrino nelle polveri non è una novità. Del resto l’aumento di tossicodipendenti in Italia e in Europa è continuo e sono in aumento le morti da infarto di 40-50-60enni per l’uso di cocaina”. L’anomalia è invece sull’impatto sociale delle tossicodipendenze sulla cittadinanza, molto minore rispetto agli anni 70-80 del secolo scorso.
“Prima c’era l’eroina a far paura, oggi la droga fa meno impressione e nessuno ne parla perché non c’è l’ago: anche l’eroina si sniffa”. Ma sulla rilevanza relativa, se non proprio della sottovalutazione, del fenomeno droga sulla popolazione italiana Gratteri intravede mutamenti. “Sono preoccupato – spiega il procuratore – perché a fine anno arriverà anche da noi, in modo significativo, il Fentanyl. Negli Stati Uniti sta provocando più morti della guerra in Vietnam ed è stato il secondo argomento di confronto tra Biden e Xi Jinping quando si sono visti. Arriverà anche in Europa e bisogna attrezzarsi, ma è difficile da contrastare perché è una droga sintetica”.
Le mafie parlano attraverso i social
Proprio in relazione alle comunicazioni su argomenti sensibili, come sono quelli legati alla tossicodipendenza, il magistrato non tralascia i riflessi delle azioni che la criminalità sfrutta attraverso i social. Ricorda Gratteri: “Nella seconda metà del Novecento le mafie utilizzavano sia le squadre di calcio, gestendole con i loro soli e presentandosi negli stadi per avere il consenso delle tifoserie; e sia le processioni, sfilando al fianco delle autorità e facendo donazioni alle chiese locali. Erano fenomeni di esternazione del loro potere. Oggi utilizzano i social”.
Gratteri spiega che nel libro (“Lo abbiamo iniziato due anni fa e ci sembrava proiettato nel futuro, ora che è uscito è già contemporaneo”, sottolinea) si racconta come “sono stati i messicani a iniziare a comparire su Facebook, mentre in Italia hanno iniziato i camorristi. I figli dei quali mostravano le loro ricchezze. Oggi TikTok è la vetrina delle mafie, che pubblicizzano la loro ricchezza e potenza lanciando il messaggio ai giovani: ‘Vieni con noi’. E molti ragazzi pensano che quello lì possa essere il loro futuro. Proprio come fanno gli inluencer mostrando l’effimero”.
Una vita sotto scorta dal 1989
Va aggiunto che Gratteri ha una pagina Fb (“Che non curo io”) con 363 mila follower e i suoi video su TikTok sommano 97 milioni di visualizzazioni. Per la ‘ndrangheta è il nemico numero uno (ha lavorato per molti anni in Calabria, anche alla Dda) ed è accompagnato dalla scorta del 1989. “La paura? Ognuno di noi ha paura – ha risposto a Marco Carrara nel programma di approfondimento dedicato ai social media – ma bisogna imparare a razionalizzarla, a ragionarci. Fino a capire di poter convivere con la paura”.
Naturale conseguenza è l’accostamento della sua storia professionale (e non solo) a quella di Falcone e Borsellino con un commento sulle stragi di mafia del ’92: “Falcone è stato ucciso quando non si pensava che potesse essere ancora nel mirino. Mentre Borsellino è morto sapendo di morire: quando è diventato Procuratore di Palermo – ricorda Gratteri – tutti sapevamo che sarebbe stato ammazzato, lui per primo: era un conto alla rovescia. E’ questa la grandezza di Borsellino”.

8.1.24

DIARIO DI BORDO N° 27 BIS ANNO II Chiesa Altro che coppie gay: il parroco benedice la paranza di camion del costruttore condannato per camorra ., Maria Gambarana La “staffetta” dei moti del 1821 Storia di una cospiratrice carbonara dimenticata ., ed altre storie

 




