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21.5.24

ecco perchè non mi sento italiano ma purtroppo lo sono anche se preferisco essere sardo

 canzoni     consigliate  \  colonna  sonora  

Viva l'Italia –Francesco De Gregori
 La Terra dei Cachi - Elio e le Storie Tese 
Inno nazionale (Luca Carboni
L'italiano medio –  articolo 31

... E  ho celebrato     con  riserva  sia  il 150     e  poi  il 160  anniversario  dell'unità  d'italia  .



Garibaldi? In soffitta! L’impresa dei Savoia: spremere i Mille e respingere l’italia democratica
Il Fatto Quotidiano  20 May 2024  


                      MASSIMO NOVELLI


Negli ultimi giorni del maggio 1860, sconfitti i “napoletani” a Calatafimi, Giuseppe Garibaldi e i suoi Mille (e poco più) in camicia rossa, oltre ai volontari siciliani che si erano uniti a loro, raggiunsero Palermo. Vi entrarono il 27, dopo il combattimento di Ponte Ammiraglio e poi le barricate per le strade

della capitale siciliana, da piazza Rivoluzione alla Cattedrale. La città, intanto, era insorta contro le truppe borboniche, che il giorno 30 chiesero l’armistizio. Ai primi di giugno i “napoletani” se ne andarono. Cominciò la marcia dei garibaldini verso il Continente. Si passò lo Stretto, la direzione era Napoli. Qualche settimana dopo, i Mille erano ormai diventati migliaia. Dopo la conquista di Palermo, i Mille (e 89, a quanto pare) si erano ridotti a poco più di seicento. Il 18 giugno, però, cominciarono ad arrivare i rinforzi: duemilacinquecento al comando di Giacomo Medici, e poi via via gli altri contingenti di volontari (oltre ventimila). Proseguiva parallelamente l’azione di reclutamento locale, per costituire l’esercito Meridionale. Poté contare infine su circa cinquantamila uomini, dei quali più di trentamila erano del Sud Italia e in buona parte di estrazione popolare. Ma l’esercito di Garibaldi venne smantellato già nel novembre del 1860. La nuova Italia sabauda, regalata al Re e a Cavour da Garibaldi, non voleva immettere nelle proprie forze armate una massa di potenziali repubblicani, assertori della conquista di Roma, e in qualche caso addirittura di idee socialiste. Con lo scioglimento dell’esercito Meridionale tramontava l’ultimo tentativo del partito democratico affinché si impiegassero le forze popolari nell’unificazione del Paese. Aveva così termine il sogno della nazione armata e del cittadino-soldato. Scrisse Garibaldi nelle sue memorie, partendo per l’esilio di Caprera: “La mia prima dimanda era quella del riconoscimento dell’esercito ch’io comandavo, siccome parte dell’esercito Nazionale, e fu un'ingiustizia non concederlo”. La storiografia ufficiale del Risorgimento, di stampo monarchico, non li fece passare dall’ingresso principale, bensì da quello di servizio della storia, ottenendo che il loro apporto alla causa dell’unità d’italia venisse sminuito, relegato soprattutto nella memorialistica di impronta mazziniano-democratica e sostanzialmente dimenticato. La storia la scrivono i vincitori, del resto, e il processo unitario vide affermarsi la monarchia sabauda, non Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Eppure alla battaglia del Volturno, il primo ottobre del 1860, furono in oltre ventimila, agli ordini dell’eroe dei Due Mondi, a sconfiggere le truppe borboniche superiori per numero e armamenti. E altri trentamila, in buona parte sudditi del Regno delle Due Sicilie, dopo lo sbarco dei Mille accorsero a ingrossare le file dei reparti schierati a difesa dei territori del Mezzogiorno strappati ai regi di Francesco II. Quei circa quaranta o cinquantamila uomini, cittadini-soldati provenienti pure dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dall’irlanda, dall'ungheria e dal resto dell’europa democratica, furono i precursori del volontari della libertà accorsi da mezzo mondo in Spagna, dall'estate del 1936, per difendere la Repubblica.

