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12.10.22

La storia del nivuriddu, Michele Antonio Scigliano di Longobucco (CS) figlio del Ras etiope Ubie Manghescià.

La  storia     che riporto  oggi è    la tragedia personale di un giovane che paga due volte il prezzo del sanguinario colonialismo italiano. Nato da  un etiope  al confino   e  una donna  locale  nella Sila degli anni Trenta, quando finalmente sembra arrivare il momento del suo riscatto la sorte gli predispone una trappola beffarda. E gli fa saldare un conto rimasto in sospeso tra due popoli.
  
  fonti 

Durante il fascismo a Longobucco vennero confinati 35 personaggi di primo piano del regno di Etiopia. Tra questi il ras Ubie Manghescià, ex ambasciatore etiope a Roma ed ex governatore della provincia Uellega Occidentale. Questo ras ebbe una relazione con una donna di Longobucco, che aveva il marito in guerra, che andava a fare le faccende a casa sua. Dalla relazione nacque un bambino di carnagione nera, che il marito della signora – tornato dalla guerra – riconobbe,  Michele Antonio Scigliano. Dopo qualche anno arrivò al comune di Longobucco una lettera dell’ambasciata etiope che chiedeva notizie sul ragazzo. Avutele, il ras richiamò presso di sé in Etiopia il giovane. Di seguito la storia raccontata da testimoni diretti e articoli sui confinati etiopi dal fascismo.

 

Hailè_Selassiè_nel_1941

Fra i notabili etiopi inviati al confino in Italia dopo l’attentato, ad Addis Abeba, al viceré Graziani (19 febbraio 1937), vi era pure ras Mangascià Ubié, ricco sfondato e onnipotente, nonché particolarmente caro al negus Selassié che prima lo aveva messo al vertice del tribunale per l’abolizione della schiavitù, poi lo aveva nominato governatore della Uollega occidentale e, infine, lo aveva incaricato di aprire una legazione diplomatica a Roma; incarico, quest’ultimo, che, certo per colpa del ponentino romano inducente al douce vivre, egli aveva assolto consumando i giorni fra case d’appuntamento e tabarins, tanto che il Ministero degli Esteri italiano si era sentito in dovere di «consigliare» alle autorità etiopi di richiamare in patria il dissoluto diplomatico «la cui sola attività è quella d’accumulare debiti».

E anche a Longobucco — sua sede di confino – egli non si smentì, solo che dovette accontentarsi di quel che passava il convento, e, a parte la frequentazione assidua di terragne femmes de chambre, strinse una relazione stabile, col tempo non priva d’una qualche sfumatura d’innamoramento reciproco, con Giuseppina Blaconà, donna che gli sbrigava le faccende di casa, nonché moglie di Vincenzo Scigliano, un contadino che s’era fatto la campagna di guerra in Etiopia ove sognava di ritornare per crearsi un destino meno pidocchioso; e fu, certo, a questo scopo, o, comunque, per poterne ricavare un qualche utile, che egli, lo Scigliano, favorì la stessa relazione, nel pieno rispetto del credere popolare secondo cui ai meschini sono offerte due sole strade per mutar stato: «o travatura o incornatura»” (O il ritrovamento d’un tesoro o la moglie mantenuta da qualcuno); tant’è vero che quando dalla stessa relazione – notoria a tutto il paese e dintorni oltre che alle autorità di polizia – nel febbraio 1939 nacque «’na creatura nira nira», egli non solo ne riconobbe la paternità, ma, dandogli il nome Michele Antonio, «alzò» il nome del proprio padre, così offrendosi «cornuto e contento» alla considerazione paesana.