Il  duemila  e ventiquattro è appena cominciato ma nella Chiesa la battaglia anti-bergogliana dei clericali di destra continua senza pause. L’ultima trincea è quella delle benedizioni alle unioni omosessuali, poi ridimensionata dal prefetto del Dicastero per la Dottrina della fede, il cardinale argentino Victor Manuel Fernández detto Tucho, in modo quasi fantozziano: “Le benedizioni devono durare poco, dieci massimo quindici secondi”.Nel frattempo, nel sud d’italia, c’è una certa Chiesa che benedice tutt’altro, in linea con la nefasta tradizione degli “inchini” di sacre statue a boss e mafiosi durante le processioni. La storia l’ ha raccontata Vincenzo Iurillo sul sito del Fatto il 5 gennaio. A Sant’agnello, paesino della costiera di Sorrento, il 30 dicembre il parroco ha benedetto una “paranza” di cinque camion di proprietà di un imprenditore edile condannato a quattro anni e mezzo (già scontati)per reati di camorra. Il sacerdote si chiama Francesco Saverio Iaccarino e ha atteso la “paranza” sul sagrato della sua chiesa, intitolata ai santi Prisco e Agnello, al termine di una sfilata a colpi di clacson dei camion. Intervistato da un quotidiano web locale, Positano News, l’imprenditore ha precisato che “siamo molto cattolici”. Il video poi è stato rimosso. Non solo. Il costruttore è di nuovo sotto inchiesta per un fatto avvenuto a fine marzo, sempre a Sant’agnello (poco più di 8mila abitanti), e denunciato in Parlamento da Federico Cafiero de Raho, l’ex procuratore nazionale antimafia oggi deputato del M5S. Questo: il pregiudicato avrebbe aggredito a pugni e calci uno storico ambientalista della zona, Claudio d’esposito del Wwf. In passato, l’ecologista aveva fatto vari esposti e denunce per alcune speculazioni edilizie del suo aggressore. Dopo il violento agguato ci fu anche una mobilitazione nell’intera penisola sorrentina.
E TRA I PROMOTORI
figurava anche un sacerdote, don Carmine Giudici, che spese pubblicamente parole profonde e intense: “La vicenda di un altro povero Cristo della nostra terra, Claudio solitario e testardo difensore di una bellezza sempre più profanata e violata, anche questa ci chiede di prendere posizione, di assumere una postura, di schierarsi senza esitazione e senza cavalcare in maniera strumentale la risonanza emotiva di un momento per poi sprofondare nuovamente in un anonimato che resta indifferente se non complice di certe devastazioni violente e selvagge”. Invece.Invece nove mesi dopo un suo confratello della confinante Sant’agnello si è reso complice dello show cittadino dell’aggressore del “povero Cristo”. Qual è allora il vero volto della Chiesa di quella terra di fronte alla violenza e alla prepotenza della camorra? Quello del parroco benedicente o quello dell’altro parroco che condanna?A dire qualcosa dovrebbe essere il vescovo locale Francesco Alfano, prelato fin troppo prudente e moderato e che in penisola sorrentina ha pure abolito de facto la tradizione antichissima dell’elezione diretta del parroco. Ché in questa storia anche il tradimento della volontà popolare ha un peso: il prete che ha benedetto i camion è infatti il primo parroco, dopo secoli, non eletto di Sant’agnello.

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Il 29 gennaio del 1827 moriva a Tromello, in Lomellina, la contessa Maria Gambarana, vedova del nobiluomo cremasco Venceslao Frecavalli. Nata a Pavia nel 1789 in un casato antico, è una delle figure più straordinarie e oggi più dimenticate del nostro Risorgimento. Nel 1921, in occasione del centenario dei moti liberali di Napoli e del Regno Sardo, Il Secolo XX, rivista milanese mensile “riccamente illustrata”, rievocò nel numero di marzo alcune donne che avevano preso parte a quelle vicende. Della contessa Maria, amica di Federico Confalonieri e di Teresa Casati Confalonieri, di Bianca Milesi, di Giuseppe Pecchio, di Metilde Viscontini Dembowski (amata da Stendhal), il periodico ricordò che “ebbe l'ardire di passare disinvolta il confine [austriaco] per portare, fra le trecce de’ capelli, una lettera d’invito con la firma di parecchi carbonari che esortavano il Piemonte a varcare il Ticino. Informata di quanto si tramava, con la scusa che possedeva beni in terra piemontese faceva la spola per recar lettere e ambasciate ai cospiratori”.

Più volte fermata, “seppe sempre con disinvoltura schermirsi e sfuggire alla polizia. Quando si vide pedinata e in pericolo di cader in trappola si travestì da uomo e su un calessino da lei stessa guidato fuggì da Milano e si mise in salvo”. Era il marzo del 1821. Il sollevamento del Piemonte profumava di primavera e di gioventù, ma non avrebbe passato la Pasqua, che cadde il 22 aprile. La signora che aveva varcato il Ticino, confine fra il Lombardo-veneto austriaco e il Regno di Sardegna, aveva poco più di trent’anni, non sapeva come sarebbe andata a finire la rivoluzione e neppure se i liberali del Piemonte sarebbero entrati in Lombardia. Pensava soltanto a portare a termine la missione.

La rivoluzione naufragò. Maria Gambarana continuò a cospirare. Fermata a Torino e tradotta in Lombardia per essere giudicata dalla polizia austriaca, fu interrogata a più riprese a Milano, ma negò tutto, evitando qualsiasi ammissione che potesse coinvolgere i suoi compagni, a differenza di quanto avevano fatto altri arrestati. Dovettero rilasciarla, mettendola però sotto sorveglianza speciale. Annotarono gli inquisitori: “...le premesse imputazioni prese tutte insieme ed avvalorate dalla considerazione che la Frecavalli era amica di Confalonieri, e che non era quello il tempo proprio per una signora a far viaggi, acquistano una forza imponente, essi però non sembrano tali da poter formare un indizio legale di reità”. Ebbe anche riflesso il “sistema negativo della Frecavalli adottato nei tre suoi esami politici”.

