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10.2.23

1928-2023 Burt Bacharach il petrarca della musica ©® Daniela Tuscano

 Burt Bacharach che passeggia con Marlene Dietrich a Gerusalemme, Burt Bacharach che cinge affettuosamente il braccio della diva, appena un po' distante, come un principe consorte. E Burt Bacharach che siede accanto all'"angelo azzurro", già maturo, ma per nulla disposto a cedere lo scettro. In tutti e tre gli scatti è manifestamente innamorato, ma teme di bruciarsi, e non ha torto. Quella diavolessa non perdona. Guardatela assisa con le gambe scoperte, sfrontata ma con un piglio virile che la rende innocente. E quindi pericolosa. Lui si volge altrove perché, come ha dichiarato,
"rischiammo di diventare amanti"... Rischiare è il verbo adatto. Ma lui voleva sopravvivere e ci è riuscito, come un Petrarca delle sette note, lungamente, fino all'altro ieri, quando il suo cuore di seta si è fermato. Bacharach, tanta roba. L'immediatezza della semplicità, che non ha nulla di facile, come ebbe a dire Elvis Costello, rockstar doc, lontana dalle melodie scintillanti di Bacharach... ma mica tanto, considerato che incisero dischi insieme. Bacharach, musica pop. Democratica. Bianca e nera. Dionne Warwick la sua musa, ma anche Aretha Franklin, Louis Armstrong e appunto Marlene, assieme a mille altri/e. L'ebreo tedesco e la tedesca antinazista. Il seduttore e la pansessuale. Avevano già scritto tutto loro, tutto fatto, vissuto, cantato. Di Bacharach ne nascono pochi al mondo ed è normale, persino giusto sia così. Ma c'è stato un tempo che quei pochi li racchiuse tutti, perché era un tempo di fede.


© Daniela Tuscano

17.8.21

SE OGNUNA DI NOI di ©Daniela Tuscano


Che fare? È l'angosciante e rabbiosa domanda che sale sulle labbra di ognuna di noi, nel constatare ancora una volta non la resa dell'Occidente, non la ferocia talebana né la religione prostituita ai giochi di potere, ma la totale indifferenza nei confronti delle donne, di tutte le donne. Perché attenzione, non si tratta solo delle afghane. La loro tragedia ci tocca da vicino perché le prossime saremo noi, lo saremmo già qualora la cosiddetta "Realpolitik" lo esigesse. A qualsiasi latitudine.
Noi proclamiamo: #AfghanistanWeCare, dell'Afghanistan c'importa. Kabul è la Shoah delle donne, cui dovrà seguire una Norimberga. Sarà un gran giorno, allora, e sarà vendetta e sarà giusto. Sul banco degli imputati non vorremmo vedere solo gli orrendi barbuti ma anche i loro complici, i firmatari degli sciagurati accordi di Doha. Con i/le collaborazioniste a vario titolo
asservite. 
Sì, ma questo dopo, se sarà possibile, obietterete. Ma ora? Cosa facciamo, ora?
Ora, abbiamo la definitiva conferma della nostra solitudine davanti al mondo. Ma abbiamo anche dei doveri.
Ci svegliamo la mattina in un declino d'estate dove ogni raggio di sole, ogni lembo di pelle scoperta sono stati pagati col sangue nel corso dei secoli. Non possiamo tirare un sospiro di sollievo. Vorremmo dire basta, lasciar perdere tutto, e ritirarci da qualsiasi lotta. 
È l'ultima tentazione, la più maligna perché comprensibile, umana.
Ma poi penso ad Atai Ataye, che lo scorso anno invitai a scuola. In Dad. Ci parlò di tante cose. Ci colpì la sua dolcezza, il suo stupore verso la bellezza della vita, dell'arte. Tutte cose che i #talebani (e non chiamateli "studenti", maledizione, sono bruti ignoranti) odiano e distruggono. Ci parlò di quella sorella, Salma [nella foto], sfuggita a un matrimonio forzato col barbuto e divenuta poi medica. Rimasta in patria per soccorrere donne e bambini. Oggi la sua struttura è stata assaltata, lei ferita, uno zio ucciso. Seppellirlo è impossibile: in quanto "infedele", il suo corpo verrà dilaniato dai cani.
Ma penso pure a suor Shahnaz Bhatti. Lei pure rimane, assieme alle sue consorelle. Il loro è l'unico ospedale per bimbi disabili esistente nel paese. Gestiscono una scuola per ragazze. Sono lì, hanno rifiutato di spostarsi nella "green zone", più sicura: "Stiamo con la gente". Sono lì con le belle facce abbronzate e i veli variopinti, che nel giovedì santo sembrano presbitere sororali, tutte Oriente, e gli abitanti sanno che sono cristiane - e le amano, fanno del bene - in un paese dove il rischio per questa confessione è come per un ebreo ad Auschwitz. Chissà che fine avranno fatto, quando anche i preti abbandonano. E non abbiamo più notizie di Alberto Cairo, anch'egli intenzionato a non lasciare i suoi mutilati. 
Glielo dobbiamo. Ognuna di noi glielo deve. Cioè lottare, non arrendersi. L'Afghanistan è vicinissimo. Per prima cosa, esigiamo #corridoi umanitari per donne e bambini. Ma dobbiamo pretendere, costruire una Nomadelfia afghana: dove ogni bambina/o abbandonata possa trovare una famiglia, una persona, senza inutili intoppi burocratici.
Dobbiamo portare l'Afghanistan e le sue donne nelle scuole, nei libri, nella nostra vita quotidiana. Ognuna come sa è come può. Ma conscia che non può delegare l'impegno a nessuno. 
Le istituzioni siamo noi. Con questa certezza, dolorosa, ma che almeno fa piazza pulita delle illusioni, possiamo forse, ognuna a suo modo, costruire quella lenta, straziante, ma necessaria rivoluzione antropologica attesa dal mondo intero. Altrimenti le donne spariranno, e sarà finita. Per tutti.