Poi, dopo l’8 settembre 1943, i confinati etiopi poterono ritornare in patria, e Mangascià chiese insistentemente a Giuseppina d’andarsene con lui o, almeno, d’affidargli il figlio, che lo avrebbe fatto studiare e crescere da gran signore; ma lei oppose un netto rifiuto, dietro il quale non si sa cosa intravedere. E negli anni successivi i destini dei protagonisti di questa strana storia restarono in qualche modo e per qualche tempo cuciti assieme con refe d’ordinaria qualità: Mangascià Ubié si fece ancora vivo con la donna, inviandole denaro e rinnovandole la richiesta di raggiungerlo o di affidargli Michele, ma poi, come dice la canzone, la lontananza e come il vento, anche perché egli teneva pensiero ad altro, s’andava facendo vieppiù ricco potente (fra l’altro, fu pure ministro delle poste e consigliere della Corona), e finì per sposare la principessa Zauditù, imparentata con l’imperatore, e dalla quale ebbe due figli maschi che si rivelarono la deboscia in persona; Vincenzo Scigliano s’andò consumando nell’acidità e nel rancore verso tutto tutti, specie verso il figlio-nonfiglio; Giuseppina Blaconà, come voleva la sua cultura, si vestì del ruolo di presenza muta che si trascinava sulle spalle sghembe tutti i peccati del mondo e, forse, pure il ricordo d’una specie d’amore, unica, grama consolazione d’una vita di travaglio in virtù della quale una come lei diventava gozzuta e sdentata a manco quarant’anni; Michele Antonio, lapidato dalle prese in giro dei compaesani, crebbe strànio e selvatico fra i boschi, senza manco un giorno di scuola, consapevole d’essere il «figlio della colpa» per giunta «diverso», ma anche una specie di re, guadagnandosi la campata coi lavori più umili, appartati e solagni – il pastore, il carbonaio, il boscaiolo …-, e ad appena diciott’anni si sposò con una meschina più meschina di lui, pensando, forse, di esorcizzare l’infelicità o, per lo meno di dimezzarla, che aver compagni al duol…, e, invece, da quell’analfabeta che era non sapeva che la matematica non è un’opinione, e infelicità più infelicità fanno un’infelicità doppia; e quando gli nacque un figlio pensò bene di non scontentare nessuno, «alzando» il nome di tutt’e due i suoi padri, chiamandolo Mangascià Antonio.

Finché non si ebbe il colpo di scena tanto colpo di scena da far pensare a William, il Bardo, là dove dice che la vita è una storia raccontata da un ubriaco: nei primi anni ’60 ras Mangascià Ubié, da tempo vedovo, morì lasciando tutti i suoi averi a quel figlio naturale che non sapeva nemmeno come fosse fatto, e lo fece forse perché preso dagli scrupoli, forse per giocare un brutto tiro ai suoi due figli debosciati, forse perché non aveva mai scordato quella sua amante sottomessa, dalle parole in bocca contate e che non gli aveva mai chiesto niente, forse …

Certo è che un giorno i carabinieri di Rossano, attivati dal Ministero degli Esteri, salirono in montagna, ove Michele era a pascolar pecore, e lo informarono che era diventato un miliardario e bastava solo che raggiungesse Addis Abeba per poi poter volare sui tappeti, come i principi delle fiabe ricchi sfondati e, perciò, si potevano permettere cose negate ai cristiani normali, tanto più se miserabili.

E fu come se in cielo fosse apparsa una stella cometa che s’andò a posare sulla cupogna (grotta) d’un novello redentore le cui carni, però, puzzavano di strame e di lecciata: tutti – nobili e plebei, potenti e stracciati, abbienti e non… – ossequiarono e riverirono Michele (quando l’avevano crocifisso fino a un attimo prima!), gli fecero grandi festeggiamenti, programmarono con lui iniziative e intraprese che avrebbero rivoltato da così a così Longobucco; e lui promise, acconsentì, progettò, intanto spendendo e spandendo sulla parola, che nessuno gli negava niente sperando di intingere il pane in quella succulenta minestra (in primis la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania che gli concesse fido illimitato contando, tramite lui, di aprire una filiale nella capitale etiope) e consentendogli di far debiti per oltre due milioni d’allora.