In un opuscolo dello storico Raimondo Morozzo della Rocca, pubblicato nel 1931 e caduto nell’oblio come Maria, si narra che la nobildonna non si risparmiò neanche quando era allo stremo delle forze, mettendo a punto con Teresa Casati Confalonieri, nel 1826, un piano per liberare il conte Federico dalla fortezza morava dello Spielberg.

Il piano fallì, Maria si spense in povertà nella tenuta di Tromello. Il giornalista Raffaele Barbiera lasciò detto di lei che “tanto spese per la preparazione dei moti del ’21, che lasciò le due proprie figlie (una delle quali bellissima) in miseria. Toccò a un parente intervenire e accogliere le povere ragazze”.


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Ricca malasanità L’odissea di un lombardo costretto a emigrare (nel privato) per una tac

FOTO ANSA
 La sede della Regione Lombardia

Noi e la sanità. E diciamolo, dunque: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Così inveì Cicerone nella prima delle sue celebri “catilinarie”, il giorno in cui il suo avversario aveva ordinato ai propri sicari di ucciderlo. Non diversamente dovremmo rivolgerci ai pubblici poteri di questo Paese, che vent’anni fa decisero di trasformare la salute degli italiani in uno dei più grandi e impuniti campi di profitto, essendo gli altri ormai saturi o inarrivabili al genio imprenditoriale italico. Così una convenzione dopo l’altra, un’esternalizzazione dopo l’altra, un soffio di ’ndrangheta dopo l’altro, il sistema sanitario che fu nostro vanto, come l’amministrazione pubblica in Francia o l’assistenza sociale in Svezia, sta diventando un gigantesco fattore di ingiustizia sociale in un Paese sempre più vecchio e bisognoso. Dopo gli eroismi dell’anno del Covid, sono caduti i veli. Lo ha registrato il monitoraggio di Nando Pagnoncelli sulle vere urgenze degli italiani, lo ha ricordato il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di Capodanno. Fino a quando continuerà? Fino a quando sarà possibile? Certo le regioni non sono tutte uguali. In alcune, con esempi clamorosi al Sud, il dramma della malasanità è stato quasi sempre endemico.

Epperò sentite questa. Proprio in queste settimane ho potuto seguire per interposta (e disperata) persona la vicenda di un cittadino lombardo. Ossia di un abitante della

regione più ricca d’italia e che stabilmente reclama da decenni l’assoluta “eccellenza” della propria medicina. Un sistema sanitario competitivo, dove privato e pubblico concorrono tra loro, con effetti virtuosi sulla qualità dell’offerta. Questo cittadino, residente nella provincia mantovana, dovendo affrontare con urgenza un’operazione per tumore e dovendo per questo preventivamente presentare una tac a chi avrebbe dovuto operarlo, si è sentito respingere la richiesta dal sistema pubblico, e prima (semmai possa essere una ragione) del periodo natalizio. Perché nemmeno in questi casi urgenti ci sono finestre disponibili per mesi. Il signore in questione ha allora sfoderato la santa pazienza di questi momenti (“quousque tandem?”, appunto) e ha cercato di effettuare la tac nel privato. Ma neanche questa disponibilità a pagare in proprio è bastata. Niente da fare da nessuna parte, almeno nei territori in cui, a buon senso, poteva rivolgersi. Allora è passato a un’altra regione anch’essa zeppa di eccellenze, l’emilia. Ma neanche lì il pubblico aveva finestre aperte. E neppure il privato, almeno nelle province limitrofe. Finché un posto (privato) è miracolosamente spuntato nella provincia di Ferrara. Morale: un cittadino lombardo per curarsi in una situazione di estrema urgenza ha dovuto rivolgersi al sistema (privato) di un’altra regione. È dovuto emigrare. Sottolineo: è dovuto emigrare.

Una volta era il contrario, in Lombardia ci si andava a curare. Un caso accidentale? No. Mesi fa un medico marchigiano mi ha raccontato che da un po’ di tempo nella clinica per cui lavora arrivano d’estate a farsi visitare cittadini lombardi. La ragione? Nelle Marche il posto nel privato si trova prima, e in più gli interventi (sempre nel privato) costano molto meno. La scelta estiva? È dovuta alla possibilità di ammortizzare le spese di trasferta e permanenza abbinando il viaggio a una vacanza. Turismo sanitario, appunto. Così si consumano, non tutte d’un tratto, ma un gradino dietro l’altro, le celebri eccellenze. Dietro ci sono i drammi veri di malati che non si possono curare, costretti a svenarsi, o perfino a indebitarsi. E quelli di famiglie in cui i malati sono più di uno. Perché il parlamento invece di promuovere una indagine-rappresaglia sulla sanità ai tempi del Covid, non ne promuove una vera al servizio della collettività sullo stato odierno della sanità in Italia? Ah, saperlo…