8.1.24

DIARIO DI BORDO N° 27 BIS ANNO II Chiesa Altro che coppie gay: il parroco benedice la paranza di camion del costruttore condannato per camorra ., Maria Gambarana La “staffetta” dei moti del 1821 Storia di una cospiratrice carbonara dimenticata ., ed altre storie

 




Il  duemila  e ventiquattro è appena cominciato ma nella Chiesa la battaglia anti-bergogliana dei clericali di destra continua senza pause. L’ultima trincea è quella delle benedizioni alle unioni omosessuali, poi ridimensionata dal prefetto del Dicastero per la Dottrina della fede, il cardinale argentino Victor Manuel Fernández detto Tucho, in modo quasi fantozziano: “Le benedizioni devono durare poco, dieci massimo quindici secondi”.Nel frattempo, nel sud d’italia, c’è una certa Chiesa che benedice tutt’altro, in linea con la nefasta tradizione degli “inchini” di sacre statue a boss e mafiosi durante le processioni. La storia l’ ha raccontata Vincenzo Iurillo sul sito del Fatto il 5 gennaio. A Sant’agnello, paesino della costiera di Sorrento, il 30 dicembre il parroco ha benedetto una “paranza” di cinque camion di proprietà di un imprenditore edile condannato a quattro anni e mezzo (già scontati)per reati di camorra. Il sacerdote si chiama Francesco Saverio Iaccarino e ha atteso la “paranza” sul sagrato della sua chiesa, intitolata ai santi Prisco e Agnello, al termine di una sfilata a colpi di clacson dei camion. Intervistato da un quotidiano web locale, Positano News, l’imprenditore ha precisato che “siamo molto cattolici”. Il video poi è stato rimosso. Non solo. Il costruttore è di nuovo sotto inchiesta per un fatto avvenuto a fine marzo, sempre a Sant’agnello (poco più di 8mila abitanti), e denunciato in Parlamento da Federico Cafiero de Raho, l’ex procuratore nazionale antimafia oggi deputato del M5S. Questo: il pregiudicato avrebbe aggredito a pugni e calci uno storico ambientalista della zona, Claudio d’esposito del Wwf. In passato, l’ecologista aveva fatto vari esposti e denunce per alcune speculazioni edilizie del suo aggressore. Dopo il violento agguato ci fu anche una mobilitazione nell’intera penisola sorrentina.
E TRA I PROMOTORI
figurava anche un sacerdote, don Carmine Giudici, che spese pubblicamente parole profonde e intense: “La vicenda di un altro povero Cristo della nostra terra, Claudio solitario e testardo difensore di una bellezza sempre più profanata e violata, anche questa ci chiede di prendere posizione, di assumere una postura, di schierarsi senza esitazione e senza cavalcare in maniera strumentale la risonanza emotiva di un momento per poi sprofondare nuovamente in un anonimato che resta indifferente se non complice di certe devastazioni violente e selvagge”. Invece.Invece nove mesi dopo un suo confratello della confinante Sant’agnello si è reso complice dello show cittadino dell’aggressore del “povero Cristo”. Qual è allora il vero volto della Chiesa di quella terra di fronte alla violenza e alla prepotenza della camorra? Quello del parroco benedicente o quello dell’altro parroco che condanna?A dire qualcosa dovrebbe essere il vescovo locale Francesco Alfano, prelato fin troppo prudente e moderato e che in penisola sorrentina ha pure abolito de facto la tradizione antichissima dell’elezione diretta del parroco. Ché in questa storia anche il tradimento della volontà popolare ha un peso: il prete che ha benedetto i camion è infatti il primo parroco, dopo secoli, non eletto di Sant’agnello.

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Il 29 gennaio del 1827 moriva a Tromello, in Lomellina, la contessa Maria Gambarana, vedova del nobiluomo cremasco Venceslao Frecavalli. Nata a Pavia nel 1789 in un casato antico, è una delle figure più straordinarie e oggi più dimenticate del nostro Risorgimento. Nel 1921, in occasione del centenario dei moti liberali di Napoli e del Regno Sardo, Il Secolo XX, rivista milanese mensile “riccamente illustrata”, rievocò nel numero di marzo alcune donne che avevano preso parte a quelle vicende. Della contessa Maria, amica di Federico Confalonieri e di Teresa Casati Confalonieri, di Bianca Milesi, di Giuseppe Pecchio, di Metilde Viscontini Dembowski (amata da Stendhal), il periodico ricordò che “ebbe l'ardire di passare disinvolta il confine [austriaco] per portare, fra le trecce de’ capelli, una lettera d’invito con la firma di parecchi carbonari che esortavano il Piemonte a varcare il Ticino. Informata di quanto si tramava, con la scusa che possedeva beni in terra piemontese faceva la spola per recar lettere e ambasciate ai cospiratori”.

