Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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10.2.23
1928-2023 Burt Bacharach il petrarca della musica ©® Daniela Tuscano
17.8.21
SE OGNUNA DI NOI di ©Daniela Tuscano
30.3.21
21.2.21
MAURO BELLUGI, IL PROTAGONISTA di © Daniela Tuscano
Le aveva tutte Bellugi, anzi aveva perso tutto: prima una gamba, poi l'altra, poi l'intestino, poi è arrivato il Covid e con esso la mazzata finale. Non aveva più niente eppure sembrava così solido, con quella faccia contadina, le rughe profonde, gli occhi da bracco, sempre un po' casuali, come tutti i calciatori anni '70. Non divi ma soldatini di stagno, e le figurine Panini ce li restituivano così, fissi e variopinti. Fuori luogo, perché senza il pallone non esistevano. Bellugi era quel mondo, le domeniche pomeriggio, Novantesimo Minuto, l'Inter, mio padre. Che l'aveva trovato poco tempo fa a Niguarda, in attesa come gli altri, fisso ancora, ambedue le gambe fasciate. Lì Bellugi stava disputando l'ultima partita, nel chiarore di quella sala che sicuramente, ai suoi occhi, appariva un immenso campo di calcio. Un saluto cortese e senza fronzoli, l'annuncio buttato là, che gli avrebbero tagliato pure l'altra gamba, e quel "vediamo", il futuro comunque, perché la vita è un flusso e ti prevarica. Puoi non farcela, ma non devi restare in panchina.
Bellugi giocava ancora. Duramente e spontaneamente, a testa bassa, con una pietas quasi virgiliana. Cose maschili, ché il calcio ai tempi apparteneva a loro; non era però esclusione, semmai completamento. Alla fine, ci si riuniva attorno a un tavolo ed esisteva solo il noi. "Vediamo", il tempo non ci appartiene, ma ci siamo dentro e lo percorriamo tutto.
Bellugi se n'è andato, e con lui il pudore che caratterizzava quel mondo. Quello per cui la stanchezza era una colpa, sempre, di fronte al terribile dono dell'esistere. Anche a brani, smozzicati, cadenti, ma oltre, ma anima, integri dentro, e al cuore nessuno arriva, pur se te lo mangiano.
© Daniela Tuscano
10.4.20
IN SPIRITO E VERITA' - Pasqua 2020 di ©® Daniela Tuscano
Triduo pasquale. È bello che cominci con un pasto, con una cena. In Oriente, oggi come allora, la convivialità è estremamente importante, rappresenta una forma d’intimità simile all’unione sessuale. Ed è bello che Gesù abbia conferito il mandato proprio in un’occasione come questa, che l’abbia condivisa coi suoi amici e le sue amiche. Con quelli e quelle a cui era più affezionato, anche se non, forse, i più affidabili; e lui lo sapeva.
Questa consapevolezza gli veniva dall’umanità, non dal suo essere Dio. Basta il discernimento, la discrezione. La semplice esperienza. Il realismo. Perché noi siamo così: irriconoscenti, fragili, dimentichi. Lo siamo; ma la carità – non l’elemosina, bensì l’amore incondizionato, totale – insiste, diremmo si ostina, a scommettere su di noi, sulla nostra parte buona, con la pertinacia d’un esploratore. Certo, il male è multiforme e spaventevole; fa chiasso; è vistoso. Si agita, sconvolge. Ma proprio questo denota la sua piccolezza, perché basta un grumo di bene per neutralizzarlo. E tutti noi possediamo, in qualche recesso dell’anima, questo grumo. Gesù scommette appunto su di esso, su questa origine di noi. Come se il resto fosse contorno, materia da dirozzare. La nostra forma, direbbe Michelangelo, è intrappolata nel marmo del male; ma all’interno, splende come diamante. Cristo vuol far emergere, sempre e comunque, questo splendore.