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Dazn e Lega calcio Due anni di partite interrotte? Ecco l’abbonamento triplicato

Nell’estate del 2021, quando Dazn acquistò i diritti tv del campionato di Serie A scalzando Sky come partner privilegiato della Lega del pallone, il prezzo mensile dell’abbonamento era di 29,99 euro e addirittura di 19,99 per chi si fosse abbonato alla velocità della luce sottoscrivendo il contratto entro una certa data. Pagando 29,99 euro al mese – o 19,99, appunto, sfruttando la sottoscrizione-lampo –, l’utente acquistava il diritto di vedere le 10 partite di Serie A su due dispositivi anche in luoghi differenti (ad esempio, un componente della famiglia connesso da casa e un altro connesso da un luogo diverso) con la possibilità di dare la disdetta dell’abbonamento in qualunque momento interrompendo servizio e pagamento.

Ebbene, sono passati due anni e mezzo, a primo triennio ancora in corso Dazn si è assicurata i diritti anche per i prossimi cinque campionati (fino al 2028-29) e la novità, ufficializzata da Dazn nei giorni scorsi ma di cui vi avevo già fornito un’ampia anteprima, è che da oggi, anno di (dis)grazia 2024, vedere le 10 partite di Serie

A mantenendo la possibilità, per due membri delle stessa famiglia, di farlo anche da due luoghi differenti costerà – tenetevi forte – 59,99 euro al mese: il triplo rispetto ai 19,99 euro pagati dagli abbonati con sottoscrizione-lampo, il doppio rispetto ai 29,99 euro pagati dagli abbonati-standard al primo campionato, il 2021-22. Volendo, si può anche scegliere di pagare 34,99 euro mensili ma a patto che la doppia visione contemporanea delle partite avvenga dalla stessa rete internet della propria abitazione; e se si vuole mantenere la possibilità di disdire l’abbonamento in qualunque momento, i 34,99 euro mensili – che vengono pagati anche nei mesi di giugno, luglio e agosto in cui non c’è campionato – diventano 40,99.

Ricapitolando: Dazn ha a tutti gli effetti raddoppiato e in certi casi triplicato il costo del suo servizio e lo ha fatto – con la benedizione del Palazzo del calcio – dopo due anni e mezzo di disservizi e di disagi continui rifilati agli utenti. In un Paese serio, in un movimento calcistico serio, la piattaforma in questione avrebbe offerto sconti, e tante scuse, ai suoi abbonati costretti a vedere partite puntualmente interrotte dalla rotellina del buffering.

Se a questo strozzinaggio aggiungiamo il fatto che Dazn non ha nel suo bouquet la Champions League, e cioè il torneo calcistico cui il vero appassionato di calcio non può rinunciare (e per vedere il quale deve necessariamente abbonarsi a Sky raddoppiando così la spesa per il calcio in tv), la conclusione è una sola: il Palazzo del calcio sta cercando di succhiare fino all’ultima goccia il sangue alla gente. E lo fa in questo modo brutale, senza alcun ritegno e senza alcun rispetto verso chi è pur sempre la risorsa principale del suo stesso sostentamento.

Come se non bastasse, tutto ciò avviene all’indomani della decisione del Parlamento Ue di cancellare a partire dal 2025 il geoblocking dando la possibilità a tutti i cittadini europei di abbonarsi, volendo, a piattaforme straniere – scegliendo l’abbonamento e il prezzo più convenienti – anche per assistere a eventi sportivi e partite di calcio: Serie A e Champions League comprese. Insomma, siamo alla mossa della disperazione. E se il modo per combattere la piaga della pirateria televisiva è quello di attentare alle tasche della gente con rapine legalizzate a mano armata, il calcio italiano si scava la fossa con le proprie mani. Ma come si dice: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.


4.10.23

“LUPARE ROSA”: MARIA E LE ALTRE e “Così a 79 anni, con la ’ndrina in casa, denuncio mio nipote

Un  altro motivo per  odiare  e combattere  la mentalità mafiosa   anche da  parte   di chi  vive  dove  la mafia  non  c'è ufficialmente   ma  ci sono le  sue  infiltrazioni sempre  più  radicate   . 
  da  il  fatto   quotidiano  del  1  e del 3  ottobre  


“LUPARE ROSA”: MARIA E LE ALTRE

In terra di ’ndrangheta Sono oltre 10 le donne fatte sparire e uccise per lavare col sangue la macchia del disonore Morte per un no, per amare, per essere libere

Epoi non l’hanno aspettata più. Hanno capito che non potevano aspettarla più. Chi, come il fratello Vincenzo, da subito. Da quando ritrovarono, davanti al cancello che cinge i loro terreni, sulla SP 31 verso Limbadi, l’auto bianca di Maria, col motore acceso, lo sportello aperto, la borsa sul sedile con dentro cellulare e soldi. Chi, come nonna Pina, la madre di Maria e Vincenzo che oggi non c’è più, quando ricevette la chiamata: erano le 7 di mattina e Maria non si trovava; per terra, accanto all’auto, sangue. Chi, come Federica, da quella sera. È il 6 maggio 2016, un venerdì. Quando scompare, Maria Chindamo non ha ancora compiuto 45 anni.