Più volte fermata, “seppe sempre con disinvoltura schermirsi e sfuggire alla polizia. Quando si vide pedinata e in pericolo di cader in trappola si travestì da uomo e su un calessino da lei stessa guidato fuggì da Milano e si mise in salvo”. Era il marzo del 1821. Il sollevamento del Piemonte profumava di primavera e di gioventù, ma non avrebbe passato la Pasqua, che cadde il 22 aprile. La signora che aveva varcato il Ticino, confine fra il Lombardo-veneto austriaco e il Regno di Sardegna, aveva poco più di trent’anni, non sapeva come sarebbe andata a finire la rivoluzione e neppure se i liberali del Piemonte sarebbero entrati in Lombardia. Pensava soltanto a portare a termine la missione.

La rivoluzione naufragò. Maria Gambarana continuò a cospirare. Fermata a Torino e tradotta in Lombardia per essere giudicata dalla polizia austriaca, fu interrogata a più riprese a Milano, ma negò tutto, evitando qualsiasi ammissione che potesse coinvolgere i suoi compagni, a differenza di quanto avevano fatto altri arrestati. Dovettero rilasciarla, mettendola però sotto sorveglianza speciale. Annotarono gli inquisitori: “...le premesse imputazioni prese tutte insieme ed avvalorate dalla considerazione che la Frecavalli era amica di Confalonieri, e che non era quello il tempo proprio per una signora a far viaggi, acquistano una forza imponente, essi però non sembrano tali da poter formare un indizio legale di reità”. Ebbe anche riflesso il “sistema negativo della Frecavalli adottato nei tre suoi esami politici”.

In un opuscolo dello storico Raimondo Morozzo della Rocca, pubblicato nel 1931 e caduto nell’oblio come Maria, si narra che la nobildonna non si risparmiò neanche quando era allo stremo delle forze, mettendo a punto con Teresa Casati Confalonieri, nel 1826, un piano per liberare il conte Federico dalla fortezza morava dello Spielberg.

Il piano fallì, Maria si spense in povertà nella tenuta di Tromello. Il giornalista Raffaele Barbiera lasciò detto di lei che “tanto spese per la preparazione dei moti del ’21, che lasciò le due proprie figlie (una delle quali bellissima) in miseria. Toccò a un parente intervenire e accogliere le povere ragazze”.


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Ricca malasanità L’odissea di un lombardo costretto a emigrare (nel privato) per una tac

FOTO ANSA
 La sede della Regione Lombardia

Noi e la sanità. E diciamolo, dunque: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Così inveì Cicerone nella prima delle sue celebri “catilinarie”, il giorno in cui il suo avversario aveva ordinato ai propri sicari di ucciderlo. Non diversamente dovremmo rivolgerci ai pubblici poteri di questo Paese, che vent’anni fa decisero di trasformare la salute degli italiani in uno dei più grandi e impuniti campi di profitto, essendo gli altri ormai saturi o inarrivabili al genio imprenditoriale italico. Così una convenzione dopo l’altra, un’esternalizzazione dopo l’altra, un soffio di ’ndrangheta dopo l’altro, il sistema sanitario che fu nostro vanto, come l’amministrazione pubblica in Francia o l’assistenza sociale in Svezia, sta diventando un gigantesco fattore di ingiustizia sociale in un Paese sempre più vecchio e bisognoso. Dopo gli eroismi dell’anno del Covid, sono caduti i veli. Lo ha registrato il monitoraggio di Nando Pagnoncelli sulle vere urgenze degli italiani, lo ha ricordato il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di Capodanno. Fino a quando continuerà? Fino a quando sarà possibile? Certo le regioni non sono tutte uguali. In alcune, con esempi clamorosi al Sud, il dramma della malasanità è stato quasi sempre endemico.

Epperò sentite questa. Proprio in queste settimane ho potuto seguire per interposta (e disperata) persona la vicenda di un cittadino lombardo. Ossia di un abitante della

regione più ricca d’italia e che stabilmente reclama da decenni l’assoluta “eccellenza” della propria medicina. Un sistema sanitario competitivo, dove privato e pubblico concorrono tra loro, con effetti virtuosi sulla qualità dell’offerta. Questo cittadino, residente nella provincia mantovana, dovendo affrontare con urgenza un’operazione per tumore e dovendo per questo preventivamente presentare una tac a chi avrebbe dovuto operarlo, si è sentito respingere la richiesta dal sistema pubblico, e prima (semmai possa essere una ragione) del periodo natalizio. Perché nemmeno in questi casi urgenti ci sono finestre disponibili per mesi. Il signore in questione ha allora sfoderato la santa pazienza di questi momenti (“quousque tandem?”, appunto) e ha cercato di effettuare la tac nel privato. Ma neanche questa disponibilità a pagare in proprio è bastata. Niente da fare da nessuna parte, almeno nei territori in cui, a buon senso, poteva rivolgersi. Allora è passato a un’altra regione anch’essa zeppa di eccellenze, l’emilia. Ma neanche lì il pubblico aveva finestre aperte. E neppure il privato, almeno nelle province limitrofe. Finché un posto (privato) è miracolosamente spuntato nella provincia di Ferrara. Morale: un cittadino lombardo per curarsi in una situazione di estrema urgenza ha dovuto rivolgersi al sistema (privato) di un’altra regione. È dovuto emigrare. Sottolineo: è dovuto emigrare.