                             ©Daniela Tuscano

21.2.21

MAURO BELLUGI, IL PROTAGONISTA di © Daniela Tuscano

 Le aveva tutte Bellugi, anzi aveva perso tutto: prima una gamba, poi l'altra, poi l'intestino, poi è arrivato il Covid e con esso la mazzata finale. Non aveva più niente eppure sembrava così solido, con quella faccia contadina, le rughe profonde, gli occhi da bracco, sempre un po' casuali, come tutti i calciatori anni '70. Non divi ma soldatini di stagno, e le figurine Panini ce li restituivano così, fissi e variopinti. Fuori luogo, perché senza il pallone non esistevano. Bellugi era quel mondo, le domeniche pomeriggio, Novantesimo Minuto, l'Inter, mio padre. Che l'aveva trovato poco tempo fa a Niguarda, in attesa come gli altri, fisso ancora, ambedue le gambe fasciate. Lì Bellugi stava disputando l'ultima partita, nel chiarore di quella sala che sicuramente, ai suoi occhi, appariva un immenso campo di calcio. Un saluto cortese e senza fronzoli, l'annuncio buttato là, che gli avrebbero tagliato pure l'altra gamba, e quel "vediamo", il futuro comunque, perché la vita è un flusso e ti prevarica. Puoi non farcela, ma non devi restare in panchina.



Bellugi giocava ancora. Duramente e spontaneamente, a testa bassa, con una pietas quasi virgiliana. Cose maschili, ché il calcio ai tempi apparteneva a loro; non era però esclusione, semmai completamento. Alla fine, ci si riuniva attorno a un tavolo ed esisteva solo il noi. "Vediamo", il tempo non ci appartiene, ma ci siamo dentro e lo percorriamo tutto.
Bellugi se n'è andato, e con lui il pudore che caratterizzava quel mondo. Quello per cui la stanchezza era una colpa, sempre, di fronte al terribile dono dell'esistere. Anche a brani, smozzicati, cadenti, ma oltre, ma anima, integri dentro, e al cuore nessuno arriva, pur se te lo mangiano.