Non si sente niente, qui. Se porgi l’orecchio al mare, per quanto è vicino, può sembrare di sentirlo. Ma c’è solo silenzio. E il rumore del vento, che muove i rami e le canne che invadono le strade. Le terre di   Maria Chindamo – oggi curate dalla cooperativa Goel, al motto di “controlliamo noi le terre di Maria Chindamo” – sono circondate da un’immensa selva verde, fatta di agrumeti e ulivi, boschi di conifere e faggete, e piccoli casolari in pietra abbandonati. A salire, alle spalle della valle, le Preserre calabresi. In uno di questi terreni – non è stato possibile finora sapere quale – c’è Maria o quello che di lei resta. “Non possiamo nemmeno vivere i nostri ricordi – confida Vincenzo, per Maria tutto – senza che i miei nipoti pensino alla testa della madre mangiata dai maiali”. Due settimane fa l’inchiesta “Maestrale-carthago 2” della Dda di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri oggi neo Procuratore di Napoli, ha portato all’esecuzione di 81 misure cautelari. Tra gli arrestati, Salvatore Ascone detto “U Pinnularu”, il “dirimpettaio di terreno” di Maria, uomo della potente cosca Mancuso, a cavallo tra le province di Vibo e di Reggio Calabria. Già arrestato e scarcerato varie volte, anche per il caso Chindamo, Ascone disse a uno dei faccendieri dei Mancuso oggi collaboratore di giustizia: “Io, pe’ quattro sordi, a chija eppi ’u m’a juntu ’ncojiu”, “io, per quattro soldi, quella me la sono dovuta caricare addosso”. Sono state le testimonianze di alcuni pentiti, tra cui Emanuele Mancuso, a dare la svolta. U Pinnularu gestiva i terreni per Diego Mancuso, alcuni dei quali confinanti con quelli di Maria. 
“La proprietà terriera, là dove il controllo ’ndranghetistico è endemico – scrivono i magistrati – non solo rappresenta un indotto economico, ma costituisce l’unità di misura dell’egemonia criminale”. Maria, alla richiesta di cedere i suoi terreni, aveva detto no. E “Pinnularu l’ha fatta scomparire – racconta uno dei collaboratori di giustizia – sapendo che la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito”. Maria è scomparsa il 6 maggio 2016 e il 6 maggio 2015 Nando, l’uomo con cui lei era stata famiglia per trent’anni, si era tolto la vita. Non esistono le coincidenze. Maria, “quando si è permessa di postare le foto con il nuovo compagno – ha spiegato Gratteri –, è stata uccisa in modo inumano: gettando il cadavere in pasto ai maiali e triturandone i resti con la fresa di un trattore. Bruciava l’idea che i terreni fossero gestiti da una donna che si sarebbe permessa di rifarsi una vita: da una parte, non le è stata perdonata questa libertà; dall’altra, ci sono gli appetiti della ’ndrangheta”.Terra. Sangue. Famiglia. “Sono cose che ho sentito quando studiavo all’università Storia del diritto medievale, nei regni romano-barbarici...”, dice Federica, la figlia di Maria.

Nella famiglia, chi tradisce e disonora è punito con la vita: è la legge Giusy Pesce

Ha 21 anni, studia Giurisprudenza ed è tornata a Laureana di Borrello, quattromila anime, il paese di “zio e mamma”. Federica da tempo non parla più con la famiglia paterna: “Sentivo qualcosa che non andava...”. E aveva ragione. Secondo i magistrati, il padre di suo padre, nonno Vincenzo, oggi defunto, sarebbe stato il mandante dell’omicidio Chindamo. “Maria in 21 anni in casa nostra non ha mai dato segno di sbandamento”, raccontò il signor Punturiero alle telecamere di Nemo. Fino a quando il matrimonio tra Maria e Nando finisce, e nella sua vita entra un altro uomo. “Era solo uno?”, si chiese il suocero in diretta tv. E così si scopre che, negli ultimi mesi, Maria non era più tranquilla. Sentiva la pressione di quella famiglia, delle voci del paese, là dove nemmeno il silenzio protegge l’intimità. Dormiva, chiudendosi a chiave nella stanza in cui si tenevano le armi, tutte regolarmente registrate. “Il letame – dice il fratello Vincenzo – non si dà alle piante subito, bisogna farlo maturare. Così mia sorella l’hanno fatta aspettare, le hanno fatto credere che potesse avere una vita, fino a quando quell’odio diventato maturo l’ha strappata via”.Maria, come altre donne nate e morte in questa terra, era “macchiata”. Aveva lasciato il marito, non vestiva a lutto, non calava lo sguardo. E parlava. Ma ci sono luoghi in cui la megghiu parola è chija chi no esci. La vera forza della ’ndrangheta sta in questo, nel silenzio. Nelle complicità, nelle convergenze. E, per mantenere il silenzio, le donne servono, per permettere agli uomini di “lavorare”. Per quello, quando parlano, “sono mine vaganti: fanno la differenza, nel bene e nel male”, spiega don Marcello Cozzi che, da anni, accompagna donne che scappano dalle loro famiglie-prigioni e che a queste storie ha dedicato un libro con cui gira nelle scuole. “Sono giovanissime. E se appartengono a contesti mafiosi sanno bene che si sposeranno con un marito-fantasma che presto finirà in carcere o ammazzato, e che i loro figli avranno un doppio battesimo. Alcune ce l’hanno fatta. Altre, invece, sono tornate indietro, consapevoli della loro condanna a morte”.