E un giorno egli partì per Addis Abeba, dopo aver promesso a tutti, famiglia compresa, di sistemar le cose là e ritornare, ma già nel cielo di Roma, sull’aereo su cui era imbarcato, svaporò ogni traccia di Michele Antonio che lasciò il posto a Micael Mangascià (identità che avrebbe preso di lì a poco, non appena rinunziato alla cittadinanza italiana per assumere quella etiope), il quale, buon sangue non mente, nella stessa Addis Abeba si diede subito alla bella vita, rinnovando pari pari i fasti prima romani e, poi, calabresi del genitore, abbandonandosi a una sorta di delirio fottitorio; e quando tempo dopo la moglie, accompagnata dal figlio, andò a trovarlo anche per richiamarlo ai suoi doveri coniugali, egli promise, firmò – ovviamente con una croce – impegni di mantenimento poi tutti disattesi, e la mise pure incinta; e non mosse un dito né scucì un tallero quando il figlio, in palese stato di denutrizione, stette male e gli italiani là residenti dovettero ricorrere a una colletta per poterlo far ricoverare.

Ma l’ubriaco non aveva ancora finito di raccontar la sua storia.

La perfida, intrigante sorella di Mangascià Ubié, non rassegnata al vedere i nipoti esclusi dall’eredità in favore, oltretutto, d’un bastardo mezzosangue, e lei dalla gestione del potere e dei privilegi a nome e per conto loro, fece causa per far annullare il testamento in favore appunto del bastardo, sempre tutto compreso nel suo delirio carnale, e riuscì ad averla vinta – figuriamoci, con le sue relazioni! – e Micael si ritrovò col culo per terra peggio di prima; il quale Micael, secondo alcune fonti finì ucciso da un sicario della controparte – a che prò considerato che l’avevano restituito all’originario stato minimale?  Solo per il gusto del coltello sempre nell’ombra? – mentre, secondo quelle più attendibili, preferì scendere sempre più giù nei bordelli di Addìs Abeba, fino a mendicare, letteralmente, un po’ d’amore carnale e fino a consumarsi giorno per giorno l’ossa, piuttosto che ritornare vinto e umiliato e indebitato a Longobucco.

23.12.18

Ludovico Spròcani, detto Vico, il ragazzo che s'oppose alle leggi razziali italiani