Mesi fa, cioè nell’altra vita, molti di noi si scagliavano talora retoricamente, contro i moderni mezzi di comunicazione di massa, rei di alimentare l’isolamento, di impoverire gli autentici rapporti umani, d’immeschinire il linguaggio e l’alfabeto dei sentimenti. Vero. Ma incompleto. Perché guardavamo “come quei c’ha mala luce”, focalizzando l’attenzione sullo strumento e non sul fine. Internet, televisione, giornali, denaro, persino libri, possono giovarci e distruggerci, a seconda della loro posizione nella scala valoriale. Al centro non può mai esserci lo strumento. Centro di ogni invenzione umana dev’essere l’umano. Ecco che allora i prodotti dell’ingegno diventano utili, anzi, indispensabili.
Oggi, i mass-media ci offrono una formidabile possibilità di raggiungere tutti, in particolare chi è solo. E in questo senso vanno potenziati e diffusi. Oggi, anche grazie a essi, celebriamo una Pasqua inusitata.
Una Pasqua di contraddizioni, come del resto dovrebbe essere sempre. Il cristianesimo non è “conferma” delle nostre certezze, dei nostri luoghi comuni e del nostro perbenismo. Irrompe nella quotidianità e la sconvolge, scuote un quieto vivere fatto di abitudini e riti. Ma questa volta, il paradosso è doppio. Celebriamo qualcosa di molto fisico, come un pasto, una sepoltura, un’attesa e, infine, un vitalismo sacro – la Resurrezione riguarda la carne, non l’anima: la Bibbia non menziona mai quest’ultima – stando materialmente distanti. E chissà che questa nostalgia del corpo, dei suoi odori, dei suoi abbracci e baci, non ci spinga a riflettere sulla sua dignità. Noi, siamo il corpo. Troppo spesso, invece, l’abbiamo considerato un oggetto estraneo, inanimato, da consumare in fretta – se bello, giovane, tonico –, smembrare, rinnegare, erotizzare, mercificare, addirittura affittare per desideri altrui. E quando non serviva più, quando la sua efficienza veniva meno, se era difettoso, lo abbiamo dichiarato inutile, e la sua eliminazione presentata come “supremo interesse”. Abbiamo invocato il diritto a morire, perché difendere la vita era diventato un concetto obsoleto.
Un corpo che veniva fatto esplodere per l’egoismo di tiranni autoproclamatisi dei in terra, un corpo martoriato da fame e guerre, un corpo prostituito per l’egoismo di pochi.
Adesso questo corpo reclama la sua sacertà, e ci ricorda: non sapete che siete tempio di Dio? E che lo spirito di Dio abita in voi?
In noi, ecco. E, nel momento in cui avvertiamo la nostalgia dei corpi, possiamo recuperarli “in spirito e verità”. Gesù pronuncia queste parole a una donna perché è l’unica a poterle capire. Gli uomini sono legati al tempio, al monte, a Gerusalemme. Le donne, sono donne dappertutto. Escluse dal sacro recinto. Ma proprio fuori, proprio lì, Cristo le accoglie.
L’ora è giunta. Siamo al tempo stesso fuori e dentro. Non nel tempio, ma nelle nostre case. Che erano le chiese dei primi cristiani, ricordi di pasti, preparati – e presieduti – dalle donne della famiglia. È giunta l’ora, ed è questa, dove l’unione si fa spirituale, non per disprezzo verso il corpo, come inculcato per troppo tempo da un catechismo sessuofobico incrostato di dualismo platonico, ma perché, partendo dal corpo, la potenzia; e la trasfigura.
Dio è tutto in tutti non equivale a un facile irenismo, né a una “protestantizzazione” del cattolicesimo, come pretende una vulgata che della Riforma presenta sempre un’immagine irrispettosa e caricaturale. Significa, piuttosto, ch’egli non si lascia circoscrivere in alcun perimetro, né mentale né materiale. Del tempio di Gerusalemme non è rimasta che pietra su pietra, ma il tempio del corpo è stato distrutto ed è risorto in tre giorni.