“Far sparire la peccatrice per far sparire il peccato. Nientificare la persona”, dice un altro prete, l’ex presidente di Libera Calabria don Ennio Stamile, che ha dedicato l’università della ricerca, della memoria e dell’impegno a Rossella Casini. Rossella, come Maria Chindamo, non centrava niente con la ’ndrangheta. Ma, come lei, a un certo punto l’ha incontrata. Era il 1977, aveva 21 anni e, a Firenze, si innamora di Francesco Frisina, da Palmi. Scoppia la faida tra i Gallico e i Parrello-condello:

viene ammazzato il padre di Francesco, e lui si becca una pallottola in testa. Rossella lo convince a parlare, ma immediatamente la famiglia lo fa ritrattare. Lei non molla: parla coi pm, si mette tra le due cosche... Fino a quando non arriva l’ordine: “Fate a pezzi la straniera”. È il 22 febbraio 1981, Rossella telefona al padre a Firenze: “Sto per rientrare”. Di lei si perderanno le tracce. Per “ritrovarla” passeranno 13 anni. Violentata, uccisa e fatta a pezzi, i suoi resti furono gettati in mare, al largo della tonnara di Palmi.

Ad alcune, come Annunziata Pesce, nemmeno la memoria hanno lasciato. Sparita nel 1981 a 30 anni – si era innamorata di un carabiniere, da sposata – a “riportarla in vita” è stata un’altra donna, un’altra Pesce, Giusy, che raccontò ai magistrati di Palmi come “giù, nella mia famiglia, chi tradisce e chi disonora deve essere punito con la vita: è la legge”. Annunziata è stata “giustiziata” dal cugino, di fronte al suo stesso fratello, e seppellita a Rosarno, in una tomba “bianca”, senza foto né nome. Anna Maria Cozza, 23 anni, separatasi dal marito, il boss di Paterno Calabro, si innamora di un giovane operaio. Prima ammazzano lui, poi, nel 1991, scompare lei. Si scoprirà che era stata prelevata con la scusa di un passaggio, portata in campagna, legata a un albero e ammazzata a colpi di pietra. E poi Angela Costantino: a 25 anni poteva solo essere la moglie di Pietro Lo Giudice e la mamma dei loro 4 figli. Resta incinta una quinta volta, ma di un altro uomo. Capita lo stesso anche a sua cognata, Barbara Corvi. Di Angela sono rimasti una pentola col sugo bruciato, la carta d'identità e alcuni anelli in cucina. Mentre di Barbara si perderanno le tracce il 26 ottobre 2009, e nulla si sa ancora oggi. Da Maria Chindamo a Lea Garofalo – la testimone di giustizia che nel 2009 sparisce a Milano e verrà torturata, uccisa, e sciolta in 50 litri di acido dal suo ex marito Carlo Cosco e i suoi sodali – sono almeno dieci le storie di “lupare rosa”, donne che la ’ndrangheta ha fatto scomparire; più di 150 quelle vittime delle mafie (le ha contate l’associazione dasud nel dossier “Sdisonorate”). È la donna che può dare e togliere l’onore, ma sono gli uomini a uccidere, anche se spesso caricati dalle stesse loro madri, mogli, sorelle: lavano con il sangue per lavar via dalla famiglia, dalle voci, dalla terra, la “macchia”.

“Crescile libere”: è un sms che arriva a Vincenzo da una donna che non vive più in Calabria da anni. “Tieni le figlie di Maria lontano da quell’aria, da quella famiglia: loro le vogliono con il velo in testa...”.

“Qui nulla si muove”, vorrebbe un vecchio detto. Siamo di fronte allo Stretto di Messina, e se il vento soffia, l’aria tira verso le montagne, se il vento aspira, si spinge fino all’africa. Ma “qui nulla si muove”. Eppure oggi piove terra.