                                          © Daniela Tuscano 

10.4.20

IN SPIRITO E VERITA' - Pasqua 2020 di ©® Daniela Tuscano

L'immagine può contenere: una o più personeTriduo pasquale. È bello che cominci con un pasto, con una cena. In Oriente, oggi come allora, la convivialità è estremamente importante, rappresenta una forma d’intimità simile all’unione sessuale. Ed è bello che Gesù abbia conferito il mandato proprio in un’occasione come questa, che l’abbia condivisa coi suoi amici e le sue amiche. Con quelli e quelle a cui era più affezionato, anche se non, forse, i più affidabili; e lui lo sapeva. Questa consapevolezza gli veniva dall’umanità, non dal suo essere Dio. Basta il discernimento, la discrezione. La semplice esperienza. Il realismo. Perché noi siamo così: irriconoscenti, fragili, dimentichi. Lo siamo; ma la carità – non l’elemosina, bensì l’amore incondizionato, totale – insiste, diremmo si ostina, a scommettere su di noi, sulla nostra parte buona, con la pertinacia d’un esploratore. Certo, il male è multiforme e spaventevole; fa chiasso; è vistoso. Si agita, sconvolge. Ma proprio questo denota la sua piccolezza, perché basta un grumo di bene per neutralizzarlo. E tutti noi possediamo, in qualche recesso dell’anima, questo grumo. Gesù scommette appunto su di esso, su questa origine di noi. Come se il resto fosse contorno, materia da dirozzare. La nostra forma, direbbe Michelangelo, è intrappolata nel marmo del male; ma all’interno, splende come diamante. Cristo vuol far emergere, sempre e comunque, questo splendore. Mesi fa, cioè nell’altra vita, molti di noi si scagliavano talora retoricamente, contro i moderni mezzi di comunicazione di massa, rei di alimentare l’isolamento, di impoverire gli autentici rapporti umani, d’immeschinire il linguaggio e l’alfabeto dei sentimenti. Vero. Ma incompleto. Perché guardavamo “come quei c’ha mala luce”, focalizzando l’attenzione sullo strumento e non sul fine. Internet, televisione, giornali, denaro, persino libri, possono giovarci e distruggerci, a seconda della loro posizione nella scala valoriale. Al centro non può mai esserci lo strumento. Centro di ogni invenzione umana dev’essere l’umano. Ecco che allora i prodotti dell’ingegno diventano utili, anzi, indispensabili. Oggi, i mass-media ci offrono una formidabile possibilità di raggiungere tutti, in particolare chi è solo. E in questo senso vanno potenziati e diffusi. Oggi, anche grazie a essi, celebriamo una Pasqua inusitata. Una Pasqua di contraddizioni, come del resto dovrebbe essere sempre. Il cristianesimo non è “conferma” delle nostre certezze, dei nostri luoghi comuni e del nostro perbenismo. Irrompe nella quotidianità e la sconvolge, scuote un quieto vivere fatto di abitudini e riti. Ma questa volta, il paradosso è doppio. Celebriamo qualcosa di molto fisico, come un pasto, una sepoltura, un’attesa e, infine, un vitalismo sacro – la Resurrezione riguarda la carne, non l’anima: la Bibbia non menziona mai quest’ultima – stando materialmente distanti. E chissà che questa nostalgia del corpo, dei suoi odori, dei suoi abbracci e baci, non ci spinga a riflettere sulla sua dignità. Noi, siamo il corpo. Troppo spesso, invece, l’abbiamo considerato un oggetto estraneo, inanimato, da consumare in fretta – se bello, giovane, tonico –, smembrare, rinnegare, erotizzare, mercificare, addirittura affittare per desideri altrui. E quando non serviva più, quando la sua efficienza veniva meno, se era difettoso, lo abbiamo dichiarato inutile, e la sua eliminazione presentata come “supremo interesse”. Abbiamo invocato il diritto a morire, perché difendere la vita era diventato un concetto obsoleto. Un corpo che veniva fatto esplodere per l’egoismo di tiranni autoproclamatisi dei in terra, un corpo martoriato da fame e guerre, un corpo prostituito per l’egoismo di pochi. Adesso questo corpo reclama la sua sacertà, e ci ricorda: non sapete che siete tempio di Dio? E che lo spirito di Dio abita in voi? In noi, ecco. E, nel momento in cui avvertiamo la nostalgia dei corpi, possiamo recuperarli “in spirito e verità”. Gesù pronuncia queste parole a una donna perché è l’unica a poterle capire. Gli uomini sono legati al tempio, al monte, a Gerusalemme. Le donne, sono donne dappertutto. Escluse dal sacro recinto. Ma proprio fuori, proprio lì, Cristo le accoglie. L’ora è giunta. Siamo al tempo stesso fuori e dentro. Non nel tempio, ma nelle nostre case. Che erano le chiese dei primi cristiani, ricordi di pasti, preparati – e presieduti – dalle donne della famiglia. È giunta l’ora, ed è questa, dove l’unione si fa spirituale, non per disprezzo verso il corpo, come inculcato per troppo tempo da un catechismo sessuofobico incrostato di dualismo platonico, ma perché, partendo dal corpo, la potenzia; e la trasfigura. Dio è tutto in tutti non equivale a un facile irenismo, né a una “protestantizzazione” del cattolicesimo, come pretende una vulgata che della Riforma presenta sempre un’immagine irrispettosa e caricaturale. Significa, piuttosto, ch’egli non si lascia circoscrivere in alcun perimetro, né mentale né materiale. Del tempio di Gerusalemme non è rimasta che pietra su pietra, ma il tempio del corpo è stato distrutto ed è risorto in tre giorni. La casa di Dio non è l’edificio. Questo lo credevano i pagani; ma noi sappiamo che l’edificio ha la sua importanza simbolica, artistica, evocativa, galileiana. È accompagnamento, scuola. Ma la Chiesa è in uscita, come ricorda papa Francesco, la parola abbandona le porte chiuse, si fa glossolalia, e arriva agli estremi angoli, dove il Vangelo è perseguitato, dove l’unica voce che strepita è quella delle bombe, dove il sacerdote non entra, dove non c’è amico, non sguardo. Negli ospedali dove si muore soli. Lì giunge, anche quando tutto tace, anche quando si fa inesplicabile, perché anche lì è stata esperita, perché anche Cristo è morto solo. C’è chi vorrebbe riaprire le Chiese per Pasqua, per celebrare “quel Corpo risorto mentre tutto parla di corpi morti”. Quei “corpi morti” che sono il corpo di Cristo. Quei “corpi morti” senza i quali non ci sarebbe resurrezione. Quei “corpi morti” in cui Gesù si è talmente identificato da far esclamare al centurione pagano: “Veramente questi era figlio di Dio”. La sua regalità non si è manifestata nel fulgore abbagliante dell’arcobaleno, ma in un corpo agonizzante, piagato, irriconoscibile. Morto. La Pasqua viene qui, in questo modo laico e samaritano, femminile e donativo. Nei “corpi morti” in cui solo può avvenire il balenio della Resurrezione. Nell’abnegazione di religiosi, medici, infermieri, volontari, amici, insegnanti e studenti, semplici conoscenti, in chi si prende cura degli anziani, in chi comprende che la pandemia, evento per noi eccezionale, ad altre latitudini è una triste quotidianità; ma quei corpi, nell’altra vita, ci sembravano remoti, di quei corpi non c’importava, fin quando abbiamo capito che no, al male non ci si abitua, non è il nostro destino, non può essere la nostra storia. Buona Pasqua di intimità, dunque; siano le nostre case, le chiese antiche e nuove; partecipiamo ai riti grazie ai mezzi tecnologici che la mente umana ha saputo partorire; usiamoli per fare il bene, usiamoli anche per chi non potrà accedervi. Buona Pasqua in spirito e verità.