La casa di Dio non è l’edificio. Questo lo credevano i pagani; ma noi sappiamo che l’edificio ha la sua importanza simbolica, artistica, evocativa, galileiana. È accompagnamento, scuola. Ma la Chiesa è in uscita, come ricorda papa Francesco, la parola abbandona le porte chiuse, si fa glossolalia, e arriva agli estremi angoli, dove il Vangelo è perseguitato, dove l’unica voce che strepita è quella delle bombe, dove il sacerdote non entra, dove non c’è amico, non sguardo. Negli ospedali dove si muore soli. Lì giunge, anche quando tutto tace, anche quando si fa inesplicabile, perché anche lì è stata esperita, perché anche Cristo è morto solo.
C’è chi vorrebbe riaprire le Chiese per Pasqua, per celebrare “quel Corpo risorto mentre tutto parla di corpi morti”.
Quei “corpi morti” che sono il corpo di Cristo.
Quei “corpi morti” senza i quali non ci sarebbe resurrezione.
Quei “corpi morti” in cui Gesù si è talmente identificato da far esclamare al centurione pagano: “Veramente questi era figlio di Dio”. La sua regalità non si è manifestata nel fulgore abbagliante dell’arcobaleno, ma in un corpo agonizzante, piagato, irriconoscibile. Morto.
La Pasqua viene qui, in questo modo laico e samaritano, femminile e donativo. Nei “corpi morti” in cui solo può avvenire il balenio della Resurrezione. Nell’abnegazione di religiosi, medici, infermieri, volontari, amici, insegnanti e studenti, semplici conoscenti, in chi si prende cura degli anziani, in chi comprende che la pandemia, evento per noi eccezionale, ad altre latitudini è una triste quotidianità; ma quei corpi, nell’altra vita, ci sembravano remoti, di quei corpi non c’importava, fin quando abbiamo capito che no, al male non ci si abitua, non è il nostro destino, non può essere la nostra storia.
Buona Pasqua di intimità, dunque; siano le nostre case, le chiese antiche e nuove; partecipiamo ai riti grazie ai mezzi tecnologici che la mente umana ha saputo partorire; usiamoli per fare il bene, usiamoli anche per chi non potrà accedervi. Buona Pasqua in spirito e verità.27.6.18
VIVERE È FATICA Retrospettiva su My beautiful laundrette di © Daniela Tuscano
15.2.18
CHIUNQUE di © Daniela Tuscano
Lorenzo Pianazza non è certamente un eroe, ha fatto quel che doveva in pochi e dinoccolati gesti, immortalati dalla telecamera a circuito chiuso della metropolitana milanese.

10.2.18
GENTILIANI ILLUMINATI con © Daniela Tuscano
di cosa stianmo parlando
“Qui niente poveri né disabili”: le pubblicità discriminatorie dei licei
Sul sito del ministero le presentazioni con cui le scuole superiori cercano di attrarre nuovi studenti. E c'è chi parla di "difficile convivenza" tra ricchi e figli dei portinai
La prosa con cui alcune scuole del Paese, spesso i licei più prestigiosi e selettivi, si sono offerti alle famiglie per attrarre l'iscrizione dei loro figli è da censura. Nell'ansia di far apparire un istituto privo di problemi, pronto a fornire la migliore didattica senza impacci con gli adolescenti stranieri o i ragazzi bisognosi di sostegno, i dirigenti scolastici hanno licenziato rapporti di autovalutazione classisti.
Ci fu, in Italia, un periodo di sogni e di lotte, in cui l'escluso doveva essere incluso. E le porte degli istituti si spalancarono a tutti, almeno formalmente. In realtà si trattava d'un ingresso secondario, possibilmente senza dar troppo nell'occhio. Invece d'incoraggiare i "capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi", a "raggiungere i gradi più alti degli studi" (art. 34 della
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| ( Nella foto: © R. Mauri, "Cultura incatenata" ) |
Oggi, essere "scuole de-disabilizzate", "de-pauperizzate" o simili ne attesta il prestigio. E le auto-valutazioni di numerosi licei classici italiani giungono a gloriarsene: "Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate", "Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile [...]. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento", "Il contesto socio-economico e culturale complessivamente di medio-alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di una didattica davvero personalizzata".