Una volta era il contrario, in Lombardia ci si andava a curare. Un caso accidentale? No. Mesi fa un medico marchigiano mi ha raccontato che da un po’ di tempo nella clinica per cui lavora arrivano d’estate a farsi visitare cittadini lombardi. La ragione? Nelle Marche il posto nel privato si trova prima, e in più gli interventi (sempre nel privato) costano molto meno. La scelta estiva? È dovuta alla possibilità di ammortizzare le spese di trasferta e permanenza abbinando il viaggio a una vacanza. Turismo sanitario, appunto. Così si consumano, non tutte d’un tratto, ma un gradino dietro l’altro, le celebri eccellenze. Dietro ci sono i drammi veri di malati che non si possono curare, costretti a svenarsi, o perfino a indebitarsi. E quelli di famiglie in cui i malati sono più di uno. Perché il parlamento invece di promuovere una indagine-rappresaglia sulla sanità ai tempi del Covid, non ne promuove una vera al servizio della collettività sullo stato odierno della sanità in Italia? Ah, saperlo…




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Dazn e Lega calcio Due anni di partite interrotte? Ecco l’abbonamento triplicato

Nell’estate del 2021, quando Dazn acquistò i diritti tv del campionato di Serie A scalzando Sky come partner privilegiato della Lega del pallone, il prezzo mensile dell’abbonamento era di 29,99 euro e addirittura di 19,99 per chi si fosse abbonato alla velocità della luce sottoscrivendo il contratto entro una certa data. Pagando 29,99 euro al mese – o 19,99, appunto, sfruttando la sottoscrizione-lampo –, l’utente acquistava il diritto di vedere le 10 partite di Serie A su due dispositivi anche in luoghi differenti (ad esempio, un componente della famiglia connesso da casa e un altro connesso da un luogo diverso) con la possibilità di dare la disdetta dell’abbonamento in qualunque momento interrompendo servizio e pagamento.

Ebbene, sono passati due anni e mezzo, a primo triennio ancora in corso Dazn si è assicurata i diritti anche per i prossimi cinque campionati (fino al 2028-29) e la novità, ufficializzata da Dazn nei giorni scorsi ma di cui vi avevo già fornito un’ampia anteprima, è che da oggi, anno di (dis)grazia 2024, vedere le 10 partite di Serie

A mantenendo la possibilità, per due membri delle stessa famiglia, di farlo anche da due luoghi differenti costerà – tenetevi forte – 59,99 euro al mese: il triplo rispetto ai 19,99 euro pagati dagli abbonati con sottoscrizione-lampo, il doppio rispetto ai 29,99 euro pagati dagli abbonati-standard al primo campionato, il 2021-22. Volendo, si può anche scegliere di pagare 34,99 euro mensili ma a patto che la doppia visione contemporanea delle partite avvenga dalla stessa rete internet della propria abitazione; e se si vuole mantenere la possibilità di disdire l’abbonamento in qualunque momento, i 34,99 euro mensili – che vengono pagati anche nei mesi di giugno, luglio e agosto in cui non c’è campionato – diventano 40,99.

Ricapitolando: Dazn ha a tutti gli effetti raddoppiato e in certi casi triplicato il costo del suo servizio e lo ha fatto – con la benedizione del Palazzo del calcio – dopo due anni e mezzo di disservizi e di disagi continui rifilati agli utenti. In un Paese serio, in un movimento calcistico serio, la piattaforma in questione avrebbe offerto sconti, e tante scuse, ai suoi abbonati costretti a vedere partite puntualmente interrotte dalla rotellina del buffering.

Se a questo strozzinaggio aggiungiamo il fatto che Dazn non ha nel suo bouquet la Champions League, e cioè il torneo calcistico cui il vero appassionato di calcio non può rinunciare (e per vedere il quale deve necessariamente abbonarsi a Sky raddoppiando così la spesa per il calcio in tv), la conclusione è una sola: il Palazzo del calcio sta cercando di succhiare fino all’ultima goccia il sangue alla gente. E lo fa in questo modo brutale, senza alcun ritegno e senza alcun rispetto verso chi è pur sempre la risorsa principale del suo stesso sostentamento.