di Alessandro Marzo Magno

L'eroe del liceo Marco Polo, il ragazzo che si oppose alle leggi razziali, riemerge dalle brume della storia. FinalmenteLudovico Spròcani, detto Vico, ha un volto e una storia. D'altra parte niente di strano che i suoi familiari non sapessero nulla di cosa fosse accaduto all'esame di maturità classica del 1939: da uomo riservato qual era, non l'aveva mai raccontato. L'ebrea veneziana protagonista di quell'episodio era Giuliana Coen, che dopo aver sposato Guido Camerino ed esser divenuta una stilista, sarebbe diventata famosa come Roberta di Camerino.Nel suo libro di memorie, R come Roberta, pubblicato nel 1981, spiega com'era andata: «Quella mattina entriamo in classe e assisto alla prima sorpresa. Tutti i banchi sono in fila, come sempre. Ma ce ne sono due in un canto, un po' scostati. Io faccio per sedermi a caso, quando mi arriva alle spalle un professore e mi dice: No, laggiù per favore, e indica uno dei banchi messi da parte. Quasi nessuno si accorge di quel che sta accadendo perché c'è il solito trambusto, gli amici cercano di stare insieme, c'è chi cambia idea all'ultimo momento, chi baratta il suo con un altro posto. Alla fine siamo tutti seduti. C'è un attimo di silenzio, finalmente. Ed è in quel momento che, da un banco centrale, si alza un ragazzo. Non è bianco, è un mulatto. Alza la mano, per poter parlare. È il figlio di una principessa eritrea e d'un generale italiano. Volevo sapere perché quei candidati son tenuti da parte. Ha una voce sonora, un accento romanesco, ma elegante. Il professore ha un momento d'imbarazzo, ma si riprende. Sono privatisti. Il mulatto sorride. Certo: privatisti. Ma perché sono ebrei, non è vero?. Questa volta l'imbarazzo del professore è più evidente. Se è per una questione di razza, nemmeno io sono ariano, come certo non vi sarà sfuggito, non è vero? Perciò, con il suo permesso.... Ma non aspetta il permesso di nessuno. Prende l'ultimo banco della fila, che era vuoto, e lo spinge verso i nostri, di lato. Allora accade l'imprevedibile, davvero. Tutta la classe si alza, prendono anche il mio banco. In un niente la classe è tornata normale: tutti i banchi tornano in tre file, noi siamo con gli altri. Il giovane mulatto, prima di sedersi a sua volta, fa un rigoroso inchino al professore. C'è un attimo di silenzio. L'insegnante è turbato. Si leva gli occhiali, passa una mano sugli occhi. Poi, quasi parlando a se stesso, ma lo sentiamo benissimo dal posto, si lascia scappare un: Vorrei abbracciarvi tutti quanti».
IL PROTAGONISTA
Il ragazzo mulatto che si alza per primo e scatena una reazione da Attimo fuggente è Vico Sprocani; il registro della maturità dice che è nato a Cheren (colonia eritrea) oggi Keren e che viene promosso a settembre dopo aver ridato l'esame di matematica e fisica. Giuliana non è l'unica Coen a dare l'esame: c'è anche Lilla (sua grande amica, ma non parente) e un'altra privatista ebrea si chiama Nelly Basevi.
Di Sprocani non si sapeva altro, se non che nel dopoguerra diventa direttore a Venezia di un giornale dell'Uomo Qualunque, la formazione politica che ebbe grande successo nelle elezioni del 1946, e poi si trasferisce a Gallarate con la moglie veneziana. Ora, grazie a un articolo su internet e a un messaggio su Facebook, è possibile ripercorrerne la vita.