27.6.18

VIVERE È FATICA Retrospettiva su My beautiful laundrette di © Daniela Tuscano

Un pomeriggio del 1985, al cinema Eliseo di Milano. In cartellone un titolo bislacco, My beautiful laundrette, intraducibile in italiano se non a costo d'imbarazzanti associazioni: "La mia bella lavanderia". La trama: l'anglo-pachistano Omar (Gordon Warnecke) è spinto dal padre, intellettuale socialista alcolizzato (Roshan Seth, il Nehru di Gandhi), a lavorare per qualche tempo presso lo zio Nasser (Saeed Jaffrey), ricco proprietario d'imprese lecite e illecite, con moglie trascurata e amante inglese (una scintillante Shirley Ann-Field). L'intraprendente giovanotto rileva una lavanderia dello zio e assume Johnny, un ex-amico d'infanzia, biondo, sfaccendato, punk, omosessuale e, in passato, fascista e razzista. Ne diviene l'amante e, assieme a lui, trasforma il negozio in locale di lusso. In mezzo, traffici di droga, scontri fra lavoratori e disoccupati, inglesi e immigrati, colori acidi e catapecchie rancide, luci al neon e valzer di Waldteufel, alcool a fiumi e odore d'appretto, rovistio di vesti dismesse, binari assordanti, vie di fuga e angoli in penombra. Locandina altrettanto indovinata: due ragazzi belli e strani, tra i più belli (e strani) mai visti, uno bianco e nordico, l'altro bruno e asiatico, che fissano l'obiettivo con timida strafottenza. Una coppia irregolare e interetnica nella Londra di Margaret Thatcher. 
Ma chi interpretava Johnny? Nientemeno che un tormentato, irresistibile Daniel Day-Lewis. E nessuno, fra gli sparuti spettatori dell'Eliseo nel 1985, sapeva di trovarsi di fronte alla riuscita performance del più grande attore degli ultimi decenni. Nell'asciutta possanza dei suoi 27 anni (ma ne dimostrava meno), il futuro sir DDL si muoveva con una spontaneità talmente viscerale da sconvolgere. Ma, d'altronde, il co-protagonista Warnecke non era da meno e in una intervista rilasciata al "Guardian" nel 2015 ha ricordato con molta vivezza quel partner così intenso e impegnativo, ma anche lieve ("un vero gentleman"). Warnecke, tuttora in attività - la sua ultima prova è stata presentata anche a Milano, nel corso del Festival Mix, il 24 giugno - avrebbe meritato maggior fortuna artistica: nato a Londra da madre indoguyanese e padre tedesco (un Ayeye Brazov d'Oltremanica...), risulta credibile come pachistano e regge egregiamente il confronto con l'illustre collega. Forse quel suo personaggio, così trasgressivo e imprevisto, era troppo in anticipo sui tempi, anche per la disinvolta Europa. My beautiful laundrette era mercuriale e non concedeva nulla alla furbizia. Vi si trovava solo lo schietto, ribaldo sperimentalismo dei 16 mm. - venne concepito per la TV come un serial sulla falsariga de Il Padrino - e la pirotecnia di due artisti: Hanif Kureishi alla sceneggiatura, Stephen Frears alla regia. 
La pellicola è indubbiamente figlia del suo tempo, a tratti datata, anzi, situazionista; eppure non invecchia. MBL è uno di quei film che si conficca nel cuore e non ne esce più. Puoi dimenticarlo, poi un bel giorno, o più probabilmente un pomeriggio - un altro - lo ritrovi lì, intatto, a riprendere il filo del discorso. Come tutti i classici, piove dove capita, con la precarietà dell'esistenza, ma sempre autentico, graffiante. 
La Londra anni '80 anticipava l'Italia del terzo millennio. Il suburbio rimane inchiodato a un'atemporalità senza scampo. Il resto è oggi: la politica truce e fosca, l'irresolutezza dei progressisti - il padre di Omar è forse il personaggio più patetico del film, con la sua cultura insipiente e la delusione poco comprensiva verso la "working class"; questione (anche) di linguaggio, lo tengano presente soprattutto gli insegnanti -, i nuovi "fascisti", in realtà dei poveri sciagurati, il fallimento del melting pot e la globalizzazione che esclude i singoli privilegiando il branco ("Non tagliarti fuori dalla tua gente, perché nessun altro ti vuole davvero" è il monito doloroso rivolto a Johnny da uno dei suoi ex-compagni di scorribande). Poi la guerra, immancabile: con gli extracomunitari, presi all'ingrosso, ma pure all'interno delle stesse comunità, che di comune hanno solo i bisogni materiali, o esigenze, o delinquenza. 