Come se non bastasse, tutto ciò avviene all’indomani della decisione del Parlamento Ue di cancellare a partire dal 2025 il geoblocking dando la possibilità a tutti i cittadini europei di abbonarsi, volendo, a piattaforme straniere – scegliendo l’abbonamento e il prezzo più convenienti – anche per assistere a eventi sportivi e partite di calcio: Serie A e Champions League comprese. Insomma, siamo alla mossa della disperazione. E se il modo per combattere la piaga della pirateria televisiva è quello di attentare alle tasche della gente con rapine legalizzate a mano armata, il calcio italiano si scava la fossa con le proprie mani. Ma come si dice: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.


8.6.21

non esiste più un nazionalismo di una volta . Il forte di Alessandria dove fu sventolato nel 1821 per la prima volta il tricolore è un rudere

 




Vagonate di amianto, frigoriferi scassati e rifiuti abbandonati in un capannone. E poi i danni provocati dall’ailanto, l’albero del Paradiso Il forte di Alessandria assediato dai rifiutiLa Cittadella di Alessandria, gioiello militare, aggredita pure da erbacce e piante infestanti

                      Corriere della Sera 7 Jun 2021di Gian Antonio Stella


È un capolavoro di architettura bellica del Piemonte. Qui il 10 marzo 1821, per la prima volta nella storia d’Italia, sventolò il tricolore. Oggi, dopo tanti annunci e altrettanti abbandoni, è in queste condizioni


Un machete. Ecco cosa ci vorrebbe per solcare come Indiana Jones la giungla infestante che sbarra fino ai tetti certi passaggi tra una caserma e l’altra della Cittadella d’Alessandria. Che vergogna... C’è da arrossire davanti alle discariche di immondizia tra i ruderi degli edifici crollati. Alle vagonate di amianto, frigoriferi scassati e rifiuti velenosi abbandonati in un capannone in disuso dalla saracinesca sventrata. Ai resti di libri bruciati buttati qua e là. Alle tegole schiantatesi a terra dove «per legge non si possono toccare». Alle muraglie di vegetazione dietro le quali puoi solo intuire l’esistenza dei bellissimi bastioni settecenteschi. Agli alberelli che spuntano tra i comignoli. Agli alberi che si sono ingoiati i tetti facendoli crollare.«Colpa del Paradiso», sorridono amari Ileana Spriano, Sergio Serafini e i volontari del Fondo ambiente italiano che da dieci anni si prendono cura della fortificazione abbandonata. Meglio: dell’ailanto, «la pianta del Paradiso» di origine orientale introdotta a metà del 1700 ai tempi in cui il Piemonte basava buona parte delle sue fortune sulla produzione di seta. Pianta all’epoca donatrice di prosperità, ma infestante. Radici lunghissime. Stupefacente rapidità di crescita. Ti distrai, parte e non la tieni più. Al punto che può arrivare fino a trenta metri d’altezza: quella di un palazzo di dieci piani.

Una veduta della Cittadella progettata da Ignazio Bertola (1676-1755, nell’ovale sotto a  destra  ). Nelle altre immagini (scattate da Gian Antonio Stella) le condizioni attuali della fortificazione, visibili anche in un video su corriere.it

Troppo comodo, però, scaricare tutto sull’ailanto: i primi responsabili del disastro storico, ambientale, culturale, sono infatti coloro che se ne sono occupati a partire dal 1994, l’anno della disastrosa alluvione in Piemonte. Quando la Cittadella, costruita a partire dal 1728 e considerata «un capolavoro di arte militare unico nel suo genere, con il suo complesso di mura e fossati, a forma di stella a sei punte che diventano dodici nella cerchia esterna», fu invasa dall’onda di piena del Tanaro. Un disastro. Che spinse i militari a decidere di dismettere un po’ alla volta il bellissimo presidio logistico e passarlo ai civili. Da
un demanio a un altro, stesso Stato. Disastro bis: il primo cominciò a trascurare la proprietà che stava lasciando, il secondo ad attendere di avere la piena proprietà di tutto prima di darsi una mossa. Risultato: quando l’ultimo dei militari, Maurizio Sciaudone, se ne andò nel 2007 (per diventare un nemico della sciatteria amministrativa) era già in condizioni pessime. Destinate a peggiorare per l’assenza, a eccezione di un edificio preso in carico dai Bersaglieri per un loro museo e un’altra palazzina presa dai Beni culturali, di manutenzione.  Finché nel 2011, grazie anche a una denuncia del «Corriere», il vuoto fu interrotto dal Fai il quale, d’accordo con il Comune che mise 150 mila euro, cominciò a prendersi cura del complesso monumentale. Un’azione proseguita negli anni grazie al progetto «Cittadella senza sbarre» del 2012 che prevedeva, d’intesa con Comune e Istituti Penitenziari, che le carceri alessandrine individuassero detenuti disposti a collaborare per la salvezza di quel patrimonio che andava in malora. Obiettivo centrale: «Il contenimento e l’estirpazione dell’ailanto».