Soffermarsi sugli aspetti più manifestamente classisti di queste presentazioni è superfluo. Consideriamo piuttosto certi avverbi e sostantivi. Si legge di "specifiche esigenze formative" e di "didattica 'davvero' personalizzata". Dunque, l'assenza di "studenti con caratteristiche particolari" favorirebbe la didattica? Addirittura personalizzata? Davvero? Per davvero?
Magari essere un po' meno perentori, ecco. Al posto di "davvero", usare "forse". Lo so, la vaghezza è roba da poeti, non da burocrati. Ma da quando la precisione computistica è sinonimo di veridicità? Un tempio della cultura non dovrebbe ignorarlo. Perché la didattica davvero personalizzata la facciamo noi, docenti sfigati. Quelli che i nomadi, gli stranieri e gli svantaggiati li vedono tutti i giorni, spesso in intere classi. E li seguono oltre, e l'occhio mentale s'insinua nelle loro case. In ognuna di esse. In quella zona aliena dei paesi che si portano dentro, dei giorni senza storia, o di troppe storie. Negli addii a monti concreti, in vie dai nomi odiosamente eguali, dove i pomeriggi sono muri, o ricettacoli d'azzardo, o noia d'appartamenti e tecnologia dozzinale. La didattica, per noi, non s'esaurisce in una lezione. La didattica è educare. E-ducere, tirar fuori. E da tirar fuori, in questi alunni, c'è davvero molto.
Tempo te ne portano via. Davvero. No, forse. Ti tolgono il tempo dell'orologio, questo è sicuro. Ti tolgono pure il fiato mentre le "buone scuole" pensano a toglierti il resto: soprattutto le residue risorse per fornir loro gli strumenti culturali di cui hanno diritto e bisogno. Però tu non li cambieresti con nessun altro al mondo.
Perché esiste la strada, non l'"università della strada". Semmai, esiste una strada che conduce all'Università. Ma per percorrerla devi capirla, decriptarla, non semplicemente esserci. E questo è esattamente il compito della didattica.
Ma la strada occorre pure viverla. "Convien essere popolare", come da folgorante sintesi machiavellica. Altrimenti rimane mero esercizio retorico o, peggio, narcisismo velleitario. Abile contorno, bella prosa, eloquio fluido ed elegante. A quanto pare alcuni presidi concepiscono in tal modo la "didattica davvero personalizzata". Che certo non fa "perdere tempo". La rettifica - peggiore del danno, come spesso avviene - della preside d'un liceo finito al centro della polemica non poteva essere più illuminante: "Volevo dire che la didattica ordinaria, così, è più semplice: recuperare l’italiano di uno straniero chiede risorse e tempo. Credo che tutti gli studenti, ricchi e poveri, debbano crescere insieme e credo nella multiculturalità".