Sprocani durante la guerra è ufficiale di cavalleria e va a combattere in Russia. Quando torna si laurea in giurisprudenza a Padova e va a fare pratica nello studio legale Dian, di fronte al teatro Goldoni. Conosce quella che diventerà sua moglie, Adalgisa Cendali, zia di Giancarlo e Andrea Faccini, ovvero coloro che hanno rintracciato chi scrive e che raccontano la storia del congiunto. Nel frattempo Vico era rimasto orfano di madre e poco prima di sposarsi perde anche il padre. Dopo il matrimonio, siamo all'inizio degli anni Cinquanta, si trasferisce a Gallarate dove fa l'agente di commercio. Giancarlo Faccini, che diventa direttore acquisti della Coin, lo incontra quando va per lavoro a Milano (poi si trasferirà a Monza con la famiglia).
IL LEGAME CON VENEZIA
Vico e Adalgisa rimangono legati ai loro parenti veneziani: d'estate vanno in vacanza al Lido, d'inverno a Falcade, dove acquistano una casa. Come spesso accade alle coppie senza figli, si affezionano moltissimo ai nipoti. Andrea è il primo nato tra i nipoti e ricorda le partite a briscola con lo zio che amava giocare a carte, mentre non amava affatto perdere.
Era un uomo affabile, generoso, riservato, istruito, di portamento quasi aristocratico (un vero ufficiale di cavalleria, si potrebbe dire), amava lo sport e praticava il tennis. Parlava poco di sé: oltre a non aver mai detto nulla dell'episodio del Marco Polo, l'unica cosa che raccontava della campagna di Russia era il pericolo dei gatti selvatici che attaccavano in branchi (ma non costituivano l'unico rischio per i soldati in Russia). I vecchi amici di Gallarate lo ricordano alto, elegante, e sottolineano che la moglie era una donna bellissima. Fumava sigarette svizzere.
Gli piaceva socializzare e odiava le discriminazioni. Mantiene per sempre il vizietto di intervenire per evitare i soprusi. Sprocani era un convinto monarchico, disprezzava Vittorio Emauele III, mentre apprezzava moltissimo Umberto II che considerava «il suo re» e andava tutti gli anni a trovarlo a Cascais, in occasione del compleanno. Proprio durante uno di quei viaggi, mentre si trovava a tavola con l'ex sovrano esiliato, Vico Sprocani muore all'improvviso. Era il 1983. La moglie va in Portogallo per riportarlo in Italia e seppellirlo nella tomba di famiglia, nell'isola di San Michele. Poco tempo dopo la vedova lascia Gallarate e si trasferisce a vivere con la sorella a Mestre, dove muore nel 2015.
IL RICORDO
Sprocani non aveva discendenti diretti e i parenti della moglie oggi vivono tra Monza, Mestre e il Lido di Venezia. Nessuno di loro conosceva la storia della maturità del 1939, tra l'altro Giuliana Coen Camerino nel suo libro non faceva il nome dell'eroico compagno di scuola. Chi scrive l'aveva intervistata nella sua casa di Lugano nel marzo del 2009 poco più di un anno dopo è morta e la stilista aveva rivelato il nome del giovane; l'allora preside del Marco Polo aveva recuperato i verbali di quella maturità. Ora, quasi dieci anni più tardi, il cerchio si chiude e il «ragazzo mulatto» ha un nome, un volto e una storia. E tutti dovremmo ringraziarlo per quello che ha fatto