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Così a 79 anni, con la ’ndrina in casa, denuncio mio nipote



Ci sono angoli di questa terra in cui, nonostante il tempo, dentro le case è rimasto tutto come una volta. O quasi. È la Calabria più aspra, più isolata e nera. Puoi trovarne traccia tanto sul lembo che affaccia sul mar Tirreno, tanto su quello che guarda allo Jonio. O in quella manciata di case nascoste fra le guglie di arenaria e i valloni deserti. Sono luoghi, questi, in cui le donne sono rinchiuse dentro, letteralmente. Dove, ancora, se hanno ospiti in casa, non siedono con gli altri, ma stanno in disparte, in uno spigolo della tavola se non proprio in cucina, pronte a servire. La loro esistenza è giustificata dall’essere mogli e madri, dal badare alla casa e alle bestie, dal rispettare i doveri imposti dalla famiglia. E lì sono abituate a subire, a essere controllate e svilite, a non sapere cosa sia la voglia di vita e di normalità perché hanno conosciuto solo violenza.

“Se il terreno è mollo,è più facile scavare”, dice come prima cosa M.. La incontriamo alla Caritas a Locri, il centro della diocesi Locri-gerace che ha lanciato nel 2021, su impulso dell’energica responsabile Carmen Bagalà, un progetto per accogliere le donne e i minori vittime di violenza in Calabria. M. ha 79 anni. E da 60 prende botte. Prima da suo marito, sposato con un matrimonio combinato: gli interessi del padre di M. che aveva in dote animali e uomini si incontrarono con quelli della futura famiglia che aveva sì il blasone della ’ndrangheta ma non i mezzi. “Lui è morto giovane, in un incidente...”. Ovvero è morto sparato, nella faida di Guardavalle. Poi è arrivata la volta del figlio: “Anche lui era prepotente e anche lui non c’è più: una disgrazia...”. È stato colpito e ucciso, questa volta nella faida di Siderno. E ora che M., sorda in un orecchio per gli schiaffi ricevuti dal marito, pensava che l’incubo fosse finito, tocca al nipote, al figlio della figlia di M..

FINO A OGGI, Carmen Bagalà ha accolto nel suo dormitorio a Locri 59 casi di “Codice rosso”, la metà provenienti da ambienti di ’ndrangheta: 35 donne tra i 21 e i 79 anni e 24 minori. “E noi che eravamo convinti che ci saremmo occupati soprattutto di migranti...”. C’è chi arriva perché a segnalare il caso sono le forze dell’ordine o gli assistenti sociali, chi dopo essersi confessato in parrocchia, chi direttamente suonando al citofono in Caritas: “Rispondiamo 24 ore su 24”. È qui che, in tante, provano a riprendersi la vita. “Mi chiedo spesso se, aprendo il nostro centro prima, avremmo permesso a donne come Maria Chindamo di salvarsi...”. Le ospiti hanno a disposizione piccole unità abitative indipendenti, una psicologa, gli animatori, le suore: tutto in sinergia con le Ats locali e con lo sportello anti-violenza “Angela Morabito” di Ardore, nato anche grazie a Fiorella Mannoia. “Spesso le nostre ospiti non vogliono andare in commissariato: c’è ancora tanta paura, abbiamo difficoltà a trovare medici che abbiano il coraggio di refertare le violenze e poi ci sono le pressioni delle famiglie che si fanno sentire”, spiega Carmen, che sta dedicando le migliori energie della sua vita a questo progetto. “Il 30% delle donne che abbiamo accolto purtroppo è tornato indietro, sono rientrate a casa. Ma siamo riuscite a farne accedere tre al programma di protezione. E per noi già strapparne una alla ’ndrangheta è un successo”.

Il centro nato nel 2021 Fino a oggi, 59 i casi da “Codice rosso”: 1 su 2 da famiglie di ’ndrangheta E per 3 di loro è scattata la protezione dello Stato

QUANDO, pochi giorni fa, M. arriva da Carmen – che si prende cura di lei come se fosse una figlia, nonostante M. abbia 79 anni – è perché il nipote ha spaccato il femore e la spalla alla madre, ricoverata ora in ospedale. M. era al piano di sopra, sentendo le urla ha sceso le scale, il telefono in mano per chiedere aiuto, ma il nipote ha iniziato a gridarle: “Puttana, se vieni qui ti ammazzo”. È solo l’ultimo episodio. M., per dirne una, viveva in casa col cancello chiuso con una catena, e per uscire o rientrare doveva essere il nipote ad autorizzare e a darle la chiave. “Ha la testa che si è un po’ rovinata: un po’ ci è nato, un po’ è stato tirato...”, quasi lo giustifica. In una società contadina in cui l’uomo nasceva senza diritti né proprietà, l’unico diritto che poteva esercitare e l’unica proprietà che poteva rivendicare era sulla donna di casa: M. è rimasta intrappolata in quell’epoca. Per lei, è sempre “colpa” di una donna. Quando il violento era suo marito, era perché era la suocera a caricarlo; quando lo erano il figlio e il nipote, era per la sorella di M., la zia zitella, che viveva a casa con loro. “Era l’unica autorizzata a partecipare alle riunioni dei masculi. Era lei che voleva mettere sotto gli altri”. E così, nella sua guerra, la sorella ha disposto dei figli e dei nipoti di M. come fossero cosa propria. “Era una donna di ’ndrangheta?”. “Mia sorella era la ’ndrangheta”. Sarà l’unica volta in cui M. pronuncerà quella parola, durante il tempo trascorso insieme.