Tornare alle origini, come vorrebbe il padre di Omar nell'estrema illusione, non si può, sono bruciate e... su quelle ceneri, s'è innestata la malapianta del fondamentalismo. "Il Pakistan di oggi è stato fagocitato dalla religione", gli replica uno sconsolato Nasser. Nell'originale inglese, il verbo è ben altrimenti crudo: "sodomizzato". E la questione si ripresenta, sempre uguale: quando le religioni, nate per liberare l'uomo, hanno finito per incatenarlo? Chi le ha sequestrate? L'istituzione? Il potere? I preti o gli imam o i rabbini, tutti rigorosamente maschi? La nostra stessa prepotenza? La paura, il denaro? Se pensiamo che il peccato di Sodoma è il rifiuto dell'altro, non si ricompatta tutto in un unico, terribile atto d'accusa? Del resto, il mondo di MBL è senza Dio, ma certamente non più libero: semmai liberista; un ammonticchiare disordinato di piccole soddisfazioni, un vivere alla giornata afferrando un tragico attimo, privo di gioia. "La società non esiste. Esistono gli individui e io voglio cambiare le loro anime" proclamava la Lady di Ferro, ma cambiare l'anima è impossibile senza mettere in cortocircuito la stessa umanità. La quale, priva di riferimenti sicuri, trova sfogo nella violenza, nelle velleità o nella mitizzazione d'un mondo manicheo, esaltato, simmetricamente diviso tra bene e male. Liberismo e fondamentalismi - politici, religiosi - sono frutti d'un unico ceppo. Questa filosofia, o meglio, idolatria del denaro - che mai come qui assume connotati drammatici, al contrario di quanto frainteso da malaccorti osservatori - viene esplicitata da Salim (Dennis Branche), l'ambiguo e brutale cugino di Omar e, fra tutti, il più apertamente "mafioso", il quale riserva al ragazzo poche frasi taglienti: "Tuo padre era un intellettuale di spicco, in Pakistan. Tutti quei libri scritti e letti. I politici che andavano a cercarlo. Era intimo amico di Bhutto. Ma in Inghilterra senza soldi non siamo niente". 
Però la vita è anche un eterno passeggiare; si può sorridere fra le macerie, e infischiarsene, perfino commuoversi. L'amoralità dei protagonisti - di Omar, soprattutto - è forse dettata da autodifesa. Egli incarna un coacervo d'irriverenti contraddizioni: non bianco ma in alto nella scala sociale, dolce e appassionato (nell'intimità l'iniziativa spetta sempre a Johnny e mai a lui: altro sovvertimento degli stereotipi, che assegnano il ruolo predominante al non-occidentale) ma pure arrampicatore, rancoroso e dispotico. Concreto fino al cinismo e al tempo stesso entusiasta e melanconico, scherzoso e irrisolto. Lo si perdona, Omar, perché non ha scelta. All'adultità è costretto benché, come osservato da un critico dell'epoca, Leonardo Autera, unisca "all'astuzia dell'arrivista le tensioni e i sogni di un poeta". Ma nell'oclocrazia non c'è spazio per i poeti e al Nostro non resta che riversare tutta la poesia su Johnny. Segretamente, si capisce, in un alternarsi di sarcasmo e ipocrisia: mentre infatti la famiglia di Omar, chiamato amichevolmente (?) Omo, briga per combinargli un matrimonio con Tania (Rita Wolf), volitiva figlia di Nasser, lo zio, e perfino lo svaporato padre, nelle loro chiacchiere non mancano di additare lui e Johnny con un termine non esattamente corretto, "buggers" - equivalente al nostro "buggerare" -, tout court. Certo, i due rimangono uniti, magari sopportandosi, come sembra suggerire il finale, volutamente sottotono, che li ritrae sorridenti in un momento di lasciva banalità. Paiono già adulti, nel tratto se non nel fisico, due zitelloni gay che hanno imparato chissà come a barcamenarsi. D'altro lato questa intesa pare sempre sul crinale d'un burrone, per la crudeltà del mondo (non sono abbastanza cattivi), disagio esistenziale, finta virilità, mancanza di prospettiva, fragile dipendenza. Se non si teme di riconoscere, umilmente, i nostri abissi di finitudine, è facile identificarsi nei due amici, che nei non rari momenti di tensione sanno sempre sfoderare una risata sopra le righe. Non esistono, in MBL, personaggi del tutto buoni né completamente malvagi; ognuno ha le sue miserie e i suoi picchi di lirismo, pur nello squallore circostante. Ed è questo il fascino maggiore del film, lo stare al passo col disarmato fardello della vita.

assente nella più castigata versione italiana e che oggi farebbe gridare all'omofobia i tanti apologeti dell'equanimità a buon mercato. Ma MBL non è equo e, proprio perché così aderente alla realtà, rifugge i compromessi e gli accomodamenti della letteratura edificante, o letteratura 
Tuttavia, nella loro solitudine totale, o totalizzante, le più arrischiate risultano le donne, o alcune di esse. In particolare Tania, sposa mancata di Omar, riuscito miscuglio fra tradizione decaduta e necessità d'emancipazione. Ama (o desidera) il giovane parente, ma vorrebbe anche, con la complicità di lui, liberarsi da una famiglia detestata, e subisce la violenza più cruda quando Johnny, per mandare all'aria il matrimonio - l'amico non pensa nemmeno un attimo a confessare la verità - la seduce, facendole così perdere la reputazione agli occhi dei suoi. Tania se ne va, naturalmente, sparendo sui binari della ferrovia, quegli stessi su cui si era gettata anni prima la madre di Omar, depressa per le vessazioni subite dal figlio da parte dei bianchi, il fallimento economico del marito e la propria emarginazione in quanto moglie d'un "paki". Ma non vogliamo vederla come una sconfitta definitiva. Solo Tania può ripartire da se stessa azzerando un intero mondo, eterna apolide sempre di passaggio. È donna sotto qualsiasi latitudine, in tragitti mai concepiti per lei, e la fede, se arriva, è tutta da inventare. Nel manoscritto, Kureishi la ritrae seduta al finestrino con in mano un libro, l'unico che compaia in tutto il plot se si esclude la biblioteca del papà di Omar, segno d'erudizione vana. Può indurirsi per sempre, Tania. Oppure maturare, in quell'eremitaggio del cuore che, fra un treno e l'altro, gli anni ancora le concedono.

15.2.18

CHIUNQUE di © Daniela Tuscano


Lorenzo Pianazza non è certamente un eroe, ha fatto quel che doveva in pochi e dinoccolati gesti, immortalati dalla telecamera a circuito chiuso della metropolitana milanese.