Soprattutto in periodo  , in italia  ,  dove   nessuno o  quasi  s'oppose   .  in quanto la maggior pare  rimasero  zitti  ed  indifferenti  

19.2.17

italiani brava gente il massacro dei monaci etiopi a Debrà Libanòs massacrati da Graziani Hailé Selassié (1892-1975)

Tutti i media nazionali ,  con eccezioni come quello  qui sotto e se  non ricordo male  anche il programma  di  rai3\ rai storia  " il tempo e  la storia  in  due  puntate   ( I II )  ha  ricordato l'evento in questione   una delle  tante  atrocità commesse  da noi Italiani  .


E Graziani massacrò i monaci etiopi
Ottant’anni fa la feroce strage di Debrà Libanòs che seguì l’attentato contro il viceré
italiano ad Addis Abeba. I responsabili di quelle atrocità non hanno mai pagato


disegno di Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere», 27 dicembre 1936
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«Feci tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco», ringhiava quel macellaio di Rodolfo Graziani. Rimorsi? Zero: rivendicava anzi la strage di Debrà Libanòs, dove aveva affidato agli ascari islamici lo sterminio di tutti i preti e i diaconi del cuore della Chiesa etiope, come «titolo di giusto orgoglio». E giurava: «Mai dormito tanto tranquillo».
Il maresciallo Rodolfo Graziani (1882-1955)
Sono passati ottant’anni, da quei giorni di orrore. Tutto inizia la mattina del 19 febbraio 1937. Ad Addis Abeba il viceré Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governano un terzo del Paese e son decise a prendere il controllo del resto con ogni mezzo (compreso l’uso di 552 bombe caricate a iprite e fosgene autorizzate dal Duce, documenterà lo storico Angelo Del Boca), celebrano la nascita del primo figlio maschio di Umberto di Savoia. Improvvisamente, da un balcone raggiunto superando i controlli, piovono ed esplodono una dopo l’altra otto bombe a mano. Sette morti, decine di feriti. Tra cui Graziani, colpito da decine e decine di schegge.
Hailé Selassié (1892-1975)
La rappresaglia è immediata. E non avendo sottomano gli attentatori, fuggiti, si abbatte violentissima su chi capita. Coinvolgendo tutti i fascisti della città. «Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada», scrive nel diario il giornalista Ciro Poggiali. «Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente». Una carneficina. Racconterà il vercellese Alfredo Godio: «Fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri “634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi». «Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni», ricorderà l’attore Dante Galeazzi: «In Addis Abeba, città di africani, per un pezzo non si vide più un africano».Deciso a farla finita coi ribelli a dispetto di ogni trattato, il Duce dà ordine che «tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi». Tutti. Compreso Destà Damtù, il genero di Hailé Selassié. Che importa dello sdegno internazionale? «E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo», esulta la «Gazzetta del Popolo». «Schiaffone magistrale (…) sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina». Bilancio complessivo? Migliaia di morti. Compresi «cantastorie, indovini e stregoni», rei di auspicare il ritorno del Negus: «Ho ordinato che fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta» Il peggio, però, arriva a maggio. Quando Graziani decide di inviare il generale Pietro Maletti, di cui apprezza la cieca obbedienza, a spazzare via preti, diaconi, fedeli di Debrà Libanòs, l’amatissimo monastero fondato nel XIII secolo che considera «un covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi»: è convinto che i due bombaroli di Addis Abeba siano passati nella fuga proprio di lì.
Se sono veri i rapporti firmati da Maletti stesso, scrive Del Boca in Italiani brava gente? (Neri Pozza), in due settimane le sue truppe «incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminavano 2523 arbegnuoc». Patrioti nemici dell’occupazione italiana. «Era tale il terrore che diffondeva che l’intera popolazione si dava alla macchia».
Terrore comprensibile. Per garantirsi la ferocia belluina senza crisi di coscienza tra i soldati cattolici chiamati a massacrare i cristiani di una Chiesa etiope che aveva 17 secoli, spiega Angelo del Boca, il generale rinunciò «a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto — parole sue — “i feroci eviratori della banda Mohamed Sultan”».
Il generale e i suoi macellai di fiducia circondarono il complesso la sera del 19 maggio, festa di San Michele, presero prigionieri tutti e, ricevuto l’ordine del viceré Graziani di passare per le armi «tutti i monaci indistintamente compreso il vice priore», cercarono il posto giusto per la mattanza. La scelta cadde sulla piana di Laga Wolde, ai cui limiti si inabissava un burrone. Due giorni dopo cominciò, sistematica, la decimazione. Allineati i condannati lungo il baratro, scrivono gli storici Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, gli ascari presero un lungo telone «e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda, formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro». Poi, la fucilazione. «E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo». Ordine eseguito, comunicò Maletti nel pomeriggio: giustiziati 297 monaci incluso il vice-priore e 23 laici. «Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale». «Fucilate anche loro», cambiò idea tre giorni dopo Graziani. E Maletti, ligio agli ordini più infami, eseguì.
Conta finale: 449 assassinati. Numero che Campbell e Gabre-Tsadik contestano: furono tra i 1423 e i 2033. Il doppio o il triplo di quanti saranno trucidati dai nazisti a Marzabotto. Berhaneyesus Souraphiel, l’arcivescovo cattolico etiope, sospira nel docu-film di Antonello Carvigiani e Andrea Tramontano Debre Libanos, prodotto e trasmesso da TV2000, che ancor oggi certe ferite non sono ancora del tutto rimarginate. Racconta però lo storico Alberto Elli, profondo studioso della Chiesa etiope e dell’Etiopia, che il mausoleo in ricordo dell’eccidio, a novembre, non c’era più: «Dicono d’averlo tolto come gesto di riconciliazione». Un passo importante. Come fu l’anno scorso, ad Addis Abeba, la stretta di mano di Sergio Mattarella a vecchi patrioti etiopi. Era stato questo, del resto, l’appello al popolo di Hailé Selassié al suo ritorno in patria il 5 maggio 1941, a guerra ancora in corso: «Vi raccomando di accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno con o senza le armi. Non rimproverate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano». La richiesta del Negus di estradare almeno i due generali della mattanza, però, non venne mai accolta. E qualche strada italiana li onora ancora come eroi di guerra…






emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...