Questo è il punto: quella bella ma mefitica pianta infestante ha trovato nella Cittadella un ambiente ideale. Anche sui tetti. Tra la copertura e le tegole, infatti, gli edifici del complesso hanno uno strato di sabbia e di terra per contenere i danni causati da un eventuale colpo di cannone. I militari lo sapevano. E via via che spuntava una piantina la rimuovevano prima che crescesse. La dissennata indifferenza al problema, in perenne attesa d’un grande e straordinario intervento risolutivo (perché mai spendere pochi spiccioli al giorno invece che aspettare un megaprogetto di archistar e appalti milionari?) era stata catastrofica. Sei anni dopo il riavvio della manutenzione, nel 2018, le cose andavano meglio. Ma la scelta di «rallentare» il coinvolgimento a rotazione di una decina di detenuti (un centinaio in tutto, peraltro lodati per la dedizione) e le chiusure dovute alla pandemia hanno interrotto il percorso. Con danni incalcolabili. Dicono tutto le nostre foto, scattate la settimana scorsa. Giudicate voi. C’è chi dirà, sdrammatizzando: proprio lunedì 14 scade un bando di Invitalia per «l’affidamento dei servizi tecnici propedeutici alla realizzazione dell’intervento di “conservazione e valorizzazione della Cittadella militare di Alessandria”». Totale: 1.391.117,99 euro più Iva. Evviva? Niente affatto: sono solo soldi iniziali e «propedeutici» per poi cominciare chissà quando (campa cavallo!) i lavori veri e propri. E arrivano (se arrivano) cinque anni dopo l’impegno nel marzo 2016 di Dario Franceschini per lo stanziamento di 25 milioni mai arrivati. Più altri 5 della Regione, mai arrivati neppure quelli, denunciano gli ambientalisti. Cinque anni: quanto impiega una «pianta del Paradiso» a crescere di tre metri e più. Quanto c’è da aspettare ancora: un altro decennio, due, tre? Aveva ragione Guido Ceronetti. Quando all’inizio degli anni Ottanta, stremato da quanto era stato costretto a vedere, scriveva nel suo Un viaggio in Italia parole sconsolate: «C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo».  E non è solo una questione di patrimonio architettonico o monumentale. Quella straordinaria Cittadella d’Alessandria oggi lasciata al degrado è stata un po’ la Betlemme dell’Italia. Perché fu lì, il 10 marzo 1821, che sventolò il primo tricolore del nostro Paese. C’è chi ha scritto che i tre colori non erano ancora il bianco, il rosso e il verde e che non erano verticali ma orizzontali: può darsi, ma era la prima bandiera scelta per l’Italia. E il colonnello Guglielmo Ansaldi, che aveva preso il comando della piazzaforte, tuonò: «Cittadini, lo stendardo del dispotismo è per sempre curvato a terra fra noi. La patria che ha gemuto finora sotto il peso di obbrobriose catene, respira finalmente l’aure soavi di fraternità e di pace. Cittadini! L’ora dell’italiana Indipendenza è suonata!». Come andò a finire si sa. Gli idealisti che avevano puntato tutto («Se ci allontaniamo per poco dalle leggi di militare disciplina vi siamo trascinati dal supremo bisogno della patria...») sulla presunta volontà di Carlo Alberto di avviare un processo costituzionale e spingere per l’unità d’Italia furono traditi nei loro ideali, nelle loro speranze, nei loro sogni. Peggio: duecento anni dopo la patria per la quale spesero la vita, anche andando a morire per la libertà altrui come Santorre di Santarosa in Grecia, non si è manco ricordata di loro.