L'immagine può contenere: una o più persone e persone che camminano

 È avvenuto tutto in pochi secondi. Un bambino senegalese si divincola dall'abbraccio della madre e rotola sui binari del treno. Seguono il panico, la confusione e l'apparire di quel ragazzone ciondolante, che anche di spalle immagini svagato, perso nella sua imprecisione adolescenziale. E che invece ha già visto e registrato tutto, e va dritto, chirurgico, elementare come un passero in volo, si cala nella buca, recupera il piccolo e lo ridona alla madre. Poi balza di nuovo su, con la svelta grazia della giovinezza. Non è eroismo perché tutto si risolve così, nel pudore di cui è capace solo un ragazzo. Qualcosa d'incontaminato, sfuggito chi sa come alle incrostazioni della storia. Ogni tanto riaffiora, per poi inabissarsi e spuntare di nuovo. Giunge senza pensarci, o senza pensar troppo, o avendo ragionato al millimetro, poliedricamente. È la nostra umanità ordinaria, non l'eccezione. E non poteva che svelarla un uomo del domani, semplice e grande nei suoi sogni segreti. Solo, magari, ma non inerme. Lorenzo lo ignorava ma, mentre rischiava la vita, qualcun altro gliela salvava. Claudia, agente di stazione dell'Atm, s'è accorta di quanto accadeva e, con altrettanta prontezza, ha bloccato l'arrivo del treno. Un angelo terreno per quel giovanotto che, dopo il diploma, vorrebbe entrare nelle forze dell'ordine. Pure Claudia è giovane, già una donna, nel suo culmine e al suo inizio. E poi c'è Milano, il mondo dentro tutto. Voragine di vita, sotterraneo che inghiotte e azzera le esistenze, ma sa recuperarle inopinatamente, riscattandole dall'anonimato. Il buio è morte ma anche grembo, scintillio, refolo. E basta poco, per riappropriarci di noi stessi. "Ho fatto una cosa che avrebbe fatto chiunque", ha concluso Lorenzo. Grazie a te Lorenzo, grazie Claudia, grazie per essere chiunque, per averci rammentato la forza della normalità. Grazie per non essere eroi, ma un uomo e una donna che, nelle Ninivi attuali, sanno rifulgere, e trionfare.

                                © Daniela Tuscano

10.2.18

GENTILIANI ILLUMINATI con © Daniela Tuscano


di cosa stianmo parlando

“Qui niente poveri né disabili”: le pubblicità discriminatorie dei licei
Sul sito del ministero le presentazioni con cui le scuole superiori cercano di attrarre nuovi studenti. E c'è chi parla di "difficile convivenza" tra ricchi e figli dei portinai
La prosa con cui alcune scuole del Paese, spesso i licei più prestigiosi e selettivi, si sono offerti alle famiglie per attrarre l'iscrizione dei loro figli è da censura. Nell'ansia di far apparire un istituto privo di problemi, pronto a fornire la migliore didattica senza impacci con gli adolescenti stranieri o i ragazzi bisognosi di sostegno, i dirigenti scolastici hanno licenziato rapporti di autovalutazione classisti.


Ci fu, in Italia, un periodo di sogni e di lotte, in cui l'escluso doveva essere incluso. E le porte degli istituti si spalancarono a tutti, almeno formalmente. In realtà si trattava d'un ingresso secondario, possibilmente senza dar troppo nell'occhio. Invece d'incoraggiare i "capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi", a "raggiungere i gradi più alti degli studi" (art. 34 della
( Nella foto: © R. Mauri, "Cultura incatenata" )
Costituzione), alcuni indirizzi rimanevano, di fatto, fortezze inespugnabili. Però si conservava un certo pudore, nel dirlo. Lo si sussurrava a mezza bocca, quasi scusandosene, perché si avvertiva, in questo, una sconfitta della scuola, lo sgretolamento di quei sogni e quelle lotte, il tedio e la delusione.
Oggi, essere "scuole de-disabilizzate", "de-pauperizzate" o simili ne attesta il prestigio. E le auto-valutazioni di numerosi licei classici italiani giungono a gloriarsene: "Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate", "Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile [...]. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento", "Il contesto socio-economico e culturale complessivamente di medio-alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di una didattica davvero personalizzata".
Soffermarsi sugli aspetti più manifestamente classisti di queste presentazioni è superfluo. Consideriamo piuttosto certi avverbi e sostantivi. Si legge di "specifiche esigenze formative" e di "didattica 'davvero' personalizzata". Dunque, l'assenza di "studenti con caratteristiche particolari" favorirebbe la didattica? Addirittura personalizzata? Davvero? Per davvero?
Magari essere un po' meno perentori, ecco. Al posto di "davvero", usare "forse". Lo so, la vaghezza è roba da poeti, non da burocrati. Ma da quando la precisione computistica è sinonimo di veridicità? Un tempio della cultura non dovrebbe ignorarlo. Perché la didattica davvero personalizzata la facciamo noi, docenti sfigati. Quelli che i nomadi, gli stranieri e gli svantaggiati li vedono tutti i giorni, spesso in intere classi. E li seguono oltre, e l'occhio mentale s'insinua nelle loro case. In ognuna di esse. In quella zona aliena dei paesi che si portano dentro, dei giorni senza storia, o di troppe storie. Negli addii a monti concreti, in vie dai nomi odiosamente eguali, dove i pomeriggi sono muri, o ricettacoli d'azzardo, o noia d'appartamenti e tecnologia dozzinale. La didattica, per noi, non s'esaurisce in una lezione. La didattica è educare. E-ducere, tirar fuori. E da tirar fuori, in questi alunni, c'è davvero molto.
Tempo te ne portano via. Davvero. No, forse. Ti tolgono il tempo dell'orologio, questo è sicuro. Ti tolgono pure il fiato mentre le "buone scuole" pensano a toglierti il resto: soprattutto le residue risorse per fornir loro gli strumenti culturali di cui hanno diritto e bisogno. Però tu non li cambieresti con nessun altro al mondo.
Perché esiste la strada, non l'"università della strada". Semmai, esiste una strada che conduce all'Università. Ma per percorrerla devi capirla, decriptarla, non semplicemente esserci. E questo è esattamente il compito della didattica.
Ma la strada occorre pure viverla. "Convien essere popolare", come da folgorante sintesi machiavellica. Altrimenti rimane mero esercizio retorico o, peggio, narcisismo velleitario. Abile contorno, bella prosa, eloquio fluido ed elegante. A quanto pare alcuni presidi concepiscono in tal modo la "didattica davvero personalizzata". Che certo non fa "perdere tempo". La rettifica - peggiore del danno, come spesso avviene - della preside d'un liceo finito al centro della polemica non poteva essere più illuminante: "Volevo dire che la didattica ordinaria, così, è più semplice: recuperare l’italiano di uno straniero chiede risorse e tempo. Credo che tutti gli studenti, ricchi e poveri, debbano crescere insieme e credo nella multiculturalità".
Fantastici, vero?, questi intellettuali, progressisti nella forma e gentiliani nei fatti, che credono gli studenti debbano crescere insieme tenendoli però separati, cui la "multiculturalità" sta tanto a cuore ma per i quali lo "straniero" chiede "risorse e tempo" (chi l'avrebbe mai detto!). E non oso addentrarmi nella "semplicità" della didattica "ordinaria": immagino s'intendesse "facilità", benché non siano sinonimi e stupisce che in istituti di alta reputazione si ricorra a un lessico così sfilacciato. Ma dalle nostre parti non c'è nulla di semplice né di ordinario; e la didattica, nella fattispecie, non lo è mai. Gli è che questi allievi modello, questi giovani italiani doc costituiranno la futura classe dirigente. Li immaginiamo schierati nell'emiciclo sinistro del Parlamento a concionare di accoglienza, ius soli, inclusione e integrazione. C'inviteranno ad "abbracciare i fratelli Rom" come l'alunno Derossi col figlio della Calabria di deamicisiana memoria, ad accantonare la "didattica" (per come l'hanno appresa, ordinaria, quindi libresca, quindi inutile) in favore di "progetti" realizzati da "esperti" di qualche club antidiscriminazione. I docenti, è noto, sono impreparati verso le "nuove criticità", quindi meno Dante e più corsi d'empatia, il ludo come depensiero, la fatica da aborrire, lo smartphone per lezioni "easy". E poi ammettiamolo, ai nostri scalcagnati alunni cosa è riservato, se non un destino da Prolet? Non pretendessero troppo. Poi dice che uno li manda a farsi un giro.