Fantastici, vero?, questi intellettuali, progressisti nella forma e gentiliani nei fatti, che credono gli studenti debbano crescere insieme tenendoli però separati, cui la "multiculturalità" sta tanto a cuore ma per i quali lo "straniero" chiede "risorse e tempo" (chi l'avrebbe mai detto!). E non oso addentrarmi nella "semplicità" della didattica "ordinaria": immagino s'intendesse "facilità", benché non siano sinonimi e stupisce che in istituti di alta reputazione si ricorra a un lessico così sfilacciato. Ma dalle nostre parti non c'è nulla di semplice né di ordinario; e la didattica, nella fattispecie, non lo è mai. Gli è che questi allievi modello, questi giovani italiani doc costituiranno la futura classe dirigente. Li immaginiamo schierati nell'emiciclo sinistro del Parlamento a concionare di accoglienza, ius soli, inclusione e integrazione. C'inviteranno ad "abbracciare i fratelli Rom" come l'alunno Derossi col figlio della Calabria di deamicisiana memoria, ad accantonare la "didattica" (per come l'hanno appresa, ordinaria, quindi libresca, quindi inutile) in favore di "progetti" realizzati da "esperti" di qualche club antidiscriminazione. I docenti, è noto, sono impreparati verso le "nuove criticità", quindi meno Dante e più corsi d'empatia, il ludo come depensiero, la fatica da aborrire, lo smartphone per lezioni "easy". E poi ammettiamolo, ai nostri scalcagnati alunni cosa è riservato, se non un destino da Prolet? Non pretendessero troppo. Poi dice che uno li manda a farsi un giro.
© Daniela Tuscano
4.2.18
cosa è la vita ? di © Daniela Tuscano
3.1.18
R. B di © Daniela Tuscano
E va bene, definirlo apollineo non è originale. Semmai, tautologico. Ma abbiamo alternative? Roberto Bolle è una metempsicosi artistica, la materializzazione dei sogni di Winckelmann. Non la Grecia, ma un'idea di essa. Una bellezza pensata che taluni scambiano per freddezza.
Ma Roberto vive, sublimando le passioni. Chi l'ha visto all'opera, anzi all'impresa, ne percepisce la fisicità possente e travagliata. C'è sofferenza dietro il genio, l'impossibilità di sentirsi normale, la severa armonia. Bolle quando tocca, quando bacia, è un fremito mediterraneo. Sa gestirsi, adesso che ha raggiunto - di slancio - il termine della carriera. Vuol essere popolare senza scadere nel pop. Immancabilmente ecumenico, ineccepibile nelle evoluzioni. Cosicché gli si possono perdonare i peccati. Eventuali, nascosti, occulti.

8.11.17
26 di © Daniela Tuscano
Forse arrivo a capirlo, perché nessuno abbia pensato a disfarsi dei cadaveri di quelle 26 ragazze nigeriane. Perché non c'era niente da pensare e, soprattutto, da faticare.
Quelle 26 non li riguardavano. Cancellare le tracce del delitto? Ma quale delitto, scusate. È dura dirlo, ma solo la morte ha restituito dignità a quelle disperate. Solo le bare stagliate nel cielo di Salerno, un cielo barocco, d'antichi furori, solo l'apparire in involucri lignei, appese - impiccate? - all'enorme gru nera, ci hanno fatto realizzare ch'era accaduto qualcosa di tremendo. Che erano esistite, in qualche sterro d'Africa, ragazze giovanissime, spogliate, derubate, stuprate, uccise poi gettate lontano, povere larve d'un giorno, l'occhio novello spalancato sull'orrore.Solo ora, quelle voci che non hanno avuto il tempo d'urlare, le avvertiamo concitate e reali, solo adesso, nel silenzio dei flutti, possiamo udire il loro pianto negletto, eguale dall'inizio del mondo, ed è sempre troppo tardi, ed è sempre, e lacera il cuore.
6.11.17
la resa
Dunque no, niente razzismo, niente fanatismo religioso, solo una parente rompigliona, come se questo bastasse a ingentilire dei corpi straziati, come se il sangue sparso fosse meno rosso e le lacrime consolatorie.Sapere che l'uccisore non ha urlato "Allahu akbar" ma, forse, "solo" qualche bestemmia - pare fosse satanista - ci rassicura?
Venire a conoscenza che era stato congedato dall'esercito con disonore per violenze gravi su moglie e figlio tranquillizza le nostre coscienze?
Aver contezza che a un individuo simile fosse consentito tenere in casa un arsenale, anzi, come s'è subito affrettato a precisare il presidente Trump, che "tutto quanto non è collegato al commercio d'armi", ci conforta ?