10.5.20

«Lettere dall’Italia», il brano cantato in tutti i dialetti . un nuovo inno nazionale

questo  dovrebbe essere  il  vero   inno nazionale  . Che  descrive  :  tutte le  sofferenze e dolori , le   gioie  ,  le  diversità  etniche ed  linguistiche  che  ancora   resistono  nonostante      sia unita    politicamente   dal  1861   (    secondo altri  dal 1918    con l'acquisizione  del   trentino  e  del friuli )  linguisticamente  dal  1954  (  con la  televisione  )


26.9.08

RISORGIMENTO E REVISIONISMO






A proposito di Porta Pia
di Franco Cardini - 24/09/2008

Fonte: Identità Europea [scheda fonte]






Credo che in questo paese si debba ancora imparare a discutere e magari a polemizzare: ma con serenità e, possibilmente, anche con qualche argomento che vada al di là delle pillole di conformismo e di politically correct.


Non riesco per esempio a capire perché nella nostra opinione pubblica e nei relativi mass media si debba sempre e per forza gridare allo scandalo ogni volta che qualcuno azzarda pareri dietro i quali sia sospettabile la presenza di di tesi o anche solo di proposte che appena appena escano dai solchi ben collaudati delle idées données e delle Verità Inconfutabili garantite dai manuali di scuola media e ripetute dai poligrafi travestiti da ricercatori che impestano le nostre librerie con best sellers regolarmente scopiazzati da vecchi libri di storia. Quelli col Barbarossa cattivo e i lombardi buoni, col Radetzky feroce e i bravi Tamburini Sardi, col “Mamma li Turchi” e col meno-male-che-c’è-stata-Lepanto. Insomma, con la storia detta, ripetuta, collaudata e ribadita sul metro di quei geniali maĩtres-à-penser che molti decenni or sono, mossi a pietà degli studenti pigri, redassero i manualetti noti come “Bignami”. E, se ci si oppone al Bignami, ci si becca la condanna secca come una mannaia: “revisionisti!”.


Ora, premesso che “revisionismo” è parola che dalla storia della politica sé Internazionale” per poi dilagare nel mondo della semistoria e della pseudostoria, è necessario sia chiaro che il lavoro degli   storici, intendo di  quelli veri, consiste sempre e inevitabilmente, in gran parte, nella revisione delle tesi e delle letture dei fatti quali gli sono state confidate da chi ha lavorato prima di lui. Non esiste quindi nessuna pagina di storia che sia stata scritta una volta sola e per sempre. La storia è una fatica di Sisifo.


Ecco perché è stata obiettivamente ridicola, al di là di qualunque posizione si voglia difendere, la polemica scatenata dall’orazione del generale Antonio Torre che, commemorando ufficialmente il 20 settembre scorso il 138° anniversario della Breccia di Porta Pia, si è particolarmente soffermato sui 19 caduti dell’esercito pontificio sorvolando su quelli italiani; e che il sindaco di Roma Gianni Alemanno non abbia dal canto suo provveduto a rimediare alla gaffe dell’alto ufficiale: sempre che – ha commentato qualcuno – solo di gaffe si sia trattato e non, orrore, di “scelta di campo” o peggio, raccapriccio, di “revisionismo”.


Ora, va da sé che in una sede ufficiale e paludata, per sua natura retorica e convenzionale, come quella di una commemorazione pubblica, non è mai il caso di lasciarsi andare a discussioni storiografiche: il che del resto non era senza dubbio nelle intenzioni e forse nemmeno nelle possibilità obiettive del generale Torre, che fa il militare e non lo storico.


Quel che però non mi meraviglia  affatto – ormai so da tempo che cos’è l’Italia -, ma comunque continua a indignarmi, è la desolante piattezza del coro, praticamente unanime, di giornalisti, di politici e perfino (e ciò m’è dispiaciuto) di qualche storico serio: tutti allineati e coperti nello stigmatizzare il silenzio di Alemanno o comunque la sua scarsa energia nel difendere, a scanso di equivoci, la tesi ufficiale della quale egli, in quanto sindaco, viene considerato una specie di garante e di custode (e a dire il vero non se ne capisce il perché).


Insomma. Perché mai non si dovrebbe cominciar a dire che in realtà la storia del nostro Risorgimento, così come si svolse tra 1848 e 1870, non andò affatto come andò perché non avrebbe mai potuto andare altrimenti; e tanto meno che non andò per nulla nel migliore dei modi possibili? E, badate, qui ucronia e fantastoria non c’entrano per niente. Il dogma che la storia non si possa scrivere “al condizionale”, “con i se e con i ma”, è una fesseria che nessuno storico serio – a parte un manipolo di paleostoricisti convinti – non dice più da molto tempo. E non sono io ad affermarlo: bensì uno dei più grandi studiosi viventi, David S. Landes.