                                            © Daniela Tuscano

4.2.18

cosa è la vita ? di © Daniela Tuscano

Cosa è la vita? Forse il mio passo incerto. L'occhio frugale. Il ticchettio d'una pendola. Un davanzale fiorito. Una scoperta, un rimprovero e una tenda. È uno smarrimento perché son qui, a quest'ora del giorno. E mi oltrepassa, a volte immensa, a volte chiusa in una mano. O in un stanza rosa. O in un silenzio senz'attesa, colmo solo di sguardi. 
Non so che sia lavita. Lo saprò domani, quando s'allontana. Larimpiangerò, mormorando un addio. O forse non lo capirò mai. Le sarò dentro. Un lungo mare senza ricordo.

© Daniela Tuscano
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3.1.18

R. B di © Daniela Tuscano



E va bene, definirlo apollineo non è originale. Semmai, tautologico. Ma abbiamo alternative? Roberto Bolle è una metempsicosi artistica, la materializzazione dei sogni di Winckelmann. Non la Grecia, ma un'idea di essa. Una bellezza pensata che taluni scambiano per freddezza.
Ma Roberto vive, sublimando le passioni. Chi l'ha visto all'opera, anzi all'impresa, ne percepisce la fisicità possente e travagliata. C'è sofferenza dietro il genio, l'impossibilità di sentirsi normale, la severa armonia. Bolle quando tocca, quando bacia, è un fremito mediterraneo. Sa gestirsi, adesso che ha raggiunto - di slancio - il termine della carriera. Vuol essere popolare senza scadere nel pop. Immancabilmente ecumenico, ineccepibile nelle evoluzioni. Cosicché gli si possono perdonare i peccati. Eventuali, nascosti, occulti. 
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È una gloria italiana, Roberto. Lo è realmente, nato gigante in una provincia nebbiosa, agra e senza fantasia. Niente bassifondi, nessuna tinta forte, solo sbiadite risaie. Però bastava lui. Gli è rimasta, di quei luoghi, una concretezza padana, una generosità vera. 


Sa, o vuol essere, cameratesco. L'opportunità a un talento addolorato come Ahmad Joudeh la dà. E sarebbe davvero bello che un musulmano siro-palestinese ne raccogliesse l'eredità. Per ora basta quell'abbraccio, mitologico e umano. Una sfida di corpi all'intolleranza delle ideologie. 
Con Ahmad non ha bisogno di esibire nudità, è già intimo. Con Paulina, partner storica, propone l'origine della coppia umana, e il corpo ci vuole, supplisce a un coinvolgimento altrimenti troppo cerebrale. E la pioggia sottolinea la tempesta perfetta, le conferisce un respiro canoviano.
È anche televisione, certo. Quella che vorremmo. Giustamente - e modernamente - didascalica. Furba, talora, il giusto. Un eccitante per la curiosità. La sera di Capodanno qualcuno s'è sentito librare in tersi cieli. Cosa desiderare di più?