È ora di ritenere la vendita sconsiderata di armi da fuoco un crimine contro l'umanità.
È ora di denunciare i delitti verso donne e bambini come espressioni di razzismo.
È ora di riconoscere l'odio religioso anche all'interno d'una stessa comunità. Nemici del cristianesimo provenienti da questa cultura esistono, son sempre esistiti; e vanno definiti senza ipocriti eufemismi.
È ora di proclamare che nelle stragi efferate i "moventi familiari" NON sono MOVENTI.
Pertanto la narrazione che si ostina a presentarli come tali, evitando ogni contestualizzazione e problematizzazione, di fatto fornisce loro alcune attenuanti; e un'aura, quasi, di rispettabilità.

Dunque no, questa volta non si può incolpare il solito terrorista islamico. L'assassino del Texas è un bianco, wasp. Dunque no, non si tratta di razzismo, non ci sono moventi religiosi, bensì problemi familiari. Esattamente: "problemi familiari". Tali vengono descritti, senza vergogna, dalle principali testate italiane [qui alcuni esempi, ndA] e temiamo anche estere. Il killer "aveva manifestato odio per la suocera" e, si sa, le suocere sono tremende. Insomma a chiunque, con una suocera petulante in casa, possono girare i santissimi e da qui a imbracciare un fucile, recarsi in una chiesa, sterminare 26 persone fra cui alcuni bambini e anziani (il più piccolo di 18 mesi, il più vecchio di 77 anni), una ragazzina 14enne (figlia del pastore) e una donna incinta il passo è breve...
Dunque no, niente razzismo, niente fanatismo religioso, solo una parente rompigliona, come se questo bastasse a ingentilire dei corpi straziati, come se il sangue sparso fosse meno rosso e le lacrime consolatorie.
Sapere che l'uccisore non ha urlato "Allahu akbar" ma, forse, "solo" qualche bestemmia - pare fosse satanista - ci rassicura?
Venire a conoscenza che era stato congedato dall'esercito con disonore per violenze gravi su moglie e figlio tranquillizza le nostre coscienze?
Aver contezza che a un individuo simile fosse consentito tenere in casa un arsenale, anzi, come s'è subito affrettato a precisare il presidente Trump, che "tutto quanto non è collegato al commercio d'armi", ci conforta?
Se continuiamo a reputare bagattelle la morale del pistolero, la paranoia machista, l'oblio di Dio e, di conseguenza, l'obnubilamento dell'umano; se rifiutiamo di considerarle, anch'esse, manifestazioni di quel fanatismo religioso e razzista che tanto volentieri imputiamo all'estraneo, al diverso, allo straniero, non illudiamoci di poter sconfiggere le cause profonde del Male.
È ora di ritenere la vendita sconsiderata di armi da fuoco un crimine contro l'umanità.
È ora di denunciare i delitti verso donne e bambini come espressioni di razzismo.
È ora di riconoscere l'odio religioso anche all'interno d'una stessa comunità. Nemici del cristianesimo provenienti da questa cultura esistono, son sempre esistiti; e vanno definiti senza ipocriti eufemismi.
È ora di proclamare che nelle stragi efferate i "moventi familiari" NON sono MOVENTI.
Pertanto la narrazione che si ostina a presentarli come tali, evitando ogni contestualizzazione e problematizzazione, di fatto fornisce loro alcune attenuanti; e un'aura, quasi, di rispettabilità.
Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti
Dopo la morte nei giorno scorsi all'età di 80 anni di Maurizio Fercioni ( foto sotto a sinistra ) considerato il primo t...
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Come già accenbato dal titolo , inizialmente volevo dire Basta e smettere di parlare di Shoah!, e d'aderire \ c...
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iniziamo dall'ultima news che è quella più allarmante visti i crescenti casi di pedopornografia pornografia...
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Ascoltando questo video messom da un mio utente \ compagno di viaggio di sulla mia bacheca di facebook . ho decso di ...