La discussione non è affatto oziosa: e tanto meno lo sarebbe al livello politico, se non vivessimo in un paese dominato, fra le altre cose, da una disinvolta schizofrenia e da un’impudica ostentazione d’incoerenze. Vorrei proprio che qualcuno mi spiegasse perché, nei nostri manuali scolastici, continua tuttora a trionfare una visione del Risorgimento degna del libro Cuore e delle Maestrine dalla Penna Rossa – alcuni epigoni delle quali sembrano oggi sedere sugli scranni del governo – mentre quel governo stesso si regge con l’appoggio determinante d’una forza, la Lega Nord, che se fosse un po’ meno bécera dovrebbe pur sviluppare, appunto nel quadro di quanto essa stessa sostiene, anche un serio discorso critico sulle scelte che condussero al processo d’unità nazionale, sui metodi che furono adottati per conseguirle, sulle conseguenze a cui condussero. Perché la soluzione unitaria e centralista, voluta dalla monarchia sabauda che mirava all’espansionismo del suo potere dinastico e dai dottrinari “neogiacobini” che seguivano Mazzini e Garibaldi (e una parte dei quali sacrificò al dogma dell’ “unità indivisibile” i suoi stessi ideali repubblicani), non solo per lungo tempo non era stata l’unica possibile, ma era stata quella considerata, anche a livello internazionale, la più avventuristica e pericolosa.


L’unità proclamata nel 1861 e coronata dalla presa di Roma del 1870 andava direttamente contro un millennio di storia italiana, ch’è e sempre stata per sua natura policentrica, municipalistica, regionale e cittadina; e i capi degli stati italiani preunitari, a cominciare dal papa,  si erano tutti – sia pur in diversa misura – adattati ad accettare una formula di unità federale, su un modello non lontano da quello che (essa sì in coerenza con al sua storia) fu adottata dalla Germania proprio in quello stesso 1870. E in tale senso, anche se con accentuazioni diverse, si erano espressi gli ingegni migliori e più equilibrati del nostro Risorgimento, dal Gioberti al D’Azeglio al Cattaneo.


Ma il governo piemontese, guidato dal Cavour e dai suoi successori, scelse – fino a un certo punto in accordo con Napoleone III, poi addirittura senza e contro di lui – la politica delle provocazioni, dei colpi di mano e dell’alternanza di menzogne e di atti di violenza per giungere, contro il diritto e la legittimità internazionali, alla violazione patente dei diritti dello stato pontificio. Che oggi tutti, anche senza sapere di che cosa si trattava, si sbracciano a qualificare di “corrotto”, di “incapace”, di “antistorico”, mentre la realtà del tempo non presenta per nulla tale quadro. Né si capisce perché si continui a far finta di non ricordare che la presa di Roma poté compiersi, proditoriamente da parte italiana, non appena, in conseguenza della sconfitta di Sedan, la protezione dell’imperatore dei francesi a Pio IX venne meno. O perché molti abbiano rimproverato il generale Torre per il suo omaggio – da soldato, se non altro – agli zuavi e in genere ai volontari che accorsero soprattutto dalla Francia a difendere il papa che aveva tutto il diritto a non venire attaccato su quel territorio che egli legittimamente governava.


E sarebbe poi stata con certezza peggiore, per esempio, un’Italia federale, di quanto sia stata l’Italietta unitaria che determinò la questione del Mezzogiorno, provocò scandali finanziari gravissimi a ripetizione, inventò infamie fiscali come la “tassa sul macinato” ch’era una vera e propria tassa sulla miseria, coniò “leggi internazionali” e massacrò contadini siciliani (Bronte) e operai (i cannoni ad “alzo zero” del Bava Beccaris, decorato dal “Re Buono”), fu incapace di rimediare al flusso continuo di poveracci che abbandonavano il paese per disperazione e si dimenticò del destino degli emigrati,  infine ci gettò inutilmente – e con opportunistica furbizia – nel grande macello della prima guerra mondiale, da cui sarebbero  appunto usciti i tanto detestati comunismo e fascismo? Aveva davvero proprio tutti i torti, l’ “infame” Franti?


Così è, se vi pare. Perché non proviamo a discuterne pacatamente, invece di stracciarci le vesti ogni volta che qualcuno prova a commettere l’indicibile peccato consistente di cercar di rimetterci in moto le meningi? E chiamatelo, se volete, “Revisionismo”.








dal sito: http://www.ariannaeditrice.it

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...