© Daniela Tuscano

8.11.17

26 di © Daniela Tuscano


Forse arrivo a capirlo, perché nessuno abbia pensato a disfarsi dei cadaveri di quelle 26 ragazze nigeriane. Perché non c'era niente da pensare e, soprattutto, da faticare.
L'immagine può contenere: nuvola, cielo e spazio all'apertoQuelle 26 non li riguardavano. Cancellare le tracce del delitto? Ma quale delitto, scusate. È dura dirlo, ma solo la morte ha restituito dignità a quelle disperate. Solo le bare stagliate nel cielo di Salerno, un cielo barocco, d'antichi furori, solo l'apparire in involucri lignei, appese - impiccate? - all'enorme gru nera, ci hanno fatto realizzare ch'era accaduto qualcosa di tremendo. Che erano esistite, in qualche sterro d'Africa, ragazze giovanissime, spogliate, derubate, stuprate, uccise poi gettate lontano, povere larve d'un giorno, l'occhio novello spalancato sull'orrore.
Solo ora, quelle voci che non hanno avuto il tempo d'urlare, le avvertiamo concitate e reali, solo adesso, nel silenzio dei flutti, possiamo udire il loro pianto negletto, eguale dall'inizio del mondo, ed è sempre troppo tardi, ed è sempre, e lacera il cuore.
© Daniela Tuscano

6.11.17

la resa






L'immagine può contenere: 2 persone, sMSDunque no, niente razzismo, niente fanatismo religioso, solo una parente rompigliona, come se questo bastasse a ingentilire dei corpi straziati, come se il sangue sparso fosse meno rosso e le lacrime consolatorie.
Sapere che l'uccisore non ha urlato "Allahu akbar" ma, forse, "solo" qualche bestemmia - pare fosse satanista - ci rassicura?
Venire a conoscenza che era stato congedato dall'esercito con disonore per violenze gravi su moglie e figlio tranquillizza le nostre coscienze?
Aver contezza che a un individuo simile fosse consentito tenere in casa un arsenale, anzi, come s'è subito affrettato a precisare il presidente Trump, che "tutto quanto non è collegato al commercio d'armi", ci conforta ?
Se continuiamo a reputare bagattelle la morale del pistolero, la paranoia machista, l'oblio di Dio e, di conseguenza, l'obnubilamento dell'umano; se rifiutiamo di considerarle, anch'esse, manifestazioni di quel fanatismo religioso e razzista che tanto volentieri imputiamo all'estraneo, al diverso, allo straniero, non illudiamoci di poter sconfiggere le cause profonde del Male.
È ora di ritenere la vendita sconsiderata di armi da fuoco un crimine contro l'umanità.
È ora di denunciare i delitti verso donne e bambini come espressioni di razzismo.
È ora di riconoscere l'odio religioso anche all'interno d'una stessa comunità. Nemici del cristianesimo provenienti da questa cultura esistono, son sempre esistiti; e vanno definiti senza ipocriti eufemismi.
È ora di proclamare che nelle stragi efferate i "moventi familiari" NON sono MOVENTI.
Pertanto la narrazione che si ostina a presentarli come tali, evitando ogni contestualizzazione e problematizzazione, di fatto fornisce loro alcune attenuanti; e un'aura, quasi, di rispettabilità.



                                            © Daniela Tuscano














































L'immagine può contenere: 2 persone, sMS

























Dunque no, questa volta non si può incolpare il solito terrorista islamico. L'assassino del Texas è un bianco, wasp. Dunque no, non si tratta di razzismo, non ci sono moventi religiosi, bensì problemi familiari. Esattamente: "problemi familiari". Tali vengono descritti, senza vergogna, dalle principali testate italiane [qui alcuni esempi, ndA] e temiamo anche estere. Il killer "aveva manifestato odio per la suocera" e, si sa, le suocere sono tremende. Insomma a chiunque, con una suocera petulante in casa, possono girare i santissimi e da qui a imbracciare un fucile, recarsi in una chiesa, sterminare 26 persone fra cui alcuni bambini e anziani (il più piccolo di 18 mesi, il più vecchio di 77 anni), una ragazzina 14enne (figlia del pastore) e una donna incinta il passo è breve...
Dunque no, niente razzismo, niente fanatismo religioso, solo una parente rompigliona, come se questo bastasse a ingentilire dei corpi straziati, come se il sangue sparso fosse meno rosso e le lacrime consolatorie.
Sapere che l'uccisore non ha urlato "Allahu akbar" ma, forse, "solo" qualche bestemmia - pare fosse satanista - ci rassicura?
Venire a conoscenza che era stato congedato dall'esercito con disonore per violenze gravi su moglie e figlio tranquillizza le nostre coscienze?
Aver contezza che a un individuo simile fosse consentito tenere in casa un arsenale, anzi, come s'è subito affrettato a precisare il presidente Trump, che "tutto quanto non è collegato al commercio d'armi", ci conforta?
Se continuiamo a reputare bagattelle la morale del pistolero, la paranoia machista, l'oblio di Dio e, di conseguenza, l'obnubilamento dell'umano; se rifiutiamo di considerarle, anch'esse, manifestazioni di quel fanatismo religioso e razzista che tanto volentieri imputiamo all'estraneo, al diverso, allo straniero, non illudiamoci di poter sconfiggere le cause profonde del Male.
È ora di ritenere la vendita sconsiderata di armi da fuoco un crimine contro l'umanità.
È ora di denunciare i delitti verso donne e bambini come espressioni di razzismo.
È ora di riconoscere l'odio religioso anche all'interno d'una stessa comunità. Nemici del cristianesimo provenienti da questa cultura esistono, son sempre esistiti; e vanno definiti senza ipocriti eufemismi.
È ora di proclamare che nelle stragi efferate i "moventi familiari" NON sono MOVENTI.
Pertanto la narrazione che si ostina a presentarli come tali, evitando ogni contestualizzazione e problematizzazione, di fatto fornisce loro alcune attenuanti; e un'aura, quasi, di rispettabilità.
                                            © Daniela Tuscano

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...