Sangue chiama sangue. “Ho paura – confessa – ma che altro posso fare ora? A casa non posso tornare .... È una vita che sono sottomessa”, dice M. con una tale leggerezza da farti comprendere che, per lei, quella violenza non è mai stata un torto, semmai un destino a cui non potersi sottrarre. “Sono dinamiche che ritroviamo in tutte le nostre storie e, in generale, nei casi di violenza di genere”, spiega Carmen. Perché la ’ndrangheta, come racconta don Marcello Cozzi, è prima di tutto “anti-cultura”. E, anche se non la vedi, è un’ombra che ti segue sempre, ovunque tu vada. A meno che non si accenda la luce. M., a 79 anni, quella luce l’ha accesa. Grazie all’abbraccio di Carmen, oggi ha deciso di denunciare.






29.9.23

Né con l’Antimafia,né con Messina Denaro: souvenir d’ Italie di Pierluigi Raccagni

 Da Castelvetrano condoglianze per la morte di Messina Denaro,ma anche senso di liberazione di una parte della popolazione.La morte dell’ ultimo dei padroni – padrini stragisti di Cosa Nostra,primula rossa per decenni a due passi da casa , è stata divisiva,come tutto in Italia.Che Cosa nostra abbia comandato politici,uomini delle istituzioni,gente comune per decenni c’è pure sui libri di scuola.

Così come sui libri di scuola vengono giustamente esaltate le figure di Falcone e Borsellino e dei servitori leali dello stato.Vengono pure ricordate quelle di Peppino Impastato,Mauro Rostagno  (  foto  a  sinistra  )  , e le centinaia di cittadini trucidati per essere stati contro il crimine organizzato mafioso,padronale,reazionario.
Ma la presenza militante-militare della mafia soprattutto in quattro regioni,Sicilia.Campania,Calabria e Puglia,non vuol dire che il fenomemo.non si estenda in tutta la penisola,nei paradisi fiscali,in società al di sopra di ogni sospetto.Ciò ha creato un alibi per il malgoverno,ma ha pure palesato quello che dicono parecchi studiosi e intellettuali del fenomeno.Il fenomeno mafioso, l’ antistato per definizione, ha sempre esercitato un fascino per chi vede nelle istituzioni una mafia in guanti bianchi e chi opta per la vera mafia,quella di una volta, iconografata da Marlon Brando e Al Pacino.Quanti uomini dello stato sono stati collusi con la mafia? Si parla di Berlusconi,Previti, Andreotti.Lima solo perché si è comunisti? Una certa mafia è stata combattuta e vinta,come un certo fascismo .Anche se uomini dello stato hanno massacrato uomini fedeli alla Repubblica antifascista.Ma la zona grigia del” né con lo stato, né con la mafia” convive nella corruzione italiota.

25.9.23

è morto matteo messina denaro Non posso dire che per questa dipartita ne rimanga dispiaciuta.Indifferenza è l'aggettivo e il sentimento più appropriato


Leggo  che   è morto ,  con  tutti  i suoi  segreti  e  senza   liberarsi   l'anima    con una  confessione    , il boss Matteo messina Denaro . L'unico commenti  che  mi  sento di fare    oltre  alla   battutta    che  ho riportato  sul  mio  fb

2 h 
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#DellUtri e #cuffaro dopo il funerale di #giorgionapolitano andranno anche al suo . #erediberluscon e #ilministrodellinterno manderanno le corone #GiorgiaMeloni un telegramma e #salvini una preghiera baciando il rosario anzi il crocifisso che sarà reso obbligatorio a scuola

è quello di condividere l   riflessione  di https://www.facebook.com/marina.mastino

Non posso dire che per questa dipartita ne rimanga dispiaciuta.Indifferenza è l'aggettivo e il sentimento più appropriato. Con tutto il male che ha seminato, e il dolore da ergastolo che in eredità ha lasciato (...) la mia empatia si spegne e il mio essere umanamente umana si rivela con tutta la sua razionalità. Un mascalzone un delinquente un Assassino in meno a calpestare la bellezza di questa madre terra dataci in dono punto ! Con lui e con quelli come lui non mi importa . Che l'universo possa ora perdonare me per tale sentimento ma è la "sentenza" data dal cuore che mi comanda. Fine.
Mi toicca infine dare ragione se pur in parte a quanto mi dice qiuersta mia utente qua sottto

[...]
Anna Maria
Indifferent I non vuol dire insensibili ma semplicemente equilibrati , rifletti
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«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

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